Senza residenza | Enrico Gargiulo

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Gargiulo
RESIDENZA L’ANAGRAFE TRA SELEZIONE E CONTROLLO

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Collana diretta da: Rachele Cinerari

Cover design: Marco Petrucci · Testi Manifesti Impaginazione: Sonny Partipilo Redazione: Anna Matilde Sali, Sonny Partipilo, Martina Campanini, Francesca Ruggiero

© Copyright 2022, Eris (Ass. cult. Eris)

© Enrico Gargiulo

Eris (Ass. cult. Eris) Piazza Crispi 60, 10155 Torino info@erisedizioni.org www.erisedizioni.org

Prima edizione Novembre 2022 ISBN 9791280495488

Stampato presso Geca Industrie Grafiche

Via Monferrato 54, S. Giuliano Milanese (MI)

Tra diritto e dovere

Ahmed e Ismail si sono trasferiti in Italia dal Marocco, hanno lo stesso tipo di permesso di soggiorno e abitano in comuni diversi della stessa regione del Nord-est. Conducono esistenze molto simili per ritmi di vita, abitudini e contesto familiare. La somiglianza tra le loro situazioni, tuttavia, è messa in discussione da un dettaglio apparentemente insignificante: il primo è iscritto all’anagrafe mentre il secondo no. Gli uffici anagrafici del comune in cui abita Ahmed hanno registrato la sua dichiarazione di residenza senza fare obiezioni, limitandosi a effettuare i controlli previsti dalla legge. Il sindaco che amministra il territorio in cui vive Ismail, invece, ha emanato un’ordinanza che introduce requisiti aggiuntivi per l’iscrizione delle persone straniere. La legge in teoria non lo consentirebbe, ma gli uffici vanno avanti per la loro strada. Alice, Aurora, Domenica e Greta sono studentesse fuori sede di una grande università del Nord. Si sono trasferite dalla stessa cittadina del Sud, dove hanno frequentato insieme le scuole superiori. Le prime due sono riuscite ad affittare una stanza con un contratto regolare: il prezzo è un po’ alto ma le loro famiglie se lo possono permettere. La terza ha dovuto optare per una soluzione “in nero”: il suo reddito non le ha lasciato molta

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scelta. La quarta, sempre per ragioni economiche, ha deciso di andare a vivere in un’occupazione a scopo abitativo. Inizialmente era piuttosto scettica: cresciuta con il mito dell’antimafia e della legalità, vedeva in qualunque comportamento “abusivo” o “illegale” un atto ingiusto e immorale. Nella sua famiglia, poi, aveva sentito cose orribili sulle occupazioni: storie di persone che tornano da un ricovero ospedaliero di settimane e trovano la propria casa occupata o di altre che sono riuscite con fatica a farsi assegnare un alloggio popolare ma, una volta ottenute le chiavi, scoprono che al suo interno si è già insediata un’intera famiglia. Ricorda discorsi sul racket degli alloggi occupati, sulle minacce a inquiline/i e proprietarie/i e sui giri di favori loschi ed estorsioni. Una volta entrata nell’occupazione, tuttavia, scopre una realtà del tutto diversa. Lo stabile in cui va ad abitare non è composto da appartamenti a uso abitativo ma è di proprietà di una grossa multinazionale che l’ha costruito per installarci uffici e, successivamente, lo ha lasciato in stato di abbandono, senza neanche inaugurarlo. Si accorge di quanto le persone che lo abitano siano lontane dagli stereotipi a cui era abituata. Come “vicini di casa” ha una famiglia peruviana, una donna nigeriana con due figli adolescenti e diverse famiglie italiane, tra cui una coppia “rom” con due bimbi e una bimba. Greta è sorpresa e piacevolmente stupita dalla cosa. A ca-

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sa, le dicevano che gli “zingari” non sono in grado di vivere in un appartamento e che, per via della loro “cultura”, preferiscono abitare in roulotte collocate in campi sporchi e abbandonati. Greta capisce anche una cosa fondamentale: diversamente da quanto sostenuto dalla maggior parte degli attori politici e dai media, chi occupa non lo fa per divertimento, per il gusto dell’illegalità o perché è intrinsecamente “criminale”, ma in quanto non ha alternative. Tutte le persone che vivono con lei sono rimaste senza lavoro, non ne hanno mai trovato uno o, pur lavorando, non riescono ad accumulare un reddito sufficiente per pagarsi un affitto in una città sempre più cara a causa di dinamiche speculative e di un’economia del turismo del tutto miope.

Alice, Aurora, Domenica e Greta, per ragioni molto concrete – avere il medico di base e sbrigare più comodamente pratiche burocratiche come la richiesta o il rinnovo della Carta di Identità – hanno deciso di prendere la residenza nella città in cui si trova l’università a cui sono iscritte. La loro decisione non è scontata: molte persone che studiano da fuori sede mantengono l’iscrizione anagrafica nel comune di origine. Alice non ha avuto problemi: ha consegnato la sua dichiarazione agli uffici anagrafici e ha ottenuto la registrazione rapidamente e senza intoppi. Ha scoperto però di dover chiedere una sorta di au-

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torizzazione al proprietario dell’appartamento in cui vive, il quale è stato piuttosto collaborativo. Aurora, invece, si è accorta che nel suo contratto di affitto è prevista una strana clausola che “vieta” di prendere la residenza. Le è sembrato un po’ strano, ma poi ha pensato che in fondo ci può stare, e ha lasciato perdere, rinunciando a registrarsi. Domenica ha provato a far firmare al suo padrone di casa il modulo che le ha dato il comune, ma si è sentita rispondere che «non esiste una cosa del genere, che siccome lei paga un affitto in nero non può dichiarare di vivere lì» e che, «se lo fa, viene sfrattata immediatamente.» Greta sa che una legge del 2014 – il cosiddetto Piano casa o “decreto Renzi-Lupi” – vieta l’iscrizione anagrafica a chi occupa abusivamente un immobile. Sa anche che è possibile seguire la procedura speciale predisposta per chi non ha un tetto sotto cui vivere, ossia registrarsi presso un indirizzo virtuale. Ha deciso però di rinunciare a questa possibilità. Dopo diversi tentennamenti, dubbi e ragionamenti, ha fatto una scelta di principio: non vuole accettare i ricatti dell’amministrazione comunale, dato che iscriversi come senza dimora vorrebbe dire essere presa in carico, e valutata, dai servizi sociali. È consapevole di potersi permettere una scelta del genere. In fondo, ha la residenza nel comune di origine ed è italiana. Pur non avendo un medico di base nella città in cui studia e vive per

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la maggior parte del tempo, in caso di bisogno sa come fare ricorso alle risorse che la sanità pubblica le offre. Altre persone che si trovano nella sua condizione, al contrario, non posso permettersi di rifiutare l’“offerta” dell’indirizzo virtuale, e devono quindi scendere a patti con le istituzioni locali. Magari perché non sono italiane o perché, pur essendolo, si trovano in uno stato di maggiore ricattabilità: sono povere, hanno figlie/i a carico, soffrono di malattie gravi o croniche. Radko e Adrian sono arrivati in Italia dalla ex Jugoslavia negli anni ’90 del XX secolo. Con grande fatica, sono riusciti entrambi a ottenere il riconoscimento giuridico dello status di apolidi. Nonostante la permanenza prolungata nel territorio italiano e un permesso di soggiorno a tempo indeterminato, non hanno mai ottenuto la cittadinanza italiana: le loro condizioni economiche e il loro stile di vita non lo consentono. Radko ha svolto diversi lavori in passato e ha abitato in diverse case. La crisi del 2008 gli ha fatto perdere quel minimo di stabilità economica che era riuscito a conquistare e, con quella, la speranza e il desiderio di una vita “normale”. Ora vive di elemosina, di qualche lavoro saltuario e dell’assistenza fornita da alcune associazioni. Si è costruito una baracca che, ormai, ha l’aspetto di una vera e propria casa, non lontano dal letto di un fiume, alla periferia di una grande città

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del Nord. La sua è una sistemazione stabile, quella che – richiamando il gergo tecnico in uso nel mondo dell’anagrafe – potrebbe essere definita una “dimora abituale”. Eppure, il comune non la riconosce come tale: si rifiuta di attribuirle un numero civico e di considerarla un’abitazione in senso stretto. Radko però ha bisogno della residenza: soffrendo di una malattia cronica, necessita di un’assistenza specialistica e continuativa. Dopo tanti sforzi e parecchie umiliazioni subite negli uffici comunali, riesce a farsi iscrivere presso l’indirizzo virtuale “Via della Casa comunale n. 1”. Ora, è quello che viene chiamato un “senza dimora”, un homeless, anche se una casa presso cui “dimorare abitualmente”, in realtà, ce l’ha. Come Adrian, che vive con la sua famiglia in una roulotte ed è stato costretto più volte, negli ultimi anni, a spostarsi da una parte all’altra del comune in cui vive. In passato, quando abitava in un “campo”, alla sua sistemazione alloggiativa era stata riconosciuta la condizione di dimora abituale. Ora no: è considerata troppo mobile e, quindi, non è ritenuta una casa. Adrian e Marika, sua moglie, lavorano, ma in maniera precaria e sottopagata. Hanno tre figli e due figlie. Per loro, l’assistenza fornita dal comune è l’unica alternativa alla carità privata se vogliono arrivare a fine mese. Incassate diverse umiliazioni e superate le resistenze a entrare in contatto con i servizi so-

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ciali – in particolare, la paura che le loro figlie e i loro figli finiscano in affidamento – riescono a ottenere la residenza presso l’indirizzo virtuale. Anche Adrian e Marika, pur avendo una casa, ricevono l’etichetta di homeless. Chi invece un alloggio stabile proprio non ce l’ha è Marco. Nato in una famiglia benestante, si è laureato in Economia in un prestigioso ateneo del Nord-Italia, per poi iniziare una veloce e brillante carriera come consulente delle risorse umane. Nell’arco di dieci anni, ha selezionato e licenziato persone per conto di grandi aziende. Poi ha deciso che quella vita non faceva per lui e ha mollato tutto; il reddito di cui dispone glielo consente. Ora gira per l’Italia, fermandosi quando e dove capita, per periodi variabili. Si sposta come può, dormendo in posti diversi a seconda di quello che offre il territorio: campeggi, pensioni, ostelli, case di persone che lo ospitano, a volte per strada. Un giorno, in occasione di un banale controllo di polizia – si è reso conto che da quando ha iniziato questa vita itinerante ne subisce molti più di prima – scopre che la sua Carta di Identità è scaduta. Immagina che rinnovarla non sia un problema. Sa che deve farlo nel comune di residenza, anche se di fatto non ci vive da anni. Ci si reca apposta e, giunto all’ufficio anagrafe, viene a sapere di essere stato cancellato dai registri della popolazione e di essere

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