Artu 2014 01/04

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Gualtiero Marchesi “Io sono il mio stile”

di Alberto P. Schieppati Gualtiero, dunque, è tornato a Milano. Il suo sogno di sempre, quello di riprendere a vivere la sua città da protagonista, si è finalmente avverato. Belli gli anni di Franciacorta, soprattutto i primi, bella la campagna, bello tutto…Ma a Gualtiero mancava il rumore dei tram che sferragliano davanti alla Scala, la fretta terribile di chi corre sempre, la tensione quotidiana di un vivere che riproduce se stesso, con ascetica costanza e atarassico metodo. Gualtiero a Milano: un’emozione incontrarlo per strada, vederlo guardare le facce della gente, sentirlo descrivere le fatiche del cuoco, ascoltarlo mentre -senza alcuna malizia, senza ideologie né pregiudizi - parla dei suoi tanti discepoli diventati

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Artù n°61

famosi. Lo incontro una sera piovosa di fine febbraio (la sera della grandinata memorabile), nel giorno di una festa di famiglia (il compleanno della moglie Antonietta) con tutte le generazioni marchesiane sedute intorno al cerchio di fuoco, come avrebbe detto il poeta Mario Tobino. Gualtiero si discosta, mi saluta e mi parla. Per poi tornare dai suoi cari. Al Marchesino, luogo magico, una sorta di “teatro addizionale”, la guida è sempre di Enrico Dandolo, la cucina è nelle solide mani di Riccardo Ferrero e Gianluca Branca, i vini sono suggeriti da Claudio Baggini, sommelier di razza che insieme a Sebastiano Trogu coordina con cura la bella, grande sala con le colonne. Gualtiero, in ottima forma, ottantaquattro anni il 19 marzo, si riconferma ai miei occhi come raro, forse unico, esempio di alta cultura in un mondo che, seppur spesso molto professionale, sta privilegiando in modo eclatante “l’apparire all’essere”, un mondo dominato da presunzione e ricerca ossessiva del guadagno. Gualtiero è profondo, non ama i giudizi sommari e affrettati e, pur essendo poco indulgente verso la spettacolarizzazione dominante, non emette sentenze verso tanti suoi discepoli, pur potendolo. Anzi, ne apprezza l’intraprendenza, anche se il suo pensiero preferisce l’essere all’apparire. “Io sono il mio stile”, ripete Gualtiero e, come illuminato da una luce per pochi, mi parla della necessità di una cucina “del buon senso”, fatta di studi ed esperienza, certo, ma anche di

genio e sapienza capaci di muovere passione, energia vitale, coraggio, linguaggi inediti. Così sono, infatti, i piatti di Gualtiero (“quelli storici, come riso e oro, raviolo aperto, dripping, rombo in crosta, zabaione con spaghetti di riso e altro ancora, stanno per rientrare a pieno titolo nel menù del Marchesino”, mi dice Dandolo). Una cucina, quella di Gualtiero, che ha segnato il grande discrimine fra la banalità di una tradizione ripetitiva e l’arroganza del futuribile ad ogni costo, situandosi al centro di una visione profonda, che coniuga rispetto per la materia ed essenzialità di uno stile capace di restituire gusto e sapori in una logica di pienezza totale: “il palato assoluto”, insomma, è l’equilibrio definitivo verso cui tendere, senza retorica né facili azzardi sperimentalistici. Non a caso, il compianto Ernesto Illy, parlando con (e di) Marchesi, definì la figura del cuoco come una sorta di “chimico dell’intuizione”, espressione che Gualtiero condivise in pieno. Scienza. Precisione. Dettagli. Analisi. E, insieme, genio, estro, rischio. Una sintesi tanto concreta quanto visionaria, con forti legami con l’arte, la musica, la poesia. Pensando alla filosofia della scienza e a Ludovico Geymonat, Gualtiero ci ricorda che cuore e testa non possono essere disgiunti, ma sono profondamente connessi, così come i suoi piatti dimostrano; la logica della cucina marchesiana, infatti, rispecchia profondamente la sua lucidità, fatta di scelte ma anche di stupore e di ricerca di nuove frontiere.


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