CLIC.HE' CAMMINO #43 APRILE 2021

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CAMMINO

aprile 2021


Contaldo Responsabile Area Temi Paolo Sabrina Ingrassia Redattrice Area Temi Responsabile Area Recensioni Diego Cicionesi

Giulia Sgherri Sandro Bini Alberto Ianiro Paolo

Contaldo

Editore Progetto Grafico

Immagine di Copertina

Photoeditor Comunicazione Webmaster Grafica Web

Associazione Culturale Deaphoto Niccolò Vonci

Dario Antonini


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Introduzione alle immagini Paolo Contaldo Percorso indeterminato Amanda Martín Dombrowski di attesa Appunti per un viaggio di prossimità Maria Cristina La Manna 2021 Michele Crocevia Spagnolo Alessandro Divenire de Leo Inside, Viaggio nelle mie mura Silvia Tampucci

Rosella Il germoglio della vita Centanni De cada dia Dario Guatemala/Messico/USA Antonini Silvia I miei primi 40 anni Stival Simona Alone Nobili Il tempo ritrovato della fotografia: Davide Franco Vimercati Tatti


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Introduzione alle immagini Amanda ci restituisce appunti, tracce di un percorso quotidiano, uguale a se stesso. Immobile muoversi, in attesa.

Dicotomia apparente. Rivelazione delle sfumature e connessione imprevista. Un “Viaggio di Prossimità” potente quello di Maria Cristina.

Si parte. Ci si immerge appieno in un percorso che sa di storia e incanto, sapiente mappa quella che Michele ci concede.

Sfuma, persiste e scompare. Tempi sospesi e luce nel “Divenire” di Alessandro.

Silvia stringe lo spazio, ne fa un viaggio dentro se stessa.

Donna che diventa madre. Corpo e mente che mutano in una sospesa partecipazione. Paura e gioia danzano nelle immagini di Rosella

Rotte di libertà, di salvezza. Sono quelle che faticosamente i migranti percorrono ogni giorno. Racconto denso e corale quello che Dario ci propone.

Stupore di essere diventati grandi, senza quasi accorgersene. Ora è tempo di muoversi fieri e consapevoli, è tempo di Meraviglia per Silvia.

Alone. Simona ci parla di solitudine, paura e limite. Ma anche della scoperta di percorsi e strumenti nuovi per riemergere.

Paolo Contaldo


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Percorso indeterminato di attesa Il progetto mostra la ricerca dell’inatteso in un percorso quotidiano e monotono come quello che da casa mi conduce al lavoro e da lì mi riporta a casa nell’attuale periodo di pandemia. Chi ancora ha la fortuna di lavorare sta vivendo questa interminabile monotonia: ogni giorno facciamo lo stesso percorso che ci permette solo poche variazioni. Per la sua ripetizione, questo percorso non ci permette di localizzarci nel tempo, contribuendo a rafforzare la nostra incertezza. L’inizio del lavoro segna l’inizio della giornata e la fine ne segna il termine. Ogni giorno riflette il precedente e il successivo. Da un anno ormai, la strada che mi porta al lavoro è il tragitto più̀ lungo che percorro. Percorso costante e indeterminato in un tempo sospeso, in attesa di trovare una fine, un’interruzione o una nuova direzione, e riprendere il controllo sulla vita. E mentre aspetto la novità̀, il cambiamento, l’apertura, ne fotografo con il cellulare le tracce quotidiane, uscendo con lo sguardo dalla monotonia.

Amanda Martín Dombrowski




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BIO Nata il 1993 a Girona, Spagna, mezza catalana e mezza tedesca. Attualmente vive a Firenze. Dopo essersi laureata in Comunicazione audio-visuale con specializzazione in multimedia presso l’Universitat Autònoma de Barcelona, ha studiato fotografia documentaristica presso l’Institut d’Estudis Fotogràfics de Catalunya e Photoediting presso le Officine Fotografiche di Milano. Ha lavorato come fotografa e videomaker freelance a Barcellona e Berlino e come fotoritocatricce per Zalando, a Berlino. Al momento lavora come fotografa per Luisaviaroma. Il suo primo progetto fotografico, “Pedro: no me dejes solo con el mar”, incentrato su una storia personale di disturbo bipolare, è stato esposto al Visa Off di Visa Pour l’Image a Perpignan, al Photogenic Festival di Barcellona, al Monat der Fotografie Off di Berlino, in mostre collettive ed in rassegne sulla salute mentale a Barcelona e Berlino, sia come progetto fotografico che multimediale.


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Appunti per un viaggio di prossimità Maria Cristina La Manna 2021 Presenza e assenza, vita e morte, interno ed esterno, pieno e vuoto. In un cammino affrontato per cercare risposte e ritrovare presenze, ho scoperto che nessuna separazione è definitiva, nessuna relazione è impossibile e che ogni elemento è comunicante e complementare fino a formare un’unità.


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BIO Nata nel 1961 a Pavia, appassionata dei linguaggi e delle forme dell’espressione umana, poco tempo fa e quasi per caso incontra la fotografia e comincia a praticarla. Ha seguito percorsi di formazione e approfondimento individuali con professionisti del settore e ha partecipato a workshop e corsi alla Civica Scuola d’Arte Ar.Vi.Ma. di Pavia e all’Associazione Culturale Deaphoto di Firenze.


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Crocevia Una vasta distesa di campi coltivati. Piccoli boschi, villaggi sparsi su basse colline che compiono una curva aggraziata attorno all’antica città di Ypres, nelle Fiandre. In questo fazzoletto di terra, noto durante la Prima Guerra Mondiale come “il Saliente”, si sono combattute alcune delle battaglie più sanguinose della storia. Questo territorio è stato marcato per sempre dall’impronta della guerra, di cui rappresenta una bizzarra cicatrice. Ed al contempo è uno dei crocevia della Storia mondiale. Durante i quattro anni del centenario (2014- 2018) ho percorso più di 1000 chilometri a piedi lungo quella porzione di fronte. Camminando mi sono reso conto di stare attraversando un paesaggio non solo fisico ma anche mentale. “Un luogo-altro”, in cui camminare non vuol solo dire attraversare lo spazio ma anche muoversi nel tempo. Queste fotografie sono estratte da un lavoro di indagine fotografica con cui ho cercato di ricostruire una mappa del mio pellegrinaggio lungo il Saliente.

Michele Spagnolo


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BIO Michele Spagnolo è un fotografo e un appassionato di viaggi a piedi. Le sue fotografie sono state selezionate in diversi concorsi e festival internazionali. È nato a Parma nel 1981 e nella città emiliana è cresciuto e ha compiuto gli studi. La sua passione per la marcia è nata seguendo i sentieri delle colline e dei monti dell’appennino ToscoEmiliano. Negli anni ha percorso numerosi sentieri anche di lunga percorrenza in Europa e nel mondo. Dopo aver abitato in Irlanda, Scozia e Francia si è trasferito a Bruxelles, dove vive e lavora.


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Divenire Il bianco e il nero come spazi esistenziali. Il primo è luce, rende visibile tutto ciò che esiste e occupa uno spazio mostrandone le forme essenziali. Elegante e mai casuale, veste l’ambiente di una impalpabile sacralità. L’altro è la materialità dei corpi, esiste senza descrivere ciò che è ma segnalandone la presenza. Il nero è vicino al reale, a noi e a ciò che è carne, oltre che energia. Non capiamo se è la luce ad assorbire i corpi o se sono le figure a spandersi, confluendo in un flusso dal quale ci siamo discostati tempo fa. È un dialogo senza soluzione. Le foto di Alessandro de Leo dicono la materia come concetto mutevole. Ogni giorno entriamo in contatto con del materiale genetico che ci cambia dall’interno, a livello chimico. E poi mangiando, respirando, introduciamo materia che viene tessuta insieme alla nostra e ci rende continuamente diversi. Il corpo è codice indecifrabile. Lo spazio incorpora con gentilezza ogni cambiamento. Il punto fermo è il movimento.

Alessandro de Leo



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BIO Mi chiamo Alessandro de Leo. Sono nato a Molfetta (Ba) nel 1984, ma all’età di 8 anni mi sono trasferito con la mia famiglia a Bisceglie (BT). Mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e specializzato in Comunicazione e Multimedialità presso l’Università Degli Studi Di Bari, ma ho compreso che la mia passione era la fotografia, quindi ho reso questa passione il mio lavoro quotidiano: ora sono un fotografo freelance ed insegno sia fotografia che postproduzione digitale. I miei lavori fotografici vertono molto spesso sul corpo umano, utilizzandolo come materia prima da modellare per esprimere il mio immaginario.

Fra le mie mostre personali segnalo: Palazzo Tupputi, durante il festival audiovisivo “Sonimage” (Bisceglie, BT, 2018); “Circuiti Dinamici Fotografia” (durante la Milano Photo Week, Milano, 2018); “Wunderkammern Effimere”, Microlive (Milano, 2016). Alcune delle mie ultime mostre collettive: “Fresh Legs 2020 - International Exhibition”, Galleri Heike Arndt DK (Berlino, 2020); “Mostra Internazionale Artes IV Edizione”, Associazione Artes APS (Torino, 2020); “Isolated Living Yourself – International Group Exhibition” - Loosenart, Galleria Millepiani (Roma, 2020); “Tempo Im[perfetto]”, Tevere Art Gallery (Roma, 2019); “Katowice Jazzart Festival 2018”, Galeria Engram (Katowice, Polonia, 2018).


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Inside, Viaggio nelle mie mura

Silvia Tampucci

Un viaggio introspettivo. Un cercare di cogliere il particolare nel quotidiano conosciuto. INSIDE è un progetto nato durante il lockdown del 2020, un modo di conoscere meglio lo spazio in cui siamo stati forzatamente chiusi, un viaggio all’interno delle mura domestiche che mi ha permesso di conoscere meglio me stessa.


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BIO “Considero la fotografia un po’ come la danza, dove lo scattare è come danzare, con la differenza che invece di mettermi a nudo sul palco, utilizzo la macchina fotografica per esprimere ciò che sento, ma la sensazione di creazione e liberazione è molto simile“. Sono una ex ballerina semiprofessionista e quando sono scesa dal palco, nel 2011, ho sentito il bisogno e la necessità di continuare ad esprimermi. Mi regalarono una macchina fotografica ed iniziai a studiare e a scattare da sola, per poi frequentare un corso di fotografia di scena a Livorno. Così mi sono appassionata, approfondendo la conoscenza della fotografia. Nel 2013 mi sono iscritta al Fotoclub Nove di Livorno, facendo parte anche del consiglio direttivo. Negli anni ho avuto la possibilità di collaborare attivamente con la Federazione. Dal 2016, infatti, coordino i Laboratori Tematici del Dipartimento Cultura FIAF nelle province di Livorno, Lucca e Pisa, organizzando incontri e mostre collettive sul territorio, impegno per il quale ho conseguito la nomina di Tutor Fotografico e Coordinatrice Artistica. Inoltre dal 2017 sono Vicedirettrice delle Gallerie FIAF.

Il riconoscimento del BFI nel 2020 è venuto come conseguenza dell’attività di questi anni. Quando ho iniziato a frequentare il Fotoclub Nove mi sono avvicinata ad altri linguaggi espressivi rispetto alle opere singole cui mi ero dedicata sino ad allora. Ho capito ed apprezzato il valore del portfolio fotografico per le maggiori possibilità di racconto e da lì a poco ho scattato il primo lavoro organico, “Frammenti di vita”’. Col tempo ho studiato e approfondito le varie possibilità espressive e tutt’oggi cerco di accrescere la consapevolezza sia in modo teorico che pratico. La maggior parte delle volte il progetto nasce da momenti particolari che sto vivendo, che non vuol dire necessariamente fotografare me stessa, ma raccontare ciò che provo attraverso quello che mi sta intorno. Ad esempio, “ME.EM” è stato scattato in un momento di grande caos interiore, mentre “Percorsi interrotti” è l’elaborazione di un lutto familiare. “Azulejos” e “La famiglia in Italia: tra pubblico e privato” sono nati in un momento in cui avevo bisogno di fare ordine nella mia vita, per cui sono molto più statici, freddi e rigidi rispetto ai precedenti.


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Il germoglio della vita Nel percorso della maggior parte delle donne c’è l’esperienza della maternità. Per nove mesi si vive nell’attesa. Una sensazione nuova: una vita fiorisce. Arriva il momento della nascita. A volte, dopo il parto, possono insorgere gravi complicazioni. Nello stato di semincoscienza, per un’istante, si entra in una dimensione altra. Ci si salva, ci si riappropria della vita e si scopre la gioia, unica e irripetibile, di essere madre.

Rosella Centanni


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BIO Rosella Centanni è nata e vive ad Ancona. Ha iniziato ad appassionarsi di fotografia dagli anni ’90. Ha partecipato a corsi riguardanti la progettazione di un lavoro fotografico, la tecnica del bianconero, la luce, il ritratto, il reportage e la manipolazione di pellicole Polaroid. Ha realizzato, oltre a varie iniziative fotografiche, diverse mostre personali, tra le quali “Nello Yemen” (2001), “Il vivere..”(2003), “Oltre lo schermo e sulla scena”(2004), “Sviluppi in scena” (2005), “Al Passetto… un lungo giorno d’estate” (2008), “Suk-ki di fiaba”(2009), “Sguardi” (2011), “Respiri”(2011), “Oltre lo sguardo” (2012), “N(u)ove donne in salotto” (2014), “Ri – tratti” (2014), “L’incanto del distacco” (2016). Nel 2017, nell’ambito del progetto Ankonistan, ha sviluppato un lavoro fotografico su un quartiere della propria città: “Valle Miano” Sempre nel 2017, ha partecipato, con un suo lavoro, al tema “Capolinea” FIAF, selezionato ed esposto al Festival di Sassoferrato e in altre località delle Marche. Nel 2019 un suo lavoro riguardante “L’effimero e l’eterno” FIAF è stato selezionato ed esposto al Festival di Sassoferrato.


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De cada dia Guatemala/Messico/USA Un cammino con i migranti e tra i migranti centroamericani dove le rotte migratorie sono i segni di un passaggio nei luoghi e nelle geografie umane e il riconoscimento dell’esistenza degli indocumentados, non tra i numeri e le statistiche, ma tra le loro storie, le loro fotografie e i loro immaginari. Questo lavoro compone e unisce i frammenti emersi dalle osservazioni, dai racconti condivisi con diversi migranti, percorrendo le rotte: Juan Carlos, Eduardo, Raul, Jairo… chi viene deportato dagli USA, chi va verso il Messico, chi tenta di superare la frontiera, chi rinuncia, chi riposa nelle Casas del Migrante, in un eterno loop, fatto di polvere e cielo. Il tempo viene sconvolto in questa sorta di romanzo. Non è la prossimità temporale che stabilisce la contemporaneità di più eventi, ma è l’atto che li accosta. Tutto accade in un giorno, che è ogni giorno, in un luogo qualsiasi della mappa ridisegnata dalle rotte migratorie, dal Guatemala agli USA.

Dario Antonini


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BIO Nato nel 1984 a Asolo (TV), vivo a Ad oggi conduco in qualità di Docente Castello di Godego (TV). e Mediatore artistico progetti sociali Lavoro come Docente di Fotografia e territoriali partecipativi e di digitale grafica, audiovisivo e multimediale storytelling , in IPM, negli Istituti presso il Liceo Artistico Fanoli, di Scolastici e nella Scuola Triennale di Cittadella, proprio dove nel 2003 mi Nuove Arti Terapie (Roma, Bologna, sono diplomato. Mi sono laureato in Firenze). Economia e Gestione dell’arte a Ca’ Ho avuto la fortuna e l’onore di Foscari e in Pedagogia e Didattica presentare i miei lavori in festival dell’Arte presso l’Accademia di BB.AA. importanti come il Perugia Social Photo di Venezia. Ho poi concluso un master Festival, in Mediazione artistica nella relazione il Festival della Fotografia Etica di d’aiuto con fotografia e video, con Lodi, il festival IT.A.CA’ di Trento e in Nuove arti terapie, presso la Pontificia conferenze di studi nazionali presso Università Antonianum di Roma. l’Università Pontificia Antonianum, il Ho lavorato come educatore di Centro Studi Scalabriniani di Roma, comunità, come Facilitatore dei Università di Rovigo, Università di processi di conoscenza mediante Padova. l’approccio fotografico al Centro In questo periodo sto raccogliendo i vari di Formazione alla Solidarietà lavori fotografici prodotti negli ultimi 10 Internazionale di Trento e come anni, con il Collettivo Fotosocial o in formatore in diversi progetti di viaggio e progetti personali, per poter offrire loro fotografia etica. un luogo dove riposare.


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I miei primi 40 anni Arrivano così, senza rendersi conto, i 40 anni. A un tratto ti fermi a ragionare sulla strada percorsa, sui traguardi raggiunti e su quelli che ti eri prefigurato, che a oggi sono ancora lontani. Ti consoli con un “ç’est la vie”, ma non è proprio così. Come uno schiaffo, arriva il Bianconiglio che con la sua fretta e agitazione e il suo orologio (biologico) in mano ti ricorda: «è tardi». Perché il tempo cammina, corre, non lascia scampo. Cerchi di fermarlo, per rimanere ancora un po’ sdraiata in quel giardino. Ma lui non vuole sentir ragione, un passo dopo l’altro prosegue il suo/mio, percorso. Allora, come Alice, ti alzi e decidi di inseguirlo. Ti rimetti in gioco: avere quarant’anni è un dono, è avere l’oro in mano se nel cammino percorso hai protetto la spensieratezza della ragazzina che eri e hai consolidato la donna che sei oggi. Non so cosa mi aspetta, ma ho voglia di riprendere a camminare, con più consapevolezza, ma sempre nel mio Paese delle Meraviglie.

Silvia Stival


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BIO Architetto, da subito ha potuto unire la sua formazione scolastica con la sua passione per l’arte collaborando con aziende e studi che si occupano della progettazione e allestimento di spazi espositivi e museali. Una realtà che le ha sempre affascinato e che rappresenta per lei una sfida per creare ed ideale un supporto, una scenografia, un contest all’altezza dell’oggetto d’arte da esporre. Cosa c’è di più bello che “mettere in scena l’arte”! Quindi lo studio della forma, del dettaglio tecnico e dell’illuminazione assieme alla ricerca dei materiali sono per lei gli strumenti fondamentali per riuscire in questo obiettivo. Negli ultimi anni questa ricerca l’ha ampliata al mondo della fotografia, prima studiando ed imparando la tecnica, successivamente raccontando attraverso l’immagine. Le piace descriversi così:

Il dettaglio tecnico è la mia esperienza La creatività è un mio modo di essere La fotografia, la mia passione e la mia ricerca


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Alone Alone è una sequenza di immagini (alcune in autoritratto) che si articolano come un monologo interiore rispetto ai tempi che viviamo. Il lungo periodo di isolamento sociale sta dando origine a stati d’animo particolari quali la paura e l’ansia di uscire dalla propria casa, il luogo che per mesi ci ha fatto sentire al sicuro. Nella paura e nell’angoscia di lasciare il nostro ambiente scopriamo nuove emozioni con cui confrontarci e fare i conti. Isolamento, solitudine, i pensieri si fanno soffocanti; cerchiamo nuovi percorsi interiori per non soccombere, nuove direzioni mentre il tempo scorre lento. La finestra unico occhio verso l’esterno: una figura femminile appare, nonostante tutto, vibrante di vita e luce mentre la natura sembra misteriosa ed indecifrabile.

Simona Nobili


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BIO Simona Nobili vive a Roma. È attrice e fotografa. Ha recitato in teatro, in televisione e al cinema con autori, tra gli altri, quali Marco Bellocchio e Giuseppe Tornatore. Negli ultimi anni, parallelamente alla recitazione, si è dedicata alla fotografia conseguendo il diploma in Fotografia all’Istituto Superiore Roberto Rossellini di Roma. Usa indifferentemente la tecnica analogica e digitale. Ha iniziato solo di recente a proporre i propri progetti per mostre e pubblicazioni.


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Il tempo ritrovato della fotografia: Franco Vimercati La fotografia di Franco Vimercati viene recepita da gran parte della critica come una ricerca, sia estetica che tecnica, focalizzata sui metodi interni. Vimercati mette ai margini la centralità dell’oggetto rappresentato, poiché non è propenso a identificarlo col tema dell’immagine. Il suo lavoro consiste nel mettere in pratica la variabilità delle procedure fotografiche, affinché queste producano nelle immagini un’idea del tempo e dello spazio autonoma rispetto alle misurazioni convenzionali, con effetti di dilatazione, sospensione o di compressione. La definizione critica è stata già abbozzata nel 1984 da Luigi Ghirri che scrive: «nel lavoro di Vimercati vi è questa sensazione di un tem-

Davide Tatti

po illimitato e dilatato». Nelle fotografie di Vimercati si trova la precisa intenzione di «afferrare il momento dinamico in momenti di oggetti ritenuti statici e immobili. Non fermare il movimento ma dare dinamica all’inanimato». 1 Nella fotografia di Vimercati, pur disposta in serie e sequenze, si palesa invece l’unicità del fenomeno, in quanto le procedure fotografiche – per quando seguite nel dettaglio e con le medesime impostazioni – non danno esiti identici, e neppure l’oggetto fotografato può essere recepito in maniera uguale. In questa costante variabilità si insinua una componente non più oggettiva ma soggettiva, che determina l’elemento poetico della sua fotografia.

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All’interno di questa cornice interpretativa l’editore Quodlibet, alla fine del 2020, ha pubblicato su Vimercati la monografia un minuto di fotografia a cura di Marco Scotini, in concomitanza con la terza mostra che la galleria Raffaella Cortese di Milano ha dedicato all’autore nell’arco di venticinque anni di attività. La monografia, oltre a una serie di interventi già editi – tra i quali quelli di Simone Menegoi, Angela Madesani, Elio Grazioli – contiene il saggio del curatore, il quale sottolinea come Vimercati abbia elaborato un concetto di tempo bivalente, da una parte scandito e dall’altra cristallizzato: «C’è una certa tangenza in Vimercati tra un tempo che non ammette l’autonomia della foto singola, che potremo definire cinematografico, e un tempo più propriamente fotografico che cerca di sottrarre il presente al suo scorrimento». Il libro propone una scelta di fotografie dell’autore svincolate da descrizioni catalografiche, in modo che le varie serie di lavori realizzate dal 1974 al 2001 vengano recepite dal lettore come un progetto unico, impaginato secondo gli schemi che Vimercati stesso aveva adoperato per editare le sue fotografie: tasselli che si distribuiscono nella pagina in modo seriale o in modo irregolare con ampi margini di “campo bianco”. Franco Vimercati ha lasciato una produzione fotografica piuttosto selettiva, svolse parallelamente attività di graphic designer per circa trentacinque anni (dal 1962 al 1997); le notizie reperibili sulla professione 124

sono scarse, eppure la sua attività fotografica è stata influenzata con ampia probabilità dal suo mestiere di grafico. Confrontando il periodo di attività di Vimercati con quello storico, ovvero dal

1973 al 2001, la sua fotografia si rivela come una forma di resistenza ai processi di completa assimilazione nell’uso dei prodotti industriali avanzati, e come un’antitesi e alla fascinazione subita dai più ampi gruppi sociali nei confronti delle merci. Se da una parte l’industria re-


alizza sempre più prodotti perfettamente identici e progettati per alimentare i bisogni di consumo, Vimercati oppone a questo fenomeno una fotografia apparentemente seriale in cui la minima

variante risulta irripetibile: l’oggetto posto di fronte alla fotocamera trattiene le tracce dell’uso e delle relazioni col contesto dove è stato adoperato. La fotografia in Vimercati, scandita in varianti mai uguali a sé stesse, tenta di recuperare “l’aura” perduta, secondo la nota

analisi critica di Walter Benjamin, proprio là dove era stata invece accusata di rompere l’unicità dell’opera d’arte. Nonostante la coerenza evidenziata dalla critica, nel percorso seguito da Vimercati è possibile individuare una certa dialettica, di carattere non progressivo, ma tesa a ridefinire ogni volta i termini essenziali e irrinunciabili della fotografia, ovvero la relazione governata dalla fotocamera tra soggetto che fotografa e oggetto fotografato. Il primo progetto più significativo è il ciclo “Sulle Langhe” del 1973, dove Vimercati, sulla scorta del modello documentarista di August Sander, fotografa alcuni componenti di una comunità locale, senza operare in prima persona una scelta sui soggetti, senza raccontarne le storie, ma ponendoli di fronte alla fotocamera che ne registra la postura acquisita al momento dello scatto. La presa di distanza dai linguaggi narrativi lo porta a confrontarsi con la ricerca concettuale in ambito fotografico e delle arti visive. Come punti di riferimento si possono individuare sia le verifiche di Ugo Mulas che le installazioni fotografiche di John Hilliard. Con la sequenza un minuto di fotografia del 1974, Vimercati definisce il tempo fotografico come una scansione circolare di istanti: sono tredici fotogrammi delle lancette di una sveglia che, pur avanzando, riportano l’attenzione al medesimo punto di partenza. Si tratta di una riflessione sul tema del pensiero che non evolve ma ritorna su sé stessa. 125


A breve distanza, nel 1975, Vimercati adopera per una nuova sequenza trentasei bottiglie industriali di acqua minerale: tante quante le pose di un rullino fotografico. La sua intenzione è quella

di evidenziare come “l’occhio” della fotocamera, pur riproducendo per trentasei volte la medesima tipologia di oggetto, sia in grado di evidenziarne le differenze di ogni copia. La sensibilità ottica della fotografia mostra il ricorrente appiattimento qualitativo tipico di molta produzione industriale, sovvertendo le regole del linguaggio pubblicitario. Tra il 1975 e il 1983 Vimercati realizza varie sequenze in cui gli oggetti quotidiani, come ad esempio le piastrelle, i listelli di legno, le tele per dipingere, le confezioni del latte, vengono talmente inglobati nell’inquadratura 126

della fotocamera che la loro sostanza materiale e reale non ha più valenza e significato. La fotografia, riproducendo gli oggetti, li sostituisce. La scelta concettuale operata da Vimercati si radicalizza nel successivo decennio dal 1983 al 1992: le modalità di illuminazione vengono moltiplicate all’infinito, così come i tempi dell’esposizione e le variabilità di stampa, pur mantenendo un unico oggetto. Una sola zuppiera, che si trova all’interno di una serie di circa cento fotografie, perde di rilevanza in quanto oggetto d’uso. In un arco temporale così ampio l’oggetto diventa l’autoritratto dello stesso fotografo, che muta la percezione di sé stesso attraverso la pratica della fotografia. Il termine di confronto è la serie di autoritratti che Roman Opalka, artista di origine polacca considerato da Vimercati un suo riferimento primario, il quale realizza nell’arco di più di quarant’anni (dal 1965 al 2011) con la medesima inquadratura, posa, illuminazione. L’esperienza di Vimercati muta di segno intorno al 1995, quando con una serie di


fotografie capovolte sceglie di fermare lo sguardo prima della presa di coscienza sulla realtà esterna: la fotografia imprime l’immagine rovesciata così come appare sul fondo della retina, prima che il cervello decodifichi il segnale e il soggetto prenda coscienza di ciò che vede. Alla fine del Novecento Vimercati recupera nella sua fotografia la riconoscibilità immediata dell’oggetto. È cambiata però la sua consapevolezza delle dinamiche temporali, come anticipato nel 1982 nella sequenza Il vaso o Le Temps retrouvé, che contiene un riferimento esplicito all’opera di Marcel Proust, la fotografia testimonia non più la visione dell’oggetto presente ma le sue reminiscenze che si affastellano nei ricordi: «Il presente della sensazione non può essere descritto che al passato» 2

po fotografico. In: Franco Vimercati, un minuto di fotografia, a cura di Marco Scotini. Quodlibet, 2020. Simone Menegoi, fotografare la fotografia, quattro riflessioni su franco Vimercati, testo critico per la mostra: Franco Vimercati, Galleria Raffaella Cortese, Milano, 2016 Stefano Chiodi, Un tempo più denso. La fotografia di Franco Vimercati. Doppiozero, 17 aprile 2019 Silvia Mazzucchelli. Franco Vimercati. Tête à tête con la zuppiera. Doppiozero, 4 novembre 2020 Angela Madesani. Un viaggio verso la purezza dell’immagine, Franco Vimercati, fotografie dal 1973 al 2001. Catalogo della mostra, Varese, febbraio-marzo 2008, Stella edizioni.

Luigi Ghirri. Franco Vimercati, nota a margine della mostra presso la Galleria dell’immagine, Rimini 1984. 2 Gennaro Oliviero. Il Tempo ritrovato: un po’ di tempo allo stato puro nell’atmosfera della Grande Guerra. www.larecherche.it

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Articoli e testi di riferimento: Gigliola Foschi. Franco Vimercati. Tutte le cose emergono dal nulla. Doppiozero, 20 settembre 2012 Marco Scotini. Un minuto e il possibile. Franco Vimercati e il tem-

Davide Tatti. Nato in Sardegna, ha completato la formazione a Milano. A partire dal disegno industriale, si è indirizzato verso la grafica editoriale e fotografia, preferendo progetti di ambito culturale. 127



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