Città sostenibili

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1-08-2010

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Traveller

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Viola Berlanda

“tradizionale” mi attaccasse dicendo che il mio fosse un progetto impossibile e irrealizzabile. L'unica maniera di rispondere alle critiche era avere un ristorante già operativo al momento dell'uscita del libro. Quasi per caso ho incontrato Kin e Raymond, che avevano in mente la stessa cosa». Il primo incontro tra i tre “pionieri” del sushi sostenibile (che un anno più tardi si sarebbero ritrovati nella prestigiosissima lista degli Eroi dell’ambiente di “Time Magazine”) è stato curioso: Casson si è seduto a un tavolo del ristorante di Lui e Ho e ha chiesto loro un menù. «Volevo vedere se i miei due futuri soci facevano sul serio, e allora ho preso una penna rossa e ho iniziato a cancellare tutti i piatti che contenevano pesci non in linea con la missione del ristorante sostenibile che volevamo aprire: la maggior parte. Dopo un attimo di silenzio, Kin e Raymond si sono messi a confabulare tra di loro in cinese, e poi Kin mi ha detto: “Si può fare”. Sono rimasto colpito, perché avevo cancellato il salmone di allevamento, l'anguilla, il tonno pinna blu e un sacco di altri prodotti convenzionalmente usati per il sushi. A quel punto ho preso una penna nera e ho scritto i nomi di altre sei o sette specie, tra cui sardine, merluzzo nero e cozze. Kin, terroriz-

zato, mi ha detto: “Non possiamo usare neanche queste?!”. Gli ho detto che per quelle non c'era problema, e ha tirato un sospiro di sollievo». E così nel febbraio del 2008 è nato Tataki (tatakisushibar.com), il primo ristorante di sushi sostenibile degli USA («E forse del mondo, ma non siamo sicuri», si vanta Trenor) in cui l'intera filiera dall’acquisto del pesce al piatto servito in tavola è stata ridefinita in funzione della sostenibilità e della difesa della biodiversità marina. «Abbiamo informato i nostri fornitori che, se non possono dimostrare la provenienza sostenibile del pesce che vendono, non possono lavorare con noi. Sono molto contento, perché alcuni di loro hanno modificato il loro modo di scegliere il pesce, e non solo per Tataki, ma per tutti i loro clienti». Grazie alla scelta della sostenibilità, Tataki non solo è diventato il ristorante più di moda di San Francisco, ma ha fatto scuola: negli Stati Uniti è sorto un ampio movimento in difesa della pesca sostenibile, delle specie a rischio e della biodiversità degli oceani, che ha coinvolto catene di supermercati (come Whole Foods) ed enti come il Blue Ocean Institute o il Monterey Bay Aquarium (Seafood Watch Program), che hanno creato una vera e pro-

pria organizzazione di controllo attraverso internet. E naturalmente sono spuntati altri “piccoli Tataki”: «Uno a Seattle, uno a Portland e uno a New Haven, e altri sei stanno per aprire. Certo, ci hanno copiato, ma va bene così: è meraviglioso vedere come la nostra idea si stia diffondendo», sottolinea Casson. «Il sushi sostenibile ha a che fare con la consapevolezza local e la creatività: i menù dei ristoranti di Seattle e New Haven sono molto differenti dal nostro, ma i principi da rispettare sono gli stessi. La cosa più interessante è proprio vedere come i diversi chef possono interpretare in maniera creativa i principi di sostenibilità e reinventare l'arte del sushi in modi meravigliosi, specialmente per il palato». Anche in Europa qualcosa si sta muovendo. A Londra c'è Moshi Moshi (www.moshimoshi.co.uk), che si sta muovendo nella direzione giusta, così come due altri ristoranti a Parigi e Reykjavik, ma non c'è ancora un vero e proprio ristorante di sushi sostenibile che abbia aperto i battenti. «Se qualcuno che sta leggendo Oxygen vuole aprirlo, mi contatti: sarei felice di aiutarlo!», scherza (ma dicendo sul serio) Casson.

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