Non è un cambio di stagione

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Quest’opera è stata pubblicata con il contributo del Ministerio de Cultura de España Dirección General del Libro, Archivos y Bibliotecas

Titolo originale: Contra el cambio. Un hiperviaje al apocalipsis climático © 2010, Martín Caparrós © Casanovas & Lynch Agencia Literaria S.L. © 2010 EDITORIAL ANAGRAMA, S. A. © 2011, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277 Traduzione di: Maddalena Cazzaniga Immagine di copertina: © Laurence Winram Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100% Finito di stampare nel mese di settembre 2011

presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR)

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MARTÍN CAPARRÓS

Non è un cambio di stagione Un iperviaggio nell’apocalisse climatica

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indice

Amazzonia

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Nigeria

47

Niger

79

Rabat

115

Sidney

137

Manila

173

Isola Zaragoza

189

Majuro

207

Hawaii

235

New Orleans

251

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Change changes. T. S. Eliot

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amazzonia

È la combinazione dei due movimenti: il dondolio regolare e sereno dell’amaca, il beccheggiare della barca sulle onde del fiume; insieme fanno del mondo una culla perfetta. Un po’ più in là, sotto un’altra luna, l’Amazzonia ci disprezza. Il mondo, dico, una culla perfetta. Non c’è nulla che detesti di più, nulla che mi piaccia di più di sentirmi parte di una rete, un tessuto, le forme intricate del plurale: qualche noi. Noi siamo, adesso, i passeggeri pazienti, poveri, poco puliti ma ammassati del Deus È Fiel. Noi siamo molte signore, molti ragazzi, uomini, tutti stravaccati sulle amache: viaggiare, qui, per noi, significa stravaccarsi e lasciare che il mondo scivoli. Ore fa, sulla barca di legno, venti metri di lunghezza – la misura di qualsiasi caravella, Colombo nella sua deriva più spaventosa –, quelli che sono arrivati si sono messi ad attaccare una quarantina di amache in coperta; ognuno cercava l’orientamento che gli era più congeniale per legarle ai ganci del tetto. Io, in quel momento, ero un neofito e ho dovuto supporre: i vantaggi possibili consistevano nel non avere un’amaca direttamente legata sulla faccia, immaginare la possibilità di respirare, evitare gli odori più voraci, avere, in

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caso, una vista sul fiume; ma poiché bisogna legare l’amaca prima di molte altre, tutta l’astuzia consiste nel supporre gli atteggiamenti altrui, calcolarli, sbagliarsi in un gioco con variabili molteplici: una rete, un tessuto. Noi siamo quel gioco, e le corde s’intersecano nell’aria, le tele si dondolando nell’aria, i corpi si contendono l’aria, gareggiamo. Le nostre amache sono perlopiù rosse e rosa, ma anche verdi, blu, azzurre, gialle, una viola, una molto larga in bianco e nero. Avanziamo, giù per il fiume, in quella posizione inverosimile che noi persone riusciamo ad assumere sulle amache: sbracati. Sbracato è il termine. O, detto in altro modo: con quella mancanza di pudore corporale che è il grande contributo delle culture tropicali al mondo in cui viviamo. Sbracate, le parole. Fa caldo. A dispetto del vento, sul fiume fa caldo, il sudore si somma, e il Deus È Fiel ondeggia. Ai lati, trasformato in sponde, il mondo prosegue il suo avanzare verso nessun luogo. Sul fiume si alternano momenti di piccoli accampamenti, momenti di foresta chiusa e sprezzante, momenti di pianura disboscata e mucche. C’è anche, di tanto in tanto, un paese. Le nuvole persistono basse; in fondo, un arcobaleno. Noi, sulle amache, discorriamo, quattro donne leggono riviste, una un libro, due la Bibbia, due dormono con i bambini addosso, una ragazza guarda un film sul suo laptop; gli uomini, invece, non fanno niente. Dormono o si dondolano, fissano il soffitto in ogni dettaglio. Il soffitto dev’essere un mosaico di particolari. Bisogna saperlo fare: oziare per quindici ore, pancia all’aria, pensare o non pensare per quindici ore pancia all’aria, faccia al soffitto, tranquillo. Nello stesso tempo c’è chi crea una religione o, perlomeno, un nuovo culto. Bisogna saperlo fare e, in generale, per farlo meglio, bisogna essere ai tropici.

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Durante l’iperviaggio, le ore di navigazione lenta e di fiume sono un viaggio ad altri ritmi, a un tempo di altri tempi. E la signora molto magra, quasi anziana, invecchiata, seduta di traverso sulla sua amaca, che si dimena, piange, ripete continuamente non voglio, non voglio, non voglio. Una giovane donna – sua figlia, mi dirà poi – le massaggia la schiena. Non voglio, non voglio, piagnucola. Poi la figlia ci racconterà che alla madre hanno asportato un cancro e una mammella. Le hanno prescritto una chemioterapia, ma non poteva andare a Manaus per curarsi, e quindi ha lasciato perdere. Poi, alcuni giorni fa, il seno ha iniziato a farle molto male, moltissimo, e quindi sono andate a Manaus, ma il medico le ha detto che non c’era più niente da fare, e adesso erano di ritorno. La donna dice che non vuole. La barca prosegue, beccheggia. Davanti, uno dei paesaggi feticcio di questo mondo: il fiume più potente, quello che attraversa la più grande riserva verde del pianeta, un mito dei tempi. Dietro di noi, le amache, e sotto, sempre più sotto, un carico di casse di birra, elettrodomestici – ventilatori più che altro, tanta aria che ha bisogno di muoversi – e mercanzie da emporio: detergenti, riso, biscotti, cioccolato. L’Amazzonia importa l’80% dei suoi alimenti: il gran vivaio del mondo non è in grado di produrre ciò che mangia. Ho iniziato perché pensavo che qui sì che potevano succedermi delle cose, mi dice il capitano. Si chiama Soares – magro, basso, nerboruto – e racconta che sono quasi trent’anni che percorre il fiume, in su, in giù, e ha iniziato perché pensava che così avrebbe avuto una vita piena, donne, avventure, robe così. Ma le cose che succedono sono se piove o tempesta, se l’elica della barca gli si blocca o il motore si arresta, se il capo lo rimprovera per questo

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o quello: le cose che succedono sono problemi. E con le donne anche: se a volte me ne capita una, diventa un problema. Che se l’avesse saputo non avrebbe mai desiderato altro, perché è saggio desiderare le cose che hai già, dice, magro, nerboruto, birra in mano, filosofo improbabile. Desiderare le proprie significa non desiderare le altre, dice o sembra dire in qualche modo. Sospendere il giudizio, ho sentito dire in questi giorni: che il grande errore commesso dal mondo è stato quello di sospendere l’incredulità di fronte all’inattendibilità del mercato finanziario, per convincersi a credere ancora nell’inammissibile: che per questo motivo le persone e i banchieri e i governi hanno creduto di poter continuare in eterno appesi a un filo. Sospendere il giudizio: sempre questa tentazione di sospendere il giudizio, di lasciarsi dire, di ascoltare i canti delle sirene, dei cani, dei signorotti in doppiopetto, delle prostitute mal pagate, dei profeti della paura. A Orellana costò caro. Don Francisco de Orellana è stato il primo esploratore europeo a viaggiare in queste acque, su zattere mal legate, a capo di cinquanta straccioni che ogni giorno erano sempre meno, anno di grazia 1542. Il mondo quell’anno era solcato da straccioni che navigavano mal legati: il mondo quell’anno traboccava di signorotti che non navigavano né legati né slegati. Ma il mondo era determinato da quelli che navigavano mal legati; il mondo si è sempre lasciato determinare da pochi, mi sembra, temo. Insomma: credo. Orellana credeva, ma credeva in altre cose: grazie alla sua fede proseguì nel suo viaggio impossibile, sfidando la malattia, le rivolte, gli attacchi. Il viaggio, contro ogni pronostico, fu portato a termine, 5.000 chilometri dopo, alla foce del gran fiume, e Orellana riuscì a tornare in Spagna e diffondere il suo credo: che le indigene che lo avevano attaccato dalle rive erano donne amazzoni e che, pertanto, il fiume avrebbe portato il loro nome. Se non fosse stato così ingenuo, così presuntuoso – o così istruito: se non

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avesse conosciuto e creduto e ripreso il mito delle amazzoni –, il gran fiume si sarebbe chiamato Orellana o, perlomeno, chissà, San Francisco. Tuttavia l’uomo credeva, aveva sospeso l’incredulità: per questo riuscì a portare a termine il suo viaggio, per questo riuscì a sbagliarsi così tanto. La fede ha numerosi vantaggi, diversi svantaggi, ed è fatta di vie tortuose. Il fatto che questa barca si chiami Deus È Fiel, solo a dirlo, mi rende irrequieto: che razza di infedele, di miscredente o di artista bisogna essere per pensare un dio che potrebbe non esserlo? Credere, a me, costa più di qualsiasi altra cosa. Per questo motivo, suppongo, non ho mai creduto nell’ecologia e adesso il castigo del gran dio verdastro – alleato con il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione – consiste nel mandarmi in giro per il mondo a scovare storie di giovani colpiti dalla più grande ipotetica minaccia contro l’ecosistema: il cambiamento climatico o, in caso, il suo manifestarsi più spaventoso, il riscaldamento globale. È il tema del Rapporto sullo stato della Popolazione Mondiale di quest’anno perché è il tema dell’anno (2009, ndT) – che finirà con una grande conferenza a Copenaghen per negoziare accordi comuni. A questo punto lo sappiamo tutti: la principale preoccupazione a lungo termine di molti uomini, istituzioni, governi risiede in quel cambiamento. Tuttavia il cambiamento climatico è, come tante altre cose di cui ora parleremo, un argomento che non esisteva venti, trent’anni fa. Gli argomenti dominanti cambiano – molto più del clima. Mi piacerebbe sapere quando due persone hanno parlato del tempo per la prima volta – nel suo significato banale, meteorologico. Non esistevano, sicuramente, gli ascensori, perfetto scenario per queste chiacchiere nella città moderna. «Uh, ha visto quanta acqua è venuta giù stamattina.»

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«Sì, e ieri c’era quel sole. È proprio vero che il tempo è impazzito.» «Completamente impazzito.» Durante molti secoli il tempo non è stato il tema di uno scambio semicortese volto a nascondere il disagio di chiudersi con uno sconosciuto in un cubo di latta ascensionale, ma un argomento decisivo: che domani avrebbe piovuto o non piovuto poteva fare la differenza tra mangiare e non mangiare, bere e non bere, vivere o meno. Sarebbe logico pensare che, quando iniziarono a parlare, gli uomini e le donne più primitivi conversarono del tempo. «Ugg acquadasu gigigi la.» «Iiiiij acquadasu nenen panticunelesisi.» Di fatto, quando iniziarono a inventare divinità, i primitivi, ovunque fossero, furono d’accordo nell’assegnargli il comando della pioggia, del fulmine, del tuono, del sole, del vento. Era paura bella e buona: già quei primitivi sapevano – forse erano addirittura in grado di dirlo – che il tempo era impazzito. Ergo: che quella variabile decisiva per la loro sopravvivenza era incostante e decisamente imprevedibile. Che quelle piogge che ogni anno arrivavano poco dopo la nascita dei primi cuccioli degli orsi potevano, improvvisamente, non arrivare; che il vento freddo che aspettavano con terrore per chiudersi in fondo alle caverne a volte ritardava così tanto che temevano si fosse dimenticato; che a tratti il sole si faceva così cocente che bruciava qualsiasi cosa. Con il tempo e la storia – e dunque con il ricordo – gli uomini impararono a definire quelle costanti, a chiamarle stagioni, a volgerle a loro vantaggio tramite coltivazioni, piani di guerra, itinerari, religioni. Ma continuarono a parlare del tempo con timore perché, sempre di più, sapevano che nulla garantiva che quello che era sempre successo sarebbe accaduto di nuovo quest’anno o il venturo. Che il tempo era impazzito, che si permetteva qualsiasi tipo di licenza – anche se in ultima istanza, nel medio termine, tornava a essere ciò che era sempre stato. Poi, poco a poco, gli uomini più intraprendenti trovarono il modo per disinteressarsi del tempo. Nessuna società riuscì a vivere senza

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consumare le piante che possono crescere solo grazie a determinati fenomeni metereologici ma, sempre di più, riuscirono a sostituire l’acqua piovana con i sistemi di irrigazione, il caldo con le serre, l’ansia con la manipolazione dei semi e dei germogli. E, inoltre, quelle stesse società diversificarono le loro produzioni per far sì che il peso delle attività meteodipendenti fosse, per le loro economie, sempre minore. Ora si può dire che quanto più una società è sviluppata meno dipende dal clima o, al contrario, che quanto più una società è primitiva, più la sua dipendenza è forte. E fu in quel tempo e in quei luoghi già autonomizzati che gli scienziati incominciarono a strombazzare che il clima stava cambiando così tanto che avrebbe distrutto tutto. Ricominciarono a dire che il tempo era impazzito, ma che la colpa non era sua ma nostra, tutta nostra, completamente nostra. Siamo così potenti, ultimamente, animaletti così potenti. “La nozione che sia possibile che il clima cambi è un’idea moderna. (...) Ai nostri giorni è diventata cosa abituale trovare gente che crede che alcuni cambiamenti climatici possono accadere nello spazio di una generazione”, diceva, il 3 febbraio 1889, un articolo del New York Times. “Il clima sta cambiando? Il succedersi negli ultimi anni di estati tiepide e inverni morbidi, culminato l’ultimo inverno con una mancanza quasi totale di ghiaccio nella valle dell’Hudson, adduce prove alla domanda. I più anziani ci dicono che gli inverni non sono così freddi come quando erano giovani...” insisteva un altro, il 23 giugno dell’anno successivo, ormai verso la fine del XIX secolo. La preistoria del cambiamento climatico risale a quegli anni e alla mente febbrile di uno scienziato svedese, Svante Arrhenius. Arrhenius fu un bambino prodigio, un teorico brillante e, a 44 anni, nel 1903, terzo Premio Nobel per la Chimica grazie ai suoi studi sulla dissociazione elettrolitica. Poco dopo fu uno dei padri

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fondatori della Società svedese per l’igiene razziale, precorritrice di quelle idee eugenetiche che più tardi sarebbero state applicate dai nazisti. In quegli anni pubblicò un libro che affermava, per la prima volta, che le emissioni di anidride carbonica – CO2 – causate dagli uomini bruciando combustibili fossili come il carbone avrebbero prodotto un “effetto serra” che avrebbe riscaldato la Terra. Arrhenius lo spiegava: le particelle di carbonio disperse nell’aria avrebbero impedito al calore della terra di abbandonare l’atmosfera, fino a riscaldarla sempre di più. Arrhenius era ottimista: un pianeta più caldo, diceva, avrebbe consentito raccolti migliori, più cibo, e una popolazione meglio nutrita. A quei tempi molti credevano nel progresso, e Arrhenius e i suoi seguaci supposero che quel riscaldamento sarebbe stato un’altra delle sue possibili cause. Non gli diedero retta: la maggior parte degli scienziati pensavano che, se ci fossero stati cambiamenti, avrebbero tardato secoli o millenni. Cosicché, durante le cinque o sei decadi successive, il tema del cambiamento climatico languì. A volte qualcuno si risvegliava di soprassalto: un canale dell’Associated Press, per esempio, novembre 1922, diceva, con accenti moderni, che “l’oceano Artico si sta scaldando, gli iceberg si fondono e, in alcuni luoghi, le foche trovano l’acqua troppo calda e cominciano a scomparire, secondo un rapporto del Dipartimento del Commercio – americano – del nostro console a Bergen, Norvegia. (...) Spedizioni esplorative ci informano che non hanno quasi trovato ghiaccio in ubicazioni così boreali come 81 gradi 29 minuti. Grandi ammassi di ghiaccio sono stati rimpiazzati da morene di terra e pietre”, continua il rapporto, “e in alcuni punti ghiacciai ben conosciuti sono spariti”. Tuttavia, in generale, l’argomento non ebbe rilievo nel dibattito scientifico né, tantomeno, arrivò al grande pubblico. Fino a che, a metà degli anni Sessanta, il boom del movimento ecologista fece sì che molte più persone iniziassero a pensare – e cercassero di dimostrare – che noi uomini stavamo danneggiando la natura in svariati modi. Fu sempre più chiaro che la con-

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centrazione di CO2 nell’atmosfera aumentava di anno in anno; degli scienziati recuperarono l’idea dell’effetto serra e cercarono di costruire modelli teorici in grado di calcolare le conseguenze dell’aumento sulle temperature. I modelli erano nella loro infanzia, i computer lenti, e i calcoli davano risultati assai diversi. Al contempo, si inventarono dei modi per misurare temperature molto antiche a partire dai resti fossili – per studiare l’evoluzione del clima in un arco di tempo di milioni di anni. Ma il tema continuava a essere parecchio discusso. Negli anni Settanta l’opinione più diffusa tra gli scienziati che si occupavano dell’argomento era che le attività umane avrebbero finito per raffreddare il pianeta, perché la polvere e le particelle disperse nell’atmosfera ostacolavano i raggi del sole, e mostravano serie statistiche che calcolavano un abbassamento delle temperature a partire dagli anni Quaranta. Ci fu un leggero panico; libri come La cospirazione del clima: l’arrivo di una nuova Età del Ghiaccio prevedevano un futuro gelido, sostenuti da studi scientifici prodotti, tra gli altri, dallo stesso Goddard Institute for Space Studies – della nasa – che in seguito avrebbe capeggiato la lotta contro il riscaldamento globale. Le loro spiegazioni sembravano perfettamente logiche. “Ci sono segnali infausti del fatto che gli schemi climatici della Terra hanno cominciato a cambiare drammaticamente, e che questi cambiamenti possono portare a un collasso della produzione alimentare – con serie implicazioni politiche per tutte le nazioni del pianeta. Il crollo della quantità di alimenti può iniziare a breve, forse tra meno di dieci anni”, diceva un articolo – “Un mondo che si raffredda” – pubblicato da Newsweek il 28 aprile 1975. “Le prove che sostengono queste predizioni si stanno accumulando, tanto che i meteorologi non riescono a tenersi aggiornati. (...) Il fatto basilare è che, dopo tre quarti di secolo di condizioni straordinariamente tiepide, il clima della Terra sembra si stia raffreddando. I meteorologi non si mettono

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d’accordo sulle cause e sulla portata della tendenza al raffreddamento, e i suoi impatti specifici sulle condizioni climatiche di ogni luogo. Ma sono quasi unanimi nel sostenere che questa tendenza ridurrà la produttività agricola per il resto del secolo. Se il cambiamento climatico è così profondo come qualcuno teme, le carestie risultanti possono essere catastrofiche. ‘Un cambiamento climatico maggiore forzerebbe rimpasti sociali ed economici globali’, avverte un recente rapporto dell’Accademia Nazionale delle Scienze, ‘perché gli attuali modelli di produzione di alimenti e popolazione dipendono dal mantenimento del clima attuale.’ (...) I climatologi dubitano che i leader politici considerino qualsiasi azione positiva per compensare il cambiamento climatico, o addirittura mitigare i suoi effetti. (...) Quanto più tarderanno i pianificatori, tanto più avranno difficoltà ad affrontare il cambiamento climatico, una volta che i risultati ottenuti saranno diventati una triste realtà.” L’estate del 1978, una delle più calde degli ultimi decenni, sciolse gran parte di quel gelo concettuale. In mezzo alla confusione, sempre più scienziati, istituzioni e governi riconobbero che non ne sapevamo abbastanza sulle diverse origini delle variazioni climatiche, e decisero di dedicare sforzi e denaro per cercare di capirle. Nel 1979, uno studio dell’Accademia Nazionale delle Scienze nordamericana convinse il presidente Carter a convocare una commissione e chiedere una diagnosi: il team dichiarò che se la concentrazione dell’anidride carbonica fosse salita ulteriormente non ci sarebbe stata “alcuna ragione per dubitare che si produrranno cambiamenti climatici significativi” – che tuttavia non potevano precisare con gli elementi a loro disposizione. Sempre più fattori si aggiungevano alle possibili cause dei cambiamenti: i cicli astronomici, l’attività del sole, le deviazioni dell’orbita terrestre, i movimenti del sottosuolo, le correnti oceaniche – e altre ancora: tra le altre, molti comportamenti umani. I modelli di simulazione meteorologica diventarono sempre più

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complessi, e si scoprirono altri gas, oltre alla CO2, che influivano sul riscaldamento globale. Nel 1988, un’altra estate particolarmente calda nell’emisfero nord attrasse maggior attenzione sul cambiamento climatico. Quell’anno James Hansen, già allora direttore del Goddard Institute, dichiarò davanti a una commissione del Senato americano che la Terra era entrata in un periodo di riscaldamento e che i gas a effetto serra erano “quasi sicuramente” la causa. Alcuni governi incominciarono a riflettere su come intervenire, la cia stilò dei rapporti in cui si richiedevano più risorse per indagare la questione considerandone l’“importante influenza geopolitica”. Dall’altra, le grandi compagnie legate ai combustibili e al loro uso – petrolifere, del carbone, automotrici, siderurgiche, elettriche e un gigantesco eccetera – cominciarono a spendere cifre considerevoli per convincere il pubblico e i funzionari che il problema non esisteva. Quello stesso anno si istituì un gruppo internazionale di esperti – l’ipcc o panel intergovernativo sul mutamento climatico – per studiarlo. I rapporti ipcc erano il risultato di anni di lavoro: la raccolta d’informazioni e la conseguente analisi erano decisamente laboriose, ma più complicato ancora era mettere d’accordo tutti i membri e produrre dei documenti che i loro governi potessero accettare. In generale, i documenti vennero rivisti più volte per renderli politicamente corretti; tuttavia il secondo rapporto di valutazione, 1995, fu il presupposto della riunione del 1997 a Kyoto, dove la maggior parte delle nazioni del mondo s’impegnava a prendere misure – tiepide – per ridurre le emissioni di gas serra. Il Protocollo di Kyoto entrò in vigore solo nel 2005, dopo la ratifica anche da parte della Russia – e mai del tutto: gli Stati Uniti, i principali emettitori di gas a effetto serra – si sono sempre rifiutati di ratificarlo, sostenendo, tra le altre cose, che il maggior sforzo ricade sui paesi industrializzati, mentre i paesi in via di sviluppo più potenti, come la Cina e l’India, vengono esonerati. Il quarto rapporto di valutazione dell’ipcc, pubblicato nel 2007, alzò l’allarme a livelli inediti: la temperatura del pianeta, diceva-

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no, era aumentata insieme ai livelli di anidride carbonica e sarebbe cresciuta ulteriormente a meno che non si fossero prese misure drastiche. Le stime non erano precise: l’ipcc diceva che, per il 2100, la temperatura sarebbe aumentata tra 1,4 e i 6 °C, e che le conseguenze sarebbero state catastrofiche. Già allora c’erano personalità influenti che facevano campagna al riguardo; quell’anno, Al Gore e l’ipcc ricevettero il Premio Nobel per la Pace. Da quel momento l’argomento è diventato di pubblico dominio, e i governi e l’opinione pubblica mondiale si sono finalmente decisi a fare qualcosa. Anche se rimane sempre il problema di cosa, quando, chi, come. Continuiamo a credere che ci capitino cose che non sono mai successe. Non sappiamo – non impariamo a – vivere nella storia: ci ostiniamo a supporre una volta e un’altra volta ancora che tutto ciò che ci succede, succeda per la prima volta, e in quella novità risiede il potenziale che ha di spaventarci. Forse qualche volta è vero. Sempre può essere vero, qualche volta. Nel mentre, risoluti in mezzo alla nebbia, confusi, fervidi, ben disposti anche se non abbiamo ancora capito del tutto di che si tratta, avanziamo: la legittima lotta contro il cambiamento climatico ha raggiunto quello status di nobile causa che nessuno può più mettere in discussione – o quasi nessuno. Il cambiamento climatico, ora, è come il cancro: chi mai dirà di essere a favore? Chi mai dirà che è un bene che la Terra si deteriori? Ho sempre diffidato di quelle cause indiscutibili, che non lasciano la possibilità del disaccordo. Sono – sono solite essere – il modo in cui alcuni settori che hanno potere fanno credere agli altri che i loro problemi sono anche i loro; sono – sono solite essere – le trappole più grossolane ed efficienti.

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