Pakistan, un'analisi storica delle origini

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Erica Balduzzi, matr.53098

Storia e istituzioni dell’Asia, Africa e America – modulo prof. Brunelli

IL PAKISTAN: IL PAESE DELLE CONTRADDIZIONI.

Un’analisi storica, dalla creazione dello stato pakistano fino alla non-risolta questione

del Kashmir, che insieme a numerosi fattori interni contraddistingue la statualità di un territorio dalla forti contraddizioni.

Nato in un angolo di Asia, lacerato dalle divisioni interetniche e interreligiose, ricco tanto di

risorse demografiche e naturali quanto di potenzialità tecniche, il Pakistan presenta al suo interno tutte le antinomie che caratterizzano i Paesi centro asiatici divenuti indipendenti

nell’immediato dopoguerra, amplificate però dall’anomalia costitutiva di uno Stato che ha nel suo primo DNA quel tratto religioso che ne ha influenzato tanto la nascita quanto il successivo sviluppo.

Lo Stato pakistano nasce ufficialmente nel 1947 con quella che è stata definita Partition, ossia “separazione”. Alle radici della sua creazione come Stato indipendente dall’India c’è

l’Indian Independence Act del 1947, che istituisce l’Unione Indiana da un lato e il Pakistan dall’altro, cioè quello che è stato definito «il più paradossale stato del mondo […] composto

da due tronconi del subcontinente indiano tra loro distanti»1. Il territorio pakistano all’inizio univa, infatti, due aree geografiche tra loro opposte, il Pakistan nella sua attuale definizione

territoriale e quella che ora porta il nome di Bangladesh, situata a nord-est del subcontinente

indiano e che fin dall’inizio ha presentato tratti ben più arretrati e poveri del troncone occidentale, rendendo praticamente impossibile una governabilità effettiva di una simile anomalia statuale.

“Stato islamico”: le diverse interpretazioni.

Ciò che ha sempre caratterizzato il Pakistan è stato il tratto confessionale islamico: il Pakistan viene al mondo, infatti, come Stato musulmano, nel quale la religione islamica si

pone come fattore unificante su un territorio fortemente lacerato e frammentato. Utopia?

Risposta ideologica in reazione al disorientamento politico, sociale e culturale causato dal progressivo venire meno della forza colonizzatrice occidentale? Oppure ricerca di 1

V. Piacentini Fiorani, “Processi di decolonizzazione in Asia e Africa”, pag. 91 1


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un’identità autentica e di tratti peculiari e personali che potessero caratterizzare in modo unitario un popolo? Sulla questione non sono mancate diverse interpretazioni, in particolare

Elisa Giunchi, nel suo saggio “Pakistan. Islam, potere e democratizzazione” pone in evidenza, fin dal primo capitolo, come «all’interno della storiografia pakistana si riscontrano

due tendenze […]. Per alcuni, l’identità religiosa è un fattore identitario di natura culturale più che ideologica: il Pakistan è nato per dare rifugio ad un popolo che ha caratteristiche culturali peculiari derivanti dalla sua appartenenza religiosa, che possono essere protette

solo all’interno di una realtà statuale separata. Per altri, la Partition non è un punto di arrivo, bensì di partenza, volto a ricreare la società islamica “autentica”: […] La Partition non ha, quindi, l’obiettivo di difendere lo status quo delle comunità musulmane dell’India, ma di cambiarlo da dentro, ridefinendo ciò che significa essere musulmano».2

Il Pakistan si configurerebbe, quindi, secondo questa interpretazione come un laboratorio musulmano in Asia, ossia il tentativo di costituire nel continente asiatico un’isola

sperimentale nella quale trovasse applicazione concreta «l’aspirazione innata dell’Islam a

unire sacro e profano, dando vita a uno stato islamico”, premessa indispensabile alla realizzazione dei precetti divini»3. La necessità di istituire uno “stato islamico” è stata formulata secondo precisi dettami politici soltanto negli anni Trenta del Novecento grazie

alla figura carismatica di Mohammed Ali Jinnah (1876-1948), ma affonda le sue radici già

nell’esperienza politica indiana ottocentesca, che sotto il dominio inglese ha visto la nascita di forze centrifughe e nazionaliste, le quali a loro volta hanno dato un notevole impulso allo sviluppo di una nuova concezione di “stato” nel subcontinente indiano. Esperienza politica indiana e pakistana.

A conti fatti, separare l’esperienza politica indiana da quella pakistana è impossibile: dalla

prima è nata la seconda e senza di essa sarebbe a tutt’oggi impraticabile comprendere

appieno i fermenti e le spinte che hanno portato alla divisione dei due stati, l’uno a maggioranza induista e l’altro a maggioranza musulmana. In un territorio come quello del subcontinente indiano - da sempre caratterizzato dalla coesistenza, più o meno, pacifica di 2 3

E. Giunchi, “ Pakistan. Islam, potere e democratizzazione”, pag. 17-18 Ibidem. 2


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una quantità incredibile di etnie, gruppi tribali e comunità religiose - la frattura tra elementi

induisti e musulmani inizia a concretizzarsi a livello politico soltanto a cavallo tra Ottocento

e Novecento. Un processo, questo, avviatosi grazie ad una convergenza di fattori interni ed esterni - quali ad esempio le spinte riformatrici che scossero l’induismo o la

compartecipazione alla vita amministrativa del paese di sempre più numerosi elementi indiani a formazione occidentale, grazie alla politica inglese dell’Indirect Rule che aveva

permesso sul territorio indiano la costituzione di quadri tecnici e amministrativi locali - e che già dal 1848 aveva iniziato a far germogliare la coscienza nazionale e i primi fermenti nazionalistici.

Ciò che segna tuttavia la nascita formale dell’indipendentismo indiano e il risveglio della coscienza nazionale nel subcontinente è il Congresso Nazionale Indiano, istituito nel 1885 per favorire l’adozione di forme di autogoverno locale. Pur essendo a maggioranza induista,

il Congresso si propone di rappresentare tutti gli indiani indipendentemente dal loro credo,

per portare avanti un barlume di quella solidarietà tra comunità religiose che, precedenti scelte politiche discriminatorie da parte degli inglesi ( i.e. la divisione del Bengala su base confessionale, la concessione di elettorati separati, l’introduzione di rilevazioni censuarie

basate su categorie confessionali) avevano contribuito a soffocare, finendo per attribuire alla religione un valore fortemente identitario. I due esponenti più carismatici e significativi del Congresso e nella storia indiana a cavallo tra la seconda guerra mondiale e la prima

indipendenza saranno Gandhi e Nehru, che riusciranno a dare all’esperimento democratico indiano un valore non indifferente, coniugando aspettative internazionali e interessi locali.

Al Congresso, nel 1906 fa eco la nascita di un partito separato, la Lega Panindiana

Musulmana, ad opera delle èlite musulmane urbane dell’India centro-settentrionale che, poiché la maggiore forza politica indiana aveva assunto una base religiosa induista,

temevano di perdere il proprio peso economico e politico nell’ottica di un’India

indipendente dal potere britannico. Gli esponenti della Lega erano fortemente influenzati dalle idee europee e ritenevano che l’islam fosse compatibile non con la visione retrograda

degli ulama e degli scienziati religiosi , quanto piuttosto con i modelli democratici forgiatisi in Europa. Di fatto la nascita della Lega Panindiana Musulmana apre la prima vera frattura 3


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politica tra indiani induisti e indiani musulmani, frattura che negli anni andrà sempre più allargandosi fino a giungere all’epilogo della Partition. La “teoria delle due Nazioni” di Jinnah.

E’ pur vero che un’entità statuale musulmana separata fu auspicata apertamente solo nel 1930, quando l’allora presidente della Lega Musulmana Mohammed Iqbal propose

l’amalgamazione del Panjab, della frontiera nord-occidentale, del Sind e del Belucistan «in

un singolo stato all’interno dell’impero britannico o senza l’impero britannico; ma la formazione di uno stato musulmano nord-occidentale consolidato non è altro che il destino

finale dei musulmani, almeno del nord-ovest dell’India».4 Il nome Pakistan fu coniato soltanto qualche anno dopo, nel ’33, da uno giovane del Panjab che studiava giurisprudenza in Inghilterra: il termine da un lato univa le iniziali delle province costitutive con il suffisso

–stan (“paese”) e dall’altro richiamava la valenza che avrebbe dovuto assumere il

riformismo islamico nell’area (in urdu, Pakistan significa, infatti, “terra dei puri”) per salvaguardare, in primis, ed elevare poi la religione islamica nel subcontinente indiano.

Queste teorie furono riprese e amplificate dall’uomo considerato il “padre fondatore” del

Pakistan, Mohammed Ali Jinnah, avvocato di Bombay che aveva militato dapprima nelle fila del Congresso ed era poi diventato presidente della Lega Panindiana Musulmana nel

1937, lo stesso anno in cui il Congresso a seguito delle elezioni si rifiutò di creare un

governo di coalizione tra indù e musulmani, segnando così definitivamente la rottura tra le due fazioni.

La “teoria delle due nazioni” fu fatta propria da Jinnah nella cosiddetta

Risoluzione di Lahore (1940), una dichiarazione nella quale egli sosteneva come indù e

musulmani dovessero costituire nazioni separate a causa dei differenti e inconciliabili stili di

vita e costumi: il Pakistan – nel quale per la prima volta venivano inclusi anche i territori orientali - si sarebbe quindi configurato come una terra nuova, una terra di rinascita dove creare una società ispirata al progresso e alla giustizia sociale. Uno stato laico, dunque, ispirato a modelli democratici occidentali e fondato sull’uguaglianza dei cittadini davanti

alla legge, nel quale, i precetti religiosi e la shari’a avrebbero fornito principi generali di condotta (e non un codice di leggi dalla valenza giuridica) e sarebbero stati applicati alla 4

citato da E. Giunchi in “Pakistan. Islam, potere e democratizzazione”, pag. 33 4


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sola sfera privata; dai suoi scritti e discorsi traspare infatti che «il Pakistan doveva diventare

una nazione moderna, in cui la religione avrebbe guidato i comportamenti quotidiani e ispirato l’azione politica, moralizzandola, ma sarebbe rimasta all’interno di una cornice laica e liberale»5.

Lo stato islamico di Maududi.

La concezione di Jinnah si trova in contrasto con quella espressa invece dal movimento Jamaat-e-Islam (“società islamica”) fondato nel 1941 da Sayyid Abul A’la Maududi, che si

inserisce nel contesto di riformismo islamico del periodo, volto a cercare nuove forme di espressione anche politica e sociale per decontaminare l’islam locale e tornare ad una

religione “pura”. Anche alla base del pensiero di Maududi c’è la creazione di uno stato

islamico, ma l’accezione che il Jamaat-e-Islami dà alla questione assume tratti diversi da quelli proposti da Jinnah: l’obiettivo supremo a cui tende l’islam, secondo questa

interpretazione, è uno stato islamico fondato sulla condivisione non di una storia e di un territorio, ma di un’ideologia, dove trova piena realizzazione la sovranità divina assoluta

sulla terra. Secondo questo modello di “teo-democrazia” l’elemento democratico «derivava

dal dovere per l’amir di consultare il majlis e per la popolazione di vigilare sull’osservanza della shari’a da parte dell’amir»6. Non c’è da stupire dunque se la concezione di “stato islamico” proposta da Maududi si trovasse in aperto contrasto con quella proposta invece da Jinnah e ritenuta un’imitazione eretica dell’Occidente. La Partition.

All’indomani delle elezioni del’37, per fare sì che la Lega divenisse l’unico rappresentante

politico del mondo musulmano, e non solo di una ristretta èlite urbana influenzata dalle concezioni europee, Jinnah dovette estendere l’influenza del partito nelle aree a

maggioranza musulmana: egli presentava la comune identità islamica come fattore unitario 5 6

Elisa Giunchi, “Pakisan. Islam, potere e democratizzazione”, pag.12 Elisa Giunchi, “Pakistan. Islam, potere e democratizzazione”, pag. 43

L’amir era identificato nel capo supremo a cui Dio delegava il proprio potere e conferiva poteri assoluti, mentre la majlis era un consiglio ristretto di dotti religiosi che avrebbe dovuto coadiuvare l’amir. La concezione democratica ipotizzata da Maududi è pertanto caratterizzata da una limitata sovranità popolare, nella quale alcune categorie (come le donne e i non musulmani) avrebbero goduto di limitati diritti e il majlis avrebbe svolto soltanto un ruolo consultivo.

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e riuscì così ad avvicinare gruppi socioculturali anche molto distanti tra loro, in un

amalgama rischioso nel quale l’unità era solo un’apparenza. Le differenti concezioni

dell’islam unite sotto l’algida pakistana avrebbe, infatti, trovato motivi di screzi e scontri negli anni a venire, dopo la nascita del Paese.

Nell’immediato dopoguerra, mentre andavano definendosi i nuovi equilibri mondiali e

trovavano risoluzione spesso violente le varie polveriere coloniali dell’Asia, Lega

Musulmana e Congresso Nazionale manifestarono chiaramente la difficoltà di giungere ad un accordo che riuscisse a porre fine ai sempre più frequenti scontri comunitari tra indù e musulmani: una situazione pesante, che nel 1947 costrinse il governo inglese ad anticipare il

proprio ritiro dall’India (previsto inizialmente per il 1948) e ad accettare l’inevitabile spartizione. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto 1947 venivano al mondo così due nuovi stati

indipendenti nell’ambito del Commowealth britannico: l’Unione Indiana (comprendente 25 stati) e il Pakistan, comprendente 4 province a ovest e il Bangladesh a est. La questione del Kashmir.

Il Kashmir – regione montuosa e cancello strategico verso le aree dell’Asia centrale – fu una delle zone più calde del confronto tra India e Pakistan. Lo Stato del Kashmir che vantava

una popolazione a maggioranza musulmana e sovrano indù, secondo le logiche regnanti

sarebbe dovuto diventare regione del nuovo stato pakistano, ma nel 1947 le sommosse contadine contro il nuovo regime fiscale del maharaja scatenarono scontri che a loro volta provocarono l’intervento dei guerrieri tribali pashtun. Ne seguì una reazione a catena: il

maharaja chiese aiuto all’India, che decise di intervenire solo se il Kashmir avesse accettato

l’adesione all’Unione Indiana. Il patto non fu ritenuto valido dal Pakistan e le ostilità belliche, circa il controllo sull’area, cessarono solo dopo l’intervento delle Nazioni Unite,

nel 1949, quando la regione fu divisa in due aree di influenza opposta: il governo britannico chiese che al cessare delle tensioni l’appartenenza del Kashmir fosse decisa dalla popolazione locale tramite un referendum, per il qual garantì lo stesso Nehru, originario

proprio di quell’area. Nehru, tuttavia, «era un nazionalista laico per il quale l’appartenenza del Kashmir all’India costituiva la prova morale e politica della possibilità per i musulmani 6


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di vivere in uno stato non confessionale»7 e negli anni si sarebbe opposto con diversi pretesti ai referendum, consapevole dell’importanza del fattore religioso nella regione: il

Kashmir assumeva pertanto, oltre ad una valenza geopolitica strategica, anche un connotato

simbolico tanto per l’India quanto per il Pakistan, che contribuì (e contribuisce tutt’ora) a mantenere la tensione sull’area. Nel Kashmir, infatti, non si misura soltanto la forza di due Paesi in lotta per accaparrarsi

un’area strategica e risorse idriche fondamentali per

l’agricoltura: si confrontano anche due diversi e inconciliabili modi di concepire l’idea di nazione, ovvero l’ennesimo caso di Realpolitik della regione centro asiatica. Secondo la

“teoria delle due nazioni” di Jinnah, il Kashmir, essendo musulmano, andrebbe annesso al Pakistan, mentre la fazione che promuove criteri laici e territoriali vorrebbe la sua inclusione nell’Unione Indiana.

Nel 1954 l’assemblea del Kashmir – non senza pesanti condizionamenti – votò a favore

dell’annessione all’Unione Indiana, ma la questione è lungi dall’essere risolta. Il contenzioso territoriale ha, infatti, causato una seconda guerra nel 1965 ed è riemerso nel corso del conflitto del 1971. La situazione continua tutt’ora a restare molto tesa e negli anni

ha contribuito a creare in Pakistan l’idea di doversi difendere dall’aggressività indù: idea, questa, che ha alimentato nel corso dei decenni un forte senso di vulnerabilità e giustificato una sempre più massiccia allocazione delle risorse nel settore militare. Conclusioni. Il Pakistan resta uno stato tormentato

Il Pakistan non nasceva sotto i migliori auspici di stabilità: era, infatti, diviso in due tronconi territoriali – l’attuale Pakistan e il Bangladesh - separati tra loro e profondamente diversi.

Il criterio confessionale aveva portato inoltre allo smembramento di intere regioni e

comunità - il Bengala e il Panjab ad esempio furono divisi in due, con l’effetto di lacerare economie e comunità integrate e coese - e ad un massiccio esodo di indù e musulmani (nel nuovo stato pakistano erano stati inclusi 65 milioni di musulmani, mentre altri 35 milioni

rimasero in India: ma tra l’estate e l’autunno del 1947 ci fu uno spostamento di circa 14

milioni di persone tra India e Pakistan), spesso accompagnato da aggressioni e scontri

violenti. Inoltre, l’assembramento di popolazioni profondamente variegate in un’unica entità 7

Ibidem.

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statuale generò fin da subito problematiche di integrazione politica ed economica: «la

popolazione musulmana dell’India britannica era prevalentemente legata all’agricoltura e al piccolo commercio […]. Nelle regioni montuose, persisteva viceversa il sistema dei sardar, ossia una forma di feudalesimo tribale nomade/semi-nomade a base economica prevalentemente pastorale. Non vi è pertanto da stupirsi se il Pakistan, con l’indipendenza, si trovò ad affrontare difficoltà forse maggiori dell’India»8.

Se infatti l’India, sotto la guida di Gandhi prima e di Nehru poi, riuscì a coniugare una prassi politica occidentale con una politica economica dalle tinte socialiste che avrebbe dato

stabilità e valore alla sua esperienza democratica (nonostante le forti problematiche interne

quali le differenze etnico-linguistiche, le frequenti calamità naturali, la povertà endemica concentrata soprattutto nelle campagne e le tensioni separatiste di numerose minoranze), il

Pakistan dovette invece affrontare una situazione ben più tesa. La divisione in due tronconi

(il Bangladesh si sarebbe diviso soltanto nel 1977) non favoriva di certo la governabilità di un territorio nel quale l’eterogenea composizione etnica, linguistica e religiosa finì per togliere all’elemento islamico il suo valore unificatore che Jinnah aveva auspicato: inoltre,

la Lega Musulmana non dimostrò la stessa forza coesiva che aveva invece caratterizzato il

Congresso Nazionale Indiano nei primi anni dall’indipendenza e la limitatezza della classe dirigente lasciò via libera ad un’amministrazione corrotta e clientelare. A ciò si aggiunse poi la scarsità di industrie, infrastrutture e di quadri tecnici qualificati, che avrebbe reso il Pakistan particolarmente debole anche dal punto di vista militare: una debolezza, questa,

particolarmente preoccupante per il governo pakistano che «si vedeva minacciato da rivendicazioni nazionaliste interne, da una situazione di semianarchia nelle aree nordoccidentali pashtun e da molteplici contenziosi con i paesi confinanti: con l’Afghanistan per

le questioni confinarie e con l’India per la spartizione dei beni e delle risorse idriche del bacino dell’Indo, per la destinazione delle proprietà dei profughi e per il controllo del Kashmir. La questione del Kashmir […] si sarebbe trasformata ben presto nel principale ostacolo alla pace e alla stabilità regionale»9.

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V. Piacentini Fiorani, “Processi di decolonizzazione in Asia e Africa”, pag. 98 Elisa Giunchi, “Pakistan. Islam, potere e democratizzazione”, pag. 49 8


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