Oxygen n°4

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Nota dell’editore

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Secondo la European venture capital association, l’Italia è al dodicesimo posto in Europa per investimenti in venture capital: davanti a noi troviamo Spagna, Portogallo, Belgio. Eppure il nostro paese è ricchissima di tecnologia e di manifestazioni dedicate allo sviluppo dell’innovazione, come Innovaction (Udine) o Rtob (Bologna). Iniziative nate con l’apporto di un insieme di operatori porterebbero a maggiori risorse, in termini di clientela, manager e fornitori. Ma perché il clima si consolidi e l’ecosistema dell’innovazione possa giocare il ruolo fondante che le compete all’interno del tessuto economico del paese, occorrerà che tutti i soggetti coinvolti concorrano alla sua formazione: al settore pubblico spetta il compito di creare una piattaforma capace di impiantare e sorreggere il sistema innovazione, al capitale di rischio la creazione di un’organizzazione imprenditoriale adatta. Esistono alcune parole chiave. Meritocrazia, ricerca, formazione: un passaggio quasi obbligato sarà la capacità di ridurre il gap fra ricerca universitaria e ricerca applicata, favorendo la nascita e il consolidamento di un substrato culturale che rilanci interesse e motivazioni verso un’imprenditorialità innovativa. Ambiente, energia, mutamenti climatici: occorrerà trasformare le emergenze in opportunità, riconoscendo che le sfide del futuro sono anche sfide economiche e di ridisegno imprenditoriale e per lo sviluppo di tecnologie dalle quali dipenderà la qualità reale della nostra vita.

Editoriale

Mercato del lavoro, diritto di impresa: privilegiare i giovani, favorire il ricambio generazionale e attrarre studiosi e investimenti dall’estero, focalizzando le migliori capacità in modo da consentire la nascita e lo sviluppo di giovani imprese innovative, accompagnandole nel loro divenire attraverso regole semplici e chiare. Per chi come noi si occupa di conoscenza, la sfida di ridisegnare, attraverso la scienza e la tecnologia, territorio e qualità della vita, è fondante. Confidiamo nel suo accoglimento da parte di un management orientato al mercato e basato su un modello strategico capace di tener conto, e correttamente, dei fattori – umani e finanziari – in gioco. Vittorio Bo, presidente Codice Edizioni

L’impulso maggiore alla ricerca scientifica è stato forse quello di liberare gli esseri umani dalla tirannia dell’ambiente circostante – che includeva non solo la natura, ma la stessa cultura e, in particolare, le strutture religiose, politiche, sociali. La leggenda vuole che Talete, risolto il problema della stima dell’altezza delle piramidi, incassasse il premio e fuggisse perché “i potenti non amano la geometria”. Circa due millenni dopo, Spinoza nella sua Ethica osservava come lo sforzo coordinato dei cittadini potesse tramutare la loro fragilità in potenza liberandoli dalla soggezione agli eventi cosmici e al diktat degli stati concorrenti, realizzando così la crescita economica della loro comunità. Dilatato su scala globale, questo scenario sembra però avere oggi prezzi troppo alti: specie animali e vegetali si stanno rapidamente estinguendo, le foreste cedono sempre più a terreni coltivabili o fabbricabili, fonti di energia sono prossime all’esaurimento e si delinea perfino il ritorno di un conflitto che ha segnato le civiltà fin dalle loro origini, quello per il controllo delle acque. L’esigenza di un’inversione di rotta è riconosciuta da più parti. Ma contrariamente a un radicato stereotipo, sembra che sia necessaria non meno, ma più scienza – di fronte a fini contrastanti come la difesa ambientale, lo sviluppo economico dei vari paesi del mondo e la diffusione della democrazia. Una prospettiva morale che mira alla riduzione delle sofferenze per il maggior numero di persone possibili, la cosiddetta tradizione utilitarista (da J.S. Mill a F.P. Ramsey), fa della conservazione dell’ambiente un obiettivo primario, appena si tenga conto delle generazioni future. Decidere per una nuova e più efficace economia che tenga conto dei vincoli ecologici dovrebbe essere questione di cervello, e non di viscere.

Il logico australiano Richard Routley (che prima di morire cambiò il suo nome in Richard Sylvan) ha contrapposto l’esperimento mentale dell’“ultimo uomo”: l’unico sopravvissuto a qualche catastrofe, ormai sulla soglia dell’estinzione del genere umano e sicuro che nessuna generazione lo seguirà, si sentirebbe autorizzato per ciò stesso a portare alle estreme conseguenze l’economia della dissipazione, finendo – se è tecnicamente in grado – per annientare l’intero pianeta (una tentazione del genere sfiorava già il protagonista del romanzo La nube purpurea di M.P. Shiel; il contributo di Sylvan è incluso nel volume Environmental Ethics curato da A. Light e H. Rolston III, Blackwell, 2003). Un approccio come quello utilitaristico, come qualunque argomento invocato pragmaticamente nell’interesse dell’umanità, sarebbe ancora viziato da una sorta di antropocentrismo! Non bisognerebbe includere allora gli altri abitanti del pianeta nel calcolo delle utilità, indipendentemente dalla loro rilevanza per gli agenti umani? Questa è una delle maggiori sfide della nostra epoca. Ancora una volta, è la comprensione scientifica, svincolata da qualsiasi ossessione di dominio assoluto sulla natura, che ci viene in soccorso: appena riconosciamo, con Charles Darwin e con i suoi migliori eredi, che Homo sapiens non rappresenta un salto incommensurabile rispetto agli altri organismi viventi, ma è animale tra animali. Giulio Giorello

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