OPPInformazioni - Studenti con BES e la formazione degli insegnanti

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ISSN 2282-3956 Codice rivista: E198783

professionalità docente e processi formativi Direttore responsabile: Angelo Rovetta

luglio-dicembre 2016

Redazione: Bianchi Abele Benelli Giacomo Carletti Anna Colombo Maddalena Cortimiglia Francesco Gagliardi Roberto Gilberti Luigi Ostinelli Anna Restelli Anna Varani Andrea

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Impaginazione e stampa: Arti Grafiche Colombo - Muggiò (MB) Periodico semestrale dell’OPPI Abbonamento 2017 € 20,00

OPPInformazioni professionalità docente e processi formativi

n. 121 luglio-dicembre 2016

Studenti con BES e la formazione degli insegnanti

Organizzazione per la Preparazione Professionale degli Insegnanti

UNI EN ISO 9001:2008

Ente accreditato presso il M.I.U.R. (Decreto 08.06.2005) e la Regione Lombardia (n. 207-01.08.2008 Albo Enti Accreditati) – Azienda con Sistema Qualità Certificato UNI EN ISO 9001:2008

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Autorizzazione n. 480 dell’11.12.1972 Iscritto presso il Tribunale di Milano Direzione, redazione, amministrazione: OPPI, Via Console Marcello 20, 20156 MILANO Tel. 02/33.00.13.87 - Fax 02/39.26.90.27 IBAN: IT39Q0335901600100000007212 - C.F. 02711300158 E-mail: oppi@oppi.it - Sito: www.oppi.it

Pubblicazione semestrale Anno XLIII, n. 121, 20.3.2017


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Indice DOSSIER Studenti con BES e la formazione degli insegnanti A CURA DI MADDALENA COLOMBO E ANNA RESTELLI

MADDALENA COLOMBO ANNA RESTELLI

Introduzione. L’inclusione degli studenti BES: il quadro culturale e normativo, i fabbisogni dei docenti e qualche indicazione per il futuro

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ANNA RESTELLI

Dalle scuole speciali all’inclusione: il cambiamento culturale della normativa italiana

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MADDALENA COLOMBO

Cultural diversity management nella scuola: come vengono preparati gli insegnanti italiani?

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FIORENZO FERRARI

Il paradosso dell’educazione e gli alunni con BES. Un’esperienza di formazione con insegnanti neo-assunti

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FRANCESCA DI FENZA

Gli adolescenti BES-DSA: è possibile una reale inclusione se non comprendiamo chi abbiamo di fronte?

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LOREDANA DELL’ISOLA

Dall’integrazione all’inclusione: l'evoluzione lessicale e le realizzazioni didattiche nella scuola italiana

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MICHELA FERRARI

Didattica inclusiva con le TIC

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PIERLUIGI FABBRI

Verso la costruzione di indicatori di inclusività nella classe e nella scuola

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CHIARA CARABELLI

Il Referente per l’inclusione nello staff docente

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VITA ASSOCIATIVA ADRIANO PENNATI

In ricordo di Angelo Roncari

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ANGELO RONCARI

Il ruolo e le competenze del “professionista dei processi di apprendimento”

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SUGGERIMENTI DI LETTURA MADDALENA COLOMBO ANNA RESTELLI

LUCIO GILBERTI GIOVANNI IATTA

Questioni di classe. Discorsi sulla scuola, Rosemberg & Sellier, Torino, 2015 L’attrazione speciale. Minori con disabilità: integrazione scolastica, scuole speciali, presa in carico, welfare locale, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2015 Rapporto Giovani 2016 – La condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna, 2016 L’estate di Peter. Storia di un ragazzino e del suo coraggio, Morellini Editore, Brescia, 2015

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OPPInformazioni, 121 (2016), 1-4

Studenti con BES e la formazione degli insegnanti

Maddalena Colombo* Anna Restelli**

Introduzione. L’inclusione degli studenti BES

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Il quadro culturale e normativo, i fabbisogni dei docenti e qualche indicazione per il futuro

Il Dossier che presentiamo nasce da una linea di riflessione e ricerca presente in OPPI già da diversi anni, che caratterizza in senso innovativo il nostro lavoro di “formazione dei formatori” sia nella scuola che nei contesti extrascolastici e post-scolastici. È indubbio che la presenza di studenti con BES sia divenuta (fin dai primi riconoscimenti legislativi negli anni 70) sempre più “strutturale” è organizzata, favorita da un approccio normativo e culturale che è maturato nel tempo, nella scuola e nella società italiana, a favore dei diritti delle persone con disabilità in tutti i campi e a favore di un’opzione “inclusiva” soprattutto dal 2005 in poi. OPPI, in particolare, ha avuto l’occasione dalla fine degli anni 90 di sperimentarsi con percorsi di formazione dei docenti, interventi per le persone sorde e sperimentazione delle tecnologie informatiche per una didattica inclusiva. La cultura che vogliamo diffondere, a margine di queste sperimentazioni, è quella della valorizzazione delle diversità nei processi di apprendimento. Più il gruppo si presenta eterogeneo, più la didattica si differenzia e si arricchisce per raggiungere i diversi stili di apprendimento. Se è vero che ciò richiede all’insegnante un lavoro più intenso, siamo tuttavia convinti che questo non rappresenti affatto un lavoro “extra” bensì una modifica profonda dei modi di insegnare. Il secondo aspetto che vogliamo sottolineare è quello dell’organizzazione necessaria a rispondere ai “bisogni educativi” di tutti i tipi, attraverso – anche qui – una modifica profonda di molti aspetti del fare scuola: dell’assetto spazio temporale (struttura oraria, calendario, spazi, accesso alle tecnologie) all’utilizzo delle risorse umane (istituzione del Gruppo per l’inclusione che valuti il bisogno e coordini le risposte della scuola, valutandone l’efficacia); dalla costruzione di corretti protocolli interni, possibilmente condivisi dal corpo * Membro del Comitato scientifico dell’OPPI. Professore Associato presso il Dipartimento di Sociologia e la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Milano, dove insegna Sociologia dell’educazione. ** Membro del Comitato scientifico dell’OPPI.


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Maddalena Colombo - Anna Restelli

docente e non docente (es. protocolli di accoglienza) alla gestione dei rapporti con l’esterno (promozione delle buone pratiche per dare continuità). A monte di tutto ciò, una volta che si consideri altamente condivisibile il principio dell’inclusione con tutte le conseguenze pratiche, è lecito domandarsi: i docenti e il personale scolastico, oggi, sono sufficientemente preparati ad affrontare queste sfide? E come sopportano il “peso” della personalizzazione della didattica o della gestione di gruppi complessi, variegati, multiproblematici? E qual è il loro fabbisogno formativo, implicito o esplicito che sia? La lunga esperienza di formazione e ricerca in OPPI ha permesso di focalizzare due bisogni urgenti: da un lato, la formazione dei docenti (non necessariamente di sostegno, ma anche di materia) di ogni ordine e grado nella gestione della didattica inclusiva, nel senso di accompagnarli a decostruire l’esperienza professionale tradizionale (comprese le routine consolidate) per inventarsi nuove formule o riconvertire quelle vecchie in pratica didattica sostenibile di fronte ai nuovi bisogni. Dall’altro lato, vi è la necessità di formare figure di coordinamento capaci di gestire gruppi Inter-professionali (sia docenti che personale esperto) all’interno dell’istituto per promuovere corrette prassi di inclusione. Ci sono diverse nuove competenze da sviluppare: come fare l’analisi dei bisogni, come promuovere delle pratiche didattiche innovative, come monitorare la messa in pratica per capire cosa funziona e cosa no, come scegliere adeguati indicatori per valutare il grado di inclusività dell’istituzione. Non vi è dubbio che finora la responsabilità educativa e didattica per gli alunni con BES sia stata prevalentemente delegata all’insegnante di sostegno. Sono quindi quasi cinquant’anni che le scuole si affidano a una figura dedicata, parzialmente specializzata e spesso marginalizzata1, per risolvere ogni difficoltà specifica e “legare” gli alunni con BES all’insieme del contesto scolastico ed extrascolastico. Dalla legge 104 del 1992, alla “svolta” della Direttiva Ministeriale sui BES del 2012, fino ad arrivare alla recente legge 107 sulla Buona scuola (2015), la figura dell’insegnante di sostegno è destinata a subire modifiche sostanziali, anche nell’ambito normativo (cfr. L’attuale delega al Governo per la ridefinizione del ruolo dell’insegnante di sostegno nelle more della L. 107)2. Le proposte in campo finora vanno dalla abolizione totale del ruolo di sostegno alla creazione di figure super-specializzate, con la funzione di supporto e consulenza per gli insegnanti comuni. Va da sé che, se fossero statuite queste modifiche, sarebbe necessario formare adeguatamente i docenti su posto comune fino a includere tutte le tipologie di bisogno edu1 Cfr. COLOMBO M., Diversabilità, capacità personale e uguaglianza nei processi educativi, in COLOMBO M., LANDRI P., GIOVANNINI G. (a cura di), Sociologia delle politiche e dei processi formativi, Guerini, Milano, 2006, pp. 167-198. 2 Si veda la proposta di Legge C-2444 (Norme per migliorare la qualità dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con bisogni educativi speciali), presentata da FISH e FAND nel 2015. Cfr. anche IANES D., L’evoluzione dell’insegnante di sostegno. Nuova edizione, Erickson, Trento 2015.


Introduzione. L’inclusione degli studenti BES: il quadro culturale e normativo, i fabbisogni dei docenti e qualche indicazione per il futuro

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cativo speciale (disabilità, disturbi di apprendimento, svantaggio socioculturale e linguistico). Di questi cambiamenti osservati nel contesto scolastico si occupano gli otto saggi contenuti in questo Dossier, selezionati tra coloro che hanno esperienza di formazione ai docenti e ci hanno proposto riflessioni originali sulla questione. Siamo però consapevoli che i mutamenti della scuola non sono totalmente estranei ai cambiamenti nel mondo del lavoro e, più in generale, nella società. Per questo, OPPI ha già programmato di raccogliere un’altra selezione di contributi che guardano al progetto di vita della persona disabile e al rapporto tra formazione e mondo del lavoro (cfr. Il prossimo numero di Oppinformazioni 122). Nel primo contributo di questo Dossier, Anna Restelli fa un’analisi sintetica del cambiamento culturale della normativa scolastica italiana sulla disabilità che parte dalla separazione degli alunni “minorati” per arrivare all’inclusione dei “diversamente abili”, recuperando anche gli stimoli del panorama internazionale dalla Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità all’I.C.F. come nuova Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nel secondo saggio invece si sposta l’attenzione sull’altra “sponda” dei bisogni educativi speciali, quella legata alla presenza di allievi con diverso retroterra culturale (immigrati o figli di immigrati). Maddalena Colombo sostiene che fin dal 1994 in Italia l’attenzione e la sensibilità dei docenti su questa compagine scolastica è stata rilevante, anche per la ricaduta “interculturale” sul curricolo scolastico che ha dato luogo a molti progetti innovativi. In questa ultima fase storica, però, mentre in Italia si risente di una certa stanchezza (o diminuzione di entusiasmo) verso l’intercultura, in Europa si è acceso un nuovo interesse ad investire sulla formazione iniziale dei docenti, quale prima e unica risorsa per una società che sta diventando irrevocabilmente multiculturale. A confronto con gli Stati europei, si vede come l’Italia sconta un ritardo e una storica indifferenza proprio su come e quanto si preparano gli insegnanti in ingresso a gestire il multiculturalismo in classe. Rimanendo sul versante della formazione dei docenti in ingresso, Fiorenzo Ferrari propone una riflessione “dall’interno”, ossia a margine di un laboratorio sui BES, obbligatorio per i neo-assunti docenti di ogni ordine, secondo il piano di reclutamento della L. 107. La modalità innovativa (pratiche riflessive al posto di lezioni frontali), il materiale stimolo (l’Emilio di Rousseau) e l’uso di griglie facilitanti il pensiero filosofico (strutturate, semi-strutturate e senza consegna), permettono all’autore di estrapolare materiale “vivo” dalle discussioni avute coi 200 tirocinanti, che portano a mettere in luce i paradossi professionali attorno alla nozione di “Bisogno educativo speciale”. Il quarto saggio volge lo sguardo, invece, al rapporto docente-studente con difficoltà di apprendimento (DSA). Francesca Di Fenza, attraverso un esempio


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Maddalena Colombo - Anna Restelli

concreto di vita scolastica, propone di passare dalla scuola delle etichette alla scuola che “accoglie” il disagio (iniziando a fare bene il lavoro diagnostico che sempre dovrebbe precedere l’intervento pedagogico appropriato). Se si guarda con occhio critico a quanto spesso avviene, di fronte a un compito scolastico mal interpretato dallo studente, ci si accorge che è molto facile scambiare “le cause con le conseguenze”: ad esempio, ci si spiega una bassa prestazione didattica con difficoltà emotive, scarso impegno, opposizione alla proposta del docente ecc, quando invece questi non sono che indicatori, e spesso appaiono in conseguenza, del disturbo di apprendimento di cui l’allievo soffre. Il contributo successivo, di Loredana Dell’Isola, partendo da una riflessione sull’evoluzione lessicale dei termini integrazione e inclusione riletti alla luce di concetti di filosofia del linguaggio e di linguistica generale, ripercorre il processo evolutivo della normativa e propone metodologie didattiche per attuare la personalizzazione dei percorsi di apprendimento utili per tutti gli alunni nel contesto variegato dei gruppi classe. Michela Ferrari prosegue poi la riflessione sulla didattica inclusiva considerando l’utilizzo delle tecnologie informatiche come strumenti indispensabili: si parte dalla teoria dell’Universal Design applicata in ambiente di apprendimento per approdare ad un’analisi dei problemi sollevati dalla riflessione sugli alunni BES, mostrando come il gruppo docente possa fare un’analisi dei bisogni e come le tecnologie inserite in una solida progettazione didattica offrano spazi aperti di lavoro che favoriscono l’apprendimento collettivo e la riflessione metacognitiva. La creazione del Gruppo di lavoro per l’inclusione, previsto dalla normativa BES, col compito di elaborare un piano operativo: Piano annuale per l’inclusività (PAI) pone a ogni istituzione scolastica il problema di analizzare il grado di inclusione raggiunto attraverso un’indagine sui punti di forza e quelli di debolezza degli interventi educativi messi in atto nella scuola, Pierluigi Fabbri fa una proposta articolata per costruire indicatori utili a tale valutazione, a tre livelli: micro (comportamenti in classe, pratiche d’aula), meso (trasformazione e adattamento del curricolo, ad esempio, in lingua italiana nella scuola secondaria di primo grado) e macro (strategie organizzative dell’istituto e modi di intendere il servizio di sostegno e il lavoro dell’insegnante di sostegno). I Gruppi di lavoro per l’inclusione (GLI) prevedono un referente la cui formazione specifica è già partita a livello nazionale: nell’ultimo contributo di Chiara Carabelli si analizza il ruolo del docente coordinatore per le attività connesse all’integrazione scolastica degli allievi in situazione di disabilità, mettendone in rilievo i compiti di tipo organizzativo e di promozione della cultura inclusiva. L’autrice conclude con la riflessione, pienamente condivisibile anche a chiusura di questo Dossier, che più che guardare alla disabilità del singolo individuo occorre rimuovere gli ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione.


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Studenti con BES e la formazione degli insegnanti

Anna Restelli*

Dalle scuole speciali all’inclusione: il cambiamento culturale della normativa italiana

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La svolta degli anni 70

Per ripercorrere la storia recente sulla cultura della diversità basterebbe fare una analisi del lessico usato dalla normativa italiana dai: “minorati” ai “diversamente abili” scorre un pensiero che va dalla separazione sociale all’inclusione. Nella scuola italiana questo cambiamento ha inizio con la Legge 517 del 1977 che stabilisce il diritto degli alunni con disabilità a frequentare le scuole comuni e introduce modalità organizzative per rendere effettivo questo diritto. Se con questa innovazione normativa le scuole speciali non vengono chiuse, si afferma però una nuova filosofia dell’integrazione; anche nel dibattito sociale si diffonde il principio del sostegno a favore degli alunni portatori di handicap per l’attuazione della pari dignità sociale sancita dall’articolo 3 della Costituzione e del diritto universale all’istruzione sancito dall’ articolo 34. In realtà l’articolo 38 della stessa Costituzione specifica che «gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale», ma rispetto a questa visione, che di fatto separa, negli anni 70 si sostiene il diritto all’integrazione scolastica e sociale di quelli che vengono ancora considerati come mancanti o disabili, cioè non abili in qualcosa. La Legge 104 e la politica per l’handicap

Nel 1992 viene approvata la legge 104: “Legge Quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, che diventa il punto di riferimento normativo fondamentale per la disabilità. La Legge ribadisce il principio dell’integrazione sociale e scolastica come momento essenziale per la tutela della dignità umana della persona con disabilità, impegnando lo Stato a rimuovere gli ostacoli che ne impediscono lo sviluppo e prevedendo interventi riabilitativi. L’integrazione scolastica, si esplica in un percorso for* Membro del Comitato scientifico dell’OPPI.


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Anna Restelli

mativo individualizzato, al quale partecipano più soggetti istituzionali. Il Profilo Dinamico Funzionale e il Piano Educativo Individualizzato (P.E.I.) sono dunque per la Legge in questione i momenti concreti in cui si esercita il diritto all’istruzione e all’educazione dell’alunno con disabilità. Da ciò il rilievo che ha la realizzazione di tali documenti, attraverso il coinvolgimento dell’amministrazione scolastica, delle famiglie, degli organi pubblici che hanno le finalità della cura della persona e dei servizi sociali. Si ribadisce l’importante previsione della loro verifica in itinere affinché i profili dinamici e i piani educativi risultino sempre adeguati ai bisogni effettivi dell’alunno. Sulla base del P.E.I., i professionisti delle singole agenzie, ASL, Enti Locali e le Istituzioni scolastiche formulano i progetti personalizzati: questa modalità sovverte l’impianto tradizionale della scuola e introduce l’individualizzazione nella relazione apprendimento-insegnamento. La valorizzazione della diversità

Con la Legge n. 18 del 3 marzo 2009, il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità (2006): tale ratifica vincola l’Italia a uniformarsi emanando norme ispirate ai principi espressi. Ciò che caratterizza la Convenzione ONU è di avere superato un approccio focalizzato solamente sul deficit della persona con disabilità, accogliendo il “modello sociale della disabilità” e introducendo i principi di non discriminazione, parità di opportunità, autonomia, indipendenza con l’obiettivo di conseguire la piena inclusione sociale, mediante il coinvolgimento delle stesse persone con disabilità e delle loro famiglie. Ribadire il principio della dignità delle persone con disabilità e individuare nel contesto culturale e sociale un fattore determinante per offrire opportunità che consentano di raggiungere livelli di realizzazione e autonomia sviluppando la propria personalità sino alle massime potenzialità significa porre le persone con disabilità in condizione di partecipare effettivamente alla vita sociale. Nel 2001, l’Assemblea Mondiale della Sanità dell’OMS ha approvato la nuova Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (International Classification of Functioning, Disability and Health – ICF). Nella prospettiva dell’ICF, la partecipazione alle attività sociali di una persona con disabilità è determinata dall’interazione della sua condizione di salute con i fattori contestuali cioè le condizioni ambientali, culturali, sociali e personali in cui essa vive. Il modello introdotto dall’ICF prende in considerazione i molteplici aspetti della persona mettendo in relazione la condizione di salute e il suo contesto: la disabilità diventa dunque una condizione di salute in un ambiente sfavorevole sta dunque a quest’ultimo eliminare le barriere e mettere in atto dei facilitatori che favoriscano la partecipazione della persona alla vita sociale.


Dalle scuole speciali all’inclusione: il cambiamento culturale della normativa italiana

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4. Dall’integrazione all’inclusione

Nel dicembre 2012 esce la direttiva ministeriale BES e la successiva Circolare n. 8/2013 che introducono la definizione di Bisogno Educativo Speciale accomunando tutte le tipologie di difficoltà di apprendimento dal DVA ai DSA alle difficoltà di ordine sociale e culturale e promuovono l’inclusione come concetto che elimina la differenziazione tra persone con e senza disabilità ma considerano tutti persone con diversi bisogni. Inoltre supporta l’idea che i bisogni educativi possano cambiare, nel corso di vita, sia in relazione alle fasi di sviluppo di una determinata problematica o menomazione, sia in relazione all’incontro con contesti più o meno favorevoli: non esistono perciò disabilità o disfunzionamenti permanenti. In quest’ottica il focus viene posto sul contesto, sul gruppo che con un lavoro cooperativo costruisce percorsi differenziati ricchi di proposte per assecondare tutti gli stili di apprendimento. Viene introdotto il Piano Didattico Personalizzato (PDP) riferito a tutti gli alunni con BES della classe come strumento di lavoro in itinere per gli insegnanti e per documentare alle famiglie le strategie di intervento programmate. La nuova normativa crea anche un’organizzazione di supporto, sia a livello territoriale sia di ciascuna istituzione scolastica, e promuove la formazione dei dirigenti e dei docenti sulla didattica inclusiva come elemento essenziale per il rinnovamento messo in atto. Vengono costituiti i Centri Territoriali di Supporto (CTS) con il compito di fornire alle scuole informazione, formazione e consulenza, elaborare un Piano Annuale di Intervento e promuovere intese territoriali per l’inclusione. Per ogni singola istituzione scolastica è prevista la costituzione di un Gruppo di Lavoro per l’Inclusione (GLI) composto da insegnanti, funzioni strumentali, esperti per la rilevazione degli alunni con BES presenti nella scuola, la raccolta e documentazione degli interventi didattici posti in essere, il confronto sui casi, la consulenza ai colleghi sulle strategie di gestione delle classi, la rilevazione, il monitoraggio e la valutazione del livello di inclusività della scuola. Il GLI elabora entro il mese di giugno di ogni anno scolastico il Piano Annuale per l’Inclusività (PAI) che deve contenere un’analisi delle criticità e dei punti di forza degli interventi di inclusione scolastica operati nell’anno appena trascorso e formulare un’ipotesi globale di utilizzo delle risorse per incrementare il livello di inclusività della scuola nell’anno successivo. Il Piano dell’Offerta Formativa dovrà di conseguenza contenere un concreto impegno programmatico per l’inclusione basato su un’attenta lettura della situazione e su obiettivi di miglioramento da perseguire nel senso della trasversalità delle prassi di inclusione negli ambiti dell’insegnamento curricolare,


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Anna Restelli

nella gestione delle classi, nell’organizzazione dei tempi e degli spazi scolastici, nella gestione degli interventi e del personale di sostegno e, infine, delle relazioni tra docenti, alunni e famiglie. 5. Una normativa d’avanguardia per una pratica difforme

Il 10 febbraio 2016 il Miur viene premiato a Vienna per l’innovativa normativa sull’integrazione del nostro Paese dal “Progetto Zero” organismo internazionale che ha l’obiettivo di realizzare un mondo con “zero barriere” con la seguente motivazione: «Esemplare nelle aree dell’innovazione, dei risultati e della trasferibilità, la Legge quadro n. 104 del 1992 per l’assistenza, l’inclusione sociale e i diritti delle persone con disabilità è eccezionale in quanto essa non soltanto prescrive che tutti gli alunni debbano essere inclusi nelle scuole di tutti gli ordini e grado (incluse le Università), sia pubbliche che private, e partecipare pienamente alla vita scolastica, ma soprattutto perché essa è stata applicata in tutto il Paese, che registra pertanto il più alto livello di inclusione delle persone con disabilità nelle classi ordinarie, e gode di un convinto consenso alla piena inclusione a livello nazionale». Se l’innovazione normativa ha promosso l’inclusione sociale delle persone ora definite “diversamente abili” riconoscendo ad essi un progetto di vita, nella realtà scolastica italiana questo cambiamento culturale ha preso piede in modo diversificato. Ci sono realtà eccellenti di scuole che sanno costruire relazioni con gli enti territoriali, fornire progetti integrati e innovazione didattica, ma spesso viene messo in atto un nuovo stigma con la delega completa all’insegnante di sostegno dell’alunno con DVA. Una fotografia dello stato poco soddisfacente della realizzazione dell’inclusione nella scuola italiana è illustrato dal rapporto Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte (2011)1. Il Rapporto segnala che troppo spesso il percorso d’integrazione è l’esito di un iter burocratico che traduce meccanicamente certificazioni di disabilità in ore di sostegno, senza una vera lettura dei bisogni dei ragazzi da parte delle scuole, parla inoltre dell’eccessiva mobilità e della mancanza di preparazione specifica degli insegnanti di sostegno, dello scollamento tra scuola e mercato del lavoro, dell’insufficiente cooperazione tra la scuola e gli altri attori chiamati a lavorare per il successo dei processi d’integrazione (famiglie, servizi sanitari e sociali) e propone un modello più efficiente e flessibile di quello attuale che preveda il superamento della “coppia indissolubile” alunno-insegnante di sostegno e la formazione generalizzata di tutti gli insegnanti curricolari affiancati da figure specializzate in relazione ai diversi tipi di bisogni speciali. Nella consapevolezza di questi limiti strutturali, la riforma della “Buona 1 Cfr. ASSOCIAZIONE TREELLLE, CARITAS ITALIANA, FONDAZIONE GIOVANNI AGNELLI, Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte, Trento, Erickson, 2011.


Dalle scuole speciali all’inclusione: il cambiamento culturale della normativa italiana

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Scuola” (legge 107/2015) prevede una delega legislativa, in corso di definizione, volta a migliorare ulteriormente la qualità dell’inclusione scolastica. La discussione in atto sulle innovazioni da introdurre è un ulteriore tentativo di perfezionamento normativo. L’esperienza ormai più che trentennale dimostra però che delle buone leggi non bastano a modificare il tessuto sociale e le pratiche didattiche consolidate, perciò in conclusione possiamo affermare che né la normativa, né la disponibilità degli insegnanti potranno risolvere il problema ma solo il diffondersi di una cultura che valorizzi la diversità in ogni ambiente (e non solo a scuola) favorirà la vera inclusione e la realizzazione per tutti gli esseri umani, disabili o no, del proprio singolare progetto di vita.


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Studenti con BES e la formazione degli insegnanti

Maddalena Colombo*

OPPInformazioni, 121 (2016), 10-21

Cultural diversity management nella scuola Come vengono preparati gli insegnanti italiani?

Alunni stranieri e svantaggio scolastico: le sfide dei al lavoro del docente

BES

e dell’intercultura

Nella storia recente della scuola italiana, l’attenzione agli alunni stranieri si è intrecciata in modo del tutto peculiare con la sensibilità verso i Bisogni educativi speciali. Per capire quali sfide questa specifica diversità ha comportato (e comporterà) per i docenti, occorre fare un breve premessa rivolta al passato. Senza dubbio la tematica dell’insegnamento a persone con retroterra linguistico e culturale diverso da quello della lingua di insegnamento, cioè gli immigrati e i figli degli immigrati, rientra appieno nell’“insegnamento personalizzato ed inclusivo” che la Direttiva Ministeriale del 2012 prefigura, in modo da porre l’attenzione più sul destinatario della relazione educativa, a prescindere dalle sue radici, che sui saperi da insegnare o sul contesto esterno all’allievo (famiglia, classe sociale, ambiente di crescita ecc.). Tuttavia, la presenza di molti allievi con origini migratorie nelle scuole italiane, che è cresciuta notevolmente negli ultimi vent’anni1, ha fatto maturare negli insegnanti una graduale consapevolezza che gli alunni stranieri, di fatto, sono stranieri solo in via transitoria, anzi una certa “quota” di diversità può essere tollerata, gestita e persino valorizzata, appellandosi all’idea generale dell’equità (accesso uguale alle opportunità scolastiche) e al diritto-dovere di accoglienza, valori fondamentali di fronte a chiunque. Un altro valore messo in gioco, di fronte agli alunni stranieri, è quello stesso dell’integrazione che ha ispirato tutte le politiche dell’accompagnamento all’handicap dal 1971 ad oggi2. * Membro del Comitato scientifico dell’OPPI. Professore Associato presso il Dipartimento di Sociologia e la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Milano, dove insegna Sociologia dell’educazione. 1 Cfr. Il Rapporto Nazionale sugli Alunni con Cittadinanza non italiana che tutti gli anni viene pubblicato da Fondazione Ismu e Miur, dove si riporta la serie storica dell’incidenza di alunni non italiani sui totale degli alunni di ogni ordine e grado, nelle scuole sia statali che non statali. Nell’ultimo a.s. 2014/15, il tasso di presenza degli alunni stranieri è 9,2%. 2 Sul parallelismo tra le politiche per l’integrazione scolastica degli alunni con handicap e degli alunni immigrati, ho scritto in COLOMBO M., Relazioni interetniche fuori e dentro la scuola, F. Angeli, Milano, 2004; e


Cultural diversity management nella scuola: come vengono preparati gli insegnanti italiani?

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È dagli anni Novanta che, sviluppando una vasta mole di attività di educazione interculturale e di Italiano come L2, le scuole e soprattutto gli insegnanti più sensibili a questa tematica si sono dedicati a garantire anche nelle classi plurilingue un’istruzione dignitosa, sobbarcandosi la mediazione con le famiglie non italofone, la preparazione di materiali facilitati, l’invenzione di strategie per evitare reazioni negative da parte dell’utenza scolastica autoctona ecc., con più o meno aiuti extra-scolastici da parte del Comune o di enti di Terzo settore. La Lombardia, in questo campo, ha fornito pregevoli esempi di auto-adattamento del corpo insegnante e delle scuole autonome (spesso organizzate in rete) di fronte alla “nuova diversità” da gestire3. Pur non essendovi, tra i docenti, nessuno (o pochissimi) con formazione multiculturale né interculturale, si può dire che sono stati i docenti più dei dirigenti ad affrontare in prima linea i dilemmi della diversità culturale, senza riconoscimenti di meriti o carriera, semplicemente applicando i “buoni principi” della scuola pubblica, egualitaria e democratica4. Si è dunque partiti, a metà degli anni ’90, a gestire le classi multiculturali con una diffusa indifferenza tra i docenti, mista a rassegnata tolleranza5, per poi interiorizzare gradualmente uno spirito di accoglienza e praticare più attivamente l’approccio interculturale (ma sempre con una certa quota di docenti che mostrano ambivalenza di fronte alla diversità culturale)6. Possiamo collocare il periodo del “primo impatto” tra il 1994 (con l’emanazione della CM 73 sul Dialogo interculturale) e il 2006 (con la CM 24 Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri), un periodo che ha segnato un crescendo di attenzione e di sensibilità nel corpo docente. Poi gli insegnanti hanno dovuto recepire una nuova normativa, la CM 2 del 2010, con la quale si stabiliva di non superare nella composizione delle classi il 30% di alunni con cittadinanza non italiana. Vi è stato dunque un “cambio di passo” negli orientamenti uffipiù di recente in COLOMBO M., SANTAGATI M., Nelle scuole plurali. Misure di integrazione degli alunni stranieri, F. Angeli, Milano, 2014. 3 Cfr. I Rapporti sulla Immigrazione in Lombardia, redatti dal 2005 da ORIM (Osservatorio regionale per l’Integrazione e la multietnicità) nei quali chi scrive ha coordinato le ricerche e le analisi dei dati sulla scuola e sulla formazione professionale. L’Orim ha anche supportato la creazione di una Banca dati dei progetti di educazione interculturale, che raccoglie migliaia di progetti elaborati dalle scuole lombarde dal 2000 al 2015 e depositati presso la Fondazione ISMU di Milano. Cfr. BESOZZI E., COLOMBO M., SANTAGATI M., Formazione come integrazione. Strumenti per osservare e capire i contesti educativi multietnici, Milano, ORIM, scaricabile al <http://www.orimregionelombardia.it/index.php?c=430>. 4 Cfr. Le ricerche dell’Orim: Besozzi E. (a cura di), I progetti di educazione interculturale in Lombardia. Dal monitoraggio alle buone pratiche, Orim, Milano, 2005 <http://www.orimregionelombardia.it/index.php? c=168> e BESOZZI E., COLOMBO M., SANTAGATI M. (a cura di), Relazioni interetniche e livelli di integrazione nelle realtà scolastico-formative della Lombardia, Orim, Milano 2012, <http://www.orimregionelombardia.it/ upload/4f620036210cf.pdf>. 5 Si veda la prima indagine sui docenti di scuola elementare nell’a.s. 1994/95, in cui gli “indifferenti” erano il 20% del campione e i “tolleranti” il 40%. Cfr. GIOVANNINI G. (a cura di), Allievi in classe, stranieri in città, Ismu, F. Angeli, Milano, 1996. 6 Cfr. COLOMBO E., La presenza di studenti non italiani, in CAVALLI A., ARGENTIN G. (a cura di), Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola, Il Mulino, Bologna, 2010, pp. 237-284, e SERPIERI R., GRIMALDI E. (a cura di), Che razza di scuola. Praticare l’educazione interculturale, F. Angeli, Milano, 2013.


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ciali, che induceva a temere l’eccesso di diversità culturale in classe (sebbene in nome della equità nella distribuzione dei carichi sia tra le classi sia tra le scuole)7. Con la CM 2/2010 di fatto si abbandona l’idea di integrazione scolastica come obiettivo per tutti, a qualunque condizione, per puntare all’inclusività8, una caratteristica del sistema di accoglienza che non necessariamente dipende dal soggetto interessato; un obiettivo quindi meno ambizioso dell’integrazione. Come afferma E. Besozzi9: Il termine inclusione (scuola inclusiva), se può apparire con un’attenzione più sulla scuola e la sua responsabilizzazione – e quindi sull’accesso e sulla fruizione di tutte le risorse materiali e simboliche disponibili – piuttosto che sui soggetti e il loro attivo impegno e quindi sulla loro capacità di agency, tuttavia sembra voler attutire l’impatto di un termine “duro” come quello di integrazione, che può sembrare troppo pretenzioso ed esigente nei confronti tanto degli insegnanti che devono costruire integrazione quanto degli alunni che devono sviluppare forme di adesione ad una realtà istituzionale e culturale, organicamente strutturata e funzionante.

La Circolare metteva a nudo i problemi generati dalla iscrizione degli studenti stranieri alla scuola di prossimità: data la distribuzione a macchia di leopardo della popolazione straniera (anche per la mancanza di politiche abitative e urbane adeguate), si veniva a creare in diverse zone la cosiddetta segregazione scolastica10. Questa costituisce, come è noto, un sovraccarico del singolo istituto posto in zone periferiche o “etnicizzate”, e di conseguenza una possibile etichettatura negativa per la scuola e per gli insegnanti che ci lavorano. Le soluzioni suggerite dalla CM 2 tuttavia non toccavano da vicino il lavoro del docente, ma solo la programmazione territoriale e quindi l’organizzazione scolastica (reti di scuole, offerta formativa diversificata, progetti di qualità nelle scuole ritenute più a rischio per aumentare l’appetibilità della scuola da parte dei nativi, potenziamento delle attività extracurricolari per facilitare l’inserimento sociale dei neo-arrivati). Un impulso forte ai docenti veniva comunque fornito: poiché è la lingua che ci fa uguali, le scuole a rischio devono potenziare al massimo l’alfabetizzazione in Italiano come L2 e diversificare gli interventi a seconda delle effettive condizioni migratorie (alunni neo-arrivati; lungoresidenti; nati in Italia). 7 Curiosamente, il Miur si è occupato di fissare una “soglia massima di tolleranza” degli allievi stranieri proprio a ridosso della crisi economica, senza tenere conto che in breve tempo si sarebbe verificata una riduzione dei flussi migratori in entrata e una stabilizzazione dei migranti residenti con l’aumento di alunni stranieri nati in Italia. 8 Il passaggio dalla integrazione scolastica all’inclusività si ispira ai principi contenuti in Unesco (a cura di), Guidelines for Inclusion: Ensuring Access to Education for All, Paris, 2005. 9 BESOZZI E., Introduzione. L’integrazione scolastica alla prova, in M. COLOMBO, M. SANTAGATI, Nelle scuole plurali. Misure di integrazione degli alunni stranieri, F. Angeli, Milano, 2014, p. 19. 10 Si intende con questa espressione la concentrazione di una popolazione scolastica omogenea rispetto a determinate caratteristiche socio-demografiche o culturali, associate a condizioni di oggettivo svantaggio. Cfr. VAN ZANTEN A., L’école de la périphérie. Scolarité et ségrégation en banlieue, Presses Universitaires de France, Paris, 2001.


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Al di là delle polemiche politiche sollevate dalla Circolare, nella quale si poteva ravvisare una concessione alle posizioni “sicuritarie” rappresentate dai partiti di centro-destra, essa ha avuto il merito di fare breccia nella cultura professionale dei docenti, visti ora non più solo come gestori della diversità come valore (principio affermato già dagli anni ’90), ma anche come agenti di controllo della diversità come problema. Le ragioni dell’insicurezza, della cautela, del pensiero complesso – che possono annidarsi nella mentalità dei docenti anche quando in teoria si dichiarano favorevoli alla scuola multiculturale – venivano espresse in tale documento, rimettendo la responsabilità dell’integrazione e della inclusione sulle spalle del soggetto principale: la scuola autonoma e la sua organizzazione. Il capitolo più recente di questa storia viene scritto dalla Direttiva del 27.12.2012 Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica, con la quale si afferma un nuovo principio: l’alunno straniero può (ma non deve) essere considerato portatore di Bisogni educativi speciali e dunque destinatario di un piano educativo individualizzato. Non tutti gli alunni con cittadinanza non italiana, però, rientrano in questa categorizzazione, solo quelli che mostrano “svantaggio socio-economico, linguistico e culturale”. Purtroppo la direttiva non offre ulteriori dettagli utili (quali sono gli alunni stranieri con BES? Quanti sono? Come li identifico?), pertanto il docente è rimandato ad altri documenti sull’accoglienza degli stranieri, che non menzionano però la “didattica inclusiva” contenuta nella DM del 2012. Mi riferisco, da un lato, alle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (novembre 2012) e, dall’altro, alle nuove Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri (CM 4233 del 2 febbraio 2014). In entrambi si ribadisce che “l’intercultura è oggi il modello che permette a tutti i bambini e ragazzi il riconoscimento reciproco e dell’identità di ciascuno”, ma non si specifica cosa comporti sviluppare un curricolo interculturale in una “scuola inclusiva”, né quali competenze interculturali vanno formate nell’allievo (civico-sociali, di comunicazione, di rispetto, cognitive ecc.). Non vengono forniti inoltre parametri per equilibrare efficacemente le attività di accoglienza, che riguardano i neo-arrivati, e quelle di integrazione, che riguardano invece gli interi percorsi formativi degli alunni con origini migratorie e il clima delle relazioni nel gruppo classe, cioè la vera e propria educazione interculturale come sfondo integratore. Non ci sono infine riferimenti specifici agli alunni stranieri con disabilità e disturbi di apprendimento, categorie ancora più ristrette ma in crescita, che designano condizioni multiproblematiche e spesso “al limite”11. 11 Cfr. Il documento europeo: European Agency for Development in Special Needs Education (EADSNE) (2009), Multicultural Diversity and Special Needs Education, Odense Denmark. Sugli alunni stranieri con disabilità in Italia, cfr. SANTAGATI M., ONGINI V. (a cura di), Alunni con cittadinanza non italiana, a.s. 2014-15. Rapporto nazionale, MIUR – ISMU Foundation, Milano 2016, pp. 37-40; GOUSSOT A. (2010), Bambini stranie-


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Il quadro piuttosto disorganico di dettami normativi, che abbiamo tracciato in breve, si affianca a una realtà scolastica multiforme, a macchia di leopardo (vi sono province in cui gli allievi stranieri arrivano al 20% e altre con il 3-5%), dove talvolta la presenza di stranieri è ben visibile ed enfatizzata fino a creare “il caso”, talaltra è minimizzata e negata ma non per questo più accettata. Infine, non essendo prevista per legge una figura professionale specifica per il cultural diversity management nella scuola, non c’è da stupirsi che ad oggi in Italia non vi siano percorsi formativi né concrete professionalità in grado di gestire questi bisogni educativi specifici. Il rischio più concreto è che – per economizzare in un’epoca di risorse aggiuntive scarse – tutti gli alunni stranieri vengano inclusi nella categoria BES, oppure, al contrario, che si ritenga inutile trattare la diversità culturale, limitandosi ad attendere che il gap linguistico tra i nativi e gli immigrati sia colmato con il tempo. Ciò porterebbe i docenti incaricati dell’intercultura e quelli del sostegno a privarsi di competenze aggiuntive che riguardano: la sensibilità interculturale12, la riduzione dei pregiudizi e dell’etnocentrismo, l’apertura al dialogo interculturale e interreligioso e l’attenzione verso le forme “tacite” di discriminazione di chi proviene da gruppi svantaggiati a livello socio-economico. La politica europea: preparare meglio i neo-docenti a gestire la diversità culturale in classe

Una recente indagine promossa dalla Commissione europea ha tracciato un quadro comparativo sui 28 paesi membri (tra cui l’Italia) su come si forma nei nuovi insegnanti la competenza di diversity management, nel contesto delle politiche formative fortemente volute dall’Unione in seguito alle spinte xenofobe e localistiche che hanno messo in difficoltà il sistema di accoglienza per i richiedenti asilo (Emergenza Nord Africa, profughi siriani ecc.)13. Il quadro teorico della ricerca mette al centro l’insegnante come agente di cambiamento, e suppone che non esista una politica europea coerente in quanto ogni sistema nazionale (e talvolta anche ogni particolare area territoriale) “sceglie e forma” diversamente i propri docenti, a seconda della situazione contingente e dei flussi migratori in entrata o in uscita. Per ipotesi, la formazione dei docenti a livello nazionale può risultare più incline alla diversità culturale come ri con bisogni speciali: rappresentazione della disabilità dei figli da parte delle famiglie migranti e degli insegnanti, Ricerche di Pedagogia e Didattica, 5, 1, pp. 1-26; PENNANZIO V., ARMANI S., TRAVERSO A. (2015), Le famiglie migranti di bambini disabili. Progettualità e interventi educativi, Rivista Italiana di Educazione Familiare, 1, pp. 167-182. 12 Sulla sensibilità interculturale, cfr. BENNETT M., Principi di comunicazione interculturale, F. Angeli, Mlano, 2002. 13 Si tratta dell’indagine Study on How Initial Teacher Education prepares teacher students to deal with diversity in the classroom, Framework Contract No EAC/47/2014-2, Specific Contract No EAC-2015-0477 realizzata da Public Policy Management Institute di Vilnius (LT) per conto del Directorate General for Education and Culture (DG EaC), European Commission, nella quale ho partecipato nel 2016 come esperto per l’Italia, con una mappatura delle politiche nazionali e uno studio di buone prassi.


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“deficit” (stimolando interventi scolastici di tipo compensativo per aiutare gli alunni svantaggiati) oppure come “asset” (in italiano: vantaggio), in questo caso si cerca di stimolare l’insegnante a tirare fuori il meglio dalle culture rappresentate in classe. Di fatto, la ricerca ha verificato l’inesistenza di un quadro comune di politiche formative e di reclutamento degli insegnanti14, che possa preludere a una cambiamento culturale nella sensibilità degli europei; lo stesso corpo insegnante è stato visto come ambivalente nei confronti della diversità e diversificato nei livelli di preparazione necessari ad operare con i figli di immigrati, anche per l’assenza di insegnanti con retroterra migratorio. Una ricerca preliminare15 infatti aveva messo in luce la difficoltà anche solo di reperire i dati sulle appartenenze culturali dei docenti, protetti dalla privacy: se ne conclude che in Europa, mentre la diversità culturale tra i discenti tende ad aumentare, il corpo docente conserva una omogeneità preoccupante rispetto all’apertura verso l’Altro in termini culturali. Dall’accesso ai corsi preparatori, al reclutamento vero e proprio, fino alla possibilità di utilizzo del proprio bi-linguismo o multilinguismo nella docenza, è molto diffusa in Europa la difficoltà delle persone con un background migratorio (immigrati o figli di immigrati) nel diventare insegnante, con un impoverimento della classe professionale nel suo complesso. Più in generale, l’Unione europea ritiene che puntare sulla formazione inziale dei docenti resti una delle poche leve efficaci per produrre maggiore adattamento dei cittadini europei ai rapidi mutamenti di scenario che stiamo vivendo, e che si debba fare il possibile per rendere attrattiva la professione docente per reclutare i “migliori” studenti universitari, in modo da garantire uno standard educativo di qualità, che avrà sicure ricadute positive sia a livello economico sia a livello sociale16. Non ci sono linee guida, al momento, su come formare il docente a questo compito così delicato; l’indagine sullo stato della situazione nei 28 paesi europei indaga a tutto tondo su cosa c’è in atto e di cosa si sente più bisogno per venire incontro alle necessità delle scuole multiculturali. La preparazione iniziale dell’insegnante può essere monitorata in varie attività: conoscenza di più lingue straniere e capacità di insegnamento in CLIL (in lingua straniera), capacità di declinare il curricolo con contenuti multi-culturali, capacità di gestire classi multiculturali (es. nel periodo di prova), capacità di predisporre piani 14 Mi riferisco al Report provvisorio (Draft final report, ottobre 2016) presentato al seminario di validazione dei risultati di ricerca che si è tenuto il 26.10.2016 a Bruxelles a cui ho partecipato per l’Italia. 15 Cfr. DONLEVY V., MEIERKORD A., RAJANIA A., Study on the Diversity within the Teaching Profession with Particular Focus on Migrant and/or Minority Background, Final Report to DG Education and Culture of the European Commission, Bruxelles, European Union, 2016, <http://ec.europa.eu/dgs/education_culture/ repository/education/library/study/2016/teacher-diversity_en.pdf>. 16 Cfr. ET2020 WORKING GROUP ON SCHOOLS POLICY, Shaping career-long perspectives on teaching. A guide on policies to improve Initial Teacher Education, DG Education and Culture of the European Commission, Bruxelles, European Union, 2015, <http://ec.europa.eu/dgs/education_culture/repository/education/ library/reports/initial-teacher-education_en.pdf>.


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educativi personalizzati tenendo conto del background dell’allievo, ecc. Inoltre la competenza interculturale, o di diversity management, si articola in tutte le aree della professionalità: – a livello di saperi e materie da insegnare (knowledge), – a livello di attitudini e valori (understanding), – a livello di tecniche didattiche (skills)17. Il caso Italia: una storica indifferenza

Quello che emerge dalla ricognizione sull’Italia, rispetto alle competenze multilinguistiche e interculturali che un aspirante docente dovrebbe possedere, è una storica “indifferenza” verso il problema. Fino al 2015 si poteva divenire insegnanti senza avere mai superato un esame di Pedagogia interculturale, senza un certificato di conoscenza di una lingua europea più elevato di B2, e soprattutto senza possedere nessuna certificazione per l’insegnamento dell’Italiano come L2 (rilasciata da enti certificatori accreditati18). Certo, nell’ultimo decennio qualcosa si è fatto per colmare questa latitanza, creando occasioni formalizzate di preparazione in queste aree professionali, ma senza toccare l’intero corpo docente. Traccio un breve elenco: – secondo il DM 89 del 10.3.2010 l’insegnamento CLIL è diventato obbligatorio in almeno una materia dalla terza superiore nei Licei linguistici e in quinta superiore negli altri indirizzi di scuola secondaria di 2° grado. Pertanto con il DM 249 del 2010 (Regolamento generale per la formazione inziale dei docenti) il Miur ha provveduto ai corsi di perfezionamento dei docenti in CLIL (art. 14), ma solo per la scuola secondaria, e comunque con impatti quantitativi e qualitativi ancora da valutare19; – nel 2010 il Miur aveva istituito una formazione specifica per chi voleva impegnarsi nel piano nazionale “Scuole aperte”20 in Percorsi di approfondimento della lingua italiana come lingua seconda rivolti agli alunni di recente immigrazione entrati nelle scuole secondarie di primo e secondo 17 Sulle competenze interculturali in generale, cfr.: DEARDORFF K., Intercultural competence – The key competence in the 21st century?, Thesis by the Bertelsmann Stiftung, Guetersloh, 2006, <http://www. ngobg.info/bg/documents/49/726bertelsmanninterculturalcompetences.pdf>. Sulle competenze interculturali dei docenti, cfr.: SANTERINI M., REGGIO P.G. (a cura di), Le competenze interculturali nel lavoro educativo, Carocci, Roma 2014. 18 Certificazioni di glottodidattica riconosciute dal Miur: DILS-PG di II livello rilasciato dall’Università per stranieri di Perugia; DITALS di II livello rilasciato dall’Università per stranieri di Siena; CEDILS rilasciato dall’Università Ca’ Foscari di Venezia. 19 Cfr. LANGÈ G. (ed.) (2014), L’introduzione della metodologia CLIL nei Licei Linguistici. Rapporto di monitoraggio nelle classi terze dell’a.s. 2012/2013 (the introduction of CLIL method in the third year of Linguistic Lyceum in Italy: report of monitoring a.s. 2012/13), MIUR, Rome, <http://www.istruzione.it/allegati/2014/CLIL_Rapporto_050314.pdf>; LEONE A. (2014), Outlooks in Italy: CLIL as Language Education Policy, in Working Papers in Educational Linguistics, 30(1): 43-63, 2015, <www.gse.upenn.edu/wpel>. 20 Nota del Miur 27.11.2008, <http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/istruzione/prot807bis_08>.


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grado nell’a.s. 2008/2009, arrivando a circa 3000 docenti beneficiari, ma ciò è valso purtroppo solo per un anno scolastico; – nel DM 249 del 2010 si menzionano nel profilo docente le competenze interculturali in ingresso, dove si dice che l’insegnante di scuola dell’infanzia e primaria debba acquisire con la Laurea in Scienze della formazione primaria la “capacità di gestire la classe e di progettare il percorso educativo e didattico. Inoltre essi dovrà possedere conoscenze e capacità che li mettano in grado di aiutare l’integrazione scolastica di bambini con bisogni speciali” (Allegato tabella 1, art. 6), e che debba “facilitare la convivenza di culture e religioni diverse” (Ivi, comma e). Tuttavia la Pedagogia interculturale figura tra le materie d’obbligo nel curricolo universitario dei maestri solo come contenuto specifico della Pedagogia, quindi lasciando ai singoli atenei la libertà di impartirla o meno; – con le Nuove Linee guida per l’accoglienza e l‘integrazione degli alunni stranieri (CM 4233 del febbraio 2014) si cerca di compensare la mancanza, nel DM 249 del 2010, di indicazioni per la preparazione dei docenti di scuola secondaria in ambito interculturale (nel TFA): l’educazione interculturale “dovrebbe essere assunta metodologicamente dai futuri docenti (di scuola secondaria) e in particolare si ravvisa l’opportunità che la formazione dei tirocinanti abbia tra gli obiettivi l’acquisizione di competenze utili a: – (…) acquisizione della “capacità di mediazione didattica” volta all’accoglienza dei diversi punti di vista (anche nel settore scientifico) provenienti da culture e lingue diverse; – articolare i percorsi didattici in modo modulare; – inserirle percorsi didattici interculturali nel bagaglio formativo iniziale dei docenti, nelle procedure per l’assunzione del personale sia di attività educative, sia di insegnamento sia di organizzazione scolastica”. – Quale logica conseguenza dei punti sollevati dal DM 249 e dalla CM 4233, possiamo infine menzionare le due novità contenute nella riforma della scuola (L. 107 del 2015). Da un lato, con la Nota Miur 36167 del 5 novembre 2015, viene istituito un nuovo ciclo di formazione obbligatoria dei 64.000 docenti neo-assunti, reclutati dalla legge “Buona scuola”, in cui “l’inclusione sociale e le dinamiche interculturali” compare esplicitamente tra le otto aree di priorità formativa21; – dall’altro, con il DPR 19 del 14.2.2016 viene aperta un nuova classe di concorso (A023) per docenti di Italiano come Lingua seconda22, che pre21 È l’Indire che ha fornito per il 2015/16 e 2016/17 le linee guida per i corsi obbligatori per i neo assunti. Le altre sette aree prioritarie, in cui articolare l’offerta formativa sono: TIC, gestione della classe; valutazione dello studente e del sistema; BES, contrasto alla dispersione; orientamento e transizione scuolalavoro; didattica delle materie. 22 Per l’accesso a questa classe di concorso il candidato deve avere come requisiti, oltre alla laurea magistrale, titoli di specializzazione in Italiano L2, individuati con specifico decreto del Miur, oppure avere svolto almeno un annuale (o due semestrali) in lingua italiana, letteratura italiana, linguistica generale, lingua latina o letteratura latina, storia, geografia, glottologia; glottodidattica; didattica della lingua italiana.


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figura cattedre distribuite in ogni scuola secondaria di 1 e 2 grado dove vi sono numeri importanti di iscritti neo-arrivati. Queste due novità sono di estrema importanza perché disegnano uno spazio formativo specifico per l’acquisizione di competenze di diversity management. L’elenco comprende solo gli avanzamenti compiuti per imput ministeriale nel sistema scolastico statale italiano. Ma, come già detto sopra, non esiste solo la formazione erogata in via obbligatoria e come requisito sine qua non per insegnare; nei fatti, soprattutto nelle zone più interessate dalle trasformazioni multietniche e meglio organizzate nei rapporti scuola-territorio, da diversi anni molti insegnanti (e aspiranti tali) si sono auto-formati e hanno svolto funzioni specialistiche all’interno dell’istituto nei confronti della multiculturalità: il referente intercultura, il facilitatore per alunni stranieri, il mediatore linguistico-culturale con le famiglie, ecc., “attrezzandosi” in ambito professionale (learning by doing) più che accademico. Nei casi più fortunati hanno utilizzato le risorse extrascolastiche disponibili a favore delle politiche migratorie (si pensi ai fondi FEI-FAMI) per mettersi in gioco nell’accoglienza o nell’alfabetizzazione degli stranieri, svolgendo ruoli per così dire “improvvisati e sperimentali”, anche da parte di docenti non di ruolo, con il solo supporto di brevi e mirate azioni di formazione23. Ma nel complesso, anche in rapporto all’esperienza più avanzata di altri paesi europei (come Danimarca, Spagna, Svezia e Portogallo), la formazione interculturale in ingresso per i docenti che avranno da gestire classi multiculturali è decisamente “in sordina”, e comunque ritenuta secondaria rispetto ad altre aree formative (si pensi a quella tecnologico-informatica e a quella della disabilità). Non c’è da stupirsi se la categoria professionale degli insegnanti rivela, nel complesso, una diffusa impreparazione (così ammettono gli stessi campioni di insegnanti intervistati) e una visione dell’Altro piena di ansie e di contraddizioni. 3. Quale approccio? Una buona pratica per i futuri maestri di scuola primaria e dell’infanzia

Entrando nel merito dell’impostazione delle azioni formative (obbligatorie o meno) per preparare gli insegnanti in ingresso alla gestione efficace della 23 Mi riferisco, ad esempio, alla realizzazione di progetti su vasta scala, come Certifica il tuo italiano e Vivere in Italia, promossi da Ministero del Lavoro e Politiche sociali/Ministero dell’Interno, e coordinati da Regione Lombardia con la Fondazione ISMU, che hanno offerto corsi di alfabetizzazione ad immigrati adulti a partire dal 2011, per i quali è stato formato un contingente di docenti provenienti dalle file sia dei docenti di italiano in servizio, sia da quelli precari fuori graduatoria, sia da organizzazioni del terzo settore già impegnati nell’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo (che prevedono l’obbligo della alfabetizzazione). Cfr. SANTAGATI M., I docenti di italiano L2, attori delle politiche formative per gli immigrati, in ORIM, Certifica il tuo italiano. Dall’alfabetizzazione alla certicazione delle competenze linguistiche dei migranti secondo gli standard europei. Un’esperienza di rete in Lombardia, Milano, 2014, pp. 117-128. Cfr. anche la brochure del pro-


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diversità culturale, linguistica e religiosa, non si può asserire quale approccio abbia prevalso finora, se quello “disciplinare” (insegnare l’intercultura come un contenuto specifico nelle materie es. storia, geografia, scienze sociali ecc.), oppure quello “trasversale” (intercultura come sfondo integratore, come clima dei rapporti in classe e nella scuola), non esistendo nessun repertorio di ciò che si è fatto, né degli standard di competenze da formare. L’indagine europea riportata sopra ha richiesto l’approfondimento di una buona pratica realizzata nell’a.s. 2015/16 a completamento del quadro italiano, selezionata dall’équipe di ricerca internazionale sulla base di un elenco di cinque esperienze di qualità segnalate dagli esperti locali. Si tratta del Laboratorio (obbligatorio) di Educazione interculturale, di 16 ore, previsto nel piano di studi di Scienze della Formazione primaria (laurea a ciclo unico di 5 anni) dell’Università di Genova. Il Laboratorio si frequenta nel terzo anno di corso, nell’ambito di un insegnamento di “Animazione e intercultura” (10 CFU) in cui vengono impartiti di fatto due corsi in parallelo, Metodologia del gioco e dell’Animazione ed Educazione interculturale, entrambi di 4 CFU e ciascuno con un laboratorio a frequenza obbligatoria di 1 CFU. Significativo è il fatto che il corso di Educazione interculturale sia stato inserito solo nel nuovo assetto della Laurea (a seguito del decreto ministeriale 249 del 2010 che l’ha portata da 4 a 5 anni di corso), quindi di fatto implementato dal 2013/14 cioè al terzo anno del corso; esso risponde a due necessità riconosciute dal Consiglio di Facoltà: aumentare i livelli di partecipazione, di inclusione, di cittadinanza attiva tra i partecipanti alle attività formative del Corso di Laurea e preparare i futuri maestri alla crescente realtà multiculturale delle scuole liguri. I contenuti del Corso di Educazione interculturale, così come le modalità di raccordo tra corso e Laboratorio, ma soprattutto la metodologia del Laboratorio stesso, appaiono interessanti ed innovative24. Infatti rifiutano esplicitamente un approccio “folkloristico” all’intercultura (avvicinare le culture attraverso gli oggetti, gli usi e costumi degli immigrati), ma non abbracciano neppure un taglio “scientifico” (adeguare i contenuti del curricolo formativo “aggiungendo” informazioni sulle aree geografiche d’origine dei bambini immigrati o figli di immigrati). Optano per la scelta dell’intercultura come sfondo integratore dei saperi e soprattutto delle relazioni all’interno della classe. Pertanto, al futuro insegnante non vanno date indicazioni di contenuto (knowledge), ma piuttosto imput per formare un atteggiamento (mindset) personale, getto attivo “Vivere in Italia 4”: <http://www.vivereinitalia.eu/guida-alla-4a-edizione/brochure-progetto-viverein-italia-4a-edizione>. 24 Nell’a.a. di riferimento 2015/16 il Corso di Educazione interculturale è stato tenuto dal prof. Gianfranco Ricci e il Laboratorio dalla dott.ssa Samantha Armani. Ad entrambi va il mio sentito ringraziamento per aver fornito materiali e informazioni per lo studio di caso e aver collaborato attivamente. Lo studio di caso ha previsto la realizzazione di 10 interviste semi-strutturate ai diversi ruoli coinvolti nell’azione formativa: responsabili del CdL, studenti; referenti territoriali e scolastici del CdL per la valutazione degli impatti interni ed esterni.


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attraverso cui lo stesso professionista creerà strategie adatte per sensibilizzare e coinvolgere i bambini (skills). Il principio di fondo è che per svolgere l’educazione interculturale, è necessario aver colto e sperimentato in prima persona che cosa sia l’intercultura, per cui la risorsa formativa primaria sono state le differenze culturali presenti nel gruppo di studenti (differenze sociali, regionali, linguistiche e religiose). I contenuti di fondo, che il Corso ha introdotto e il Laboratorio ha sviluppato in attività pratiche sono: concetto di cultura e visione processuale della cultura; difficoltà insite nell’approccio con persone di cultura diversa; l’esperienza della migrazione; la cittadinanza come riconoscimento di diritti e doveri25. Obiettivi specifici del Laboratorio (articolato in 8 incontri di 2 h per un massimo di 40 studenti) sono: 1) acquisire adeguate conoscenze e capacità per preparare materiali didattici da utilizzare nei laboratori scolastici di educazione interculturale; 2) applicare le competenze acquisite per risolvere i problemi di integrazione che possono emergere in classe; 3) utilizzare le conoscenze per avviare in classe un ambiente aperto e accogliente in ottica interculturale; 4) acquisire il linguaggio tecnico, in modo da comunicare in modo chiaro e senza ambiguità con interlocutori specialisti e non specialisti; 5) sviluppare adeguate capacità di apprendimento in ottica interculturale che consenta agli studenti di continuare ad approfondire in modo autonomo le principali tematiche della disciplina. Le attività d’aula sono così organizzate (sono stati necessari uno spazio comune più due aule per i lavori di sottogruppo): Lezione 1: (plenaria) Introduzione al laboratorio e alle buone pratiche di educazione interculturale Lezione 2: (plenaria) Analisi materiali relativi a progetti rivolti all’educazione alla mondialità svolti nella scuola primaria Lezione 3: (plenaria) Descrizione e analisi buone pratiche relative a laboratori sulla fiaba e l’intercultura Lezione 4: (lavoro in piccoli gruppi) Attività laboratoriali sulle emozioni rivolte a sviluppare dialogo interculturale Lezione 5: (plenaria) Racconti di vita e storia della migrazione Lezione 6: (lavoro in piccoli gruppi) Analisi materiali per attività volte a sviluppare cittadinanza attiva Lezione 7: (lavoro in piccoli gruppi) Supporto e supervisione dei gruppi di studenti per attività di lavoro finale (progetto didattico di cittadinanza attiva) Lezione 8: (plenaria) Presentazione degli elaborati finali svolti dagli studenti e conclusione laboratorio

Il set di competenze dei futuri docenti che il Laboratorio ha mirato a sviluppare sembra ampio e articolato: – competenza di analisi critica delle attività didattiche progettate e realizzate da altri in contesti multiculturali; – competenza riflessiva su atteggiamenti ed emozioni nella relazione coi pari; – competenza di partecipazione in dibattito e di ascolto attivo26; 25 Cfr. Il testo adottato per l’esame di Educazione interculturale: PORTERA A., Globalizzazione e pedagogia interculturale. Interventi nella scuola, Erickson, Trento, 2006. 26 Cfr. SCLAVI M., Arte di ascoltare e mondi possibili, Bruno Mondadori, Milano, 2003.


Cultural diversity management nella scuola: come vengono preparati gli insegnanti italiani?

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– competenza di progettazione di unità didattiche sui temi della diversità culturale e del dialogo interculturale in scuola primaria e dell’infanzia; – competenza di public speaking necessaria per giustificare e sostenere in sede plenaria il prodotto elaborato in gruppo. Nell’esame del Laboratorio come buona pratica sono emersi punti di forza e di debolezza; la qualità specifica di questa proposta è di contrastare la comune tendenza delle scuole a svolgere progetti di “intercultura” limitati all’insegnamento della lingua italiana come L2, con l’idea che l’intercultura sia indirizzata agli alunni migranti, non all’intero gruppo classe. I punti di debolezza sono invece legati alla mancanza di una valutazione specifica e graduata del Laboratorio stesso (che si valuta solo con “approvato” ed è obbligatorio per poter sostenere il relativo esame) e soprattutto alla mancanza di una formalizzazione, all’interno del Corso di laurea, della “competenza interculturale” come necessaria (e dunque da misurare e valutare) all’insegnante di oggi. La speranza è che, in mancanza di una politica formativa rigorosa, che offra a tutti i docenti in entrata nel sistema scolastico italiano elementi di base per affrontare in modo non ingenuo la diversità culturale, questo tipo di percorsi brevi, ma significativi, diano loro strumenti per raggiungere un adeguato livello di consapevolezza delle insidie connesse sia all’indifferenza verso l’altro, sia alla paura dell’altro, sia infine alla tendenza a rendere ridurrre la diversità culturale alla preoccupazione per la lingua e il programma.


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Studenti con BES e la formazione degli insegnanti

Fiorenzo Ferrari*

OPPInformazioni, 121 (2016), 22-32

Il paradosso dell’educazione e gli alunni con BES Un’esperienza di formazione con insegnanti neo-assunti

Introduzione

La D.M. 27.12.2012 e la Legge 107/2015 introducono un obbligo di formazione specifico per i docenti di tutti i tipi, in relazione alla didattica rivolta ad alunni con Bes, ma insistono particolarmente sui nuovi docenti proprio per la presenza ormai diffusa di questi bisogni in ogni genere di situazione scolastica. Ad esempio il D.M. 850/2015 e la C.M. del 5.11.2016 specificano che, sebbene ogni scuola-polo provinciale debba offrire laboratori didattici tarati sui bisogni formativi segnalati dai docenti che vengono immessi in ruolo sulla base di un bilancio di competenze1, per tutti “sarà obbligatoria la frequenza di almeno un modulo dedicato ai temi dei bisogni educativi speciali e della disabilità”2. Perché questo obbligo? Anche se le fonti ministeriali non offrono una spiegazione esaustiva, la mia esperienza come formatore nel Verbano-Cusio-Ossola3 suggerisce che la forte incidenza delle problematiche degli alunni con Bes in ogni situazione e dinamica scolastica richiede che qualsiasi neo-docente si confronti con queste tematiche, indipendentemente dagli incarichi professionali che assumerà. In questo saggio sostengo che tale formazione “a tappeto” acquista più senso se attiva processi riflessivi piuttosto che fornire ricette professionali. Il laboratorio

BES

per i neo-assunti del

VCO

nell’a.s. 2015-16

Il laboratorio che ho condotto nel VCO (Verbano-Cusio-Ossola) ha coinvolto duecento docenti, divisi in otto gruppi per ordine di scuola (un gruppo del* Filosofo. Coordinatore del sostegno presso l’Istituto d’Istruzione Superiore “Cobianchi” di Verbania (VCO), insieme alla Prof.ssa Giusi Berterame. 1 Il modello della formazione obbligatoria dei neo-assunti è quello predisposto da Indire e comprende una fase di “bilancio di competenze” e raccolta dei bisogni formativi specifici dei docenti neo-assunti di ogni territorio, in seguito alla quale il Polo formativo eroga alcuni moduli, selezionando solo quelli di interesse dei formandi entro una lista di priorità assegnate dal Miur. 2 Circolare MIUR Prot. N. 36167 del 05.11.2016 3 Il corso si è tenuto presso l’IIS Cobianchi di Verbania ed è stato coordinato dalla Prof.ssa Silvia Offria, con il contributo tecnico di Pier Luigi Tedeschi. Li ringrazio sentitamente entrambi.


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l’infanzia; due della primaria; due della media; tre delle superiori). Circa il 15% dei docenti era di sostegno, i restanti erano di classe o di materia. L’obbligo per alcuni corsisti di recuperare l’assenza ha talvolta scompaginato i gruppi, garantendo una minima verticalità, ma in generale si è trattato di gruppi omogenei. Seppure una ricognizione informale delle necessità formative facesse propendere per una lezione frontale, che rispondesse alla loro domanda di soluzioni di pronto uso rispetto agli alunni con Bes – In classe ho un … (autistico, iperattivo, discalculico, ecc): che cosa devo fare? – si è scelto di riportare i docenti sulla propria area di responsabilità – che cosa sto facendo, che cosa posso fare? – attraverso un laboratorio centrato sulla riflessività. Questo nella convinzione che le risposte ai bisogni educativi speciali non possano essere preconfezionate, ma piuttosto debbano essere adattive rispetto agli studenti e sostenibili entro i contesti scolastici in cui gli studenti apprendono. Il modello proposto non è stato improvvisato ma è convalidato da una serie di esperienze educative e formative che da anni si sviluppano nell’alveo delle cosiddette “pratiche filosofiche”4 e si articola in quattro momenti: 1) Attività ludico-espressiva Dopo un breve giro di presentazioni, i docenti si dividono in tre gruppi casuali e ciascun gruppo dopo aver ricevuto una diversa consegna (strutturata, semistrutturata, aperta) svolge un’attività ludico-espressiva dotata di un suo senso indipendente dall’esperienza professionale, con molteplici materiali a disposizione. Questa attività serve quale punto di partenza comune per il successivo dialogo; 2) Ascolto di un testo filosofico In plenaria i docenti danno restituzione del lavoro di gruppo in termini di processo ed eventuale prodotto e ascoltano uno stralcio dell’Emilio di Rousseau; 3) Dialogo filosofico In cerchio i docenti, a partire da domande aperte, dibattono sull’attività ludico-espressiva svolta in gruppo e sulla propria esperienza professionale facilitati da una rigorosa moderazione del formatore5; 4) Autoverifica Ciascuno esplicita che cosa porta a casa e che cosa scarta del laboratorio. Il formatore fornisce una bibliografia e sitografia. La designazione di formatori “prioritariamente provenienti dal mondo della scuola” (comma 5, art. 8 del D.M. 850/2015) offre la possibilità di una presenza professionale che incoraggia lo sviluppo di pratiche riflessive, un alter-ego 4

Si veda la sezione pubblicazioni del sito: <www.filosofiaconibambini.it>. Su come promuovere un dialogo filosofico attraverso l’utilizzo dell’aristotelico principio di non contraddizione: BRENIFIER O., Filosofare come Socrate, IPOC, Milano 2015. 5


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Fiorenzo Ferrari

significativo antitetico al modello frontale prevalente nell’aggiornamento dei docenti6. La struttura del laboratorio, il metodo maieutico adottato, l’attivazione delle intelligenze multiple di ciascuno, il ricorso al gruppo dei pari e al tutoring delineano un’idea di formazione molto personale, seppure assolutamente coerente con l’idea di apprendimento e insegnamento delle Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (2009). In questo senso l’esperienza laboratoriale agisce – citando Wittgenstein7 – come una “somiglianza di famiglia” rispetto al quotidiano agire didattico, perché stimola a cercare nel proprio lavoro quelle affinità difficilmente categorizzabili che accomunano, in questo caso, non individui ma pratiche più o meno buone. Ai docenti neo-assunti è stato proposto uno stralcio dall’Emilio di Rousseau sul “paradosso dell’educazione”8 che mostra come si ottiene con tutta sicurezza ciò che non si ha fretta di ottenere, non si tratta di guadagnare tempo ma di perderne, bisogna lasciar andare tutto pur di evitare che il discente si annoi. Questo materiale stimolo ha fatto da reagente rispetto all’organizzazione del lavoro in classe9 e ad alcune consuetudini scolastiche. Esso ha favorito l’emersione delle contraddizioni rispetto a come la programmazione annuale può giungere a dettare i tempi di insegnamento e apprendimento in contrasto coi bisogni del discente, ha messo in dubbio l’efficienza di alcuni strumenti e strategie didattiche tra cui la valutazione standardizzata che, come noto, spesso finisce per escludere gli alunni con Bes. Le riflessioni dei docenti, che presento nei paragrafi successivi10, evidenziano come il tempo e i bisogni educativi speciali agiscano quali vincoli e risorse rispetto alla programmazione, e non viceversa. L’esercizio della riflessività, invece, ha permesso di vedere i problemi e allo stesso tempo – come insegna Dewey11 – intravederne le soluzioni. Le riflessioni dei docenti I paradossi Bes / non Bes

Propongo ora un repertorio di opinioni e osservazioni derivate dalla pratica dei “novizi” e raccolte attraverso una esercitazione a distanza per iscritto. 6 Si veda, per la formazione docenti: COLOMBO M.,. VARANI A (a cura di), Costruttivismo e riflessività. La formazione alla pratica di insegnamento, Edizioni Junior, Bergamo 2008. Si veda, per la ricerca sociale: A. MELUCCI (a cura di), Verso una sociologia riflessiva, Il Mulino, Bologna 1996. 7 Cfr. WITTGENSTEIN L., Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1953. 8 Una proposta “rousseauiana” per la scuola di oggi è: ZAVALLONI G., La pedagogia della lumaca, Emi, Bologna 2012. 9 Sulla formazione degli adulti a partire dal medesimo testo filosofico, centrata sull’organizzazione del lavoro, cfr. anche COLOMBO C., FERRARI F., C’è un tempo per nascere. Filosofia e formazione del personale sanitario, in «D&D Il Giornale delle Ostetriche», n. 89, giugno 2015, pp. 68-70. 10 Tutte le citazioni, per garantire una pluralità di sguardi, sono di docenti diversi. Tra parentesi è specificato l’ordine di scuola (corsivi nostri). 11 Cfr. DEWEY J., Come pensiamo, La Nuova Italia, Firenze 1961.


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I docenti si scontrano quotidianamente con i paradossi emergenti dall’incontro con la diversità. Innanzitutto, gli studenti con Bes generano talvolta degli automatismi didattici, ossia si agisce in via precauzionale e preventiva per evitare di sollevare imprevisti, e quindi la modalità cui gli insegnanti si rifanno spontaneamente è quella della “normalizzazione”. Sugli studenti con Bes si agisce in maniera preventiva, il gruppo classe invece ha un carattere più imprevedibile: i bisogni il più delle volte sono estemporanei e non programmabili. (sc. media) Nel gruppo dei tre anni non è presente nessun caso con Bes. Qualora ci fosse stato sarebbe servita un’ulteriore variazione dei tempi di esecuzione e l’utilizzo di strategie d’intervento adeguate a supportare la carenza di abilità specifiche. (sc. infanzia) Gli alunni con Bes, se ce ne fossero, verrebbero dispensati da eventuali attività da svolgersi a casa e dal prendere appunti. Non farei mai domande rivolte ad un unico alunno ma sempre a tutta la classe. (sc. superiore)

L’atteggiamento più diffuso è di circospezione e di osservazione; talvolta i neo-assunti si limitano alla lettura della documentazione sui casi presenti in classe, ma poi l’esperienza diretta provoca stupore, mette in discussione gli assunti preventivi. Ho proposto questa attività ad una sezione omogenea di ventisei alunni di cinque anni: la metà di loro appartiene ad etnie e culture differenti; mi sono quindi accorta nel momento del circle time che alcuni di loro non avevano mai preparato una spremuta. (sc. infanzia) Tutti i bambini presentavano molte difficoltà, più di quelle che io avevo ipotizzato. (sc. infanzia)

Mentre il docente spesso non si stupisce delle difficoltà degli studenti con Bes, il gruppo classe, nella sua eterogeneità di livelli e capacità, provoca dissonanze cognitive al neo-assunto, che giunge a mettere in discussione la distinzione Bes / non-Bes. (A margine di un lavoro di matematica) una non trascurabile percentuale dei discenti chiede chiarimenti. D’altra parte lo zero è sociologicamente critico giacché per buona parte della sua esistenza l’uomo non l’ha considerato nemmeno un numero. (sc. superiore) Agli studenti con Bes venivano assegnati i paragrafi più corti ed essi potevano contare inoltre sull’aiuto dei compagni di gruppo più bravi, qualora ne avessero avuto bisogno. Nello stesso tempo agli alunni senza Bes sono stati assegnati i paragrafi più lunghi e difficili da comprendere. Ma i testi in tedesco si sono poi rivelati molto difficili per tutti. (sc. media) Con l’insegnante di sostegno ci eravamo concentrati soprattutto sugli aspetti legati ai Bes e questo non ci ha fatto porre attenzione alla possibilità che un numero di alunni che, di solito, dimostrano una sviluppata autonomia nell’organizzazione del proprio lavoro potesse subire dei rallentamenti a causa del ritrovarsi in un ambiente diverso dall’aula di scuola. (sc. media)


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La difficile identificazione dello studente con Bes emerge anche dall’osservazione di chi opera nell’intera “classe con Bes”, come avviene nei corsi di licenza media per adulti: Si tratta di intere classi con svantaggio linguistico e talvolta culturale o economico, dove oltre alla competenza si deve possedere sensibilità ed empatia per rispettare personalità e vissuti diversi. C’è bisogno di una certa leggerezza. (sc. media - corsi per adulti)

In un’altra situazione limite – la scuola in un ospedale per disturbi dell’alimentazione – il docente fa emergere il valore della lentezza, che non sembra in contrasto con l’efficacia dell’intervento educativo: A volte si dà troppa importanza al numero di attività motorie da svolgere, ho invece maturato la consapevolezza che la lentezza dà solidità e consistenza alle attività proposte. (sc. media)

Insomma, i neo-docenti manifestano con una certa ingenuità professionale i loro disagi di fronte al dilemma: didattica uguale o diversa? Alcuni, ad esempio, separano programmazione e realizzazione: La programmazione potrebbe rimanere sempre invariata e cambiare le attività. (sc. primaria)

Altri si lasciano condizionare dai dover-essere professionali; così la programmazione diventa etero-diretta perché interviene il controllo sociale da parte dei colleghi o del preside: non bisogna fare meno dei bambini della classe parallela (primaria); si deve terminare il libro (primaria); occorre favorire l’inserimento nella scuola media con tempi di esecuzione sempre minori (primaria); si devono evitare le critiche dei genitori (media); si devono rispettare le indicazioni delle riunioni di dipartimento (media e superiore). In questi casi viene meno l’utilità del lavoro in équipe: Sarebbe auspicabile non essere imbrigliati nelle indicazioni dettate alle riunioni di dipartimento di inizio anno che impongono all’insegnante di svolgere un certo numero di capitoli, raccogliere un certo numero di valutazioni, ecc. (sc. superiore)

Tranne in rare occasioni, come riportato da un altro docente della scuola secondaria: È utilissimo partecipare attivamente alla riunione di dipartimento dove ci si confronta e si stabilisce il tempo di scansione dei singoli moduli. La bravura del singolo insegnante è nel costruire la scansione delle singole unità didattiche. (sc. superiore)

I paradossi aula / non aula

Il secondo tipo di paradossi a cui si rifanno i docenti di fronte ai Bes riguarda le scelte pedagogiche strategiche, come quella di puntare alla presenza dello studente con Bes in classe o in gruppi / attività separati. Questo riguarda


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soprattutto chi lavora in scuole secondarie. Quando il rapporto di sostegno è uno a uno appare particolarmente difficile coinvolgere il consiglio di classe. Così, se per un insegnante di materia, semplicemente: Gli alunni disabili sono sempre seguiti dall’insegnante di sostegno, sempre in orario curricolare, al di fuori della classe, nell’aula denominata gialla. (sc. superiore)

Un insegnante di sostegno lamenta però che: Mi sento spesso dire dai colleghi che non è opportuno che il ragazzo esca durante la sua ora, ma allo stesso tempo mi viene difficile fare ciò in classe, mentre il docente spiega e la classe ascolta. (sc. superiore)

Un altro adotta un approccio opposto: Nonostante la palese ed evidente diversità delle attività svolte, dovute alla programmazione differenziata, non sono previste uscite fuori dall’aula. (sc. superiore)

Esistono anche molte soluzioni intermedie. In ogni caso il rapporto uno a uno offre grandi potenzialità. Per due insegnanti di strumento musicale: Nella lezione individuale ogni studente ha un suo percorso ben specifico che tiene in considerazione bisogni educativi speciali e non attraverso un rapporto agevolato: l’insegnante di strumento diventa quasi un insegnante di sostegno per ogni allievo. (sc. media) Sapersi fermare, dedicare un po’ di tempo ad ascoltarsi, a raccontarsi le proprie esperienze, ad esprimere uno stato d’animo sono momenti fondamentali nel processo di formazione di un giovane. Il tempo è veramente una dimensione soggettiva: possono bastare cinque minuti per fare di una lezione di un’ora qualcosa di importante. (sc. superiore)

La didattica inclusiva

Docenti di varie discipline cercano di conciliare i Bes con le esigenze del gruppo classe, applicando uno dei mantra didattici più sentiti in questi anni: didattica inclusiva per tutti12. La convinzione è che: Gli alunni con Bes possono influire quale stimolo creativo, creando vincoli generativi. (sc. superiore) Alcuni strumenti sono indispensabili per alcuni e funzionali per tutti. (sc. primaria)

Le esperienze sono molteplici. Tenendo anche conto dei Bes di alcuni bambini non certificati, ho cercato di dare un percorso logico e sempre uguale alle diverse giornate perché ciò favorisce tutti. (sc. primaria) 12

Cfr. AA.VV., Bes a scuola. I 7 punti chiave per una didattica inclusiva, Erickson, Trento 2015.


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L’uso della didattica digitale penso che sia indispensabile per i ragazzi con Dsa ma anche per i ragazzi che non presentano particolari difficoltà di apprendimento. (sc. superiore) Ripassare un argomento per obiettivi minimi, oltre a favorire con discrezione l’apprendimento di un alunno in difficoltà, crea un momento di chiarimento e potenziamento per coloro che hanno già acquisito abilità specifiche. (sc. superiore)

I corsisti hanno narrato molte esperienze e sperimentazioni di didattica inclusiva: i metodi Reggio Children (infanzia), Montessori (primaria), Senza Zaino (primaria); gli Episodi di Apprendimento Situato-EAS (primaria); il cooperative learning (primaria e superiore); la peer education (media); il gioco per l’apprendimento (infanzia e primaria); l’attività laboratoriale (primaria, media e superiore); il team teaching (superiore). Ecco perché risulta fondamentale un approccio formativo, nei loro confronti, che non aggiunga nuovi contenuti o metodi per operare con alunni con Bes, ma faccia tesoro di questo repertorio già conosciuto. Certe volte appare “speciale” avere studenti con livelli di apprendimento eccellenti, che guidano a loro modo la discussione e la lezione così da aumentare la comprensibilità per gli altri (incluso alunni con Bes). La presenza in classe anche di alunni con bisogni educativi non speciali ha sicuramente contribuito a rendere la spiegazione più semplice, infatti sono stati di supporto alla spiegazione, intervenendo e collaborando durante tutta la lezione. (sc. primaria) Gli alunni con il rendimento migliore e sprovvisti di certificazione hanno potuto svolgere un’attività da capigruppo. Pertanto hanno potuto essere delle guide nei confronti di chi ha più difficoltà. (sc. superiore)

Ma sembra funzionare anche l’inverso, cioè quando si ribaltano i ruoli e l’alunno con Bes guida a suo modo la lezione con un contributo che serve a tutti. I capitani li scelgo tra gli alunni meno capaci così non li sottopongo alla spiacevole situazione di essere scelti sempre per ultimi. Gli alunni con Bes durante le ore di attività motoria si sentono parte di una squadra e spesso si rivelano leader positivi. (sc. media) La presenza di un bimbo con Bes valorizza fortemente alcuni bimbi particolarmente vivaci che, aiutandolo e coinvolgendolo, riescono ad autocontrollarsi rendendo la lezione molto fluida. (sc. infanzia) Nelle attività di laboratorio la ragazza con il sostegno e quattro con Dsa sono state una risorsa per le altre compagne perché erano già abituate a fare schemi e mappe concettuali, mentre altre ragazze studiavano a memoria su riassunti. (sc. superiore)

In molti però riconoscono che una didattica inclusiva per tutti vorrebbe un tempo di lavoro inclusivo per tutti, cioè diverso dalla scansione canonica: è il dilemma che accompagna l’inclusione scolastica dalla sua introduzione con la Legge 517/1977.


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Il problema è che gli alunni praticano volentieri scienze motorie ma purtroppo le ore sono drammaticamente poche ed insufficienti alle necessità, per cui mi trovo sempre a lottare con l’orologio che maledettamente si muove mentre io e gli alunni vorremmo che rallentasse un pochino durante le nostre lezioni, ma si sa, il tempo è tiranno, e le altre classi premono per il loro meritato momento di sfogo. (sc. media)

Allo stesso modo, in ogni ordine di scuola, i docenti cercano di dilatare il tempo dell’apprendimento assecondando la motivazione degli studenti. Oppure di cambiare il ritmo perché, ci ricorda una insegnante della primaria: Non bisogna sempre rallentare, perdere il tempo, come voleva Rousseau, per guadagnarlo, ma anche correre quando l’attività diventa noiosa ed è meglio voltare pagina e proporre attività diverse.

Rousseau, come si è letto nel brano-stimolo era nemico della noia; per questo nelle riflessioni i docenti si misurano con il rischio di un tempo che includa tutti, più dilatato e lento, percepito dagli studenti più intuitivi come inutile. Arrivata anche la risposta dei Bes si può proseguire con il lavoro programmato. (primaria) Non sono convinta che escogitare tecniche e strategie da proporre a tutta la classe, ma che andassero soprattutto incontro all’alunna con Dsa, sia stato completamente funzionale. Può avere degli effetti sull’autonomia di una classe pigra, ma anche sulla motivazione di quelle pochissime alunne che, riuscendo senza troppe difficoltà, si trovano a confrontarsi con un argomento per più tempo di quanto sarebbe loro necessario. (sc. superiore) Ho cercato di fare in modo che durante la correzione della verifica anche gli altri alunni si sentissero coinvolti nell’attività, ma devo constatare che, a lungo andare, per i ragazzi che non hanno difficoltà, questi tempi risultano essere noiosi. (sc. media) L’esigenza di garantire l’apprendimento minimo tutti gli alunni porta spesso a sacrificare una programmazione più coinvolgente per alunni che potrebbero realizzare percorsi di apprendimento più al passo con le richieste di competenze della società. (sc. superiore)

Alcuni escogitano la proposta che i tempi aggiuntivi diventino per i più svelti i tempi di approfondimento, in un accordo difficile, continuamente da rinegoziare, e non esente da rischi di “etichettamento” dei discenti. Visto che i tempi di espletamento della consegna variano rispetto ai bisogni di ciascun bambino si è voluto tenere conto di un tempo che consentisse la restituzione nei tempi da parte di tutti e favorisse l’autostima. Quindi si è pensato di impegnare il tempo di coloro che avrebbero finito prima con la predisposizione di una mappa concettuale dal quale l’insegnante partirà per organizzare la lezione che sarà rivolta all’intero gruppo classe. (sc. primaria) Cerco sempre di programmare delle attività che possano essere inclusive per gli alunni H, Dsa, Bes, Stranieri e nello stesso tempo cerco di dare la possibilità di approfondire e spaziare agli alunni che non hanno difficoltà. (sc. media)


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L’alternativa ad un tempo inclusivo è per molti docenti la riduzione dei contenuti o delle attività per gli alunni in difficoltà, come se avessero non bisogni speciali ma minori bisogni. In verifica: Per gli alunni con Bes riduco il numero di quesiti. (sc. media) Sono stati proposti solamente esercizi di completamento e ascolto per un ragazzo con programmazione differenziata. (sc. superiore)

Altri invece portano avanti una idea di insegnamento, apprendimento e valutazione non standardizzata. Questo porta ad interessarsi, per ogni ordine di scuola, affinché: Il raggiungimento di certi obiettivi,soprattutto in ambito matematico, deve essere di tutti, perché rappresentano un tassello sopra il quale si dovrà costruire la conoscenza successiva. (sc. primaria) L’obiettivo curricolare non viene da me semplificato, diversificato, ma reso accessibile attraverso l’apprendimento significativo, ossia prestando minore attenzione alle nozioni della disciplina e una maggiore attenzione ai processi cognitivi della disciplina. (sc. media) Facendo attenzione più al processo di miglioramento che al risultato, e guardando all’importanza dell’interrelazione come fattore inclusivo e di crescita, non è rilevabile in maniera significativa la differenza tra alunni con Bes e non Bes. (sc. superiore)

Vantaggi e rischi nella riflessività docente

Un recente numero dell’Economist si chiedeva How to make a good teacher e dava, tra le risposte, la promozione della riflessività. Sia tra gli alunni, incentivando la metacognizione: Earlier studies (…) found that American classrooms rang to the sound of “what” questions. In Japan teachers asked more “why” and “how” questions that check students understand what they are learning.

Sia tra i docenti, incentivando il lavoro di équipe: Today 40% of teachers in the OECD have never taught alongside another teacher, observed another or given feedback. Simon Burgess of the University of Bristol says teaching is still “a closed-door profession”, adding that teaching unions have made it hard for observers to take notes in classes. Pupils suffer as a result, says Pasi Sahlberg (…). He attributes much of his country’s success to Finnish teachers’ culture of collaboration13.

Questo è un obiettivo parzialmente raggiunto dalla proposta formativa descritta, che deve alla tradizione italiana della ricerca azione l’insistenza sulla circolarità tra valori, obiettivi e metodi nell’azione formativa14. La promozione della riflessività dovrebbe implicare l’attivazione della 13 14

Teaching the teachers, in: «The Economist», 11-17 luglio 2016. Cfr. FRABBONI F., SCURATI C., Dialogo su una scuola possibile, Giunti, Firenze 2011.


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creatività dei professionisti della conoscenza. Creatività è “un incontro col limite, con quella tensione che condensa un potenziale senza direzione ma che, quando trova sbocco, diventa energia che fluisce”15. Che l’energia non fluisca e ci si fermi ad un potenziale senza direzione è stato, a mio avviso, il principale rischio di una proposta formativa centrata sulla riflessività. Agendo come professionisti riflessivi, i docenti neo-assunti hanno più volte incontrato il limite delle loro pratiche didattiche nell’integrazione degli alunni con Bes, come testimonia la paradossalità delle loro riflessioni. L’incontro con il limite ha comportato il rischio di arrestarsi, limitandosi, appunto, alla lamentela e alla rassegnazione. Ma il limite è stato affrontato. Se una definizione di paradosso, infatti, può essere quella di “una conclusione apparentemente inaccettabile, che deriva da premesse apparentemente accettabili, per mezzo di un ragionamento apparentemente accettabile”16, allora la sfida, accolta e vinta da buona parte dei neo-docenti, è stata mettere a fuoco che cosa è davvero accettabile ed inaccettabile di ciò che si fa a scuola oggi. Detto in altri termini: esplicitare le contraddizioni, rilevarne la paradossalità, agire generativamente per portare avanti il cambiamento. Conclusioni: i docenti neo-immessi e i paradossi sui bes

Il professionista riflessivo dovrebbe liberarsi, da una parte, dei vincoli sistemici dell’istituzione scolastica e, dall’altra, dei vincoli di una conoscenza pratica non validata scientificamente “ponendosi domande più ampie anche e soprattutto di ordine etico e morale per analizzare criticamente i fini educativi, comprendere i temi dell’equità e dell’emancipazione e restituire senso alla professione”17. Ritorniamo così alla già citata circolarità della ricerca-azione. Porsi domande però non elimina i paradossi, anzi li amplifica. Chi scrive ritiene che il concetto di Bes e la professione docente siano essi stessi paradossi, sottocategorie del rousseauiano paradosso dell’educazione. Ma se “un paradosso è una tensione tra momenti del pensiero, che non possiamo non pensare in qualche modo insieme e che si escluderebbero l’un l’altro solo se pensati come tutti-espliciti nella forma della definizione”18, che cosa significa affrontare un paradosso? I docenti neo-immessi hanno sperimentato che rendere “tutti-espliciti” i bisogni educativi speciali e i bisogni educativi non speciali comporta delle esclusioni. Ad esempio, il netto confine pre-stabilito tra alunni con Bes e alunni senza Bes comporta, nell’esperienza didattica, curiose migrazioni da una 15 MELUCCI A., Creatività: miti, discorsi, processi, Feltrinelli, Milano 1994, p. 249; citato in E. BESOZZI, Società riflessiva, soggetto riflessivo e identità professionale come narratività, in: M. Colombo (a cura di), Riflessività e creatività nelle professioni educative, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 42 (corsivi nostri). 16 CLARK M., I paradossi dalla A alla Z, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2011, p. 191. 17 ROMANO T., Le riflessioni dei docenti, Liguori, Napoli 2012, p. 12. 18 GARRONI E., Senso e paradosso, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 132-133.


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parte all’altra e viceversa. Oppure la distinzione spaziale tra dentro e fuori l’aula non garantisce che lo studente con grave disabilità stia con i pari nel senso dell’apprendimento e non soltanto della socializzazione. Ancora, la scelta tra un tempo standard e un tempo dilatato sembra non accontentare né i primi né gli ultimi, in un continuo e circolare ribaltamento di posizioni. Si tratta allora di convivere con il paradosso intimamente legato alla professionalità docente ed esplicitato dalla riflessività. Rousseau scriveva dei fanciulli19: Il nutrimento e il sonno troppo esattamente misurati, divengono loro necessari allo scadere degli stessi intervalli; e ben presto il desiderio non proviene più dal bisogno, ma dall’abitudine, o piuttosto l’abitudine aggiunge un nuovo bisogno a quello della natura: ecco ciò che occorre prevenire. La sola abitudine che si deve lasciar prendere al fanciullo è quella di non contrarne nessuna.

In quest’ottica, anche l’educatore dovrebbe evitare di contrarre abitudini e cercare di mantenere desideri. Da certe abitudini, come emerso dalle riflessioni dei neo-docenti, derivano difatti indebite misurazioni e categorizzazioni oppure sclerotizzazioni didattiche e valutative. L’abitudine di non contrarre abitudini significa restare aperti allo stupore di fronte al discente e desiderare, insieme a tutti gli attori del processo educativo, una strada adeguata al suo progetto di vita. Una difficile dialettica tra l’esercizio del potere connesso alla professione docente e la kantiana “uscita dallo stato di minorità”20 che è una delle finalità dell’agire educativo.

19

ROUSSEAU J.-J., Emilio, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 75 (corsivi nostri). Cfr. KANT I., Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, in: Scritti sul Criticismo, Laterza, RomaBari 1991. 20


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Gli adolescenti BES-DSA È possibile una reale inclusione se non comprendiamo chi abbiamo di fronte?

La scuola delle etichette

Un alunno con problemi nelle abilità della lettura e della scrittura ha un percorso scolastico in salita. Tali difficoltà, infatti, non rimangono circoscritte all’esperienza scolastica dell’apprendimento di un’abilità, ma superano questo confine e s’insinuano profondamente negli aspetti più intimi della personalità. « Luca! Ma come leggi, sei lento e fai tanti errori! Per imparare a leggere ci vuole esercizio! Leggi cinque pagine e ripeti questo esercizio tante volte! Sei davvero svogliato, ascolta come leggono bene gli altri, si tratta solo di esercizio, volontà solo volontà, ormai sei in terza elementare! »

L’insegnante forse non si è accorta che Luca può rileggere quel brano tante volte, ma ripeterà sempre gli stessi errori. Luca si sente incapace. Ma perché non sono come gli altri, sono stupido? Non riesco nemmeno a scrivere bene il mio nome e cognome e non riesco ad allacciarmi le scarpe, tutti mi prendono in giro…

La notte ha degli incubi, si sente incapace e lento, la sua autostima si sgretola ogni giorno. L’insegnante in maniera frettolosa ha dato un giudizio ed ha applicato con grande superficialità un’etichetta, ha interpretato male la situazione sottovalutando la tipologia del disturbo. Luca, non diagnosticato come alunno con DSA, da solo mette in atto, in modo inconsapevole, delle strategie compensative, ma le sue performance scolastiche sono sempre di livello basso e prosegue il suo percorso con grandi difficoltà. Arriva all’adolescenza e le difficoltà specifiche si intrecciano con i * Docente di italiano al Liceo artistico “Boccioni-Palizzi” di Napoli, socia OPPI e FADI di Napoli


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compiti di sviluppo1 tipici di questo periodo. I cambiamenti che riguardano il corpo, la mente, lo sviluppo sociale e delle relazioni lo investono e le distonie, tipiche della pubertà che sono vissute da tutti con ansia, insicurezza, conflitto e favoriscono il processo di costruzione identitaria, sono vissute con maggiori problematicità. Il disturbo specifico dell’apprendimento, non diagnosticato, comporta per Luca una difficoltà maggiore nel processo di acquisizione dell’identità e nella relazione con i coetanei; oltre ai compiti di sviluppo di questa fase, deve accettare un sé estremamente problematico, di essere sottoposto al giudizio dei coetanei che lo additano come “lento”, di dimensionare le proprie aspettative di successo scolastico e, ancora più difficile, di deludere i genitori. Tutto ciò provoca in lui una profonda ferita narcisistica2. Dolorosa ferita che spesso determina delle psicopatologie nei ragazzi con difficoltà di lettura e scrittura, com’è dimostrato in numerosi studi3 che indicano anche quali siano i fattori di rischio4: In particolare, gli studi di C. Cornoldi5 hanno dimostrato come all’interno di una popolazione con DSA vi sia una percentuale, che varia tra il 24 e il 54% di soggetti con disturbi emotivi di “comorbilità” (nello specifico ADHD, depressione, ansia), un’incidenza che supera, quindi di quattro volte quella dei pari senza DSA. Questa alta comorbilità fa cadere in errore i non esperti in materia e non fa comprendere la natura neuropsicologica del DSA. Mettendo sullo stesso piano la capacità di apprendimento e l’intelligenza e considerandoli equivalenti, si considera che le difficoltà di letto-scrittura e di calcolo siano il prodotto di deficit cognitivi, di difficoltà emotive, di scarso impegno o di opposizione all’insegnante: tutti fattori che più probabilmente sono, invece, conseguenze del DSA. Questa confusione non permette una segnalazione tempestiva e orienta l’intervento verso l’aspetto psicopatologico e non quello specificatamente neuropsicologico.

1 HAVIGHURST R.J., Human Development and Education. Longman, New York, 1953. «Un compito che si presenta in un determinato periodo della vita di un individuo la cui buona risoluzione conduce al successo nell’affrontare i problemi successivi, mentre il fallimento conduce alla disapprovazione della società e difficoltà di fronte ai compiti che si presenteranno in seguito». 2 KOHUT H., Potere, coraggio e narcisismo, Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini, Roma 1986. L’obiettivo fondamentale dello sviluppo consiste nel raggiungimento di un Sé coeso, e poi nel mantenimento di quello che viene chiamato da Kohut un “equilibrio narcisistico omeostatico della personalità”. 3 LEVI G., PENGE R., Il rischio psicopatologico in età evolutiva: problemi emergenti, in Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, 63, 1996, pp. 55-67. 4 BOCCI F., CIARDI S, FUMAROLA F.R., VIGILANTE M, Fattori di rischio psicopatologico in preadolescenza. Considerazioni su una indagine esplorativa nella scuola media, in Nuova Rivista di Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, vol. 79 n. 3 sett/dic 2012, pp. 637-652, indicano come fattori di rischio: «la segnalazione tardiva, la discontinuità nella presa in carico terapeutica, la discontinuità nella storia scolastica e nelle relazioni educative, la modalità con cui si elaborano i conflitti e si organizza la personalità, il ruolo dei DSA nel processo di identificazione, il peso e il ruolo del DSA nelle interazioni familiari e sociali». 5 CORNOLDI C., I disturbi dell’apprendimento, Il Mulino, Bologna,1991.


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La scuola che accoglie: la diagnosi del disagio «Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio di infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto»6.

Salinger nel “Giovane Holden” dà un’immagine interiore dell’adolescente. Holden è arrabbiato, ma perché? Con certezza non lo si sa, ognuno ha potuto leggervi la propria rabbia e scegliere il protagonista ad exemplum vitae. L’adolescenza è definita in psicologia quella fase della vita in cui si attua la transizione dallo stato di bambino a quello di adulto. L’individuo fronteggia molteplici trasformazioni fisico-corporee e intimi cambiamenti psicologici, che coinvolgono sia le capacità cognitive, sia la sfera degli affetti sia le competenze sociali della persona. L’adolescenza è dunque un processo di costruzione interiore dell’identità che si realizza affrontando (coping7) compiti di sviluppo specifici che trovano nel contesto e nella cultura di appartenenza dell’adolescente la loro concreta esplicitazione, basti riflettere sulla valenza sempre maggiore che occupa per gli adolescenti di oggi il compito di integrarsi nei gruppi di coetanei, oppure quello per le adolescenti femmine di competere con i maschi e tra di loro per conquistare livelli crescenti di visibilità sociale8. Lo stato d’animo agitato, contrassegnato da fulminei sbalzi di umore, la tempesta ormonale che stravolge lo schema corporeo preesistente e il desiderio di trovare un’identità nel mondo dei pari, nel contesto familiare e nel mondo, fanno sì che l’inizio del percorso scolastico delle scuole medie sia vissuto con inquietudine e ciò fa affiorare, rendendole manifeste, delle peculiarità personali, latenti in precedenza, con caratteristiche che talvolta vengono percepite come sintomi di disagio. Tra queste possono essere comprese diverse tipologie: difficoltà socio-relazionali, scolastiche, deficit adattativi, ecc. L’ambiente familiare e quello scolastico sono i naturali spazi vitali in cui l’adolescente manifesta queste problematiche. Il “disagio scolastico”, il non stare bene a scuola, comprende una varietà di situazioni di sofferenza e di difficoltà che la persona vive nell’ambito della 6

SALINGER J.D.,Il giovane Holden, Einaudi, Torino, 1951. LAZARUS R.S., FOLKMAN S., Stress, appraisal and coping, Springer, New York 1984. FRYDENBERG E., Far fronte alle difficoltà: strategie di coping negli adolescenti. Giunti, Firenze, 2000. Una definizione classica di coping in letteratura è quella fornita da Lazarus e Folkmann. Secondo questi autori il coping consiste in un insieme di comportamenti “finalizzati al fronteggiamento delle situazioni di stress determinate da un eccesso di richieste” provenienti dall’ambiente o dal soggetto stesso, che superano le risorse disponibili o percepite come disponibili. Erica Frydenberg afferma che tali strategie «siano funzionali all’adattamento, alla padronanza, alla difesa o alla soluzione realistica di un problema» e mette in luce come tali risposte possono essere caratterizzate da un livello variabile di intenzionalità e consapevolezza. 8 PIETROPOLLI CHARMET G., I nuovi adolescenti. Padri e madri di fronte a una sfida. Cortina, Milano 2000. 7


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scuola e può essere sia il motivo (causa) sia l’indicatore (segnale) di un problema o di un disturbo importante. Rilevare lo stato di disagio e analizzarne delle cause non è semplice perché “esso si manifesta come un problema riconducibile ad una pluralità di cause”9, quindi “il disagio scolastico è uno stato emotivo non correlato significativamente a disturbi di tipo psicopatologico, linguistico o cognitivo, ma che si manifesta attraverso una serie di comportamenti di rifiuto delle attività scolastiche, tali da impedire l’utilizzo delle proprie capacità cognitive, affettive e relazionali”10. La rete interscolastica del Municipio 18 di Roma ha prodotto un interessante documento dal titolo “Insieme si può fare”11, indicando non solo le lineeguida per l’integrazione dei servizi e degli interventi di prevenzione della dispersione e del disagio scolastico (un utile strumento di orientamento per i docenti) ma ha anche fornito una scheda efficace per il percorso diagnostico (rilevazione del disagio a scuola) (Fig. 1). Tra le possibili cause del disagio scolastico, e talvolta del conseguente abbandono, vi è l’essere portatore di uno o più DSA. Esiste, infatti, tra i dropout una quota importante di studenti che abbandonano la scuola a seguito di difficoltà ripetute dovute alle cosiddette DESA (Disabilità Evolutive Specifiche di Apprendimento) rispetto alle quali, procedendo con una diagnosi precoce ed un intervento didattico ad hoc, si potrebbero avere risultati ampiamente positivi12. Quando la diagnosi di DSA è effettuata precocemente, alla scuola primaria o meglio già dall’infanzia, e l’esperienza che il bambino ha vissuto alla primaria è stata serena, il ragazzo che arriva alle medie è consapevole del suo problema: «Sa prof., io ho bisogno di un po’ più di tempo per svolgere la consegna di storia che mi ha assegnato, ma ascoltando Nicolò che ripete, riesco ad essere più veloce».

In qualche modo, questo allievo ha metabolizzato il problema e dimostra coscienza sia delle sue difficoltà sia delle sue risorse; è in grado di chiedere collaborazione ai compagni e ai docenti e, quando è stato seguito in modo opportuno dalla famiglia e dalla scuola, il suo disturbo d’apprendimento rimane circoscritto all’ambito della lettura, della scrittura o del calcolo. 9

LIVERTA SEMPIO O., CONFALONIERI E., SCARLATTI G., L’abbandono scolastico, Raffaello Cortina, Milano

1999. 10

PETRUCCELLI F., Psicologia del disagio scolastico, Franco Angeli, Milano, 2005. FUSACCHIA G. et al., Rete interscolastica Municipio 18 di Roma, Insieme si può fare: Linee-guida per l’integrazione dei servizi e degli interventi di prevenzione della dispersione e del disagio scolastico, Roma, 2012, <http://www.scuolelazio.it/Newsletter/allegati%20news%2086/LineeGuidaPrevDis.pdf>. 12 LAVARONE M.L., Dispersione scolastica e disturbi dell’apprendimento in F. Batini (a cura di), La scuola che voglio. Idee, riflessioni, azioni, contro il disagio e la dispersione scolastica, Zona, Arezzo, 2002. 11


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Fig. 1 – Schema per la rilevazione del disagio scolastico tramite indicatori

Talvolta può accadere che la comprensione del DSA avvenga con ritardo (si pensi alla diagnosi di dislessia) e la comparsa di una difficoltà a volte inattesa, in quanto non compresa precedentemente, genera confusione negli adulti e frustrazione e disorientamento nel ragazzo che fino a quel momento non aveva mai ricevuto messaggi di inadeguatezza o di particolare preoccupazione per le sue prestazioni scolastiche.


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“Un insegnante correggendo un compito in classe di 2° media nota che un ragazzo ha completato solo due facciate su quattro e rimane sorpresa nel notare che le facciate complete sono quasi del tutto giuste. In quel momento l’insegnante comprende che l’alunno è intelligente, ma non capisce perché il ragazzino non completa le sue verifiche. Secondo voi è possibile che una persona studi alla perfezione solo gli argomenti che si presenteranno poi sulle prime facciate della verifica? I casi sono due: o il ragazzino è un genio del male che, pur conoscendo gli argomenti, preferisce lasciare metà compito in bianco per far impazzire la professoressa; oppure siamo di fronte a un caso molto più complesso. Se la professoressa avesse potuto vedere la camera del ragazzino il giorno prima avrebbe scorto tutti i libri della sua materia e lo stesso ragazzino piegato su essi in attenta lettura ormai da sei ore. La professoressa non può vedere il passato e quindi, fa quello che le hanno insegnato di fare quando un alunno svolge meno del 50% di verifica giusta, ovvero dà un’insufficienza”13.

Più spesso il ragazzo evidenzia già dalla prima esperienza scolastica problemi nell’apprendimento della lettura, della scrittura, nella comprensione ed elaborazione di un testo o nel ragionamento aritmetico, ma tali difficoltà non vengono valutate in modo adeguato sia dalla scuola sia dalla famiglia. Quando un ragazzo con tali problematiche giunge alla scuola media e le performance a lui richieste aumentano, le insegnanti riscontrano disinteresse e scarso impegno per le attività svolte e molto spesso problemi comportamentali (Fig. 2).

Fig. 2 – Andamento della presenza di difficoltà di apprendimento secondo gli insegnanti di Modena (indagine 1991, campione di 8000 alunni) 14 13 G. CUTRERA, Demone Bianco, Libreria Editrice Fiorentina, <https://sites.google.com/site/demone biancodislessia/>. 14 Grafico tratto da: STELLA G., In classe con un allievo con disordini di apprendimento, Fabbri, Milano, 2001.


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Come si sente il genitore ad affrontare questa situazione? Di fronte a sé ha suo figlio, pensa che il suo ragazzo non abbia voglia di studiare e di applicarsi nei compiti assegnati e mette in atto un comportamento punitivo. Il ragazzo si sente in trappola, si disorienta e comincia a pensare di essere incapace. Continua ad andare male a scuola, soffre, ha sbalzi d’umore ed entra in conflitto con tutti, in alcuni casi il genitore comincia a pensare che forse c’è una difficoltà che a scuola non è stata presa in considerazione, quindi si rivolge a degli specialisti per trovare una risoluzione al problema, sente che la scuola non è vicina a suo figlio e sviluppa un atteggiamento protettivo e difensivo del proprio ragazzo. In alcuni casi i docenti riconoscono i segnali premonitori del DSA e spingono per un’indagine approfondita e, quando il loro sospetto diventa una diagnosi conclamata, si attivano per studiare le caratteristiche del problema o talvolta delegano ad insegnanti di sostegno o a tecnici della riabilitazione. Quando il ragazzo riceve la “diagnosi di DSA” può provare un senso di sollievo perché finalmente è chiaro che il suo problema non è dovuto all’indolenza, con cui tutti lo etichettavano, ma nel contempo la consapevolezza della diagnosi gli provoca malessere e ansia. La risposta della scuola: la normativa che tutela, un percorso personalizzato per l’inclusione e il successo

La diagnosi corretta e precoce consente ai ragazzi un percorso personalizzato con un aumento delle probabilità di successo scolastico. Lungo il percorso di studi il carico scolastico aumenta e i ragazzi in difficoltà vanno sostenuti per evitare abbandoni, bocciature e percorsi che possano compromettere la realizzazione personale e professionale futura. La L. 170/10 e il D.M. del 27.12.2012 hanno riempito un vuoto normativo e hanno messo in primo piano la realtà delle persone come Luca che risultano avere disturbi specifici di apprendimento e, di conseguenza, bisogni educativi speciali (BES). Forse le normative non rispondono in modo esaustivo alle aspettative di risoluzione delle difficoltà, ma hanno posto in modo forte la necessità di una personalizzazione del percorso di apprendimento/insegnamento a cui tutti i professionisti della formazione devono rispondere con qualità. L’inclusione è una sfida molto pressante, è l’unica strada per dare la possibilità a tutti gli alunni di costruire un progetto di vita malgrado i disturbi di cui soffrono. La legge nº 170 del 2010 e l’iter attuativo, pur con dei limiti, investono tutti gli attori della scuola ad una maggiore consapevolezza e sensibilità verso gli allievi con DSA (Fig. 3, a pagina successiva).


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Fig. 3 – Diagramma schematico dei passi previsti dalla L. 170/2010 per la gestione degli alunni con DSA 15

L’orizzonte di senso da cui muove la normativa sollecita un cambio di prospettiva: il passaggio da una scuola dell’integrazione a quella dell’inclusione16. Seguendo le Linee guida del Miur, il documento formale di analisi e riflessione sul proprio agire, che le scuole possono utilizzare per verificare il grado di inclusività raggiunto è il PAI, il Piano annuale d’inclusività, stilato dal GLI (Gruppo di Lavoro per l’Inclusione). Esso è finalizzato all’auto-conoscenza e alla pianificazione dei percorsi d’inclusione da sviluppare in un processo responsabile e attivo di crescita e partecipazione. La scuola oggi ha gli strumenti normativi, ma nella pratica aiuta Luca ad uscire dal suo disagio?

Come agire questa inclusione? La normativa (Direttiva sui BES del 27/12/2012, C.M. 8/2013 e C.M. n. 2563/2013) prevede la stesura del PDP, il Piano didattico personalizzato, i docenti in team, dopo avere osservato gli alunni, si confrontano con la famiglia per capire a fondo com’è l’atteggiamento del ragazzo BES fuori scuola, ad esempio quali passioni ha o come preferisce svolgere i compiti e con quale atteggiamento psicologico, raccolgono le anamnesi mediche, se sono presenti, e stilano un percorso didattico strutturando strategie opportune con strumenti compensativi e dispensativi. I docenti di Luca, ad esempio, dopo aver stilato il PDP, osservano quotidianamente il ragazzo e si accorgono delle difficoltà di apprendimento che Luca manifesta di fronte ai vari compiti scolastici. Per cambiare la rotta del percorso di Luca e incoraggiarlo al successo scolastico, i docenti devono par15 16

Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con DSA. Dm 12/07/2011, pag. 21. Si vedano a questo proposito i saggi di L. Dall’Isola e di P. Fabbri in questo Dossier.


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tire da un’altra prospettiva, cioè chiedendosi: “In cosa il ragazzo si sente ed è capace?”. Se ha una passione per la storia, quello è il punto di partenza, stimolare la sua autostima, che in genere è molto poca, riconoscendolo come “preparato sull’argomento”, uno su cui anche gli altri ragazzi contano. Gli potranno dire che è lento a leggere, ma come lui ricorda la storia, … persino l’annuncio della dichiarazione di guerra di Mussolini del 10 giugno 1940, come lo declama lui, non lo batte nessuno! Se tutti lo ammettono, e se lo riconosce anche l’insegnante, si avrà un effetto alone positivo e il suo benessere a scuola aumenterà. L’incoraggiamento ha un effetto positivo anche sulle altre prestazioni richieste a scuola. Nel lavoro di gruppo, dove le dinamiche sociali sono amplificate rispetto alla lezione frontale, Luca non s’inserisce facilmente, ha nello zaino varie esperienze di disagio che, nella relazione con gli altri, lo pongono in una posizione oppositiva. La familiarità e quotidianità di un percorso collaborativo, in cui l’etichetta è bandita e sostituita dall’incoraggiamento, lo riesce a rasserenare e questo ha conseguenze positive anche nel rapporto con gli altri che, a loro volta, trovano un equilibrio con lui, sempre comunque da costruire e gestire con la dovuta attenzione. I docenti dovranno attivare lavori di gruppo su compiti di realtà progettati con spazi di azione personalizzati per Luca e per tutti gli altri. L’esperienza nel lavoro di gruppo consentirà a lui e anche agli altri di sviluppare apprendimenti significativi e rendere concreto quello che viene indicato nelle linee guida dell’Index “apprendere, attraverso tentativi, a superare gli ostacoli all’accesso e alla partecipazione di particolari alunni, attuando cambiamenti che portino beneficio a tutti gli alunni”17. Tutto questo per il docente è faticoso e non semplice sia per i tempi sia per gli ambienti scolastici, ma è necessario. L’insegnante d’italiano o di matematica, che gli consente la presenza in fondo al quaderno dello schema dei verbi o delle tabelline, o dei possibili complementi della sintassi, gli dà la possibilità di svolgere esercizi che altrimenti non riuscirebbe a risolvere e questo gli riconsegna il piacere di frequentare la scuola, finalmente anche lui può avere buoni voti! Perché la richiesta del voto, per i ragazzi è un accorato: «Quanto valgo?». Supera i confini della valutazione della prestazione, investe comunque la persona e rassicura il cammino se si raccolgono risultati positivi. I docenti devono preparare il materiale più adatto a lui e immaginare anche d’inserirlo in percorsi extracurricolari con ruoli di responsabilità, ad esempio collaborare all’archiviazione informatica della biblioteca. Ed eccolo lì Luca, presente ad ogni incontro e affermare al docente: «Quando sarò alle superiori verrò a lavorare qui in biblioteca per un piccolo compenso, lo so, avrete bisogno di me!». E, sì, ha proprio ragione quel ragazzo, si sentirà la sua mancanza in classe. 17 BOOTH T. e AINSCOW M., Index for Inclusion 2002 CSIE, Traduzione italiana Erickson, Trento, 2008, p. 110. Nota con Rif. Bibl.


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Studenti con BES e la formazione degli insegnanti

Loredana Dell’Isola*

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Dall’integrazione all’inclusione L’evoluzione lessicale e le realizzazioni didattiche nella scuola italiana

«Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel possedere altri occhi, vedere l’universo attraverso gli occhi di un altro, di centinaia d’altri: di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva, che ciascuno di loro è.» (MARCEL PROUST)

Premessa

Accettando l’invito del filosofo J. Austin a guardare al linguaggio non più, o non solo, come ad uno strumento per descrivere in modo vero o falso uno stato di cose, bensì come ad un agire, ad un fare delle cose, è possibile analizzare attraverso questa lente i termini integrazione ed inclusione. L’idea del linguaggio come azione costituisce il tema centrale nel pensiero di Austin che fa, a questo proposito, un’interessante considerazione: «… il linguaggio si sviluppa in armonia con la società di cui è il linguaggio. I costumi sociali della società possono avere effetti notevoli sulla questione di quali verbi performativi espliciti si sviluppino e quali no…»1. Secondo il filosofo oxoniense sono quindi le usanze, le pratiche, l’ethos di un popolo o di una società a condizionare lo sviluppo di alcune forme linguistiche a scapito di altre. Analizzando il ruolo del linguaggio nelle dinamiche di interazione sociale, egli parla di “enunciati performativi” o operativi, che compiono azioni e, in tal modo, tendono a realizzare modifiche nella situazione esistente2. Per l’importante cambiamento avvenuto nell’ultimo decennio, è opportuno * Architetto, docente di Arte e Immagine nella S.S.di 1°grado, formatrice FADI-OPPI. 1 AUSTIN J.L., Performatives Utterances. In “Philosophical Papers”, Oxford, Claredon Press, 1961, 1970, p. 231, tr. it. di Letizia Gianformaggio: “Enunciati performativi”. 2 SACCO A., L’ideale filosofico di J.L. Austin, “Il Dodecaedro”, Quaderni, luglio 2006


Dall’integrazione all’inclusione: l’evoluzione lessicale e le realizzazioni didattiche nella scuola italiana

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richiamare questo valore performativo del linguaggio, per guidare l’analisi dei termini integrazione ed inclusione dal punto di vista lessicale e semantico. Si riportano di seguito le definizioni di alcuni dizionari. Integrazióne Vocabolario Treccani: s. f. [dal lat. integratio -onis, con influenza, nel sign. 3, dell’ingl. integration]. 3. Inserzione, incorporazione, assimilazione di un individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in un ambiente sociale, in un’organizzazione, in una comunità etnica, in una società costituita (contrapp. a segregazione) Vocabolario Zingarelli: 1. L’integrare | Completamento di qlco. mediante l’aggiunta di nuovi elementi Dizionario Sabatini Coletti: 2. Assimilazione, inserimento di individui o gruppi in un ambiente sociale, in una comunità … Dizionario La Repubblica: 7 sociol. Inserimento di un individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in una comunità con gli stessi diritti e doveri degli altri membri: l’i. sociale degli emarginati Inclusione Vocabolario Treccani: [dal lat. inclusio -onis]. – 1. a. L’atto, il fatto di includere, cioè di inserire, di comprendere in una serie, in un tutto (spesso contrapp. a esclusione) Vocabolario Zingarelli: 3 (mat.) Relazione intercorrente fra due insiemi, allorché tutti gli elementi del primo fanno parte del secondo | Relazione soddisfacente le proprietà formali dell’inclusione. Dizionario Sabatini Coletti: 2 mat. relazione d’i., quella che si verifica tra due insiemi quando uno è incluso nell’altro Dizionario La Repubblica: 2 mat. Relazione che intercorre fra due insiemi quando tutti gli elementi di un insieme fanno parte dell’altro

Riflessioni sugli usi dei termini e sull’impiego nella normativa

Secondo i fondamenti della teoria di F. de Saussure3, alla langue intesa come un sistema semiologico, ossia un sistema di segni atti ad esprimere un messaggio, corrisponde il linguaggio (parole) inteso come capacità d’uso e facoltà degli esseri umani, di comunicare pensieri ed esprimere sentimenti. Il linguaggio attiva quindi la rappresentazione simbolica della realtà. L’idea di integrazione rimanda soprattutto all’individuo che deve modificare i propri comportamenti e le proprie credenze per aderire al sistema della cul3

Saussure Ferdinand de “Corso di linguistica generale”, Laterza, 1972, tr. it. di T. De Mauro.


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tura dominante, quindi assume un significato più vicino ad “assimilazione” in cui mancherebbe l’idea dello scambio reciproco. Mentre una parola come “inclusione” contiene in sé il concetto di un rapporto più equo fra la persona e l’ambiente, di reciproca influenza, poiché l’ambiente è più sintonico rispetto all’elemento che si inserisce. Non si tratta quindi di sinonimi, perché veicolano significati differenti e vengono usati da prospettive differenti. Pertanto, vi è una sfumatura semantica sottile, tra l’uso di integrazione scolastica e quello di inclusione che sembra aver avuto un forte valore performativo ad esempio nell’evoluzione della normativa, di seguito sinteticamente riportata, dove si abbandona progressivamente il termine di integrazione, per sostituirlo con quello dell’inclusione. – L’integrazione delle persone con disabilità nella scuola di tutti ha inizio nei primi anni Settanta, quando viene promulgata la legge 118/71. Comunque, è con la legge 517/77 che ebbe ufficialmente inizio il processo di inserimento delle persone con disabilità nelle scuole del nostro Paese, sempre all’insegna dell’obiettivo di integrarle. – La legge 104/92 rappresenta poi una tappa fondamentale perché colloca il diritto all’integrazione scolastica tra i diritti fondamentali della persona e del cittadino. – A seguire vi è il DPCM n. 185/06 (“Regolamento recante modalità e criteri per l’individuazione dell’alunno come soggetto in situazione di handicap, ai sensi dell’articolo 35, comma 7, della legge 27 dicembre 2002, n. 289”) che presenta elementi innovativi soprattutto rispetto alla certificazione della disabilità, che per la prima volta viene scorporata dalla classificazione della persona (soggetto con disabilità e non più soggetto disabile). – Nel Decreto n. 5669 del 12 luglio 2011, emanato in attuazione della legge 170/2010, i DSA rappresentano una questione distinta dalle problematiche dell’handicap. Il Decreto, con l’Allegato: “Linee guida”, illustra in modo puntuale e articolato i percorsi didattici da privilegiare con gli alunni affetti da DSA e apre un canale di tutela del diritto allo studio diverso da quello previsto dalla L. 104/92 perché focalizzato sulla didattica individualizzata e personalizzata, sugli strumenti compensativi, sulle misure dispensative e su adeguate forme di verifica e di valutazione. – L’espressione “Bisogni Educativi Speciali” (BES) entra in uso in Italia con l’emanazione della Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica” e successiva C.M. n° 8 del 6 marzo 2013, che riprende le indicazioni UNESCO del 1977: Il concetto di Bisogno Educativo Speciale si estende al di là di quelli che sono inclusi nelle categorie di disabilità, per coprire quegli alunni che vanno male a scuola (failing) per una varietà di altre ragioni che sono note nel


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loro impedire un progresso ottimale.4… Se questo gruppo di bambini, più o meno ampiamente definito, avrà bisogno di un sostegno aggiuntivo, dipenderà da quanto la scuola avrà bisogno di adattare il curricolo, l’insegnamento, l’organizzazione o le risorse aggiuntive umane e/o materiali per stimolare un apprendimento efficace ed efficiente. Analizzando in dettaglio il valore performativo della normativa su delineata, sembra che l’ integrazione sia sottintesa all’offerta formativa individualizzata5, che è rivolta ai soli alunni con disabilità certificata; come garanzia del diritto ad apprendere degli studenti con DSA viene poi introdotto il concetto di didattica personalizzata6, che si sostanzia attraverso l’impiego di una varietà di metodologie e strategie didattiche tali da promuovere le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno; l’inclusione invece consente di coinvolgere tutti gli alunni con Bisogni Educativi Speciali. Quindi nell’integrazione esiste una distinzione tra la persona con disabilità e la persona senza disabilità, nell’inclusione invece, tutti sono considerati persone, ognuno con i propri bisogni. Il termine inclusione, sempre nella DM del 2012, viene inteso come processo attraverso il quale il contesto scuola, attraverso i suoi diversi protagonisti (organizzazione scolastica, alunni, docenti, famiglia, territorio) assume le caratteristiche di un ambiente che risponde ai bisogni di tutti, ed in particolare a quelli di alunni con Bisogni Educativi Speciali. È infatti attraverso il lavoro sui contesti, e non soltanto sui singoli individui, che si promuove la partecipazione sociale e il coinvolgimento delle persone in difficoltà, nonostante i loro specifici problemi, come viene specificato anche dall’I.C.F., (Classificazione Internazionale del funzionamento e delle disabilità)7, proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2000). 4 UNESCO (1997), International Standard Classification of Education (ISCED), approvata dalla Conferenza Generale dell’UNESCO, 29a sessione, Parigi. 5 «La didattica individualizzata consiste nelle attività di recupero individuale che può svolgere l’alunno per potenziare determinate abilità o per acquisire specifiche competenze, anche nell’ambito delle strategie compensative e del metodo di studio; tali attività individualizzate possono essere realizzate nelle fasi di lavoro individuale in classe o in momenti ad esse dedicati, secondo tutte le forme di flessibilità del lavoro scolastico consentite dalla normativa vigente». 6 «La didattica personalizzata, invece, anche sulla base di quanto indicato nella Legge 53/2003 e nel Decreto legislativo 59/2004, calibra l’offerta didattica, e le modalità relazionali, sulla specificità ed unicità a livello personale dei bisogni educativi che caratterizzano gli alunni della classe, considerando le differenze individuali soprattutto sotto il profilo qualitativo; si può favorire, così, l’accrescimento dei punti di forza di ciascun alunno, lo sviluppo consapevole delle sue “preferenze” e del suo talento. Nel rispetto degli obiettivi generali e specifici di apprendimento, la didattica personalizzata si sostanzia attraverso l’impiego di una varietà di metodologie e strategie didattiche, tali da promuovere le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno: l’uso dei mediatori didattici (schemi, mappe concettuali, etc.), l’attenzione agli stili di apprendimento, la calibrazione degli interventi sulla base dei livelli raggiunti, nell’ottica di promuovere un apprendimento significativo». 7 OMS, ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, Erickson, Trento, 2002.


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Dunque l’inclusione è un passo avanti rispetto all’integrazione, perché non solo garantisce un’offerta formativa individualizzata a tutti gli alunni con Bisogni Educativi Speciali, ma definisce anche che ciò debba avvenire in un contesto favorevole. Nel 2001, dalla ricerca condotta da Tony Booth e Mel Ainscow8 nasce in Inghilterra l’Index, uno strumento che raccoglie materiali e metodologie che consentono ad alunni, docenti, genitori e dirigenti di valutare l’inclusione nella propria comunità scolastica e di progettare azioni che la rendano un ambiente sempre più inclusivo. Gli autori dell’Index sostengono che una scuola inclusiva favorisce l’apprendimento e la partecipazione di tutti gli alunni, con e senza Bisogni Educativi Speciali. In questa prospettiva, la mancanza di inclusione e/o di successo scolastico di un alunno non dipenderebbe da un deficit a lui interno, ma da un difetto nell’organizzazione della scuola e delle sue pratiche didattiche, definibile come “ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione”. Associata al concetto di Bisogno Educativo Speciale e di inclusione vi è dunque l’idea di didattica inclusiva, che non è più speciale (cioè diretta solo a chi ne ha bisogno) ma ordinaria, cioè per tutti. La Direttiva 27/12/12 del Ministro Profumo parte proprio da: «l’apporto, anche sul piano culturale, del modello diagnostico ICF (International Classification of Functioning) dell’OMS, che considera la persona nella sua totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale (…) ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta. Va quindi potenziata la cultura dell’inclusione (…) Un approccio educativo, non meramente clinico – secondo quanto si è accennato in premessa – dovrebbe dar modo di individuare strategie e metodologie di intervento correlate alle esigenze educative speciali, nella prospettiva di una scuola sempre più inclusiva e accogliente, senza bisogno di ulteriori precisazioni di carattere normativo. (…) È sempre più urgente adottare una didattica che sia ‘denominatore comune’ per tutti gli alunni e che non lasci indietro nessuno: una didattica inclusiva più che una didattica speciale.» Dario Ianes sostiene la tesi che «il soggetto di cui si occupa l’inclusione è qualunque alunno con Bisogni Educativi Speciali (Special Educational Needs), dove il concetto di Bisogni Educativi Speciali è fondato sul modello ICF di Human Functioning e ricomprende anche quello di disabilità (…) I soggetti con Bisogni Educativi Speciali dunque sono tutte (ma proprio tutte) quelle persone in età evolutiva in cui i normali bisogni educativi incontrano maggiore complessità nel trovare risposte a motivo di qualche difficoltà nel loro human functioning 8 BOOTH T., AINSCOW M., Index for Inclusion Erickson, Trento, 2008. Cfr. anche il saggio di P. Fabbri in questo Dossier.


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(…) Il concetto di Bisogno Educativo Speciale ha il suo fondamento pedagogico in una visione globale del funzionamento umano, (…) questo approccio parla di salute e di funzionamento globale, non di disabilità o di varie patologie»9. L’attenzione al contesto, piuttosto che al soggetto, è in linea con l’uso della ICF (2002) dell’OMS, che ci fornisce un’ottima base concettuale di funzionamento globale del soggetto: il funzionamento educativo-apprenditivo scaturisce dalla stretta relazione tra condizioni fisiche e fattori legati al contesto che inevitabilmente lo condizionano. È infatti attraverso il lavoro sui contesti, e non soltanto sui singoli individui, che si promuove la partecipazione sociale e il coinvolgimento delle persone in difficoltà, nonostante i loro specifici problemi. Quindi una scuola davvero inclusiva deve eliminare eventuali barriere relazionali o didattiche che potrebbero determinare o influire negativamente su forme di Bisogno Educativo Speciale, mettendo in atto strategie in grado di stimolare un apprendimento efficiente ed efficace. La didattica inclusiva: cos’è?

H. Gardner, il principale rappresentante della teoria delle intelligenze multiple, afferma che «La didattica diventa sempre più speciale e inclusiva se riesce a differenziarsi in funzione dei diversi stili cognitivi e di apprendimento degli alunni e in funzione delle diverse qualità dell’intelligenza di chi apprende»10. Pertanto una prima accezione di inclusività implicherebbe una didattica rivolta a stili cognitivi diversi. Ciò contrasta con il lavoro quotidiano del docente che deve unire, uniformare la classe. A questo proposito Dario Ianes, facendo riferimento al concetto di “dialogica” di E. Morin11: «In una dialogica si realizza un’unità complessa tra due logiche, entità o istanze complementari, concorrenti e antagoniste che si nutrono l’una dell’altra, si completano, ma anche si oppongono nella loro diversità». Si definisce così la strategia dialogica della speciale normalità che dà priorità a ciò che si fa normalmente per tutti gli alunni: molti aspetti della specialità sono inclusi nella normalità di cui tutta la classe ha fondamentalmente bisogno per il raggiungimento del successo scolastico. Inoltre risulta necessario attivare una didattica innovativa che, rispetto all’approccio della didattica tradizionale, utilizza metodologie didattiche attive in grado di promuovere da una parte l’apprendimento degli alunni e, dall’altra, il loro benessere emotivo-motivazionale nello stare insieme a scuola, quindi centrate sul gruppo, come ad esempio: – Brainstorming: una tecnica che porta lo studente a sviluppare l’ambito creativo, per trovare soluzioni alternative a problematiche di vario genere attraverso una ricognizione alogica dei concetti spontanei che il 9

IANES D., La Speciale normalità, Erickson, Trento, 2006. GARDNER H., Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento, Erickson Trento, 2005. 11 MORIN E., Etica, Raffaello Cortina Milano, 2005. 10


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mediatore didattico deve trasformare in concetti sistematici, una forma semplice di didattica costruttivista12. – Role playing: il gioco di ruolo fa emergere non solo il ruolo e le norme comportamentali, ma la persona con la sua creatività. – Problem solving: una metodologia che tende a sviluppare un forte senso critico, portando gli studenti a ragionare sulla molteplicità di soluzioni che scaturiscono da un problema. – Apprendimento cooperativo e Tutoring: non solo funzionale alla promozione di abilità sociali, ma efficace metodo di apprendimento. Attraverso la negoziazione e condivisione di significati aumenta le occasioni di “zone di sviluppo prossimale”13; attiva processi di co-costruzione della conoscenza; migliora le prestazioni di tutti i membri del gruppo, anche appartenenti a livelli diversi14. – Studio di caso: attraverso una descrizione dettagliata di una situazione reale e complessa di cui sono fornite tutte le indicazioni fondamentali (articoli, documenti, tabelle, schemi, immagini), consente di apprendere procedure (selezionare, classificare documenti, gerarchizzare informazioni, connettere, confrontare, formalizzare opinioni…) – Flipped learning (insegnamento capovolto): si basa sul ripensare la scuola come luogo di incontro per imparare a lavorare in gruppo, partecipare ad attività pratiche e laboratoriali, confrontarsi con i docenti su quanto appreso autonomamente a casa15. – Didattica per compiti di realtà: prevede un prodotto visibile e concreto che richieda di risolvere problemi con attività e competenze complesse, all’interno di un progetto pianificato. Le metodologie didattiche elencate sono tutte caratterizzate da un approccio pedagogico metacognitivo, ossia centrato sull’apprendimento, anziché sull’insegnamento, sul discente e non sul docente, o meglio sulla reciproca men12 La didattica costruttivista considera gli alunni soggetti direttamente responsabili dell’apprendimento, protagonisti di una scuola nella quale poter raccontare le proprie esperienze, emozioni, valori, che costituiscono la base autentica dell’imparare. È una didattica che promuove atteggiamenti metacognitivi e autovalutativi e spinge a riflettere sui propri comportamenti e le proprie competenze. CARLETTI A., VARANI A., Didattica costruttivista Dalle teorie alla pratica in classe, Erickson, Trento, 2005. 13 VYGOTSKIJ L., Pensiero e linguaggio, Laterza, Roma-Bari, 2008 (a cura di Mecacci L.): «Ogni individuo possiede potenzialità cognitive latenti che solo nell’interazione con altri si possono esprimere (zone di sviluppo prossimale)». 14 «L’apprendimento cooperativo determina un più elevato livello di ragionamento, un più frequente sviluppo di nuove idee e di soluzioni (...) e un maggiore trasferimento di ciò che si è appreso da un contesto ad un altro (...) rispetto all’apprendimento competitivo e a quello individualistico». Cfr. JOHNSON D.W., JOHNSON R.T., HOLUBEC E.J., Apprendimento cooperativo in classe Migliorare il clima emotivo e il rendimento, Erickson, Trento, 2015. 15 Il flipped learning, consiste nell’invertire il luogo dove si segue la lezione (a casa propria anziché a scuola) con quello in cui si studia e si fanno i compiti (a scuola anziché a casa). MAGLIONI M., BISCARO F., La classe capovolta Innovare la didattica con la flipped classroom, Erickson, Trento, 2014.


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talizzazione tra docente e discente. Esse promuovono la consapevolezza del proprio apprendimento sia nell’uno che nell’altro. Cesare Cornoldi definisce la metacognizione come «l’insieme delle attività psichiche che presiedono al funzionamento cognitivo, e più specificatamente distingue tra conoscenza metacognitiva (le idee che un individuo possiede sul proprio funzionamento mentale e che includono le impressioni, le intuizioni, le autopercezioni)e i processi metacognitivi di controllo (tutte le attività cognitive che presiedono a qualsiasi funzionamento cognitivo e che includono la previsione, la valutazione, la pianificazione, il monitoraggio)».16 . La scoperta del valore pedagogico della metacognizione risale agli anni ’70 con Flavell, e negli anni ’80 la metacognizione ha iniziato ad essere utilizzata come strategia di intervento specifica nei casi di difficoltà di apprendimento. Ben presto ne è stato apprezzato il valore di potenziamento cognitivo anche nei casi cosiddetti “normodotati” e si è cominciata a delineare quella che oggi chiamiamo prospettiva metacognitiva, ossia la capacità di un individuo di saper osservare e riflettere su ambiti specifici del proprio funzionamento psicologico, per cui non si fa più riferimento soltanto ai processi cognitivi, ma si spazia dalla sfera affettiva a quella sociale. Rientrano tra le strategie didattiche metacognitive anche la didattica per competenze e la didattica laboratoriale, cioè attività di apprendimento in cui gli alunni sono spinti a ricercare, scoprire, organizzare, raccogliere, ordinare, produrre dati in prima persona. L’abilità di chi comunica, in questo caso degli insegnanti, non consiste più soltanto nel fornire nozioni o disposizioni, regole da rispettare, ma soprattutto nel mettere i soggetti in situazione di apprendimento, in condizione di interpretare attivamente la comunicazione e rispondere in modo adeguato e contingente ai problemi posti dalle scoperte fatte o dai materiali “toccati”. Didattica inclusiva e “incarnata”: mente, corpo, percezioni

Nel corso degli ultimi anni, all’interno delle scienze cognitive ha preso piede l’idea di Embodied Cognition, in italiano tradotta con “cognizione incarnata”, che ha messo in rilievo l’importanza giocata dal corpo fisico nei processi cognitivi. La cognizione umana dipende cioè anche da caratteristiche di tipo corporeo: in particolare dai nostri sistemi percettivo e motorio. Partendo da tale presupposto F. Gomez Paloma17 invita a ripensare la didattica tradizionale, che pone al centro la mente e non il corpo, in favore di una didattica “corporea”, che parta dall’esperienza più significativa per un bambino: l’esperienza corporea del mondo. 16

CORNOLDI C., Metacognizione e apprendimento, Il Mulino, Bologna, 1995. GOMEZ PALOMA F. (2013), Embodied Cognition Science. Atti incarnati nella didattica, Roma, Edizioni Nuova Cultura. 17


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Secondo questa visione l’attività cognitiva è sempre “situata”, ciò che noi facciamo fisicamente e/o percepiamo emotivamente; la struttura e le dinamiche dell’ambiente sono tutti aspetti che condizionano fortemente l’apprendimento. Recentemente la neurofisiologia e la neuropsicologia hanno apportato un fondamento biologico ad alcune teorie della psicologia, evidenziando alcuni processi che sono alla base dei meccanismi di apprendimento e memoria. Questi studi hanno dimostrato l’importanza fondamentale dei sistemi percettivi e motori nella formazione di strutture da cui scaturiscono le “funzioni globali”, cioè, quelle “[…] attività che danno origine alla categorizzazione, alla memoria, all’apprendimento”18. Gomez Paloma ci invita in proposito a “comprendere come il corpo, il movimento e lo sport – quali forme riconosciute di espressione naturale e sociale della persona – possano assumere una valenza formativa e pedagogicamente significativa, sia per la costruzione dei saperi e delle abilità, sia per qualificare ulteriormente i processi inclusivi nell’ambito della didattica ordinaria”19. Il suo studio ha evidenziato che l’introduzione della didattica sperimentale contribuisce ad un miglioramento delle prestazioni scolastiche degli alunni e che esso è maggiore nelle verifiche effettuate a lungo termine. In particolare la didattica laboratoriale, messa in atto nella presente sperimentazione, ha creato le occasioni per esprimere le potenzialità conoscitive ed espressive del corpo. Partendo dall’azione e dall’esperienza, coinvolgendo tutti i canali sensoriali, gli alunni hanno avuto l’opportunità di esprimersi, muoversi, agire e interagire in ambienti di apprendimento liberi da confini nozionistici e stereotipie didattiche. Tali ambienti di apprendimento sono divenuti più collaborativi, interattivi, motivanti, partecipativi, personalizzati, pragmatici. “Le esplorazioni sensoriali e motorie hanno creato le occasioni per vivere esperienze condivise di rappresentazione e simbolizzazione, un continuo fluire dalla sensazione alla coscienza, alla consapevolezza dell’emozione percepita, substrato ideale per facilitare e amplificare la memorizzazione degli apprendimenti”20. In conclusione, dopo aver testimoniato come l’uso del termine “inclusione” abbia determinato atti performativi significativi nella scuola italiana, siamo oggi al punto in cui ogni insegnante (a prescindere dal numero di alunni BES in aula) è chiamato a rafforzare l’efficacia delle sue metodologie didattiche ponendo l’innovatività nella “speciale normalità” della didattica comune, che Ianes definisce “universale”21. Gli insegnanti sono pronti a raccogliere la sfida della speciale normalità? 18 FRAUENFELDER E., SANTOIANNI F. (2002), (a cura di), Le scienze bioeducative: prospettive di ricerca. Napoli. Liguori. 19 GOMEZ PALOMA F. (2009), Corporeità, didattica e apprendimento. Le nuove neuroscienze dell’educazione, Salerno, Edisud. 20 GOMEZ PALOMA F., Scuola in movimento. La didattica tra scienza e coscienza. Edizioni Nuova Cultura, Roma 2014. 21 IANES D., Evolvere il sostegno si può (e si deve), Erickson, Trento, 2016.


OPPInformazioni, 121 (2016), 51-59 Studenti con BES e la formazione degli insegnanti

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Introduzione. TIC: un vantaggio per tutti «In una didattica orientata alla speciale normalità è importante progettare i percorsi formativi in modo che incontrino tutti i bisogni educativi, compresi quelli speciali, in una prospettiva inclusiva.» DARIO IANES1

L’espressione Bisogni Educativi Speciali (BES) fa riferimento all’emanazione della Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica” e la successiva C. M. n. 8/2013. Come è noto, vi sono comprese tre grandi sotto categorie: la disabilità; i disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici e lo svantaggio socioeconomico, linguistico o culturale. La direttiva sancisce il diritto per tutti gli alunni che presentano bisogni educativi speciali di avere pieno accesso agli apprendimenti e quindi di poter usufruire di una didattica personalizzata, diversificata sulla base delle esigenze e degli obiettivi formativi individuali. Il concetto di Bisogno Educativo Speciale va correlato al modello ICF (International Classification Functioning) dell’O.M.S. (2002), secondo cui la salute non è assenza di malattia, ma piena realizzazione della propria capability (capacità di procurarsi il benessere bio-psico-sociale secondo la propria idea di felicità)2. Questo la differenzia dalle precedenti classificazione nella quali l’attenzione veniva posta sulla patologia e sulla descrizione della malattia della persona. Il modello ICF considera invece la globalità e la complessità dei funzionamenti delle persone, soprattutto dei fattori personali e * Insegnante di scuola primaria presso “I.C. Manzoni” di Cormano e formatore iscritta all’albo dei formatori Oppiforma, si occupa di didattica per competenze e di nuove tecnologie. 1 Ianes 2006, cit., in GUGLIELMAN E., E-learning accessibile. Progettare percorsi inclusivi con l’Universal Design, Ed. Learning Community Universal Books, Rende, 2014, p. 24. 2 NUSSBAUM M.C., Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del PIL, Il Mulino, Bologna, 2012.


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ambientali e fa riferimento a termini che descrivono la salute della persona in chiave positiva. La valutazione del funzionamento secondo l’ICF avviene considerando3: – funzioni corporee: funzioni fisiologiche corporee e psicologiche; – strutture corporee: parti anatomiche del corpo (organi, arti); – attività e partecipazione: l’attività è l’esecuzione di un compito o di un’azione; la partecipazione è il coinvolgimento nelle situazioni di vita; – fattori ambientali: “sono caratteristiche del mondo fisico, sociale, e degli atteggiamenti, che possono avere inpatto sulle prestazioni di un individuo in un determinato contesto”; – fattori personali: età, sesso, classe sociale. Applicando la lettura dell’ICF, il contesto può diventare facilitatore o barriera a seconda se ostacola o favorisca l’attività e la partecipazione della persona. Nell’ICF tra i fattori ambientali vi sono tecnologie e ausili (TIC) che possono rappresentare un supporto per favorire l’attività e la partecipazione di tutte le persone. Adottare questo approccio e attuare questo tipo di analisi e di lettura dei bisogni significa fare in modo che le diversità presenti in ogni alunno diventino richezza per valorizzare il modo di apprendere di ciascuno. Per fare questo gli insegnanti devono conoscere i diversi stili di apprendimento dei loro alunni, condividere la lettura dei bisogni, i metodi e le strategie più idonei a rispondere a tali bisogni. In questa ottica le tecnologie vengono messe in relazione non solo come ausili specifici o di sostegno, bensì come strumenti che si rivolgono a tutta la classe, che potenziano le competenze di tutti lavorando ad esempio sugli stessi materiali, ma a livelli differenti per rispondere ai diversi stili di apprendimento e ai diversi bisogni educativi presenti nelle classi. Essendo solitamente attraenti per i bambini, stimolano la loro curiosità e ciò può influire sull’incremento della motivazione e di conseguenza sull’attenzione e sull’impegno nel loro utilizzo scolastico. Alcuni strumenti tecnologici, come il pc e tutti i dispositivi appartenenti al recente filone del Mobile Learning accessibility, comprendente cellulari e dispositivi mobili (PDA, Tablet), stanno diventando negli ultimi anni oggetto di ricerca quali efficaci strumenti di apprendimento. Anche se la diffusione delle TIC cresce e si espande in tutti i settori della società, l’introduzione delle tecnologie nella didattica deve avvenire in modo graduale e adeguato al contesto della classe, per evitare che vada ad accrescere il divario tra persone con e senza disabilità, anziché favorire e facilitare l’inclusione e l’integrazione scolastica e sociale. 3 GUGLIELMAN W., E-learning accessibile. Progettare percorsi inclusivi con l’Universal Design, Learning Community srl, Rende (CS) 2014. Scaricabile al: <http://www.learningcom.it/public/userfiles//File/Elearning Accessibile.compressed.pdf>


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Universal design e accessibilità «L’Universal design si basa sui principi di equità e inclusione; i benefici che produce sono a vantaggio di tutti gli individui non solo quelli con disabilità, offrendo a tutti opportunità di accesso ed ambienti, servizi e attività nel rispetto delle individualità e delle peculiarità di ciascuno.» COUNCIL OF EUROPE4

L’Universal design (U.D.) è un paradigma che nasce negli anni ‘80 coniato dall’architetto R. Mace, secondo il quale è molto più conveniente progettare edifici accessibili a tutti piuttosto che agire a posteriori modificandoli per adattarli alle difficoltà del singolo. L’Universal design si applica a qualsiasi manufatto e permette quindi un ampliamento dell’utenza, costituita da esseri umani dotati di peculiarità, con proprie esigenze. Si basa sui seguenti principi: – equità d’uso: garantire l’utilizzo a persone con diverse abilità; – flessibilità d’uso: fornire più metodi di utilizzo e adattabilità alle necessità dell’utente; – uso semplice e intuitivo: eliminare la complessità non necessaria; – informazione comprensibile: comunicare con diverse modalità in modo da garantire l’accesso alle necessarie ed effettive informazioni utili; – tolleranza agli errori: minimizzare rischi e conseguenze negative nell’utilizzo o le azioni non volute; – sforzo fisico limitato: prevedere efficacia ed utilità con la minima fatica; – dimensioni e spazi fruibili: garantire la comodità e la sicurezza alle persone indipendentemente dalla statura, postura, mobilità. L’Universal Design ha delle ricadute anche nelle pratiche educative e nelle strategie didattiche e porta ad un cambiamento di prospettiva importante: si propone un obiettivo squisitamente inclusivo ovvero quello di creare le condizioni adatte alle differenti abilità al contrario della prospettiva di integrazione in cui viene messo a disposizione uno strumento che compensa il deficit5. Le tecnologie sono dunque chiamate a favorire, potenziare e sostenere l’inclusione mantenendo l’attenzione costante sulla persona (con o senza disabilità) nella sua unicità. L’accessibilità all’edificio scolastico, ad esempio, è condizione necessaria ma non sufficiente per un intervento inclusivo, e altrettanto vale per un prodotto informatico o uno strumento accessibile, in quanto esso si rivelerà efficace solo nella misura in cui sarà davvero calato sulle esigenze specifiche degli alunni in carne ed ossa che si troveranno ad utilizzarlo. Se la teoria dell’Universal Design viene applicata a ogni ambiente di apprendimento, può portare al raggiungimento del concetto di inclusione. Rose 4 Council of Europe, 2009, cit., in GUGLIELMAN E., E-learning accessibile. Progettare percorsi inclusivi con l’Universal Design, Ed. Learning Community Universal Books, Rende, 2014, p. 64. 5 LAZZARI M., La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e le tecnologie telematiche, in OSIO O. e BRAIBANTI P. (a cura di), Il diritto ai diritti, Franco Angeli, Milano, 2012.


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e Mayer nel testo Teaching Every Student in the Digital Age: Universal Design for Learning6, hanno spiegato come il loro modello coniato come “Universal design for learning” (UDL) si basi su evidenze di ricerca relative al tema delle differenze negli apprendimenti, delle potenzialità delle tecnologie educative e delle buone pratiche didattiche. Esso si basa su tre principi fondamentali: 1. fornire molteplici modalità di rappresentazione utilizzando diversi codici comunicativi; 2. fornire molteplici modalità di azione ed espressione; 3. fornire molteplici modalità di coinvolgimento ovvero modalità o livelli differenti di lavoro. Occorre, quindi, pensare a molteplici ambienti di apprendimento, con strumenti e linguaggi differenti, nei quali l’insegnante privilegia approcci che valorizzano sia gli studenti che le relazioni tra essi. L’analisi dei bisogni: la prima tappa per costruire un vero progetto di vita «Non è possibile non comunicare, non esiste un non comportamento, l’attività o l’inattività, la parola o il silenzio hanno tutti valore di messaggio.» PAUL WATZLAWICH7

Domandiamoci ora: a chi spetta valutare la presenza e la specificità di un Bisogno Educativo Speciale? In un’ottica inclusiva è evidente che deve essere il Consiglio di classe o di interclasse a valutare gli alunni che presentano un bisogno educativo speciale. La collegialità è una condizione necessaria, oltre che prescritta dalla legge; si pensi alla contitolarità dell’insegnante per il sostegno rispetto ai colleghi curricolari. Il consiglio di classe dovrà, quindi, dedicare un incontro specifico per identificare le situazioni dei vari alunni, per attuare un’analisi dinamica che metta in relazione il funzionameno con i fattori contestuali per evitare di fare il mero elenco delle mancanze e dei problemi. Utilizzando il modello ICF si crea dunque una sorta di griglia che aiuta a leggere le diverse situazioni di difficoltà degli alunni e i bisogni del singolo poiché fornisce sia un linguaggio unificato e standard che un modello concettuale. Successivamente a questa fase, il team docente dovrà analizzare e valutare quali sono le tecnologie più adeguate da introdurre, i tempi, le attività e le medologie da utilizzare. Nonostante alcuni strumenti tecnologici vengano considerati “cool” (amichevoli, semplici) la loro introduzione non deve avvenire in maniera improvvisata. 6 ROSE D.H., MEYER A., Teaching Every Student in the Digital Age: Universal Design for Learning, Association for Supervision and Curriculum Development, Alexandria (VA), 2002. 7 WATZLAWICK PAUL, BEAVIN J.H., JACKSON D.D., Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, 1971, pp. 41-42.


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L’utilizzo delle tecnologie deve sempre essere previsto all’interno di una solida progettazione, contemporaneamente flessibile e precisa, frutto di un’attenta analisi dei bisogni che precede l’allestimento del setting. In fase di progettazione l’insegnante deve sempre verificare se gli strumenti da mettere in campo possono rispondere effettivamente ai bisogni didattici ed educativi degli alunni, di tutti gli alunni. Uno stesso strumento digitale può rivelarsi efficace in alcune situazioni, meno in altre. È importante, in fase di progettazione didattica, che l’insegnante scelga in maniera consapevole strumenti e dispositivi in primis accessibili, ma soprattutto efficaci e rispondenti alle esigenze degli alunni in modo da poter mettere in atto interventi efficaci. Nel momento in cui viene decisa l’introduzione di una tecnologie nuova, sconosciuta agli alunni, non bisogna dimenticare l’importanza un buon “addestramento” allo strumento, che non può seguire percorsi uguali per tutti e diventa, quindi, necessario prevedere un percorso personalizzato a seconda delle caratteristiche dell’alunno, che possa dare il via ad un successivo utilizzo autonomo della tecnologia. L’addestramento non dovrebbe mai sottovalutare gli aspetti emotivo-relazionali del bambino. Talvolta l’ausilio sembra essere completamente separato dal resto della progettazione e diventa così un elemento aggiuntivo, di saltuario utilizzo. Questa modalità allontana l’alunno da un’adeguata autonomia nell’uso dello strumento e può quindi addirittura rivelarsi ostacolo all’azione didattica prevista. A volte si verifica invece la situazione opposta: si prende in considerazione solo l’addestramento all’ausilio perdendo di vista la peculiarità del bambino dal punto di vista motivazionale, emotivo e dei tempi. Proviamo a pensare all’ utilizzo della tastiera. Questo strumento può rivelarsi estremamente utile sia nei bambini con gravi disabilità motorie sia per alunni con DSA, ma la sua introduzione deve essere “pensata” altrimenti c’è il rischio di creare situazioni di difficoltà anzichè facilitare un’attività. Si potrebbe prevedere, ad esempio, un percorso di insegnamento all’utilizzo della tastiera del pc per tutti con attività personalizzate. Non solo lezione frontale... «Se possiamo dunque dimostrare che le tecnologie contribuiscono a migliorare qualche aspetto del contesto e della vita scolastica, senza effetti controproducenti sugli apprendimenti, sarebbe poco sensato contrastarne l’impiego.» ANTONIO CALVANI8

È chiaro però che lo strumento informatico, nonostante possa avere caratteristiche apparentemente positive, da solo non basta, né a generare innovazio8 Cfr. CALVANI A., VIVANET G., Tecnologie per apprendere: quale ruolo dell’Evidence Based Education?, in “ESPS Journal”, 10, 2014, p. 101. Su: <http://www.ledonline.it/index.php/ECPS-Journal/article/view/763/628>.


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ne, né a generare apprendimento e inclusione. Piercesare Rivoltella, nel suo libro “Scuole in rete e reti di scuole”, esplicita due rischi in relazione all’utilizzo delle tecnologie a scuola: – il rischio di assumere posizioni di ingenuo determinismo tecnologico: “Una tecnologia di comunicazione (come il computer o Internet) non produce automaticamente effetti sui processi di insegnamento/apprendimento […]” 9; – il rischio di utilizzare le tecnologie didattiche impostando però una didattica “frontale”, usufruendo quindi sì di uno strumento tecnologico con enormi potenzialità, senza però sfruttarle: un intervento di questo tipo non permette quindi di cogliere i reali vantaggi dello strumento a disposizione. Appare necessario un cambiamento dei modelli d’insegnamento che punti a promuovere sia pratiche più operative, sia un ripensamento del setting educativo finalizzato all’integrazione di spazi, tempi, regole, di percorsi di training, finalizzati alla condivisione della scelta del tipo di supporto e, soprattutto, all’acquisizione da parte degli alunni di competenze conoscitive e di gestione dello strumento, al fine di sfruttarne al meglio le potenzialità durante le attività proposte. L’insegnante dovrebbe ridurre i momenti di lezione frontale inserendo l’apprendimento cooperativo, il tutoring, l’uso condiviso e multifunzione delle TIC, la didattica metacognitiva, e proponendo materiali didattici adattati alle esigenze degli alunni. I modelli di apprendimento, la progettazione e la costruzione di ambienti efficaci, dovrebbero essere flessibili, mai frutto di improvvisazione, basati su un approccio di stampo costruttivista in cui l’ambiente di apprendimento è l’elemento centrale e in cui le tecnologie possono produrre apprendimenti significativi negli alunni che diventano i veri soggetti protagonisti attivi del processo di apprendimento. Secondo A. Varani, ad esempio, «un ambiente di apprendimento costruttivista è uno “spazio di azione” predisposto intenzionalmente dall’insegnante, costituito da un insieme di attività strutturate finalizzate a orientare, senza dirigere, o guidare direttamente, il processo di apprendimento che si intende promuovere; basato su esperienze significative per l’allievo […]. Un ambiente finalizzato a stimolare e sostenere la costruzione […] di competenze»10. Elemento di fondamentale importanza è che gli alunni con bisogni educativi speciali non debbano solo trovarsi a poter fare delle cose come gli altri, accedendo al computer o alle altre tecnologie, ma devono fare le cose con gli altri. Di qui l’importanza dell’ approccio collaborativo nell’utilizzo degli stru9

RIVOLTELLA P. (a cura di), Scuole in Rete e Reti di scuole, Etas, Milano, 2003, p. 52. Cfr. VARANI A., Ambienti di apprendimento, in NIGRIS E., TERUGGI L.A., ZUCCOLI F., “Didattica generale”, Pearson, Milano, 2016, p. 96. 10


Didattica inclusiva con le TIC

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menti. Sentirsi parte di un gruppo, come quello della classe, genera unione e allontana da un’ottica di separazione e esclusione: «[…] Il bambino con disabilità che partecipa/appartiene alla ordinarietà/normalità si sente vicino affettivamente ed emotivamente ai compagni. Questo gli genera autostima, ingrediente prioritaro per la realizzazione di un sano Progetto di Vita»11. Ecco l’importanza delle attività collettive, di gruppo e di coppia, nelle quali le tecnologie offrono ambienti aperti di lavoro per la realizazzione di attività a cui tutti possono partecipare consentendo di creare comunità di apprendimento. All’interno delle dinamiche di gruppo, la tecnologia rappresenta un mediatore sia dell’azione didattica, sia di alcuni aspetti relazionali quali la distribuzione dei ruoli e della leadership. Il feedback immediato sulle attività che si stanno svolgendo, consente ripensamenti e autocorrezioni che permettono ai membri del gruppo di coordinare i loro sforzi per il raggiungimento degli obiettivi in funzione, non solo del raggiungimento dei traguardi prefissati, ma anche di compiti metacognitivi. Con l’uso delle tecnologie si può pensare di lavorare su un testo a più mani anche a distanza rendendo il testo personalizzabile, editabile e manipolabile. Un’altra metodologia inclusiva è quella del digital storytelling, che si serve sia della narrazione che delle tecnologie digitali per la creazione di brevi storie o racconti realizzati utilizzando alcuni strumenti come smartphone, pc, registratori vocali, videocamere attraverso medologie attive. In questo caso la tecnologia arricchisce le potenzialità della narrazione rendondo anche visibile le esperienze e le competenze degli alunni alle prese con linguaggi diversi. Proponendo lo storytelling gli studenti hanno la possibilità di sperimentare modalità creative per la rielaborazione dei materiali, personalizzando e incrementando dinamicamente i vari contenuti. La pianificazione di un’attività di storytelling con gli studenti consente di sperimentare alcuni passaggi progettuali, quali la scelta dell’argomento, la strutturazione di spazi e materiali, la scelta delle applicazioni da usare12. La multimedialità, grazie alla progettazione di ambienti di apprendimento che consentono l’esplorazione delle informazioni in maniera non lineare, si presta alla flessibilità, permettendo la predisposizione di ambienti di apprendimento in sintonia con le capacità, i ritmi di sviluppo e la realtà degli studenti che trovano nella narrazione la possibilità di poter essere esplicitate e ri-pensate. Un lavoro di questo tipo permette di dare significato ai prodotti, alla cultura e alla filosofia di un determinato contesto educativo, offrendo, allo stesso tempo, occasioni di riflessione e meta-riflessione per tutti i soggetti convolti. Poter vedere e ri-vedere concretamente i prodotti realizzati e poter restituire, proprio attraverso la documentazione, l’importanza e il valore che gli adulti 11 CANEVARO A., D’ALONZO L., IANES D., CALDIN R., L’integrazione scolastica nella percezione degli insegnanti, Erickson, Trento 2011, p. 10. 12 NIGRIS E., TERUGGI L.A., ZUCCOLI F., Didattica generale, Pearson, Milano, 2016.


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attribuiscono ai lavori dei bambini, ha un’importante ricaduta sui vissuti di autostima e autoefficacia dei bambini stessi. Il potenziale educativo delle tecnologie sta proprio nella possibilità di riorganizzare in forma più partecipativa l’interazione tra pari, tra alunni e conoscenze e tra alunni e adulti, attivando attività cognitive complesse di problem solving. Viene offerta la possibilità di avere un rimando immediato sul proprio lavoro e sugli errori, che possono essere accolti e interpretati nella loro accezione funzionale, come ripensamento e occasione di riflessione sull’attività. Ricchezza delle TIC per la riflessione metacognitiva «Per facilitare tale comprensione, gli insegnanti ne devono discutere in classe, parlando anche delle strategie usate nei gesti metacognitivi.» G. VALITUTTI13

La dimensione metacognitiva risiede in ogni esperienza di apprendimento, in modo trasversale e pervasivo, e consiste sia nella capacità di riflettere su cosa e su come si conosce, sia nella capacità di riconoscere un problema e scegliere strategie di soluzione, sia nella consapevolezza dei propri stili di pensiero14 e nella propria autoefficacia15, dimensioni fondamentali per gli stessi processi di apprendimento. È necessario, quindi, che gli insegnanti pongano l’attenzione non solo sui contenuti, ma anche sui processi, prevedendo attività che favoriscano e facilitino l’osservazione e la riflessione sui propri processi mentali. Offrendo ad uno studente la possibilità di usare le risorse tecnologiche a scopo educativo, avrà una maggior libertà di gestione del proprio processo di apprendimento rispetto a quella consentita dai contesti tradizionali, poiché le tecnologie “tracciano” il percorso di appropriazione di un’informazione e la sua elaborazione: rendono più visibili le scelte, le modalità di approccio ai problemi, le associazioni mentali e facilitano quindi il processo di consapevolezza. In certi casi di le tecnologie permettono di registrare le azioni compiute dallo studente e quindi possono offrirgli il feedback relativo alle operazioni, fisiche e metali che lui ha compiuto, una forma di auto-controllo sulle proprie strategie di apprendimento. L’insegnante deve, però, fornire il supporto necessario e creare un clima relazionale che permetta allo studente di riflettere sui propri pocessi mentali e su quelli altrui senza sentirsi giudicato, esposto, innervosito ecc. ma confrontandosi e “specchiandosi” nel modo di fare e di pensare egli altri attorno a sè. 13 VALITUTTI G., La scuola del successo e la metacognizione, p. 7, su: <http://wwwcsi.unian.it/educa/ index.html>. 14 ANTONIETTI A., CANTOIA M., La mente che impara, La Nuova Italia, Firenze, 2000. 15 BANDURA A., Autoefficacia. Teoria e applicazioni, Erikson, Trento, 2000.


Didattica inclusiva con le TIC

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In alcuni lavori eseguiti in classe, ad esempio, mi è capitato di constatare (con bambini di scuola primaria) che l’utilizzo di programmi come word e power point, e di dispositivi quali tablet o cellulare per scattare foto o fare video, ha favorito i processi di metacognizione e di documentazione sia dei bambini che dell’insegnante. Le presentazioni create dagli studenti contenenti immagini e testi hanno aiutato i verbalizzatori a ripercorre il percorso fatto e sono state un valido supporto per guidare una riflessione sui processi attivati per risolvere le diverse situazioni. Non si tratta di fare “l’ora di metacognizione”, ma di dedicare tempo per valorizzare quei momenti con forte valenza metacognifiva, perchè nel medio lungo periodo gli studenti aumenteranno al propria autostima, avranno più autonomia nello studio e progrediranno anche nei risultati. Il docente deve “costruire” l’ambiente di apprendimento in cui gli studenti possono lavorare aiutandosi reciprocamente, avvalendosi di diversi strumenti in un ambiente ricco di momenti di riflessione individuale e di gruppo. In conclusione, per fare in modo che i dispositivi mobili e le attività pedagogiche che si possono compiere con questi dispositivi non escludano nessuno, è necessario considerare con attenzione l’accessibilità dei dispositivi e delle attività di elearning a 360 gradi. Sicuramente il processo di inclusione può essere favorito dai nuovi strumenti tecnologici (universali e ubiqui come gli smartphone e i tablet), ma a sua volta richiede cambiamenti e modifiche negli approcci e nelle strategie pedagogiche. La vera innovazione non risiede solo nelle tecnologie, ma nell’approccio. La vera partita dell’innovazione, per l’insegnante, è tutta nella traduzione didattica delle potenzialità di comunicazione, gestione delle informazioni e attivazione di processi riflessivi. Ma per fare questo, i docenti devono essere formati con le stesse strategie che dovranno utilizzare nella praticadidattica enfatizzando ambienti virtuali, spirito di comunità e gli strumenti atti alla circolazione di conoscenza e appr endimento attraverso la condivisione di esperienze. Se, come cita la costituzione, “la scuola è aperta a tutti”, compito della società diventa allora quello di fornire gli strumenti necessari per garantire l’integrazione sociale, scolastica e lavorativa di tutti. Non esiste dunque una tecnologia o una metodologia che valga in assoluto e per tutti, ma l’insegnante deve costruire e progettare ambienti di apprendiemnto flessibili e adattati alle spefiche caratteristiche degli alunni con i quali lavorera. È fondamentale pensare e progettare una scuola che sia adatta e funzionale a ogni bisogno, insomma una scuola per tutti. La pedagogia dovrebbe, in questo senso, essere funzionale alla possibilità di permettere a tutti di progredire e di poter percepire il proprio progresso.


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Studenti con BES e la formazione degli insegnanti

Pierluigi Fabbri*

OPPInformazioni, 121 (2016), 60-71

Verso la costruzione di indicatori di inclusività nella classe e nella scuola

Premessa e scopo dell’articolo

Se si considerano con attenzione gli elementi in gioco nella realizzazione di un modello di inclusività per le istituzioni scolastiche ed il modo in cui si integrano andando a comporre il sistema educativo, il cambiamento che sarebbe necessario per produrlo sarebbe del tipo che P. Watzlawick1 definisce come cambiamento2, ovvero un cambiamento che quando si verifica cambia il sistema stesso, per distinguerlo dal cambiamento1, che si verifica all’interno di un sistema che rimane in ogni caso immutato. È noto come il sistema scolastico mostri resistenza al cambiamento, al punto che M. Selvini Palazzoli notava nel 1976 come «il gruppo degli insegnanti, voglia cambiare solo quel tanto che gli permetta di recuperare la condizione di equilibrio precedente. In altre parole: che voglia cambiare quel tanto che gli permette di non cambiare»2. Partendo dalla consapevolezza di un profondo cambiamento nell’approccio scolastico all’inclusione, si propone di: a) analizzare analiticamente il “vecchio” paradigma e introdurre il nuovo paradigma, b) proporre alcuni semplici e ordinari indicatori per un’azione inclusiva al livello di classe, c) proporre alcuni semplici indicatori per un’azione inclusiva al livello intermedio di classe (revisione del curricolo), d) proporre alcuni semplici indicatori per un’azione inclusiva al livello di istituto. Analisi critica del “vecchio” paradigma dell’integrazione scolastica e proposta del paradigma dell’inclusione

L’ostacolo principale alla realizzazione di un modello inclusivo nell’ambito delle istituzioni scolastiche, e anche quello più pervasivo, è costituito dal * Nato a Roma nel 1965, docente della Scuola Secondaria di Primo grado presso l'ICS Dalla Chiesa di Roma, vicedirettore della rivista Lavori in corso per la casa editrice Pagine. 1 WATZLAWICK P., Change, Astrolabio, Roma, 1974. 2 SELVINI PALAZZOLI M., Il mago smagato, Feltrinelli, Milano, 1976, pag. 65. 3 BOOTH T. e AINSCOW M., L’Index per l’inclusione, Erickson, Trento 2002, pag. 13.


Verso la costruzione di indicatori di inclusività nella classe e nella scuola

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ritenere aprioristicamente inclusive la condotta del docente e l’organizzazione del proprio istituto in quanto da anni hanno reso “normale” la presenza di alunni con disabilità. È indispensabile invece, come primo passo, accettare di essere coinvolti in un processo di cambiamento, di “riconoscere che c’è un rischio di esclusione che occorre prevenire attivamente”3. Bisognerebbe innanzi tutto maturare la consapevolezza che l’inclusione non è una parola che possa corrispondere ad un’“ingenua” e spesso infondata percezione soggettiva di accoglienza nei confronti degli alunni portatori di diversità o ad un generico ed astratto rispetto dei “diritti fondamentali ed universali”, che spesso si traduce in rispetto delle regole di civile convivenza, ci mancherebbe che la scuola non lo facesse. C’è bisogno oggi di sottoporre ad esame molte componenti del fare scuola: le pratiche d’aula, la ristrutturazione del curricolo, le abitudini connesse alla valutazione, l’organizzazione dell’intera istituzione ed il grado di coesione della stessa, il ruolo assegnato e svolto dagli insegnanti di sostegno, lo stile relazionale della scuola inteso come approccio comunicativo e riflessivo fra i docenti, con gli alunni, ed il grado di coinvolgimento e di collaborazione con le famiglie. La questione non può essere semplicisticamente riferita alla messa in atto di compensazioni e dispensazioni per gli alunni con o senza certificazione in ottemperanza alle direttive ministeriali, ma si sposa invece con un’attitudine di revisione retroattiva profonda dei modelli sottesi alle routine operative quotidiane, a tutti i livelli. Si tratta di operare una transizione verso il nuovo paradigma di riferimento, originato anche dall’introduzione dell’ICF e dal costrutto di salute abbracciato dall’OMS, che fa riferimento ad una relazione fra fattori personali ed ambientali quale quadro eziologico e terapeutico dei disturbi degli alunni. L’ambiente scolastico non è esente dalla possibilità di fungere da barriera o da facilitatore ed in molti casi dunque può essere “disabilitante” per loro. Se finora ci si è accontentati di una supposta integrazione, oggi si opta per raggiungere l’“inclusione”, ma ciò non può avvenire senza che nessun aspetto sia sottoposto a revisione. Esiste infatti un’integrazione non inclusiva ed anzi proprio il modello dell’integrazione è ormai considerato da fonti autorevolissime4, partner 4 «Il concetto stesso di normalizzazione implica una “negazione della differenza” e contribuisce a etichettare in modo negativo le persone che sono per qualche ragione diverse. Così, ad esempio, nell’idea di integrazione troviamo spesso sottinteso un particolare modello di readiness, secondo cui sono gli studenti con Bisogni Educativi Speciali a dover dar prova delle loro capacità a partecipare alle normali attività didattiche, mentre sarebbe opportuno chiedersi se le attività stesse sono strutturate in modo da accogliere e comprendere le diverse tipologie di allievi». (DOVIGO F., Fare differenze, Erickson, Trento, 2007, pag. 37). «Il procedimento dell’assimilazione si basa sull’identificazione di un insieme prestabilito di valori (…) che assurgono a modello (…) le esigenze di uniformità rispetto al collettivo tendono in tal modo a prevalere su quelle dei singoli soggetti (…) Nel caso specifico delle persone disabili, questo modello sembra favorire un orientamento verso la discriminazione positiva, ossia verso l’adozione di provvedimenti e azioni compensative promosse dall’amministrazione pubblica nei confronti delle persone in condizioni di svantaggio, al fine di garantire un’uguaglianza di fatto (…) Tuttavia la conseguenza immediata e paradossale (…) è proprio l’accentuazione di fenomeni quali la stigmatizzazione e l’isolamento». (DOVIGO F., Fare differenze, Erickson, Trento,


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rilevante delle dinamiche sociali espulsive “normalizzanti” dell’approccio tradizionale. Per quanto sia ancora estremamente articolato e composito lo scenario culturale rispetto al quale considerare con precisione che cosa si debba intendere per inclusione e soprattutto come realizzarla, l’impiego a tale scopo di indicatori progressivamente sempre più dettagliati dal punto di vista operativo è imprescindibile. Occorre però ricordare il carattere fortemente contestualizzato degli stessi, al punto che risulterebbe impossibile in molti casi applicare indicatori preconfezionati in relazione a situazioni ambientali differenti, senza una rielaborazione profonda degli stessi a livello locale. D’altronde la standardizzazione va in direzione opposta all’inclusione, poiché può impedire la considerazione dello “specifico” di ogni essere umano e delle condizioni contestuali della organizzazione in cui opera. Tuttavia è necessario anche costruire una piattaforma comune di significati che consenta agli operatori di intendersi reciprocamente e di valutare le proprie azioni quando si ha un obiettivo in comune. L’altro limite degli indicatori consiste soprattutto nella pretesa di poter definire operativamente e quantitativamente tutte le dimensioni della relazione educativa, specialmente dei processi di insegnamento e dello stile relazionale, che chiaramente fanno riferimento ad aspetti qualitativi. In molti casi cercare un’operazionalizzazione, quantitativamente esprimibile, degli indicatori, appare come una forzatura. Per tale motivo è stata tentata un’ulteriore specificazione degli indicatori per quanto riguarda le pratiche d’aula ed il sistema organizzativo, per quanto quasi mai davvero quantitativa in senso stretto. Per il livello di inclusività intermedio (cioè quello dei curricola) sono stati piuttosto individuati dei compiti reali, funzionali alla realizzazione di una didattica per competenze di tipo inclusivo, limitatamente alle discipline letterarie, considerati capaci di intercettare i percorsi personali specifici dei singoli alunni. Si tratta evidentemente di suggerimenti per la ristrutturazione dei curricola in senso inclusivo, più che di indicatori. Ovviamente il lavoro non può essere considerato completo ed esaustivo, ma solo una piattaforma di partenza che necessita di specificazioni ulteriori. Il tentativo qui compiuto aspira anche a suscitare nei docenti e negli operatori della scuola la consapevolezza che senza un’azione sinergica rivolta ad attuare un cambiamento significativo degli atteggiamenti, delle abitudini e delle pratiche spesso irriflessive, l’inclusione non potrà essere conseguita se non formalmente.

2007, pag. 60). «Una posizione (…) è quella dei critici radicali neomarxisti (Medeghini, D’Alessio, Vadalà, e in Inghilterra Oliver, Burton, Barnes, Armstrong), che (…) vedono l’integrazione degli alunni con disabilità ancora come un prodotto del vecchio paradigma teorico-culturale segregazionista individuale-medico, una rinnovata forma di oppressione e gestione sociale della diversità». (IANES D., L’evoluzione dell’insegnante di sostegno, Erickson, Trento, 2014, pag. 33).


Verso la costruzione di indicatori di inclusività nella classe e nella scuola

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La griglia delle pratiche d’aula inclusive (livello micro)

A livello micro, ossia del lavoro di classe e del singolo insegnante o team di insegnanti, propongo uno schema a cinque dimensioni, che realizzano l’inclusività: mediazione didattica, partecipazione, cura delle relazioni, valutazione autocosciente, sviluppo di abilità sociali e civiche. Ciascuna dimensione si articola in due o più sotto dimensioni che, a loro volta, si possono osservare attraverso uno o più indicatori pratici. PRATICHE D’AULA INCLUSIVE DIMENSIONI A) MEDIAZIONE DIDATTICA DI TIPO COOPERATIVO

SOTTO DIMENSIONI

INDICATORI

1. Il gruppo cooperativo costituisce • La classe lavora in gruppo cooperativo per il 50% circa del tempo scuola complessivo. la modalità prevalente di lavoro, non un’eccezione applicata in modo estemporaneo ad una didattica quasi esclusivamente trasmissiva. 2. Si mira a realizzare l’interdipendenza positiva attraverso i lavori di gruppo cooperativo assicurandosi di fare il necessario affinché si realizzi.

• Le attività in fase di progetto esplicitano la tipologia di interdipendenza che si mira a conseguire (ad es.: di scopo, di compito, di ruolo, di informazioni, ecc.) • Le attività vengono monitorate dal docente con l’ausilio di schede di osservazione (monitoring) sul grado di efficacia della cooperazione

3. Dopo le attività si effettuano riflessioni sistematiche su come il gruppo e il singolo hanno lavorato e sull’eventuale progresso dello stile cooperativo.

• Si esplicitano le criticità e i comportamenti costruttivi esemplari in fase di revisione (processing).

4. I lavori collettivi sono organizzati accuratamente affinché si produca effettivamente, nell’ambito di uno spazio altamente regolamentato, partecipazione attiva e autoregolazione progressiva attraverso il confronto sociale e l’assunzione di responsabilità.

• Nella progettazione delle attività cooperative sono selezionate il tipo di lezione e di struttura adeguata all’obiettivo da realizzare.

5. Si preferisce la personalizzazione all’individualizzazione.

• Si persegue la diversificazione dei metodi, dei contenuti, dei prodotti finali dell’apprendimento piuttosto che la diversificazione dei percorsi per raggiungere gli stessi obiettivi di base comuni a tutti mediante l’apprendimento dei medesimi contenuti.

• Si specificano accuratamente le fasi di lavoro e le strutture che permettono la partecipazione di ogni alunno al fine di sviluppare la responsabilità individuale, anche attraverso l’assegnazione di ruoli specifici. • Si definiscono per ogni attività obiettivi cognitivi ed obiettivi sociali.


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DIMENSIONI B) ATTIVITÀ CHE INCREMENTANO LA PARTECIPAZIONE

Pierluigi Fabbri

SOTTO DIMENSIONI

INDICATORI

1. Gli ambienti di apprendimento consentono e stimolano la partecipazione attiva da parte degli alunni.

La didattica affronta i contenuti incentivando significativamente: • la presentazione di ricerche alla classe da parte degli alunni, • il lavoro in gruppo cooperativo e l’approccio laboratoriale ai saperi, capace di favorire i processi induttivi mediante cui ricavare regole, • la possibilità di prendere decisioni rispetto al percorso di studio, anche per mezzo di indagini individuali o di gruppo, • la formulazione di domande in seguito allo studio autonomo di materiali di diversa tipologia, • la valutazione reciproca e l’autocorrezione, anche attraverso la costruzione guidata di strumenti di valutazione concordati, • la presentazione di contenuti contestualizzati.

2. Si valorizza la disponibilità all’aiuto gratuito moltiplicando le occasioni di cura degli altri.

• Attribuzione di incarichi di volontariato e di responsabilità per conto del gruppo, • Attività di peer tutoring.

3. Si negoziano attività, • Si coinvolgono gli alunni nella scrittura delle regolamenti, sistemi valoriali con regole di classe, nella revisione periodica gli studenti affinché aderiscano delle stesse e nella identificazione dei in modo convinto e consapevole comportamenti funzionali al lavoro in gruppo alla proposta formativa. e alla gestione cooperativa dello stesso. 4. Si utilizza la discussione come strumento di confronto per la valorizzazione delle differenze.

• Si realizzano attività che prevedono l’elaborazione concettuale collettiva mediante brainstorming, classificazione delle idee, sintesi, riformulazione. • Si affrontano tematiche di varie tipo attraverso attività che prevedono il confronto argomentato di tesi contrapposte (controversia) e la ricerca di soluzioni di compromesso.

C) CURA DELLE RELAZIONI

1. Si effettuano attività mirate alla costruzione del gruppo e di un clima positivo e prosociale.

• Si svolgono UdA specificamente rivolte a realizzare attività di team building.

2. Si effettuano attività mirate a sostenere, monitorare la rete delle relazioni e ad organizzare la vita sociale della classe.

• Somministrazione periodica di strumenti e scale per la misurazione del clima della classe (es.: sociogramma di Moreno), discussione dei risultati. • Periodica analisi della situazione di classe e definizione dei problemi specifici e delle dinamiche gruppali.

3. Si affrontano gli atteggiamenti non inclusivi e le situazioni segreganti, si leggono correttamente cogliendone lo sviluppo.

• Ricerca di soluzioni mediante problem solving (scenario peggiorativo, scenario ideale, individuazione di obiettivi, definizione di soluzioni efficaci). • Applicazione delle soluzioni. • Verifica dell’efficacia. ➔


Verso la costruzione di indicatori di inclusività nella classe e nella scuola

DIMENSIONI

SOTTO DIMENSIONI

D) 1. La valutazione non ha intenti VALUTAZIONE classificatori e sanzionatori, ma AUTOCOSCIENTE è sempre formativa, proattiva, implica autovalutazione consapevole e condivisa pubblicamente e si produce nel contesto di attività che costituiscono esse stesse occasioni di promozione di competenze.

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INDICATORI • Riflettere su ciò che si è fatto e su come è stato fatto mediante la compilazione di un questionario sull’attività svolta o anche attraverso una narrazione autobiografica dettagliata capace di portare ad esplicitazione gli aspetti cognitivi, metacognitivi e sociali del lavoro svolto. • Raccogliere elementi dalle osservazioni per valutare i processi, inserendo un osservatore con scheda di rilevazione nelle attività di gruppo. • Al termine dell’attività confrontare i risultati delle sue osservazioni con quelle dei compagni per un feedback immediato, facendo giungere i gruppi a incrociare gli sguardi, focalizzando gli aspetti positivi e individuando le cause di quelli disfunzionali. • Abituare gli alunni a descrivere con precisione i diversi aspetti di una prestazione, mettendo in evidenza i punti di forza e prendendo coscienza dei punti critici per migliorarli. Gli alunni dovranno essere abituati ad utilizzare spesso le rubriche di valutazione e perfino a costruirle.

2. La valutazione non si occupa esclusivamente degli aspetti cognitivi, ma anche di quelli sociali: non si tiene in considerazione solo il prodotto, ma anche il processo.

• Realizzare attività di valutazione che implichino: una valutazione del processo, una valutazione del prodotto, e un fase di autovalutazione.

E) 1. Sì evita di rinforzare il • Alunni e insegnante negoziano il contratto SVILUPPO comportamento eterodiretto con formativo e le regole della classe, ma DELLE ABILITÀ l’uso sistematico della sanzione. definiscono anche le possibili infrazioni e il SOCIALI, CIVICHE tipo di sanzioni per chi non rispetta le norme. E DI RISPETTO • Le sanzioni sono personalizzate e non rigide, DELLE REGOLE concordate di volta in volta con la classe e hanno sempre carattere compensativo. 2. Si preferisce intervenire in modo • Si incentivano le azioni positive degli alunni positivo sui comportamenti ad esempio acquistando punti in un’ipotetica al fine di conseguire patente. l’autoregolazione in seguito a effrazioni, trasgressioni, ammissioni di responsabilità. 3. Far assumere responsabilità.

• Si incentivano tutti gli alunni, a turno, a gestire compiti di responsabilità verso cose, persone o obiettivi della classe.


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La griglia della revisione del curricolo in senso inclusivo (livello meso)

La didattica per competenze dovrebbe costituire per più di un motivo l’orientamento metodologico prevalente, per non dire esclusivo, all’interno della scuola. Secondo la costellazione formata dai recenti sviluppi normativi, innovazione, inclusione e qualità sono termini da considerare in intima correlazione. La didattica per competenze risponde a questi requisiti perché: 1) muove all’utilizzo di metodologie a mediazione sociale come il cooperative learning (inclusività), 2) invita a costruire ambienti di apprendimento caratterizzati dai compiti di realtà (innovazione), 3) porta a considerare le competenze sociali e relazionali degli alunni alla stessa stregua delle altre e necessariamente implicate alle altre (inclusività), 4) conduce gli alunni ad assumere una posizione attiva verso lo sviluppo del proprio apprendimento, 5) produce un significativo cambiamento nelle pratiche della valutazione, spesso condizionata eccessivamente da esigenze classificatorie e sanzionatorie che potremmo definire di routine. Se si considera la competenza come un “sapere agito”5, risulta evidente che gli apprendimenti disciplinari sono da intendersi come semplici mezzi per promuovere le competenze chiave e che la competenza si manifesta e si mobilita in relazione alla gestione di situazioni problematiche reali in cui sia possibile il trasferimento dei saperi e la loro applicazione significativa in compiti complessi. Non è sufficiente cioè che il sapere venga riprodotto dagli alunni, è necessario che il compito di realtà proposto richieda creatività, rielaborazione, interpretazione, metacognizione, applicazione, adattamento, riconcettualizzazione e non puramente “restituzione” di ciò che si è letto o ascoltato. Risulta del pari evidente come la competenza abbia molte dimensioni, comportando l’integrazione di conoscenze e abilità di tipo cognitivo e metacognitivo, ma anche personale, sociale e relazionale. Un curricolo “inclusivo” dunque è caratterizzato da una rielaborazione dei contenuti disciplinari coerente con le innovazioni metodologiche, tra cui spicca l’individuazione di una serie di compiti di realtà. Non si tratta quindi di rendere accessibile il curricolo apportando una riduzione facilitante per gli studenti con Bisogni Educativi Speciali, i quali finirebbero in questo modo per vedere confermata una condizione di separatezza, ma di concentrare la propria 5 «La competenza, quindi, viene intesa come la mobilitazione di conoscenze, abilità e risorse personali, per risolvere problemi, assumere e portare a termine compiti in contesti professionali, sociali, di studio, di lavoro, di sviluppo personale; in sintesi, cioè, un “sapere agito”». (FRANCA DA RE, La didattica per competenze, Pearson, 2013, Milano-Torino, pag. 10).


Verso la costruzione di indicatori di inclusività nella classe e nella scuola

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progettualità nel senso di una ridefinizione complessiva delle relazioni di insegnamento e di apprendimento che abbia come riferimento l’intera classe e auspicabilmente l’intera istituzione. Tali compiti di realtà rappresentano dei “punti di contatto” curricolare, come li definisce Dovigo6, capaci di intercettare i percorsi personali specifici dei singoli alunni, con quelli dell’intera classe. Il curricolo, quindi, va ristrutturato in funzione della proposta di compiti di realtà (autentici o simulati) finalizzati alla promozione delle competenze e alla loro valutazione, affinché consentano di integrare le risorse individuali in un clima di collaborazione e di sana competizione. Il punto di volta per progettare un curricolo inclusivo è spostare l’attenzione dal prodotto delle attività al processo attraverso cui si realizzano: il prodotto da realizzare è chiaramente importante, ma il fine dell’attività è proprio quello di esplicitare i processi di apprendimento che, dapprima sperimentati socialmente, diventeranno patrimonio dell’alunno mediante interiorizzazione progressiva, al punto da consentirgli il trasferimento in altri contesti delle procedure apprese. GRIGLIA DI REVISIONE PER IL CURRICOLO COMPITO DI REALTÀ

COMPETENZA SPECIFICA

ELEMENTO DI INCLUSIVITÀ

• Applicare durante la lettura Individuare in coppia o in piccolo • Lavoro in gruppo cooperativo. varie tecniche di supporto alla • Confronto e conflitto gruppo le informazioni principali e le comprensione. sequenze di un testo, per poi cognitivo. procedere individualmente alla • Esplicitazione degli aspetti stesura del riassunto. cognitivi sottesi all’attività. Individuare in coppia o in piccolo gruppo le parole chiave di un testo, i legami e le parole legame che li esplicitano, per poi procedere alla realizzazione di mappe concettuali.

• Applicare strategie di lettura in • Lavoro in gruppo cooperativo. funzione del riconoscimento di • Confronto e conflitto parole-chiave, informazioni cognitivo. principali e strutture logiche • Esplicitazione degli aspetti sottese all’organizzazione dei cognitivi sottesi all’attività. testi. • Rappresentazione visiva dei concetti in forma sintetica.

Pianificare la stesura di testi mediante categorizzazione di idee emerse nel corso di un brainstorming. Stesura individuale del testo.

• Produrre testi scritti come risultato di un’attività complessa caratterizzata da procedure di ideazione, pianificazione, stesura e revisione del testo.

Schematizzare efficacemente il contenuto di testi di varia tipologia in vista di una presentazione alla classe o anche di una lezione da svolgere in attività di tutoraggio fra pari.

• Ricavare informazioni da testi continui, non continui e misti per documentarsi su un argomento specifico o per realizzare scopi pratici.

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DOVIGO F., Fare differenze, Erickson, Trento, 2007, pag. 127.

• Elaborazione del pensiero mediante il dibattito.

• Peer tutoring. • Presentazioni di indagini alla classe da parte degli alunni.


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COMPITO DI REALTÀ

Pierluigi Fabbri

COMPETENZA SPECIFICA

ELEMENTO DI INCLUSIVITÀ

Confrontare in piccolo gruppo • Selezionare le informazioni di • Indagine individuale e di l’approfondimento effettuato testi di espositivi, ricavarne gruppo su temi di interesse individualmente di un sotto contenuti per documentarsi su scelti autonomamente. argomento di una tematica. un argomento specifico. • Confronto e conflitto Produrre un unico testo di gruppo e • Riferire argomenti di studio cognitivo. decidere in merito alle modalità di esponendo le informazioni • Visualizzazione dei concetti restituzione alla classe. Stesura di secondo un’organizzazione attraverso la grafica e un testo espositivo individuale frutto coerente frutto di l’immagine. dello studio di tutti i materiali pianificazione. Servirsi di provenienti dai vari gruppi (ciascun materiali di supporto anche di gruppo affronta un sotto argomento tipo multimediale. diverso della stessa tematica, ad es. per il tema “Mitologia” i seguenti sotto argomenti: teogonie, cosmogonie, divinità, eroi, miti di fondazione, mostri mitologici, ecc.) • Intervenire in modo pertinente • Confronto e conflitto Confrontarsi in piccolo gruppo con cognitivo. in una conversazione o in una compagni che hanno analizzato gli discussione rispettando il stessi brani per procedere al • Elaborazione del pensiero turno di parola, argomentando trasferimento di tali conoscenze mediante il dibattito. le proprie affermazioni, mediante produzione di altri testi • Scelta della tipologia testuale fornendo un contributo anche per scopi pratici (ad es. ed espressiva ritenuta più personale costruttivo. rappresentare la morale di una adeguata ad esprimere il favola, sviluppare gli stessi elementi • Utilizzare il risultato dell’analisi proprio pensiero. narrativi secondo le caratteristiche testuale per comprendere le di generi diversi, pubblicizzare un principali intenzioni racconto o un prodotto mettendone comunicative dell’autore. in evidenza le qualità, realizzare una • Scrivere testi corretti dal canzone o una poesia intorno ad un punto di vista morfosintattico, tema controverso di interesse civile ortografico, lessicale, o altro, intervistare un personaggio selezionando il registro ed il storico, scrivere una lettera lessico più adeguati in immedesimandosi in un funzione dello scopo personaggio storico o letterario, comunicativo e del ecc.) destinatario. • Intervenire in modo pertinente • Analisi della situazione della Ricercare, a partire dall’esperienza classe e cura delle relazioni. in una conversazione o in una di convivenza nella classe e nella discussione fornendo un • Ricerca di soluzioni mediante scuola, la presenza di dinamiche contributo personale problem solving. relazionali e di sistemi valoriali. costruttivo. Analizzare i significati sottesi a tali esperienze e rintracciare elementi di • Fare ipotesi motivate su fatti e fenomeni di tipo storicoconfronto con la realtà storica e sociale. sociale. Effettuare giochi di ruolo o esperienze di teatro sociale con cui prendere coscienza delle proprie modalità comunicative sperimentando la possibilità di rappresentare il proprio vissuto e di esprimersi al di fuori degli schemi consueti, spesso fonti di labeling.

• Padroneggiare gli strumenti espressivi ed argomentativi indispensabili per gestire l’interazione comunicativa verbale in vari contesti.

• Esplicitazione dei significati impliciti che si annidano nei processi di relazione sociale e che di solito assumono una dimensione di routine su cui non si riflette.


Verso la costruzione di indicatori di inclusività nella classe e nella scuola

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La griglia di osservazione di un’organizzazione inclusiva (livello macro)

La costruzione di un modello inclusivo riguarda anche l’organizzazione del sistema scolastico nel suo complesso. Spesso l’impostazione burocratica e gerarchica nella gestione dell’istituto produce standardizzazione, sub-addattamento dei membri e incapacità di adattare le decisioni e le pratiche singolari alla complessità delle specifiche situazioni. E così di fronte all’individuazione di problematiche nuove, si finisce paradossalmente col considerare come problemi solo quelli a cui si adattano le soluzioni già disponibili. La costruzione di un modello inclusivo richiede invece un sistema di azione flessibile tipico della learning organization, il modello biologico della comunità che apprende7. Dalla base si sviluppa la lettura dei bisogni a contatto con la complessità mutevole; i bisogni vengono tradotti in bisogni di formazione, di autoformazione, di innovazione metodologica. L’adattamento allo specifico implica da parte della dirigenza flessibilità e orizzontalità, non separazione di funzioni, ma valorizzazione delle risorse interne. I docenti sono coinvolti nella valutazione collegiale delle situazioni, definiscono piani di azione sostenibili, li implementano, li monitorano, li revisionano, confrontano i risultati con gli obiettivi iniziali e producono un nuovo piano di azione. Le acquisizioni sono messe a disposizione dell’intera organizzazione. Ogni aspetto della strategia organizzativa e del lavoro docente è inteso come una sfida cognitiva e problem solving, non una rigida applicazione di ricette standard. Il modello è quello di una trasformazione dell’istituzione dal basso: ci si aspetta, dopo vent’anni di autonomia, che le istituzioni scolastiche siano in grado di applicare modelli di governance partecipati. Nel contesto di un’operazione rivolta al rinnovamento delle pratiche didattiche come quello qui descritto, la disarmonia fra gli stili di insegnamento dei docenti gioca un ruolo sostanziale. Infatti la frammentazione e la puntualizzazione dell’insegnamento in tanti diversi profili di docente, inficia profondamente anche i sinceri tentativi di innovazione da parte di alcuni, a causa delle dissonanze percepite dagli alunni. Talvolta gli alunni sono portati a non aderire pienamente alle richieste del docente inclusivo, pur intuendo la validità delle proposte, preferendo percorrere la via di adattarsi solo formalmente alle richieste del docente tradizionale, così facendo maturano velocemente l’abilità che molti riconoscono ai nostri studenti: quella di studiare molti modi per andare bene a scuola senza apprendere nulla.

7 Peter Senge, l’autore del celebre The Fifth Disciplines (1994), considera come apprendimento organizzativo un tipo di organizzazione in cui la leadership decentralizzata possa essere un’utile strategia che assicura la crescita delle persone, la spinta verso obiettivi comuni e la produttività dell’organizzazione.


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Pierluigi Fabbri

ORGANIZZAZIONE INCLUSIVA DIMENSIONI A) INSEGNAMENTO COOPERATIVO

SOTTO DIMENSIONI 1. Si attuano forme di codocenza e di collaborazione fra docenti sempre più estese, anche con figure professionali diverse (pedagogista), senza entrare in competizione o percepire una diminutio e cercando il confronto e l’integrazione fra competenze diverse.

INDICATORI • Presenza di uno psicopedagogista di riferimento, • numero di incontri con i docenti, • grado di disponibilità dei docenti a collaborare in funzione di una trasformazione autentica del sistema e della sua disfunzionalità, • presenza di un gruppo di lavoro per il sostegno al metodo cooperativo e all’innovazione metodologica

B) AUTOFORMAZIONE

1. Gli insegnanti si impegnano in • Numero di docenti esperti, un’attività di formazione continua • numero di incontri effettuati fra i docenti del ed essendo messe a gruppo per il sostegno al metodo disposizione le acquisizioni, è la cooperativo, comunità che apprende • rilevanza e pertinenza delle tematiche continuamente e muta affrontate in funzione del cambiamento del sperimentando in funzione di ciò sistema che ha appreso.

C) COERENZA ED ADERENZA ALLA MISSION DELL’ISTITUTO

1. Le azioni di tutti gli attori sono coerenti con la strategia organizzativa e le finalità del modello inclusivo, producendo una comunità scolastica coesa.

D) LA FUNZIONE DI SOSTEGNO E LA GESTIONE DEGLI ALUNNI CON DISABILITÀ

• Il progetto pedagogico risulta realmente condiviso fra i docenti e non si segnalano incoerenze nella gestione della classe, • numero delle iniziative di formazione sul tema dell’inclusione

2. Il dirigente si fa personalmente carico, in ragione della sua leadership educativa, di realizzare un modello inclusivo attraverso iniziative di formazione e chiari atti d’indirizzo che non si limitino al rispetto formale e burocratico degli adempimenti, ma che contribuiscano a sollecitare un habitus riflessivo all’interno dell’organizzazione, esplicitando la necessità di realizzare la transizione dal modello dell’integrazione a quello dell’inclusione.

• realizzazione di un modello di autovalutazione di istituto riguardo al livello di inclusività della scuola che sia basato su una riflessione approfondita sulla scorta di una rilevazione di dati attendibili che riguardino la soddisfazione di tutti gli utenti.

1. Uso del tempo fuori dalla classe.

• Il disabile trascorre al massimo il 20% del tempo scuola fuori della classe per esigenze improrogabili.

• Il disabile partecipa al clima culturale della 2. Partecipazione al “clima classe almeno per l’80% delle occasioni. culturale” della classe (ad esempio lavoro in coppia, lavoro in gruppo, ecc.).


Verso la costruzione di indicatori di inclusività nella classe e nella scuola

DIMENSIONI

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SOTTO DIMENSIONI

INDICATORI

3. Accompagnamento del disabile da parte dell’insegnante di sostegno.

• Il docente di sostegno si sofferma con discrezione presso il disabile lo stretto tempo necessario, ma lo fa anche con altri alunni proporzionalmente per lo stesso tempo.

4. Rapporto esclusivo/inclusivo con il disabile.

• Il docente di sostegno si configura come un esperto dell’inclusione e investe gran parte delle sue risorse nella costruzione delle competenze inclusive del gruppo classe permettendo che i ragazzi effettuino il tutoring nei suoi confronti. • Aiuta i compagni ad aiutarlo e sposta il suo campo d’azione sulle competenze inclusive della classe. Il discorso cambia solo in caso di disabilità molto grave.

D) LA FUNZIONE DI SOSTEGNO E LA GESTIONE DEGLI ALUNNI CON DISABILITÀ

5. Legame tra l’intervento • Non ci si limita a recepire la diagnosi clinica pedagogico e diagnosi come un dato di fatto, ma si contribuisce a clinica (possibilità legislativa costruire le condizioni affinché l’ambiente di assumere misure dispensative scolastico possa fornire un supporto e strumenti compensativi potenzialmente senza limiti allo sviluppo delle per l’alunno diversamente risorse della persona, piuttosto che un abile o DSA) ostacolo. • Si usa la dispensazione solo se la sua mancanza dovesse amplificare in modo insostenibile l’ansia prestazionale. • Si usa la compensazione quando richiesta e comunque integrata in un modello didattico che la generalizzi come strumento di supporto cognitivo valido per tutti gli alunni.

Per concludere

La proposta di indicatori che traducono nella pratica scolastica i principi dell’inclusività vuole facilitare la presa d’atto di docenti, dirigenti e famiglie, sulla strada da percorrere se si vuole davvero passare da un vecchio ad un nuovo paradigma educativo. Per ora, possiamo affermare con certezza che non può essere considerata inclusiva quella scuola nella quale: • i docenti sono ridotti a funzionari la cui preoccupazione prevalente e talvolta unica è lo svolgimento del programma, • la didattica è subordinata all’esigenza di raccogliere voti per giustificare il giudizio sulla scheda di valutazione, • le attività seguono prevalentemente la routine spiegazione-studio-verifica, • i ragazzi e le famiglie si riferiscono esclusivamente ai voti come unico indicatore del successo formativo, • i docenti ed i genitori diffidano sistematicamente gli uni degli altri, • non c’è l’abitudine a riflettere su ciò che si fa e su come lo si fa.


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Studenti con BES e la formazione degli insegnanti

Chiara Carabelli*

OPPInformazioni, 121 (2016), 72-80

Il Referente per l’inclusione nello staff docente

Premessa: nota storico-culturale sull’inclusione

L’inclusione è un valore che il nostro Paese ha sposato fin dal 1977 quando, con la legge 517, è stato possibile procedere all’abolizione delle classi differenziali per gli alunni svantaggiati ed è stato consentito a tutti gli alunni disabili di assolvere all’obbligo scolastico nelle scuole comuni. Venne istituita così la figura professionale dell’insegnante di sostegno, come strumento necessario per adempiere a tale obbligo. Il ruolo ricoperto dall’insegnante di sostegno era quello di fare da ponte, tra l’alunno disabile da un lato, verso i docenti, impreparati a gestire alunni con disabilità nella classe di appartenenza. Nel tempo la normativa sull’inclusione delle persone in situazione di disabilità, una delle più avanzate d’Europa, si è arricchita, ampliando progressivamente non solo gli spazi di accoglienza per gli allievi disabili, ma anche, le modalità con le quali garantire la loro piena partecipazione alla vita della scuola. Di pari passo sono modificate le prassi relative all’intervento dell’insegnante di sostegno, che è divenuto, sempre più diffusamente, risorsa per la gestione della classe nel suo insieme. Le tematiche della difficoltà in ambito scolastico sono rimaste al centro della riflessione sull’integrazione a scuola e, di conseguenza, sempre più ricca si è fatta la ricerca di quali dovessero essere le risorse da attivare per permettere a tutti gli alunni di usufruire appieno dell’esperienza scolastica: l’insegnante di sostegno non poteva essere interpretata quale risposta esaustiva al bisogno, in continua crescita, di accompagnamento personalizzato in quanto sempre maggiore è la consapevolezza della molteplicità delle differenze individuali, che lo rendono indispensabile. È del 2010, all’atto dell’emanazione della legge 170, l’istituzione della figura di referente per gli alunni con Disturbi Specifici di Apprendimento, che rico* Referente per l’inclusione, I.S. Falcone, Gallarate (VA).


Il Referente per l’inclusione nello staff docente

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nosce la dislessia, la disortografia, la disgrafia e la discalculia quali disturbi specifici dell’apprendimento che si manifestano in alunni che non presentano disabilità d’altro tipo. All’art. 4 comma 1 la norma indica come necessaria “la formazione del personale docente e dirigenziale delle scuole di ogni ordine e grado, comprese le scuole dell’infanzia, a garanzia di un’adeguata preparazione riguardo alle problematiche relative ai Disturbi Specifici di Apprendimento, finalizzata ad acquisire la competenza per individuarne precocemente i segnali e la conseguente capacità di applicare strategie didattiche, metodologiche e valutative adeguate”1. All’art. 5, comma 2 si riconferma come perentorio quanto già indicato dalla L. 53/03 in materia di insegnamento: “l’uso di una didattica individualizzata e personalizzata, con forme efficaci e flessibili di lavoro scolastico che tengano conto anche di caratteristiche peculiari dei soggetti, quali il bilinguismo, adottando una metodologia e una strategia educativa adeguate”; con questo l’intera Istituzione scolastica è chiamata ad impegnarsi ad una riorganizzazione interna, tanto da un punto di vista pedagogico che organizzativo, in quanto l’occuparsi di persone in difficoltà non è più delegato al solo ruolo dell’insegnante di sostegno, risorsa da sempre considerata “aggiuntiva” e quindi di per sé non organica al sistema del quale pur faceva parte e del quale aveva assunto la contitolarità, ma all’intero corpo scolastico. L’Istituzione del Referente per gli alunni con Disturbi Specifici di Apprendimento, secondo quanto previsto dalle Linee Guida allegate al D.M. 5669 del 12 luglio 2011, riconosce come sia urgente effettuare un’opera di “sensibilizzazione ed approfondimento delle tematiche, nonché del supporto ai colleghi direttamente coinvolti nell’applicazione didattica delle proposte”2. Il cambiamento culturale innescato con la L. 517 e poi ulteriormente confermato con la L. 104/92 non si era ancora, evidentemente, ben innestato nel sistema scolastico nel 2011 (anno della pubblicazione delle Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento), ma aveva aperto lo sguardo e l’attenzione alle caratterizzazioni individuali degli alunni che determinano le differenze nelle loro performances. La Legge 170/10, di fatto, rimarcava l’urgenza della assunzione della responsabilità pedagogica e didattica di tutti i docenti affinché siano in grado di garantire a tutti, nel rispetto delle caratteristiche individuali, un insegnamento personalizzato ed individualizzato. Il problema posto dagli allievi disabili e dagli allievi con Disturbo Specifico di Apprendimento all’interno del sistema scolastico è in sostanza quello di come superare prassi didattiche, quali la lezione frontale, di tipo trasmissivo, che ancora oggi costituisce un modello di riferimento per molti e che sosti1 Cfr. Legge 170 del 2010, Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico. 2 MIUR, Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento, Allegato al DM 12.7.2011, par. 6.3, p 23.


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Chiara Carabelli

tuisce la ‘cura personale’ con un’erogazione standardizzata dell’atto educativo. Un impulso coerente con questo indirizzo è arrivato nel 2002, con la sottoscrizione del Sistema di Classificazione Internazionale ICF, siglato dal nostro Paese, che ha rappresentato un momento di svolta essenziale nel ripensare il paradigma dell’inclusione. “A differenza del paradigma biomedico, basato su una teoria che interpreta il deficit come caratteristica strettamente individuale, il modello sociale vede il disturbo o la disabilità come frutto di un’interazione tra il soggetto e il contesto in cui si trova a vivere. È la cultura (e l’insieme delle microculture che la compongono) a creare quell’insieme di norme più o meno visibili che definiscono la normalità, e così facendo facilitano o impediscono l’accesso a determinati gruppi di persone, trasformando la differenza in devianza”3. Le condizioni di salute di un individuo possono quindi trovare nell’ambiente in cui vive condizioni di facilitazione o barriere alla piena espressione di sé. All’interno del contesto scolastico questo assunto di ICF richiama il sistema nel suo insieme ad assumere la responsabilità diretta di alcune logiche: la flessibilità didattica ed organizzativa, l’introduzione efficace di ausili, l’integrazione dei servizi, senza le quali la difficoltà individuale può diventare vera e propria disabilità. Questo passaggio culturale ha rappresentato una reale rivoluzione del paradigma precedente, che prevedeva, per gli allievi con difficoltà personali, risorse aggiuntive per consentire a questi alunni di adattarsi al contesto scolastico. Ora, invece, si introduce in modo chiaro la necessità che sia il contesto ad attuare gli aggiustamenti affinché tutti gli allievi possano esprimersi, individuando le risorse necessarie, prima di tutto all’interno del proprio sistema. In questa cornice si inserisce la Nota Ministeriale del 19.11.2015, prot. n. 37900 che avvia le procedure per l’istituzione di corsi di formazione specificatamente destinati a docenti di sostegno per l’acquisizione delle competenze “didattiche ed organizzative capaci di garantire una effettiva realizzazione di Piani per l’inclusione sempre più adeguati alle esigenze degli allievi e delle scuole”. Il Referente per L’inclusione “collaborando con il dirigente scolastico (ai sensi della Legge 107, art. 1, comma 83) - assicuri un efficace coordinamento di tutte le attività progettuali di istituto, finalizzate a promuovere la piena integrazione di ogni alunno nel contesto della classe e della scuola”4. Le figure referenti per allievi disabili e con D.S.A

Con l’autonomia scolastica funzionale, di cui alla Legge 59/1997, le istituzioni scolastiche hanno acquisito la personalità giuridica e dunque è stato loro attribuito il potere discrezionale tipico delle Pubbliche Amministrazioni. 3 Cfr. BOOTH T., AINSCOW M., L’Index per l’inclusione, Erickson, Trento 2002, (Gli ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione), p. 19. 4 Cfr. Nota MIUR 19.11.2015, prot. n. 37900, Premessa.


Il Referente per l’inclusione nello staff docente

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Secondo quanto indicato nelle Linee Guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità pubblicate nel 2006 dal Ministero della Pubblica Istruzione, il Dirigente Scolastico, nell’esercizio del suo ruolo di garante della qualità dell’offerta formativa in materia di integrazione scolastica, per la realizzazione operativa delle attività concernenti l’integrazione scolastica, può individuare una figura professionale di riferimento (figura strumentale)5. Al docente coordinatore per le attività connesse all’integrazione scolastica degli allievi in situazione di disabilità, le Istituzioni scolastiche assegnano compiti che generalmente prevedono: • la convocazione e il presiedere le riunioni del gruppo H, nel caso di delega del Dirigente Scolastico; • la collaborazione con il dirigente scolastico e il GLH d’Istituto per l’assegnazione degli alunni alle classi di riferimento e delle relative ore di sostegno; • l’organizzazione e la programmazione degli incontri tra Aziende Sanitarie, scuola e famiglia; • la partecipazione agli incontri di verifica iniziale, intermedia e finale, dei progetti relativi agli alunni, con gli operatori sanitari; • la definizione del calendario delle attività del gruppo H e di quelle di competenza dei Consigli di Classe che riguardano gli alunni in situazione di disabilità; • il coordinamento del gruppo degli insegnanti di sostegno, raccogliendo i documenti da loro prodotti nel corso dell’anno scolastico e le buone pratiche da essi sperimentate; • la gestione dei fascicoli personali degli alunni disabili; • la gestione del passaggio di informazioni relative agli alunni tra le scuole, con i servizi territoriali dell’Area Fragilità per i maggiorenni, e all’interno dell’istituto, al fine di perseguire la continuità educativo-didattica nell’ottica del Progetto di Vita; • la formulazione delle richieste, qualora ve ne sia la necessità, di ausili e sussidi particolari; • la promozione delle iniziative relative alla sensibilizzazione per l’integrazione/inclusione scolastica degli alunni, proposte dal dipartimento degli insegnanti di sostegno. È questa una figura con compiti prevalentemente di tipo tecnico organizzativo, ma non di meno promotrice della cultura inclusiva, che si sostanzia nelle azioni connesse all’organizzazione e alla creazione delle reti con tutte le figure che accompagnano e sostengono l’alunno nel suo Progetto. Ad oggi è ancora una figura priva di uno statuto definito, le cui caratteristiche 5

Cfr. Nota 3.


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Chiara Carabelli

quindi dipendono dalla realtà scolastica nella quale è inserita, e non è sempre scontato che in tutte le scuole sia stata istituita. Permangono infatti situazioni nelle quali il numero degli allievi disabili frequentanti è estremamene limitato, e dove gli insegnanti di sostegno (spesso l’insegnante di sostegno, unico in servizio nella scuola) vivono la realtà dell’estraneazione rispetto alle scelte di tipo organizzativo dell’Istituto, senza una reale possibilità di incidere sulle scelte in materia di inclusione. Il Referente per l’Inclusione viene ad affiancarsi al Referente per gli alunni con Disturbo Specifico di Apprendimento, che dovrebbe avere un proprio status, conferito dalle Linee Guida sui DSA del 2011, e un profilo funzionale già riconosciuto. In generale, le funzioni del Referente per l’Inclusione sono riferibili all’ambito della sensibilizzazione ed approfondimento delle tematiche, nonché del supporto ai colleghi direttamente coinvolti nell’applicazione didattica delle proposte. Il referente che avrà acquisito una formazione adeguata e specifica sulle tematiche, a seguito di corsi formalizzati o in base a percorsi di formazione personali e/o alla propria pratica esperienziale/didattica, e diventa punto di riferimento all’interno della scuola; in particolare, assume, nei confronti del Collegio dei docenti, le seguenti funzioni6: • fornisce informazioni circa le disposizioni normative vigenti; • fornisce indicazioni di base su strumenti compensativi e misure dispensative al fine di realizzare un intervento didattico il più possibile adeguato e personalizzato; • collabora, ove richiesto, alla elaborazione di strategie volte al superamento dei problemi nella classe con alunni con Disturbo Specifico di Apprendimento; • diffonde e pubblicizza le iniziative di formazione specifica o di aggiornamento; • fornisce informazioni riguardo alle Associazioni/Enti/Istituzioni/Università ai quali poter fare riferimento per le tematiche in oggetto; • fornisce informazioni riguardo a siti o piattaforme on line per la condivisione di buone pratiche in tema di DSA; • offre supporto ai colleghi riguardo a specifici materiali didattici e di valutazione; • cura la dotazione bibliografica e di sussidi all’interno dell’Istituto; • funge da mediatore tra colleghi, famiglie, studenti (se maggiorenni), operatori dei servizi sanitari, EE.LL. ed agenzie formative accreditate nel territorio; • informa eventuali supplenti in servizio nelle classi con alunni con Disturbo Specifico di Apprendimento. 6

Cfr. Nota 3.


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La legge 170/2010 ha riportato in primo piano un importante fronte di riflessione culturale e professionale su ciò che oggi significa svolgere la funzione docente, sollecitando la scuola – nel contesto di flessibilità e di autonomia avviato dalla legge 59/99 – a porre la persona al centro delle proprie attività e della propria cura, sulla base dei principi sanciti dalla legge 53/2003: “La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione”. L’azione del Referente, in questa cornice, assume il ruolo della sensibilizzazione culturale e quindi interviene non solo sugli aspetti di tipo tecnico operativo, ma ha il compito di promuovere lo sviluppo delle competenze dei colleghi docenti. È avvenuta quindi una significativa svolta nella presa in carico, da parte dei docenti, degli alunni che presentano difficoltà di apprendimento, con un ripensamento all’interno di tutto il corpo docente, in materia di soluzioni didattiche e ausili da utilizzare, e un’assunzione di responsabilità attiva nei confronti degli alunni e delle loro famiglie, rispetto al successo scolastico degli alunni con Disturbo Specifico di Apprendimento, prima facilmente delegata all’insegnante di sostegno, se presente in classe e spesso trascurata. Il Progetto Didattico Personalizzato che il consiglio di classe deve elaborare entro il mese di novembre, costituisce il documento nel quale la scuola assume su di sé la responsabilità e quindi l’impegno a rimuovere le barriere che sono presenti nell’attività didattica comune e che possono ostacolare, in caso di disturbo specifico, il successo nell’apprendimento. La Direttiva del Ministero della Pubblica Istruzione Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica (27 Dicembre 2012) va a colmare la forte richiesta di intervento competente nella cosiddetta “area grigia” del disagio scolastico7. Nella Circ. min. n. 8 del 6 marzo 2013, che fa seguito alla Direttiva del dicembre 2012, si legge: “La Direttiva ridefinisce e completa il tradizionale approccio all’integrazione scolastica, basato sulla certificazione della disabilità, estendendo il campo di intervento e di responsabilità di tutta la comunità educante all’intera area dei Bisogni Educativi Speciali (BES). La Direttiva estende pertanto a tutti gli studenti in difficoltà il diritto alla personalizzazione dell’apprendimento, richiamandosi espressamente ai principi enunciati dalla legge 53/2003”8. Nella Circolare Ministeriale, si coglie come la dimensione dell’inclusione sposti il focus dall’alunno al contesto nel quale è inserito, che ha la responsabilità di attivarsi per consentire a ciascuno il progresso nel conseguimento dei 7 Cfr. COLOMBO E., LEONINI L.. (a cura di), Handicap e integrazione. Una ricerca nelle scuole lombarde, Unicopli, Milano, 2005. 8 MIUR, Circ. Min. n. 8 del 6 marzo 2013, pp. 1-2


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risultati scolastici: “La rilevazione, il monitoraggio e la valutazione del grado di inclusività della scuola sono finalizzati ad accrescere la consapevolezza dell’intera comunità educante sulla centralità e la trasversalità dei processi inclusivi in relazione alla qualità dei ‘risultati’ educativi. Da tali azioni si potranno inoltre desumere indicatori realistici sui quali fondare piani di miglioramento organizzativo e culturale” 9. L’insegnante di sostegno, nella sua dimensione di contitolare dell’azione svolta in classe, diviene supporto ai docenti per tutto quanto attiene alla dimensione inclusiva, mettendo a disposizione la sua specifica formazione in materia di difficoltà di apprendimento, didattica inclusiva, ausili, come anche per la individuazione degli alunni con Bisogni Educativi Speciali. Questa interazione permette al consiglio di classe di elaborare un Piano didattico personalizzato capace di rispondere alle situazioni stabilizzate, come a quelle di temporanea difficoltà, nel conseguire le competenze attese previste dal curricolo. Assumere su di sé la responsabilità di individuare risposte personalizzate utili a ciascun alunno, non si esaurisce nell’azione che il singolo docente svolge all’interno della classe in relazione al proprio orario di servizio, ma sollecita una diversa gestione del consiglio di classe quale gruppo di lavoro che, tutto insieme, affronta la tematica dell’intervento personalizzato, condivide linee operative e strumenti di lavoro, analizza collegialmente gli elementi che possono costituire barriera al successo scolastico così da rimuoverli, adotta gli strumenti di facilitazione che sono emersi nell’osservazione quotidiana. La collegialità, la condivisione di pratiche efficaci, la cooperazione sinergica di diversi interlocutori, costituiscono condizioni essenziali per il miglioramento qualitativo della scuola, in una dimensione sistemica che supera il confine del consiglio di classe, e diviene humus culturale nel quale la personalizzazione diviene una opportunità per il miglioramento e la riqualificazione dei processi. Il referente per l’inclusione come figura di staff

Tutto quanto fin qui delineato viene richiamato con la Nota MIUR 19.11.2015, che “istituisce i corsi di formazione in servizio dei docenti specializzati sul sostegno sui temi della disabilità. L’iniziativa formativa si caratterizza per il forte collegamento con obiettivi di miglioramento delle pratiche organizzative e didattiche inclusive di ogni istituto scolastico” ed è indirizzata ai docenti di sostegno, dei quali si riconosce la competenza tecnica specifica, acquisita nei percorsi di specializzazione. La formazione specialistica dell’insegnante di sostegno, dovrebbe attrezzarlo per l’osservazione e l’analisi delle difficoltà al fine di rimuovere gli ostacoli che le determinano, là dove questi ostacoli siano esterni alla persona. 9

MIUR, Circ. Min. n. 8 del 6 marzo 2013, p. 5.


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Come abbiamo già visto, l’insegnante di sostegno costituisce una risorsa principalmente per il consiglio di classe, che viene arricchito del suo sguardo e della consuetudine che gli deriva dalla pratica professionale alla mediazione, alla ricerca di facilitatori funzionali a favorire l’acquisizione di competenze orientate alla maggiore autonomia possibile per la persona. La competenza specialistica degli insegnanti disciplinari, che restano detentori della conoscenza specifica dei contenuti, dei linguaggi e delle metodologie didattiche di ogni materia, si arricchisce della conoscenza più profonda dei processi di apprendimento e delle difficoltà ad essi correlate, aiutandoli a sviluppare capacità di analisi delle difficoltà e la conseguente ricerca delle soluzioni. Perché l’insegnante di sostegno possa divenire davvero risorsa per l’intero consiglio di classe e per la scuola nel suo insieme, oltre che possedere la competenza nella didattica speciale, è necessario che il suo ruolo si arricchisca della competenza relativa alla gestione di snodo della rete. Tale competenza si gioca nella progettazione dell’insieme delle azioni che il micro sistema consiglio di classe, o il macro sistema scuola, devono mettere in atto per permettere a ciascun alunno di esprimere al meglio le sue caratteristiche, e diviene, per questo, promotore scelte capaci di rispetto delle diverse individualità. A fronte di una legislazione indubbiamente avanzata in materia di inclusione, le prassi che caratterizzano la realtà della scuola italiana presentano ancora luci ed ombre, segno che il valore dell’inclusione come opportunità per la crescita dell’intera comunità scolastica e civile non è ancora da tutti acquisito. Sono molti gli aspetti di criticità che gli insegnati di sostegno e i familiari degli alunni spesso denunciano: • La marginalità dell’insegnante di sostegno all’interno dei consigli di classe e dei collegi docenti10. • La didattica inclusiva, spesso troppo delegata all’azione del solo insegnante di sostegno, in mancanza del quale vi è l’emarginazione dell’alunno rispetto alla vita della classe11. • La mancanza di cura degli spazi nei quali gli alunni abitano e la rigidità del loro utilizzo che non permette la realizzazione di progetti orientati all’età adulta, alla dimensione sociale dell’esistere, che rimanda ad un’idea di inclusione che va oltre la classe. • La miopia e la scarsa informazione sulle opportunità offerte agli alunni e alle loro famiglie, all’atto dei passaggi dall’istruzione di primo a quella di secondo grado. 10 M. Colombo parla di “ruolo debole” dell’insegnante di sostegno, in COLOMBO M., Diversabilità, capacità personale e uguaglianza nei processi educativi, in Sociologia delle politiche e dei processi formativi a cura di COLOMBO M., LANDRI P., GIOVANNINI G., Guerini, Milano, 2006, pp. 167-198. 11 Aspetto segnalato anche in ASSOCIAZIOINE TREELLE, CARITAS ITALIANA, FONDAZIONE AGNELLI (a cura di), Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte, Erickson, Trento 2011.


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Chiara Carabelli

• La difficoltà espressa dai docenti di sostegno, nel vivere, ancora oggi, la dimensione della contitolarità nella sua forma più ampia. • La carenza di docenti specializzati, che determina ancora oggi il ricorso a docenti privi di titolo di specializzazione e competenze adeguate. Il Rapporto della Fondazione Agnelli, già nel 2011, indicava la necessità di valutare sistematicamente efficacia ed efficienza delle prassi relative all’inclusione scolastica e dei risultati degli alunni in situazione di disabilità, e che garantiscano la piena corresponsabilizzazione di tutti i docenti, evitando la delega all’insegnate di sostegno, anche attraverso la valorizzazione dell’autonomia gestionale ed organizzativa degli Istituti. Grazie al contributo di un docente di sostegno più formato, e un servizio di sostegno più coordinato, queste tematiche possono ora essere portate all’interno dello staff e al centro della riflessione del Collegio docenti e del Dirigente Scolastico proprio, stimolando la flessibilità didattica che muove dalla volontà di «far spazio», all’Individuo all’interno del sistema e presidiando la coerenza tra progetto e esito delle azioni di ciascun membro della comunità scolastica. L’ottica dovrebbe essere la qualità verso la quale tanto affannosamente la scuola cerca di orientarsi, assumendo l’idea di inclusione che “si basa sul riconoscimento della rilevanza della piena partecipazione alla vita scolastica da parte di tutti i soggetti”. Il Referente per l’Inclusione porta, all’interno dello staff, “una filosofia dell’accettazione, ossia la capacità di fornire una cornice dentro cui gli alunni – a prescindere da abilità, genere, linguaggio, origine etnica o culturale – possono essere ugualmente valorizzati, trattati con rispetto e forniti di uguali opportunità a scuola”.12

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Cfr. BOOTH T., AINSCOW M., L’Index per l’inclusione, Erickson, Trento 2002, p. 13.


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Vita associativa

Adriano Pennati*

In ricordo di Angelo Roncari

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Angelo Roncari (1935-2016), ha fatto parte della Compagnia di Gesù dal 1954 al 1975, laureato in Filosofia e in Pedagogia, ha insegnato per alcuni anni nelle scuole superiori statali. Tra il 1976 e il 1981 ha collaborato in modo continuativo con Oppi, realizzando molte iniziative formative per insegnanti e partecipando al Comitato di redazione di “Oppi Documenti”. Socio fondatore di Satef srl nel 1980, ha svolto in questo ambito un’intensa attività di consulenza organizzativa e formazione in aziende ed enti pubblici. Ha rivestito la carica di Assessore alla Cultura nel Comune di Caronno Pertusella (VA), realizzando molte iniziative a favore dei cittadini più deboli. Appassionato di teologia e di esegesi biblica, ha conseguito anche una Licenza quadriennale in teologia. Ha scritto numerosi saggi e volumi, tra cui: Tener viva la speranza (Elledici, 1978); Alla ricerca del Padre (Cittadella, 2002); Il Regno di Dio è qui. Ora! (La Meridiana, 2013).

Non è facile scrivere di Angelo Roncari a qualche mese dalla sua scomparsa, se si è stati suoi colleghi e soci per più di trentacinque anni e suoi amici da poco meno di cinquanta: si rischia di confondere i piani, mescolando in modo inestricabile gli aspetti professionali con quelli personali. Dunque, lascerò a Roncari il compito di parlare delle sue convinzioni più profonde sul suo “mestiere” con un suo articolo di qualche anno fa e mi limiterò a ricordare alcune sue caratteristiche distintive che più hanno influito sul suo modo di essere “professionista dei processi di apprendimento”. La prima che mi viene in mente, pensando ad Angelo, è il suo amore per la ricerca, che si concretizzava in una formidabile capacità di entusiasmarsi di fronte al nuovo e di coglierne e utilizzarne gli aspetti più stimolanti, anche e forse soprattutto quando provenissero da discipline apparentemente lontane ed estranee alla formazione: un esempio per tutti, l’approccio sistemico, scoperto insieme tanti anni fa con la lettura de Il macroscopio di De Rosnay e mai più abbandonato, ma costantemente approfondito e utilizzato ai fini della progettazione e della gestione dei processi formativi. All’amore per la ricerca, in Angelo si sono sempre accompagnate due altre caratteristiche, apparentemente antitetiche ma in realtà complementari: la forza con la quale ha sempre espresso e difeso i suoi punti di vista e la grande libertà di spirito nell’ascoltare e, se del caso, recepire le critiche alle sue posizioni (ovviamente, dopo adeguato e spesso accalorato dibattito!). Infine, mi viene da ricordare ciò che ci ha accomunati per tanti anni di lavoro insieme: la fedeltà all’intuizione iniziale della centralità di colui che apprende, rispetto a chi per mestiere ne facilita i processi di crescita e sviluppo. Non posso non ricordare, a questo proposito, che questa intuizione nacque e si sviluppò negli anni in cui Angelo Roncari ed io, in OPPI, collaborammo con Giuseppe Braga (insieme al quale fondammo poi SATEF) sotto la guida di Maria De Benedetti: fu il periodo in cui sperimentammo su noi stessi il potenziale trasformativo dell’assunzione di responsabilità e di quella che chiamavamo allora “la metodologia del compito reale”. Credo che chi leggerà l’articolo di Angelo Roncari riconoscerà in esso un’eco potente di quegli anni, un’eco che continua a risuonare nelle persone che con Angelo hanno lavorato e che si sono formate alla sua scuola. Ottobre 2016 * Presidente di Satef srl (Sviluppo e Analisi di Sistemi e Tecnologie formative). Collaboratore di Oppi e redattore di Oppi Documenti dal 1976 al 1980.


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Vita associativa

Angelo Roncari*

Il ruolo e le competenze del “professionista dei processi di apprendimento”

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Introduzione: Il cambiamento delle persone nei contesti

Proviamo a riflettere sui problemi posti dal “cambiamento delle persone” a partire da un fenomeno che appartiene all’esperienza di tutti gli uomini diventati adulti o che hanno avuto dei figli che crescono: la crescita improvvisa degli adolescenti all’interno di una famiglia. I ragazzi crescono in fretta. Ci sono periodi in cui la crescita è tumultuosa. Chi li rivede a distanza di qualche mese, tra i quattordici e i quindici anni, non li riconosce facilmente. Tutto è cambiato in pochi mesi: non solo la voce (per i maschi), la statura, l’aspetto fisico, ma anche il modo di pensare, il rapporto con gli adulti, la visione del mondo: si tratta di una trasformazione profonda, che avviene in poco tempo e, apparentemente, da sola, senza che il contesto delle persone adulte abbia fatto nulla di intenzionale per attivarla, pilotarla o governarla. Anzi, quasi sempre, avviene contro e in opposizione alle intenzioni degli adulti. Si tratta di diversi processi interni, che appartengono ai meccanismi profondi della persona, che si attivano “a tempo”, tutti assieme, come risvegliati da stimoli che poco tempo prima lasciavano assolutamente indifferente l’individuo. All’improvviso questi stimoli mettono in moto dei processi “latenti” che diventano operativi nei vari sottosistemi della persona: muscolari, ormonali, endocrini, nervosi, con ricadute tumultuose a livello psicosomatico e comportamentale, e violente ripercussioni nei sistemi percettivi, relazionali, comunicativi: un vero e proprio terremoto. In pochi mesi, l’individuo si trasforma, diventa un altro, e il suo cambiamento interpella e provoca il cambiamento degli adulti nei suoi confronti: a seconda dei casi, essi assistono, o accompagnano, o cercano di guidare e pilotare il processo di cambiamento; ovvero lo ostacolano, lo distorcono, pretendono di influenzarlo, e quindi entrano in conflitto aperto. * Materiale grigio, per gentile concessione di Satef srl (Sviluppo e Formazione attraverso l’Esperienza), Milano, 2006.


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Quello che è certo è che il cambiamento di una persona attiva il cambiamento di tutto il sistema: anche gli altri (genitori, fratelli, amici) cambiano (sono costretti a cambiare) non solo nei suoi confronti (lo trattano in modo diverso, interagiscono con modalità diverse), ma quasi sempre cambiano “dentro”, cioè cambiano le persone e quindi anche i rapporti degli adulti tra di loro. L’intero sistema relazionale deve trovare un diverso punto di equilibrio e deve introdurre nuovi strumenti di regolazione del cambiamento, pena la rottura, la fuga o il conflitto permanente. Tanto che, nei casi di successo, si può dire che l’intero sistema famigliare ha appreso a gestire il cambiamento. L’esempio banale di un cambiamento che, prima o poi, appartiene all’esperienza di tutti, ci induce a riflettere sulle variabili essenziali dei processi di cambiamento delle persone: 1. Il concetto di potenzialità di sviluppo presenti in ogni organismo in interazione con l’ambiente. 2. Il concetto di funzione di regolazione e di accompagnamento dei processi di cambiamento da parte di figure di riferimento all’interno dei sistemi. 3. Il concetto di complessità, e di contemporanea attivazione di diversi processi di sviluppo, che si influenzano reciprocamente secondo una causalità circolare dove è impossibile stabilire chi influenza chi. 4. Il concetto di equilibrio di un sistema, minacciato dal cambiamento di una persona, di apprendimento dei singoli nei sistemi e di ricostruzione di nuovi equilibri di sistema, a partire dalla comune esperienza del cambiamento (e quindi di apprendimento del sistema in risposta all’input di una persona). Possiamo analizzare una per una le citate variabili. Parte prima: Le potenzialità di sviluppo presenti nell’organismo

Ogni essere vivente è attrezzato per rispondere, in modo funzionale, agli stimoli ambientali. L’evoluzione ha selezionato quegli organismi cha hanno messo a punto, nel corso di millenni, questi possibili sistemi di interazione, tanto che la potenzialità di interagire con l’ambiente di nicchia è ormai una specifica caratteristica di tutti gli esseri viventi: gli organismi che non hanno maturato questa potenzialità sono scomparsi dal quadro evolutivo. Questa osservazione elementare ci aiuta a capire che nessuno stimolo può creare dall’esterno un processo di sviluppo della persona: al massimo può attivare, “risvegliare” una potenzialità già presente, che si attiva secondo una logica e una sequenza predefinita che deve essere rispettata. I professionisti della formazione devono quindi conoscere molto bene i meccanismi e la logica dei processi di sviluppo delle persone, per poter adeguare gli stimoli “esterni” alle potenzialità “interne” e per regolare “dall’esterno” quei processi che non


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Angelo Roncari

appartengono alla competenza del professionista, ma all’“area di competenza” (potenziale, motivazione, responsabilità) del soggetto in formazione. La metafora della pianta nel bosco

Per modellizzare la sequenza logica di un processo di sviluppo degli organismi viventi, ricorriamo ad un altro esempio desunto dai livelli di base più elementari dello sviluppo della vita: ad es. l’apprendimento di un germoglio di betulla che cresce in una fitta pineta. Non sembri esagerato parlare di apprendimento a proposito di una pianta: autorevoli autori identificano il processo di apprendimento con il processo stesso della vita: “la vita è cognizione e apprendimento”.1 La betulla e il bosco – Per il seme di betulla caduto per caso nel sottobosco di una pineta, la spinta allo sviluppo deriva, dal bisogno di sopravvivere in un ambiente ostile, iscritto nel suo DNA: il bisogno è il motore dello sviluppo. Ma il bisogno di chi? Vedremo, studiando l’esempio, che non si tratta soltanto del bisogno del singolo organismo. – La pianticella “sa” di che cosa ha bisogno per crescere: luce e acqua. È attrezzata (ha tutte le potenzialità necessarie) per affrontare un ambiente ostile. E cerca, attraverso i suoi organi periferici (radici e foglie) l’informazione che le segnala la presenza degli elementi di cui ha bisogno per vivere. Con una difficoltà: mentre le radici trovano segnali di acqua abbondante nel terreno umido del sottobosco, la luce nella pineta scarseggia. L’ombra dei pini giganteschi chiude, nella verticale sopra la piantina, ogni possibilità di far filtrare la luce. Solo lateralmente ai margini del bosco, si apre una finestra a destra, che segnala la presenza di luce in una zona “innaturale” per la crescita di una pianta: non verso l’alto, ma di lato. – Gli organi sensoriali della betullina rilevano il nuovo dato, e la sua “centrale operativa” lo elabora, lo confronta con il proprio programma di crescita verticale, e decide di forzarlo per orientare il proprio sviluppo nella direzione laterale dove si è aperta la finestra di luce. Alla decisione segue l’azione: la produzione del materiale ligneo avviene per tutto un anno nella nuova direzione. E la betulla cresce storta. Ma cresce e vive. E modifica il bosco! Un nuovo abitante si è infatti installato, assorbe energia, produce ossigeno, intreccia radici, produce rami secchi e foglie marce, alimenta parassiti e funghi, contribuisce a consolidare il terreno… Il bosco, da quando è arrivata la betulla, non è più lo stesso. È cambiato assieme e in interazione con il nuovo venuto. – In un bosco che cambia e cresce ogni anno, la primavera successiva la finestra di luce che si era aperta, si chiude. La betullina sottopone con1

FRITJOF CAPRA, La scienza della vita, Rizzoli 2002.


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tinuamente il proprio processo di sviluppo ad attento monitoraggio (autoformazione continua e permanente!), si accorge del cambiamento del contesto e i suoi organi di rilevazione del segnale luminoso cercano disperatamente altrove una risposta: fino a che la trovano, ma questa volta in alto a sinistra. La verifica della propria direzione di crescita consente quindi alla piantina di decidere una nuova azione e un ulteriore cambiamento: crescita a sinistra, non più a destra (senza alcun sottinteso culturale o politico!). – Ma anche il bosco sottopone a verifica l’interazione con il nuovo venuto: se ci sono le condizioni per un suo inserimento costruttivo, a livello di convergenza con gli “interessi” dei primi occupanti e di condivisione delle risorse, la piantina cresce e si sviluppa. Se no, venendo a mancare le risorse indispensabili (per esempio, la penuria di acqua in un’estate torrida e secca), il bosco “rigetta” la nuova piantina e la betulla muore. Il sistema le nega le risorse necessarie al suo sviluppo. Inutile cercare il colpevole: le potenzialità e l’adattabilità della piantina, per quanto straordinarie, non sono state sufficienti a superare l’ostacolo ambientale. – Il risultato finale sarà quello che possiamo vedere tutti gli anni, d’estate, quando ci inoltriamo in una pineta di mezza montagna: nel sottobosco di pini giganteschi, crescono alcuni (pochi, rispetto ai semi arrivati nel bosco) esemplari tenaci di betulle storte, contorte ma vitali, sopravvissute alla severa selezione di un ambiente per loro ostile. Altre betulline, secche e prive di foglie, destinate ad alimentare in altro modo la vita del bosco. Fuori metafora, il processo di sviluppo di un organismo vivente segue un modello dinamico costante, interno all’organismo ma anche di interazione continua con gli altri organismi del sistema vivente: assunzione del bisogno, ricerca di informazioni, scoperta dei dati necessari, azione di adattamento al contesto, interazione dinamica con il contesto e reciproco influenzamento, verifica condivisa dei primi risultati dell’interazione, confronto con i programmi di sviluppo, “decisioni” e nuove interazioni, ecc., fino a produrre una risposta collettivamente soddisfacente al bisogno di tutto il sistema, continuamente aggiornata sulla base di nuove verifiche. Questo processo di reciproco adattamento di un organismo e del contesto ospitante è straordinariamente evidente nello sviluppo della singola cellula che, attraverso modificazioni successive, non solo sviluppa se stessa adattandosi al contesto ma genera il contesto e riceve dal contesto gli orientamenti per una progressiva ulteriore specializzazione: le cellule staminali che si differenziano progressivamente aggregandosi in sotto-sistemi (apparati) ricevono da questi (causalità circolare!) gli input per specializzare la propria azione e il proprio sviluppo! Nel continuo ricambio delle cellule, all’interno di ogni apparato, le nuove arrivate apprendono dal contesto a svolgere le azioni delle cellule sostituite.


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Angelo Roncari

Parte seconda: il professionista del processo di apprendimento

Se una pianta (e persino una singola cellula!) sono organismi in grado di realizzare un processo così complesso di reciproco influenzamento organismocontesto, a maggior ragione la persona umana ha le potenzialità per sviluppare questo apprendimento continuo in rapporto al contesto di vita e di lavoro: il processo di sviluppo appartiene all’area della sua competenza, mentre il professionista dei processi di apprendimento, che deve conoscerne la logica, non potrà che rispettarne il meccanismo di funzionamento, rinforzando e facilitando il processo di reciproco influenzamento individuo-contesto con gli opportuni stimoli, strumenti e azioni facilitanti, indirizzati sia al singolo apprendista che al contesto organizzativo. Solamente chi conosce in maniera approfondita la logica del processo di sviluppo di un organismo vivente nelle sue continue interazioni con il proprio ambiente, può fornire, volta per volta, gli stimoli adeguati all’avanzamento di ogni fase del processo, evitando così gli errori più frequenti che i “formatori” (che pretendono di dare forma dall’esterno) commettono (spesso con il risultato di ostacolare, anziché favorire lo sviluppo). Possiamo esaminare dettagliatamente i rischi di un’offerta formativa inadeguata a fronte di possibili azioni corrette, ripercorrendo criticamente gli anelli essenziali della “catena del valore” 2 di questo affascinante “mestiere”: il professionista dei processi di apprendimento. Analisi dei bisogni

Nella fase di analisi dei bisogni il rischio è quello di limitare l’analisi ad alcune componenti del fabbisogno (ritenute importanti dal sistema di offerta), trascurando magari quelle più efficaci ai fini della motivazione e dell’attivazione del processo di apprendimento (ritenute tali dai destinatari dell’offerta formativa): ad es. privilegiare l’analisi dei contenuti di una disciplina, a scapito della funzionalità e della sua valenza per rispondere ai bisogni ed ai problemi (ogni disciplina scientifica o estetica nasce come strumento di soluzione di problemi e di risposta a bisogni dell’uomo!); concentrare l’analisi sulle richieste aziendali e sugli obiettivi di miglioramento della produzione, trascurando l’analisi dei problemi di chi lavora, delle relazioni e delle aspettative di miglioramento del clima organizzativo; descrivere con precisione i processi di produzione di un servizio dalla parte degli operatori, dimenticando il ruolo attivo dell’utente nella produzione dei risultati. Eccetera.

2 Con questo termine, nei contesti di analisi organizzativa, si intende la concatenazione logica dei processi costitutivi di un’organizzazione o di un profilo professionale, concorrenti a produrre l’output distintivo e quindi a realizzare la missione specifica dell’organizzazione (o della figura professionale) oggetto di analisi.


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Condivisione degli obiettivi

Nella fase iniziale di definizione e condivisione degli obiettivi il rischio è quello di trascurare il bisogno e la motivazione interna dei soggetti in formazione (e quindi i loro obiettivi di sviluppo della persona e delle competenze) per sostituirla con una motivazione esclusivamente “esterna” (aspettative degli altri: direzione aziendale o sistema famigliare. Quindi, obiettivi definiti da altri, vantaggi esterni rispetto allo sviluppo della persona che apprende: promozione o bocciatura, potenziamento del prestigio dell’insegnante “severo” e della scuola selettiva, migliore qualità del prodotto, riduzione dei tempi e dei costi aziendali, successo dell’immagine aziendale, ecc.). Il professionista dei processi di apprendimento, al contrario, dedica tutto il tempo necessario per far esprimere, esplicitare, assumere sia le attese, i bisogni, i vantaggi sperati dai singoli, sia quelli attesi dal sistema di appartenenza; ma anche le difficoltà che ne ostacolano il conseguimento e i costi da sostenere (di fatica, di investimento personale, di tempi ed energie, di stress nella gestione del cambiamento, ecc.), per facilitare la condivisione degli obiettivi, e quindi il riconoscimento reciproco dei vantaggi attesi da tutti gli attori coinvolti nel processo e dei costi richiesti a ciascuno. Lo stimolo adeguato ad attivare questa fase iniziale del processo di apprendimento consisterà nel proporre e gestire il “contratto formativo”, inteso come processo continuamente attivato per alimentare la reciproca motivazione al cambiamento (v. più avanti: “Gestione continuativa del contratto”). Acquisizione delle informazioni

Nella fase di alimentazione conoscitiva c’è il rischio di identificare (e limitare) l’acquisizione di informazioni con l’ascolto o con la semplice lettura di informazioni già strutturate da parte di esperti, quindi da ascoltare o leggere, classificare, ripetere, e di cui dimostrare l’avvenuta memorizzazione. Al contrario, lo stimolo adeguato ad attivare il processo conoscitivo consisterà nell’organizzare il processo di ricerca fornendo ovviamente le coordinate per definire il problema alla cui soluzione le informazioni sono finalizzate, gli obiettivi della ricerca, la tipologia dei dati e delle fonti, i vincoli da rispettare, lasciando quindi a chi apprende lo sforzo e il gusto di consultare le fonti, identificarne di nuove, trovare le informazioni necessarie, elaborarle, verificarne la funzionalità in ordine alla soluzione del problema, e finalmente comunicare gli esiti della sua ricerca a destinatari interessati ai progressi di chi apprende. Elaborazione delle informazioni

Sempre nella fase di apprendimento conoscitivo è evidente il rischio di trascurare o omettere momenti di elaborazione delle informazioni ritenute utili, cioè di riflessione e di confronto con il proprio patrimonio conoscitivo preceden-


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Angelo Roncari

te, per modificarlo, integrare le nuove informazioni, oppure per criticarle e valutarle alla luce dei propri valori, e comunque per ampliare la propria griglia di lettura della realtà. Il professionista dei processi di apprendimento stimolerà invece proprio questo confronto, con opportune “domande di ricerca”, obiezioni, problemi esemplificativi, che costringano chi apprende a confrontare le nuove informazioni con diversi contesti applicativi, per verificarne la funzionalità. Sotto questo aspetto, le domande e i problemi sono risorse molto più efficaci delle risposte. Sviluppo delle competenze

Nella fase di esercizio pratico delle competenze il rischio più grave e più ricorrente è quello di trascurare contesti di responsabilità e di limitarsi a proporre addestramenti esecutivi di mansioni predefinite. Il professionista dei processi di apprendimento dovrebbe invece essere in grado di organizzare contesti di esercizio professionale (sia pure in situazioni simulate, ove non sia possibile agire in contesti reali) per la realizzazione di compiti a complessità crescente, l’analisi di casi e di problemi, la progettazione di nuove soluzioni, la produzione di risultati verificabili: tutte situazioni che costringono ad attivare e alimentare processi mentali di ricerca e di elaborazione delle informazioni, ma soprattutto promuovono l’esercizio di operazioni, di processi, di relazioni comunicative, e l’adozione di comportamenti di responsabilità che, unitamente alle conoscenze e alle abilità operative, costituiscono la complessità delle competenze-obiettivo. Verifica del processo

Nella fase di verifica del processo di apprendimento esiste il rischio di riservare agli esperti la funzione di monitoraggio del processo e di sottrarre a chi apprende le occasioni di autoverifica, cioè di misurazione dei progressi realizzati rispetto agli obiettivi (“la crescita realizzata garantisce le condizioni – luce ed acqua – di cui la pianta ha assoluto bisogno per sopravvivere?”) e di decisione su eventuali mosse correttive. L’esperto dei processi di apprendimento dovrebbe al contrario essere in grado di moltiplicare le occasioni per restituire a chi apprende la responsabilità del proprio percorso di sviluppo, mediante strumenti di rilettura del percorso, di misurazione dei risultati, di confronto tra risultati e obiettivi, di aggiustamento e nuova progettazione del percorso, ecc. Valutazione dei risultati

Nella fase di valutazione è drammaticamente presente il rischio di penalizzare l’errore e trasferire la valutazione negativa dalla prestazione alla stessa persona di chi, sbagliando, dimostrerebbe di non essersi impegnato abbastanza


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o di non essere comunque una persona di valore. È quello che normalmente viene praticato nelle verifiche scolastiche, dalla scuola elementare all’università. Ma è quello che spesso capita anche nella formazione aziendale. Il voto negativo sulla performance si traduce in valutazione negativa sulla persona (e come tale viene segnalato alla famiglia, all’intero contesto scolastico, alla direzione del personale, ai colleghi di lavoro, ecc.) con pesanti conseguenze sul futuro dei soggetti in apprendimento, sulla loro percezione del proprio valore, sulla loro autostima. Il professionista dei processi di apprendimento conosce bene, invece, e sa costituire le condizioni perchè l’errore possa diventare indispensabile opportunità di sviluppo: orientamento agli obiettivi, clima relazionale costruttivo, analisi condivisa delle criticità, comune assunzione di decisioni sulla modifica del percorso, riformulazione del contratto formativo, ecc. Gestione continuativa del contratto

Nel gestire la dimensione contrattuale (trasversale a tutte le fasi del processo) è infine insito il rischio di trascurare l’interazione che esiste sempre tra chi apprende e i suoi contesti di riferimento (“tra la pianta e il bosco”): la famiglia, la classe, i gruppi di lavoro, le unità organizzative all’interno di un’azienda, i gruppi di pari, ecc. Chi pretende di “dare forma” (“formare” o “tras-formare”) standardizzata al processo di crescita e di apprendimento, rischia di non vedere le forze in campo che interagiscono per stimolare lo sviluppo, spesso in direzioni diverse da quelle decise dal committente dell’azione formativa. Questo non significa che l’attore committente, che chiede (e paga) l’intervento formativo, non abbia diritto di indicare anche gli obiettivi e la direzione del cambiamento: significa piuttosto che il “professionista del processo di apprendimento” deve assumere la regia di una rete di relazioni complesse che innanzitutto occorre “vedere” e riconoscere all’opera in un determinato contesto, per poter coordinare e sottoporre a negoziazione continua, così da garantirne la partecipazione alla responsabilità e al controllo del processo anche da parte del soggetto che apprende (contratto formativo). Sostegno alla motivazione

Infine, trasversalmente a tutte le fasi del processo di apprendimento, occorre curare la continua alimentazione della motivazione. Il fatto di trascurare questo processo parallelo (o di affidarlo esclusivamente al momento iniziale di avvio di un percorso) comporta il rischio di ignorare e non poter utilizzare la dimensione emotiva e il piacere (la soddisfazione) del cambiamento, dell’apprendimento e dello sviluppo, e quindi il rischio di sottrarre (o non sfruttare pienamente) energie e stimoli necessari a tener vivo e rilanciare continuativamente il processo di cambiamento.


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Angelo Roncari

Il professionista dei processi di apprendimento sa che qualunque cambiamento richiede investimenti notevoli di energia, tempo, passione. Come nel caso della betullina, è sempre il bisogno il motore dello sviluppo. La motivazione a sostenere i costi di un cambiamento si alimenta infatti di emozioni positive collegate con i bisogni più profondi della persona umana: il bisogno di rinforzo della propria identità, di riconoscimento del proprio valore, di supporto dell’autostima; ma anche il bisogno di garantire la propria sicurezza e il proprio futuro (“sopravvivere in un ambiente ostile”), di controllare le interazioni con gli altri attori in un determinato contesto, di vivere con fierezza l’appartenenza ad un’organizzazione di successo, ecc. Questi bisogni costituiscono il “serbatoio energetico” necessario al cambiamento, e per attingere a questo patrimonio presente in ogni persona umana, il professionista del processo di apprendimento dovrà essere in grado di richiamarlo continuamente e di costituire sempre nuove situazioni sfidanti nelle quali, al limitato piacere di ascoltare la parola dell’esperto (nelle rare occasioni in cui l’esperto è anche un bravo comunicatore...), si assommano le emozioni del gioco, della sfida da vincere, della ricerca e della scoperta, della gratificazione per la riuscita della propria squadra, del riconoscimento pubblico legato alla visibilità dei risultati e dei prodotti, dell’utilità degli strumenti elaborati, ecc. Impariamo anche noi dall’esperienza formativa delle specie di animali “sociali” (ad es. un branco di lupi): i cuccioli imparano a sopravvivere e ad assumere il proprio ruolo nel branco proprio attraverso il gioco, il piacere di affrontare e vincere le prime schermaglie tra fratelli. “Facilitare l’apprendimento” significa quindi anche costituire situazioni sature di stimoli per mobilitare bisogni, emozioni, gratificazioni: insomma, per “divertirsi” (che altro è il “divertimento” se non la risposta a bisogni profondi?). Ad es. giochi didattici, simulazioni e giochi di ruolo, business games, rappresentazione di “casi recitati”, interazioni tra gruppi per la soluzione di casi o problemi, e soprattutto sessioni di consegna di prodotti, riconoscimento pubblico della qualità degli elaborati, delle potenzialità espresse, delle competenze dimostrate. Conclusione

Tutto ciò delinea una professionalità complessa, ricca di compiti e di competenze, difficile certamente da praticare, ma sorgente potenziale di grandi soddisfazioni per l’importanza dei processi attivati e per le interazioni che consente di promuovere con attori molto diversi, in contesti sempre nuovi. La parola che meglio esprime la complessità della professione di chi è addetto ai processi di apprendimento, è ancora la vecchia, socratica formula della maieutica, l’arte di far nascere, di portare alla luce, di dare espressione alle potenzialità presenti nelle persone e nei sistemi.


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Suggerimenti di lettura Giulia Maria Cavaletto, Adriana Luciano, Manuela Olagnero, Roberta Ricucci, Questioni di classe. Discorsi sulla scuola, Rosemberg & Sellier, Torino, 2015, pp. 190.

Quattro autrici, docenti di Sociologia all’Università di Torino e ricercatrici sul campo interessate ai fenomeni dell’istruzione e della formazione, hanno pensato di raccogliere i loro più importanti contributi scientifici degli ultimi dieci anni in un unico volume, che si presta come manuale di sociologia della scuola. Il filo conduttore degli otto contributi inclusi nel testo sono le disuguaglianze sociali, che per il sociologo significano in primis disuguaglianze di classe. Fedeli ad una tradizione di lettura critica della realtà sociale, le autrici dimostrano che le disuguaglianze educative in Italia esistono eccome, malgrado l’indubitabile ascesa delle persone provenienti da strati sociali medio-bassi che attraverso l’istruzione si sono via via (dagli anni Sessanta ad oggi) affermate ed hanno realizzato il sogno di mobilità sociale. La ‘vecchie disuguaglianze’, quelle legate allo status socio-economico dei genitori, sono ancora presenti nella settorialità delle scelte della scuola superiore, per le quali chi ha un genitore laureato ha 10 volte più probabilità di scegliere un liceo rispetto a chi ha un genitore con titoli obbligatori (capitolo primo: Vecchie e nuove disuguaglianze a scuola). Inoltre chi ha un genitore con bassa scolarità ha molta più probabilità di registrare insuccesso a scuola e di abbandonare prima del termine del percorso (capitolo secondo: Uscita di sicu-

rezza). Un’altra forma risaputa di disuguaglianza è quella socio-territoriale, per cui il divario Nord-Sud segna da decenni uno svantaggio per le scuole del Sud in molti indicatori, e tale svantaggio si ripercuote sugli studenti, che al termine del percorso scolastico non trovano lavoro o devono comunque continuare gli studi altrove. Disuguaglianze “nuove” però si sono affermate accanto a quelle vecchie, quelle basate sull’etnia (capitolo terzo: Allievi stranieri crescono) perché è ormai provato che gli alunni stranieri, anche se provenienti da genitori rango sociale medio o alto, sono destinati più degli autoctoni a rientrare nei livelli bassi di performance scolastiche e, per questo ma anche per motivi di pregiudizio culturale, vengono spesso “canalizzati” verso gli studi secondari non liceali, anche assecondati dai limiti all’investimento imposti dalle famiglie (capitolo quarto: Perdere la bussola). Ma come si sono mosse le scuole in questi ultimi anni? Qual è la sensibilità del sistema-scuola verso questi temi? Come e quanto si investe nella riduzione delle disuguaglianze? Un tema che ha fatto molto discutere, in seguito al discorso europeo, è quello della innovazione, una sorta di “mantra” che circonda tutti i tentativi di riforma e serve per aumentare il grado di partecipazione dei protagonisti della scuola ad ogni svolta, amministrativa,


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Suggerimenti di lettura

culturale e organizzativa (capitolo quinto: Eppur si muove, innovazioni a scuola). Si capisce bene come la scuola italiana sia stata messa sotto pressione da molte riforme, ma nello stesso tempo, come continui a sembrare lenta rispetto al passo che la società sta tenendo: nuove tecnologie, avanzamenti scientifici, bisogni psico-sociali ecc. La scuola può affrontarle seriamente, queste sfide di innovazione, solo se non si trincera nella sua auto-referenzialità, perché da sola non può farcela (capito sesto: Alleanze educative). La sua legittimità è in crisi, e non da ora (si è cominciato a parlare di crisi della scuola alla fine degli anni settanta), anche per lo scarso raccordo con il mondo del lavoro. Ne è una dimostrazione il costante calo di iscrizioni che si è registrato, dal 1997 ad oggi, negli istituti tecnici, che nell’impianto moderno della Scuola italiana hanno rappresentato da sempre un fiore all’occhiello come luogo di eccellenza formativa per le classi medio-basse, dunque di uguaglianza sociale. Sono i paradossi del fenomeno detto “licealizzazione”, che non sta portando risultati significativi nella lotta contro le disuguaglianze

(visto che chi va al liceo cade poi in una più probabile selezione differita) (capitolo settimo: Declino e scomparsa dell’istruzione tecnica). Purtroppo, è proprio nel generare “valore competitivo” da spendere sul mercato del lavoro, che la scuola italiana si mostra secondo le autrici debole (capitolo ottavo: E dopo la scuola?), e la disoccupazione o la sottooccupazione giovanile degli italiani lo sta pienamente dimostrando. Le politiche scolastiche, in quest’ottica, dovrebbero andare in stretto coordinamento con le politiche attive del lavoro: ciò è risaputamente difficile e quasi impossibile, dati i vizi delle nostre burocrazie e la scarsità di risorse in questo momento storico: tuttavia, sembra suggerire il libro, se si riuscisse almeno ad “agganciare” i luoghi e i periodi più critici della transizione dei ragazzi all’età adulta (attivando in prima persona i più bisognosi), la scuola potrebbe tornare ad essere quello strumento di equalizzazione che è stata nei decenni della ricostruzione dopo le Guerre mondiali e della formazione dell’identità nazionale basata sul principio costituzionale dell’Uguaglianza. Maddalena Colombo

Giovanni Merlo (con contributi di: Pietro Barbieri, Matteo Schianchi, Salvatore Nocera, Raffaele Monteleone, Gianluca Argentin, Simonetta Morelli e Tommaso Vitale), L’ATTRAZIONE SPECIALE. Minori con disabilità: integrazione scolastica, scuole speciali, presa in carico, welfare locale, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2015, 173 pp., euro 20,00. Il libro dopo uno sguardo generale sulla storia italiana dell’educazione degli alunni con disabilità espone una ricerca sulla persistenza delle scuole

speciali il Lombardia dove sono ancora attive 24 scuole speciali frequentate da quasi 900 studenti. L’autore indaga i motivi che spin-


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gono i genitori a scegliere le scuole speciali e illustra i fattori istituzionali e organizzativi che sottostanno a queste scelte. Attraverso interviste semi strutturate seguendo una griglia di domande aperte cerca di rilevare il funzionamento del sistema sociale di supporto che si sviluppa attorno alle famiglie con bambini con disabilità che necessitano di maggiore sostegno. I 16 genitori intervistati hanno figli che necessitano di un livello di assistenza molto alto nei bisogni quotidiani e la scelta della scuola speciale non sembra determinata da esperienze negative fatte in precedenza nella scuola comune ma considerata più idonea in relazione alle condizione di salute dei bambini. Le interviste mettono anche in luce un rapporto poco proficuo con le strutture sanitarie e con gli enti locali denotando una mancanza di responsa-

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bilità pubblica nella predisposizione di progetti individuali per le persone disabili come previsto dalla legge 104 e lasciando sostanzialmente sole le famiglie per cui la nascita di un figlio con menomazione rimane sostanzialmente un problema loro. Dall’analisi delle risposte l’autore trae due considerazioni fondamentali: la mancanza di connessione tra il sistema scolastico e i servizi sociali e la segregazione come criterio per affrontare il problema della disabilità, allora la strada da perseguire per evitare la frammentazione degli interventi non potrà essere altro che la crescita delle competenze e delle capacità dei diversi operatori in gioco assumendo ogni fuga dalla scuola come un fallimento e creando un sistema sociale coordinato previsto dai loro ruoli professionali. Anna Restelli

Istituto Giuseppe Toniolo (a cura di), Rapporto Giovani 2016 – La condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna, 2016, 262 pp., euro 20,00. Cantano “andiamo a comandare”, assieme al video-tormento dello youtuber Fabio Rovazzi, ma si scoprono preoccupati del futuro, e fragili. I ragazzi italiani nati tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, i cosiddetti “Millennials”, sono un mondo articolato, ricco di sfumature. Certamente refrattario a definizioni stereotipate. Per poter comprendere questo spaccato della società italiana non basta “ascoltare” la rete, come si dice in gergo internet, o leggere la cronaca che racconta di bullismo e di vendette online, che spesso sfociano in vere tragedie.

Sono necessari strumenti che sappiano fornire una visione di insieme, capace di restituire anche la complessità di questo quadro generazionale. Per tutte le figure professionali interessate a capire la generazione “Millennials” (ricercatori, educatori, giornalisti, decisori pubblici e imprenditori) ma anche per le famiglie e i ragazzi stessi, si raccomanda il Rapporto Giovani 2016 – La condizione giovanile in Italia. Curato dall’Istituto Giuseppe Toniolo, a partire dalla prima edizione del 2013, in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (di


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cui l’Istituto è l’ente fondatore) e con il sostegno della Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo, Il Rapporto Giovani 2016 si propone come uno strumento di analisi e riflessione, che possa anche suggerire delle politiche di intervento efficaci per il mondo dei ragazzi, tra i 18 e i 33 anni in particolare. Centrali nell’analisi sono i temi della difficoltà occupazionale dei giovani italiani, a confronto con i coetanei di altri Stati europei, il disagio sociale e le carenze di welfare. Il Rapporto offre cioè un quadro aggiornato e attuale di questo “capitale umano in formazione”, ne spiega e chiarifica i valori di riferi-

mento, le aspettative, le scelte formative, i percorsi professionali e l’impegno sociale. Inoltre l’edizione 2016 propone approfondimenti specifici su tematiche quali il confronto multiculturale, il tempo libero, le start up e la sharing economy, tipiche queste ultime dell’iniziativa dei giovani che si affacciano sul mondo del lavoro. Ne emerge un ritratto a tutto tondo della “Generazione Y”, di ragazzi fragili di fronte alle molte difficoltà del presente, eppure desiderosi di occasioni per mettersi in gioco e affamati di opportunità. Lucio Gilberti

Ilaria Marchetti e Costanza Duina, L’estate di Peter. Storia di un ragazzino e del suo coraggio, Morellini Editore, Brescia 2015 (libro illustrato più Guida alla lettura per genitori e insegnanti), euro 12,90.

Le autrici di “L’estate di Peter”, una mediatrice famigliare e un’insegnante partono dall’idea che ogni separazione porta con sè fatiche e frustrazioni. Alcune frustrazioni oltrepassano la soglia di tolleranza al dolore. Come rappresentare questa situazione che non è sempre prevedibile? Scelgono di partire da un’emergenza naturale: infatti sull’isola si è scatenato un maremoto che ha fatto fuggire umani e animali, lasciando un vuoto. Dopo la tempesta i primi animali incominciano ad emergere, i delfini in particolare che cercano di riportare ordine. La separazione familiare costituisce un trauma per tutti. Qui si apre un interrogativo: quale sarebbe il ruolo dei genitori per non escludere nessuno e nello stesso tempo dare significato e spessore alla responsabilità che cia-

scuno può assumere in base alle proprie capacità? La risposta ognuno di noi la può trovare nella metafora del viaggio. Il nostro protagonista, un ragazzo di 9 anni di nome Peter, partirà con suo padre e raggiungerà l’isola, considerata come luogo e occasione di relazione tra i figli, genitori e persone di riferimento. Ma si manifesta un conflitto: il papà ha bisogno di perseguire i suoi obiettivi professionali, mentre Peter vuole capire perché suo padre l’ha portato con sé trascurando le sue necessità. Mentre suo papà si incammina verso la zona delle grotte, Peter torna da Pania, unico personaggio che pare esserso salvato durante il maremoto, la raggiunge sulla spiaggia e da questa posizione si incamminano verso l’accampamento.


Suggerimenti di lettura

Peter si lamentava del fatto che i genitori litigavano spesso, “stanno bene solo se sono lontani migliaia di KM”. Alcuni grandi riescono a essere felici se stanno lontani. I grandi proprio non li capisco”, Peter era stanco di quei litigi. Ma nel frattempo il mare era diventato scuro; e la spedizione non poteva fermarsi. Sebastien si ricordò di quando da bambino con suo padre camminava sui sentieri vicino casa. I protagonisti della spedizione arrivati alla cima del promontorio, iniziarono a guardare il mare da lontano. dove la vegetazione diventava più folta si nascondeva il capobranco, era il cavallo più forte e coraggioso. Aveva sentito la scossa di terremoto prima degli altri. E per salvarsi avevano galoppato più degli altri, gli animali erano fuori controllo. Sebastien guardava quei cavalli e capì che quel cavallo era spaventato anche se si presentava rabbioso: come lui nei confronti della mamma di Peter. Peter nel frattempo viene raggiunto da una telefonata del padre che lo avvertiva e del suo non ritorno nell’accampamento. Peter uscì dalla tenda a urlare insulti di rabbia fino allo sfinimento. Rientrato all’accampamento Peter aveva preparato il suo sacco a pelo. Pania lo invitò a farsi compagnia e ad accendere un fuoco sulla spiaggia, I due passarono la notte, Peter sulla spiaggia in compagnia di Pania e Sebastien fuori dalla tenda guardava il fuoco. All’improvviso comparve il capobranco con una ferita sul muso. Ci fu subito un’intesa fra i due, tanto da non sentirsi in pericolo. Al mattino Peter

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convinse Pania ad andare in acqua perché voleva ritrovare il suo amico delfino Amì. La comunità dei delfini che tornava a vivere si stava preparando per il circo del mare, Amì questa volta voleva provare qualche cosa di nuovo. Nelle zone di luce avrebbe nuotato lentamente e nelle zone d’ombra avrebbe nuotato con la testa verso l’alto. In questo girovagare il delfino era andato a sbattere contro qualcuno e riconobbe le caratteristiche di un bambino. “Ti ho cercato, volevo tanto vederti. Dopo il terremoto non sapevo se tu stessi bene, ero preoccupato”. Appartenevano a due mondi che così diversi forse non erano. La lettura del libro pone alcune domande importanti e apre la strada a nuovi sviluppi di riflessione e operatività: la separazione familiare costituisce un trauma per tutti. Dopo la tempesta, i primi animali incominciano ad emergere, e simbolizzano le nostre passioni e le nostre risorse che si mettono in gioco. Prima di ogni avventura, ciascuno parte con un sogno: come non tradire questo desiderio. Come aiutare i giovani a sopportare i litigi degli adulti che possono portare all’esasperazione dei rapporti? L’approccio del delfino nei confronti di Peter, dopo il terremoto, è di preoccupazione: “Volevo tanto vederti”. Anche i grandi, non li capiva Peter, non aveva capito suo padre che era rimasto sulle montagne con i cavalli, non capiva sua madre che era presa dai suoi concerti, si abbracciarono per salutarsi Pania e lui. A Peter tornò il desiderio di sentire sua madre e sua mamma lo raggiunse sull’isola senza avvisare. Lui


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Suggerimenti di lettura

avrebbe voluto che anche i suoi genitori avessero potuto parlarsi e andare un po’ d’accordo. Mancavano pochi giorni allo spettacolo del circo del mare. Anche Peter aveva un’idea, di restare in equilibrio tra l’acqua e la terra. Si mise a rovistare in una valigia dove trovò sul fondo una cima. Era una fune pesante, provò a camminarci sopra, tanto da separare l’asciutto dal bagnato. Intanto il papà Sebastien era ritornato all’accampamento dove trovò sua moglie Katrine. I due incominciarono a discutere a voce troppo alta, Peter era preoccupato per quello che stava accadendo. E si rifugiò in un angolino della spiaggia, era seduto dentro una barca di legno, con la testa fra le mani. Nei giorni successivi la vita dell’accampamento riprese normalmente. In uno di quei silenzi davanti al mare Peter sentì di nuovo quella voce, era la voce del delfino Amì, con cui si scambiarono gesti affettuosi. Il vecchio delfino alla scuola di profondità usava dire: “chi sa pensare, può farsi meno male”. tornati all’accampamento ognuno si sedette a tavola. Per alcuni istanti la mamma non pensò alla lite, sentì il suo viso diventare più gentile, un padre e un figlio si guardavano e parlavano tra di loro. Il gran finale: una giornata di luce e di sole. La grande festa del mare sarebbe iniziata. Al tramonto tutti erano sulla spiaggia. Iniziarono le megattere con il loro canto antico, poi fu la volta dei delfini che saltavano fuori dall’acqua, poi toccò a Peter, ci fu una grande trepidazione fra i presenti, iniziò il suo gioco di equilibrio sulla fune. Alla sua destra il mare con le sue

profondità e a sinistra le persone che gli volevano bene. Alla fine Peter corse ad abbracciare i suoi genitori, mentre gli animali tornavano nelle loro profondità. Ormai l’avventura volgeva al termine e iniziavano i preparativi per la partenza in Germania. La scuola sarebbe iniziata da qui a pochi giorni. Katrine e Peter ritrovarono, in un pomeriggio piovoso, il significato del loro rapporto. Il libro si chiude con un ulteriore approfondimento: la mamma invitò Peter a partecipare ad un concerto molto importante nel quale Peter avrebbe conosciuto il compagno della mamma. Questo lo fece sentire un po’ piccolo e un po’ grande. Alla fine della settimana suo papà andò a casa sua e decisero di andare in città, dove si soffermarono a guardare le vetrine piene di giocattoli e colori. Al rientro a casa si sviluppò un dialogo fatto di silenzi e di lacrime. Al termine sua mamma Katrine rivolgendosi a Peter disse: “Scusaci amore, ti prometto che ti ascolterò di più, che farò di tutto perché non succeda più”. Questo romanzo illustrato si presenta come una bella fiaba per bambini e ragazzi della fascia di scuola secondaria, ma in realtà è uno strumento pedagogico potente, che si immagina nelle mani di un genitore o di un insegnante alle prese coi dubbi, i sentimenti ambivalenti e i sogni di un essere scosso dal terremoto degli affetti e dei propri contrastanti pensieri. Per usare la metafora, è una robusta ancora di salvataggio e una solida scialuppa per navigare in acque più tranquille. Giovanni Iatta


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Indice DOSSIER Studenti con BES e la formazione degli insegnanti A CURA DI MADDALENA COLOMBO E ANNA RESTELLI

MADDALENA COLOMBO ANNA RESTELLI

Introduzione. L’inclusione degli studenti BES: il quadro culturale e normativo, i fabbisogni dei docenti e qualche indicazione per il futuro

1

ANNA RESTELLI

Dalle scuole speciali all’inclusione: il cambiamento culturale della normativa italiana

5

MADDALENA COLOMBO

Cultural diversity management nella scuola: come vengono preparati gli insegnanti italiani?

10

FIORENZO FERRARI

Il paradosso dell’educazione e gli alunni con BES. Un’esperienza di formazione con insegnanti neo-assunti

22

FRANCESCA DI FENZA

Gli adolescenti BES-DSA: è possibile una reale inclusione se non comprendiamo chi abbiamo di fronte?

33

LOREDANA DELL’ISOLA

Dall’integrazione all’inclusione: l'evoluzione lessicale e le realizzazioni didattiche nella scuola italiana

42

MICHELA FERRARI

Didattica inclusiva con le TIC

51

PIERLUIGI FABBRI

Verso la costruzione di indicatori di inclusività nella classe e nella scuola

60

CHIARA CARABELLI

Il Referente per l’inclusione nello staff docente

72

VITA ASSOCIATIVA ADRIANO PENNATI

In ricordo di Angelo Roncari

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ANGELO RONCARI

Il ruolo e le competenze del “professionista dei processi di apprendimento”

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SUGGERIMENTI DI LETTURA MADDALENA COLOMBO ANNA RESTELLI

LUCIO GILBERTI GIOVANNI IATTA

Questioni di classe. Discorsi sulla scuola, Rosemberg & Sellier, Torino, 2015 L’attrazione speciale. Minori con disabilità: integrazione scolastica, scuole speciali, presa in carico, welfare locale, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2015 Rapporto Giovani 2016 – La condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna, 2016 L’estate di Peter. Storia di un ragazzino e del suo coraggio, Morellini Editore, Brescia, 2015

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OPPInformazioni

ISSN 2282-3956 Codice rivista: E198783

professionalità docente e processi formativi Direttore responsabile: Angelo Rovetta

luglio-dicembre 2016

Redazione: Bianchi Abele Benelli Giacomo Carletti Anna Colombo Maddalena Cortimiglia Francesco Gagliardi Roberto Gilberti Luigi Ostinelli Anna Restelli Anna Varani Andrea

OPPInformazioni

cop_121_1-4 + 2-3 oppi 05/04/17 10:30 Pagina 1

Impaginazione e stampa: Arti Grafiche Colombo - Muggiò (MB) Periodico semestrale dell’OPPI Abbonamento 2017 € 20,00

OPPInformazioni professionalità docente e processi formativi

n. 121 luglio-dicembre 2016

Studenti con BES e la formazione degli insegnanti

Organizzazione per la Preparazione Professionale degli Insegnanti

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Ente accreditato presso il M.I.U.R. (Decreto 08.06.2005) e la Regione Lombardia (n. 207-01.08.2008 Albo Enti Accreditati) – Azienda con Sistema Qualità Certificato UNI EN ISO 9001:2008

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Autorizzazione n. 480 dell’11.12.1972 Iscritto presso il Tribunale di Milano Direzione, redazione, amministrazione: OPPI, Via Console Marcello 20, 20156 MILANO Tel. 02/33.00.13.87 - Fax 02/39.26.90.27 IBAN: IT39Q0335901600100000007212 - C.F. 02711300158 E-mail: oppi@oppi.it - Sito: www.oppi.it

Pubblicazione semestrale Anno XLIII, n. 121, 20.3.2017


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