PMI Live n. 28

Page 1

ANNO V NUMERO 28 • MAGGIO - GIUGNO 2014 • ART. 1, LEGGE 46/04 DEL 27/02/2004 REGISTRAZIONE PRESSO IL TRIBUNALE DI LATINA NUMERO 921/2009


in questo numero L’ E D I T O R I A L E 3

EDITORIALE PMI Live si rinnova

AEROSPAZIO

4-7

Promuovere la piccola impresa in Europa Gli insegnamenti dello Small Business Act americano

DIFESA

8-11

Operazione Ibis in Somalia Il convegno organizzato dal Centro Studi Difesa e Sicurezza

PMI LIVE SI RINNOVA LA VOCE DELLE PMI

12-13

Il CTNA annuncia nuove opportunità per le PMI L’intervento del Presidente del Gruppo di Lavoro PMI Claudia Mona

AGROSPAZIO

14

La coltivazione idroponica incontra la grande distribuzione Intervista a Maurizio Costantino, socio della Cooperativa Agricola Ortogranda

PMI LIVE ANNO V NUMERO 28 MAGGIO - GIUGNO 2014

PMI Live si rinnova, nell’aspetto e nei contenuti. Si rinnova per scelta e non per festeggiare una particolare ricorrenza. Abbiamo ormai superato la soglia dei 5 anni di attività e sentiamo di aver raggiunto una maturità che ci impone di compiere un passo in avanti. Nei numeri che seguiranno troverete nuove rubriche e nuovi contenuti, per i quali abbiamo intenzione di chiedere sempre di più la vostra collaborazione. PMI Live si rinnova, ma non muta spirito e motivazioni. Continueremo a raccontare e a rivolgerci, cercando di fare sempre meglio, all’ampio universo delle Piccole e Medie Imprese più innovative del nostro Paese. La Difesa e l’Aerospazio resteranno il nostro principale orizzonte. Con nuove interconnessioni verso altri settori, emergenti come l’Agrospazio o tradizionali, come l’ICT o le Bioscienze. Attendiamo da voi commenti, suggerimenti, proposte, che diventeranno parte integrante di una rivista che d’ora in poi dovrà essere interattiva, intermodale e interconnessa. Scriveteci su: redazione@pmilive.it. Vi aspettiamo.

Roberta Busatto Direttore Responsabile PMI Live direttore@pmilive.it

REGISTRAZIONE PRESSO IL TRIBUNALE DI LATINA NUMERO 921/2009 DIRETTORE RESPONSABILE ROBERTA BUSATTO direttore@pmilive.it REDAZIONE Cooperativa editoriale “Barra spaziatrice” redazione@pmilive.it IDEAZIONE GRAFICA E IMPAGINAZIONE Type Studio srl www.typestudio-gaeta.it STAMPA Nuova Grafica 87 Via del Tavolato snc - 04014 Pontinia (LT) EDITORE Cooperativa editoriale “Barra spaziatrice” info@barraspaziatrice.it Iscritta al ROC in data 25/2011 con numero 21618 La foto di pag. 3 è di Roberto Della Noce Un ringraziamento speciale a Marco Airaghi

3


AEROSPAZIO

AEROSPAZIO

PROMUOVERE LA PICCOLA IMPRESA IN EUROPA Gli insegnamenti dello Small Business Act americano

Le piccole e medie imprese sono una componente essenziale dell’economia europea poiché, secondo la definizione dell’UE (da 0 a 250 dipendenti), rappresentano il 99,8% dell’insieme delle imprese (più del 93% tra queste contano meno di 10 dipendenti), ed il 65,8% dell’impiego totale. I poteri pubblici, proprio in ragione della loro dimensione estremamente differente da quella delle piccole strutture, sanno sostenere molto poco questo vivace tessuto economico. Potrebbe essere possibile modificare la situazione, per esempio ispirandosi all’esperienza americana. Gli Stati Uniti in effetti, nonostante le loro posizioni notoriamente ultra liberali, hanno messo in atto varie tipologie di sostegno pubblico alle piccole imprese, particolarmente tramite contatti e richieste d’offerta emesse dalle strutture federali. Queste misure di sostegno esistono da più di cinquant’anni (Small Business Act del 1953) e sono costantemente modificate e adeguate. Senza che si possa applicarle all’identico modo al tessuto delle piccole imprese dell’Unione, si potrebbe nondimeno ispirarsene per sostenere queste strutture così essenziali l’economia europea. Delle operazioni pilota potrebbero essere lanciate basandosi sulle attività spaziali europee. Riprendo qui e condivido alcune considerazioni del compianto Prof. Lebeau, che ha per anni presieduto lo IAPAC (Comitato degli Advisors dell’Agenzia Spaziale Europea per le Applicazioni Integrate), di cui ho l’onore di far parte. Gli Stati e le PMI intrattengono spesso una relazione difficile. Il dialogo non è assolutamente facile tra partner di dimensioni e di natura così lontane: ciò sembra spesso, nonostante quelle che sono le buone intenzioni dei rappresentanti dello Stato, il rapporto tra il vaso di coccio e il vaso di ferro. Appare utile esaminare quello che, in questo campo, si fa in particolare negli Stati Uniti, proprio dove l’ultra-liberalismo proibirebbe, almeno in principio, l’intervento del potere pubblico nei rapporti di mercato. La relazione delle PMI con il potere pubblico Nei paesi sviluppati, le piccole e medie imprese sono una sorgente essenziale di creazione di occupazione. Esse giocano altresì un ruolo nell’innovazione, cioè nel processo attraverso il quale le nuove tecnologie, spesso esito della ricerca e dello sviluppo, sono messe in pratica nelle attività di produzione e di servizio. Il dinamismo di questo settore è dunque un problema socio-economico importante e l’ef-

4

ficacia del sostegno che il potere pubblico intende apportargli è strategica. Quest’efficacia è spesso mediocre a causa di due tipi di ragioni, l’una e l’altra intrinseche. Da un lato, le strutture pubbliche si trovano confrontate a dei partner estremamente numerosi, molto diversi e fortemente dispersi. Stabilire con loro una relazione individuale efficace fondata su una valutazione corretta della capacità di ciascuno pone un problema insolubile ai responsabili pubblici, che non dispongono generalmente né degli organici né delle qualifiche che sarebbero necessarie. Dall’altro le PMI, a differenza delle grandi imprese, non hanno in generale la possibilità di sottrarre ai loro organici le risorse umane necessarie per stabilire e mantenere il necessario dialogo con i responsabili del potere pubblico, assorbite come sono dalla quotidiana indispensabile ricerca dei clienti commerciali. Questo doppio meccanismo inibisce il dialogo e fa sì che l’efficacia del rapporto decresca proporzionalmente alla taglia media dell’impresa. Ne risulta una debolezza generale del sostegno alle PMI: contrasto stridente con l’importanza del ruolo che viene loro ormai universalmente riconosciuto, sia in materia di occupazione, sia di efficienza ed elasticità. Il sostegno pubblico tende spontaneamente a concentrarsi sulla grande impresa che ha i mezzi per sollecitarlo energicamente, indirizzarlo verso i propri bisogni, tendendo conseguentemente a monopolizzarlo. La ricerca di soluzioni fondate sulla trasformazione di uno o dell’altro partner, il potere pubblico o la PMI, non ha mai portato a dei risultati convincenti. Bisogna quindi cercare altri meccanismi, fondati sulla presa di coscienza realistica delle capacità e delle inevitabili limitazioni dei due partner. L’esame del percorso americano apre delle strade che l’Europa non sembra avere sufficientemente esplorato.

sistema economico americano è la libera competizione”, ma che dispone di seguito che “è una politica dichiarata del Congresso che il Governo aiuti, consigli, assista e protegga, per quanto possibile, gli interessi delle piccole imprese, al fine di preservare la libera concorrenza” e che “il Governo federale […] deve aiutare e assistere la piccola impresa […] per accrescere la sua capacità concorrenziale sui mercati internazionali”. Si tratta quindi di un percorso che ha un carattere globale. Lo Small Business Act (SBA) è un documento complesso di 217 pagine (accessibile sul sito www.sba.gov/advo/laws/ law_lib.html). Questa complessità è accresciuta dalle disposizioni che contiene in favore degli individui e dei gruppi svantaggiati, e contro le barriere discriminatorie proprio per la società americana. D’altro canto, istituisce un’agenzia federale, la Small Business Administration, e definisce in modo molto preciso il suo campo di intervento e le relative modalità. Prevede in particolare interventi diretti sotto forma di prestiti destinati ad acquisizioni, costruzioni o conversioni. Non è questo percorso che qui ci interessa, ma quello che dà alla Small Business Administration la capacità di imporre agli Enti importanti del Governo federale pratiche contrattuali che favoriscano le piccole imprese: “è politica degli USA che le piccole imprese […] abbiano il massimo delle facilitazioni per partecipare ai contratti emanati da ogni agenzia federale, ivi compresi contratti o sub-contratti per sottosistemi, equipaggiamenti, componenti e servizi concernenti maggiori sistemi. È in più politica degli USA che i loro contraenti principali stabiliscano delle procedure che assicurino il pagamento rapido delle somme dovute”. Ogni contraente principale deve includere nella sua offerta un subcontracting plan che è parte integrante del suo impegno contrattuale, e il testo dispone che “alcun contratto sarà assegnato ad un sub-contraente senza che l’autorità contrattrice abbia determinato che il piano […] offra il massimo delle facilitazioni alle piccole imprese […] per partecipare alla messa in opera del contratto”. Queste disposizioni si applicano, mutatis mutandis, tanto ai contratti ad affidamento diretto quanto alle richieste d’offerta. La Small Business Administration utilizza così i contratti federali di qualsiasi natura per espandere la propria attività e demoltiplicare la sua azione appoggiandosi su due strumenti successivi: • gli altri enti federali, obbligati dalla legge a introdurre nei contratti specifiche disposizioni in favore della piccola impresa; • la grande impresa titolare di questi contratti, costretta a sub-contrattare a piccole imprese una percentuale preliminarmente definita dal subcontracting plan.

All’effetto moltiplicatore di questi strumenti si aggiunge il fatto che i contraenti principali possiedono le competenze necessarie per valutare il potenziale dei loro sub-contraenti e che essi hanno un interesse diretto a fare il miglior uso di questa capacità. Lo SBA dà ugualmente alla Small Business Administration la responsabilità di favorire l’accesso delle PMI ai risultati dei programmi di ricerca e sviluppo, punto fondamentale e qualificante: “le spese associate ai programmi di R&D eccedono i mezzi di molte piccole imprese, e queste imprese sono handicappate nell’ottenimento dei benefici dei programmi di R&D condotti a spese del Governo. Le piccole imprese sono da questo fatto svantaggiate nella competizione. Il sistema concorrenziale della libera impresa e lo sviluppo armonioso dell’economia nazionale ne risultano indebolite. È politica del Congresso che sia data assistenza alle piccole imprese per permettere loro di accedere ai benefici della R&D”. Questo percorso è concretizzato dallo SBIR (Small Business Innovation Research Program) che è un programma attraverso il quale “una parte dello sforzo di ricerca o di R&D di una agenzia federale è riservato alle piccole imprese”. Ancora una volta, l’insieme delle agenzie governative è utilizzato come strumento per la Small Business Administration per sostenere la piccola impresa. Il Caso dell’Europa Le motivazioni essenziali, d’ordine politico e d’ordine pratico, che hanno dettato gli obiettivi e ispirato la concezione dello Small Business Act – importanza socio-economica della piccola impresa, difficoltà di dare attenzione a questo tessuto diffuso, molto diverso e poco ricettivo – si ritrovano in modo del tutto identico in Europa. L’idea di uno SBA europeo è stata evocata da più di una decina d’anni, ma non è stata poi realizzata. Il percorso di creazione di una legislazione globale e vincolante, che fu quello del Congresso USA nel 1953, trova una certa difficoltà a essere trasposto in Europa. Questo appare fuori della portata immediata delle istituzioni di Bruxelles. La preparazione di una direttiva europea è stata proposta da diversi gruppi di pensiero, ma senza che si concretizzasse. D’altro canto, nella dimensione europea non esiste una stretta analogia con le commesse federali e in particolare con le colossali commesse militari americane. Non si dispone quindi né del quadro giuridico, né del campo di applicazione su cui si fonda lo SBA.

Lo Small Business Act L’aiuto dello Stato federale alle piccole imprese (Small Business Concerns) è organizzato dallo Small Business Act (Public Law 85.536) approvato nel 1953 e da allora costantemente modificato e perfezionato. L’obiettivo di questo atto legislativo è chiaramente esplicitato nel suo decimo paragrafo che ricorda che “l’essenza del

5


AEROSPAZIO

In luogo di un approccio globale, sarebbe tuttavia possibile tentare il percorso SBA attraverso delle operazioni pilota che regolino, sia a livello nazionale, sia a livello europeo, settori specifici che abitualmente gestiscono dei flussi contrattuali importanti. Un’azione pilota: le attività spaziali europee Viste le differenze con la dimensione americana e la conseguente opportunità di restringere l’esperimento a specifici settori, si potrebbe valutare che le attività spaziali, ambito fortemente trainato dalla domanda istituzionale, costituiscano uno strumento interessante per un’azione pilota, poi ulteriormente generalizzabile. Le attività spaziali europee sono l’esempio di un meccanismo attraverso il quale il potere pubblico inietta importanti flussi finanziari nel tessuto industriale. Mettono in opera un ampio ventaglio di discipline tecniche, e parte importante di alte tecnologie e studi. Ogni anno in questo settore, se sommiamo le attività di ESA e dell’UE, sono apportati all’industria quasi 4,5 miliardi di euro, cui si aggiungono i finanziamenti delle attività nazionali. Poiché la loro messa in opera necessita di risorse umane, materiali e finanziarie molto importanti, i contratti di sistemisti dei grandi progetti non possono che essere assegnati a grandi imprese, a loro volta spesso unite in consorzi. La partecipazione a questi programmi di PMI indipendenti non è oggetto di alcuna disposizione giuridica vincolante. Tale partecipazione è perciò sottomessa ai rischi della congiuntura e alla “benevolenza” della grande industria, essendo il ricorso all’intervento delle PMI largamente governato dalle fluttuazioni dei carichi di lavoro. In periodi di limitazione o riduzione dei finanziamenti pubblici, prevale la tendenza delle grandi imprese alla concentrazione verticale, spesso fine a se stessa e in naturale controtendenza rispetto all’efficienza economica del programma. Questo ovviamente si fa a detrimento delle PMI. Tale meccanismo di esclusione tende ad accentuare le fluttuazioni della congiuntura e, in momenti già difficili, aggiunge i suoi ulteriori effetti alla permanente debolezza delle relazioni tra le PMI e il potere pubblico. Sarebbe al contrario auspicabile che la partecipazione delle

6

PMI ai grandi progetti si stabilisse a un livello elevato, tanto per gli studi, quanto per i lavori esecutivi. Gli obiettivi di questa partecipazione sono multipli: • assicurare la diffusione delle positive ricadute dei grandi progetti all’insieme del tessuto industriale; • fare beneficiare i grandi progetti delle qualità specifiche delle PMI: capacità d’innovazione, flessibilità e rapidità di reazione, economicità delle produzioni; • reciprocamente, far beneficiare le PMI dei mezzi finanziari necessari per soddisfare l’esigenza di un incremento del livello tecnico con lo sforzo di formazione e di auto-apprendimento che ciò implica. Si tratterebbe allora di rendere obbligatoria questa partecipazione mediante delle clausole contrattuali che si ispirassero a quelle che impone lo Small Business Act. Dal fatto di questo obbligo le grandi imprese sarebbero costrette a mettere in opera la loro capacità di prospezione del mercato fornitori ed esercitare la loro capacità di valutazione degli offerenti: attività nelle quali esse eccellono, mentre le strutture pubbliche risultano, come detto, poco adatte. In caso di non ottenimento di un’offerta soddisfacente, le grandi imprese potrebbero in più essere portate, come si verifica negli USA, a creare nuove imprese, all’avviamento delle quali esse stesse potrebbero partecipare. È molto probabile che tali disposizioni non incontrerebbero grande favore da parte dei grandi sistemisti, ma appare certo che la tutela delle PMI sia un interesse superiore, portando una crescita della qualità e del valore del sistema industriale nel suo complesso. Va precisato opportunamente che è indispensabile che, oltre alla quantità delle attività subappaltate, se ne garantisca anche la qualità. I grandi sistemisti tendono infatti ad acquistare dai piccoli prevalentemente man-power, non apportando così alcun beneficio per la crescita tecnologica delle PMI. Al contrario la regola deve garantire che i contratti prevedano l’affidamento alle PMI della realizzazione di sottosistemi innovativi, consentendo così alle imprese minori la possibilità di sviluppare nuove tecnologie abilitanti, tali da garantire loro una reale crescita: un aumento di valore intrinseco di cui possa in futuro beneficiare l’intero sistema industriale. La decisione di avviare un tale percorso, trattandosi di attività spaziali europee, spetterebbe al Consiglio dell’ESA riunito al livello dei Ministri: l’imminenza della prossima Ministeriale ESA (dicembre 2014) rende molto attuali queste considerazioni. La preparazione di questa decisone è complessa, non solo perché occorre definire con precisione le sue modalità di messa in opera, ma anche perché occorre esaminare la sua coerenza con la regola del giusto ritorno industriale che, in ESA, dispone che il volume di contratti che riceve l’industria di ogni nazione è proporzionale alla quota di finanziamento nazionale. Questa ripartizione è resa sempre più difficile e artificiale dal fatto che i sistemisti si sono ridotti di numero e hanno acquisito una dimensione multinazionale europea e un potere quasi monopolistico. Ci si può tuttavia domandare se non ci sia un modo di gestire meglio la regola del giusto ritorno della quale si sa che si applica individualmente a ogni progetto opzionale o grande elemento di programma. Si potrebbero ritirare dal computo e globalizzare all’insieme dei programmi i flussi finanziari concernenti il coinvolgimento obbligatorio delle PMI, cosa che offrirebbe senza dubbio un incentivo ed un elemento di flessibilità. Un preventivo lavoro esplorativo e un approfondito studio di fattibilità sono comunque indispensabili prima di qualsiasi percorso di messa in opera, ma la tutela del settore delle PMI europee è un obiettivo che deve essere primario e urgente per mantenere la competitività industriale del nostro continente nella sfida globale. Vista l’occasione del semestre di Presidenza italiana dell’UE, ormai alle porte, la nostra Nazione potrebbe opportunamente favorire il percorso sopra delineato, anche considerando la tipicità del tessuto industriale italiano, in cui la preponderanza di piccole imprese raggiunge un livello unico al mondo.

Ing. Marco Airaghi Advisor ESA


DIFESA

Il PRESIDENTE DI CESTUDIS Gen. Luigi Ramponi

DIFESA

“Dopo il patto di Varsavia per le Forza Armate Italiane si è aperta una nuova ipotesi di impegno e una nuova ragione di esistenza. Pur rimanendo responsabili della sicurezza dello Stato, esse hanno trovato nelle missioni internazionali la possibilità di essere apprezzate in tutti i Paesi in cui abbiano operato. È giusto celebrare il sacrificio in guerra, come in questi giorni sta avvenendo con i 100 anni dall’inizio della Prima Guerra Mondiale, ma anche le operazioni che hanno portato la stabilità nel mondo. Con buona pace di chi dice che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Oggi vogliamo celebrare questo grande valore internazionale. Le Forze Armate non sono più fatte per fare la guerra ma opere di pace. Spero che l’opinione pubblica e la classe politica capiscano questa nuova funzione. L’Italia verrà ricordata nei libri di storia per aver condotto queste operazioni in ambito internazionale. Stiamo vivendo una grande rivoluzione. Il Centro Studi ha deciso di celebrare queste missioni che sono lo strumento più valido per dire che l’Italia è apprezzata nel mondo, iniziando con ibis. L’operazione ebbe inizialmente un carattere umanitario. Il fallimento fu della fase in cui si cercò il disarmo in Somalia. Oggi possiamo dire che la missione non è fallita perché queste le immagini di povertà e devastazione non fanno più parte dell’ambiente della Somalia.”

OPERAZIONE IBIS IN SOMALIA Il convegno organizzato dal Centro Studi Difesa e Sicurezza

Il Sottosegretario di Stato alla Difesa On. Domenico Rossi Si è svolto a Roma il 30 giugno scorso il convegno nazionale intitolato “Operazione Ibis in Somalia”, organizzato dal Centro Studi Difesa e Sicurezza presieduto dal Generale Ramponi. Sono intervenuti, tra gli altri, il Capo di Stato Maggiore della Difesa Ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, il Sottosegretario di Stato alla Difesa Domenico Rossi e il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Generale C.A. Claudio Graziano. Le Forze Armate italiane hanno condotto sino a oggi più di cento operazioni internazionali intese a riportare la stabilità, nella pace e nel rispetto dei diritti umani, in tanti Paesi del mondo. Il complesso di tali operazioni costituisce un fenomeno di alto valore e importanza nella storia del nostro Paese. Di fronte a questo nuovo tipo di impegno, le Forze Armate italiane hanno saputo rispondere in modo esemplare. Esse hanno raggiunto sempre risultati importanti, riscuotendo la gratitudine dei cittadini delle aree soccorse e la stima incondizionata della comunità internazionale, arrecando in tal modo grande prestigio alla nostra Nazione. Tutto ciò è stato ottenuto grazie al valore, allo spirito di sa-

crificio, all’alto senso umanitario, dei nostri soldati impegnati in missioni nelle quali era necessaria una professionalità del tutto nuova rispetto a quella puramente militare che, comunque, dovevano mantenere. La loro azione è stata accompagnata con eguale bravura umanitaria e da organizzazioni coraggiosi operatori dell’informazione. Il Cestudis ha ritenuto cosa giusta ricordare tali operazioni e celebrare la dedizione, la professionalità, il coraggio ed il sacrificio dei protagonisti. A tal proposito, la prima iniziativa ha riguardato l’Operazione IBIS in Somalia. Il convegno a lei intitolato si è sviluppato attraverso le testimonianze di alcuni tra coloro che, civili e militari, ai vari livelli e nei diversi settori, presero parte all’operazione. Un momento particolare è stato dedicato nel convegno al tributo di gratitudine nei confronti delle donne e degli uomini che donarono la vita nell’adempimento del dovere. Piera Zocchi

LA RICOSTRUZIONE STORICA DEL CAPO DI STATO MAGGIORE DELLA DIFESA • Nel ’91, caduto il regime di Siad Barre, Somalia nel caos, con gravi episodi di violenza sulla popolazione civile, migliaia di morti, carestie, epidemie, criminalità diffusa ed esodi di massa. • Già sul finire di quell’anno, nel pieno della 1^ guerra del golfo, dovemmo evacuare l’Ambasciata e molti cittadini non solo italiani con un intervento di emergenza condotto distaccando la Fregata ORSA in rientro dal Golfo Arabico e con l’impiego di due C130 dell’AM che operarono con grande efficacia e in una situazione ad alto rischio. • Nel marzo del ‘92 una prima risoluzione dell’ONU portò a UNOSOM I (United Nations Operations in Somalia) con l’impiego di 50 osservatori per il controllo della tregua tra le fazioni in lotta. • Nell’estate dello stesso anno, per il perdurare delle violenze, l’ONU approvò il rinforzo del contingente, con circa 5.000 uomini, per la sorveglianza del cessate il fuoco in Mogadiscio, la protezione e la sicurezza del personale, degli equipaggiamenti e dei rifornimenti e la scorta dei convogli umanitari.

8

“Il nostro Paese ha fatto della partecipazione alle missioni internazionali un punto fermo della sua politica estera e di difesa garantendo la presenza delle Forze armate italiane in tutte le principali aree a rischio del mondo, per impedire la degenerazione di crisi e tensioni potenzialmente devastanti per la vita di intere popolazioni e per la sicurezza globale. Dal sacrificio di chi ha perso la vita per le istituzioni – ha concluso Rossi – emergono almeno tre principi, il senso del dovere, lo spirito di sacrificio e il senso di d’appartenenza e di servizio nei confronti della comunità, un insegnamento che dobbiamo sempre tenere presente perché su questi principi di fondamentale importanza dobbiamo basare la rinascita del nostro Paese”. Il Sottosegretario Rossi ha terminato la sua allocuzione dedicando un pensiero ai caduti in Somalia durante “l’Operazione Ibis”.

• La situazione precipitò nel settembre del ’92, determinando il ritiro dei Caschi blu fino alla nuova risoluzione con cui le Nazioni Unite stabilirono l’invio in Somalia, a dicembre, di una coalizione multinazionale, sotto comando USA (UNITAF – unified task force). • Ebbe così inizio l’operazione Restore Hope, a guida statunitense, cui l’Italia partecipò con un contingente denominato ITALFOR IBIS, costituito da circa 2.000 uomini della Folgore e varie unità di supporto, una componente dell’Aeronautica Militare (circa 100 uomini) ed una Task Force navale (circa 1.200 uomini) le cui unità di manovra (incursori del Comsubin e fucilieri dell’allora Battaglione San Marco) operarono a terra con i reparti dell’Esercito. • Nel maggio del 1993 l’ONU riprese il comando diretto delle operazioni dando inizio alla missione UNOSOM II ed il contingente italiano assunse il nome di ITALFOR – IBIS II, con un’ampia area di responsabilità. Il Generale Rossi cedette la responsabilità del comando al Generale Loi. • Seguirono i noti eventi del check point “Pasta”, nel luglio del ’93, quando

persero la vita il Sottotenente MILLEVOI, il Sergente Maggiore PAOLICCHI e il paracadutista BACCARO e rimasero feriti 22 nostri militari.

BOLONGARO, che l’ 8 febbraio si è ricongiunse in Kenia con una forza anfibia US della flotta del Pacifico.

• Il 16 gennaio 1994 iniziò il ripiegamento del contingente italiano. Il Tricolore venne ammainato il 10 marzo, dopo 449 giorni di presenza nella capitale somala.

• La “flagship” del 26° Gruppo Navale era la micro-portaerei Garibaldi, di cui avevo da poco assunto il comando negli Stati Uniti, dopo avere imbarcato i primi tre aerei combattenti AV8B+ da Cherry Point ed essere rientrati in Italia prima di Natale ’94.

• In Somalia persero la vita 11 militari italiani, un’infermiera volontaria della Croce Rossa Maria Cristina LUINETTI, la giornalista Ilaria ALPI ed il cineoperatore Miran HROVATIN e il fotoreporter Marcello PALMISANO, quest’ultimo nel corso dell’operazione UNITED SHIELD del 1995. Ad essi si aggiungono complessivamente 107 feriti. A tutti loro un pensiero commosso e deferente. • Nel 1995, con il peggioramento delle condizioni generali nel paese, l’ONU decise l’evacuazione dei circa 8.000 Caschi Blu rimasti (i contingenti pakistani, malesi, bengalesi, egiziani e altri), con i relativi mezzi e materiali. • L’operazione multinazionale United Shield, sotto egida ONU, per fornire una cornice di sicurezza al ripiegamento delle forze ONU, fu affidata ad un contingente anfibio IT/US al comando del Generale dei Marines Anthony ZINNI. • Iniziò da Brindisi, il 20 gennaio, l’operazione Somalia 3, con la costituzione del 26° Gruppo Navale - una forza anfibia al comando del CA Elio

• Al Garibaldi si affiancavano le LPD San Giorgio e San Marco, la Fregata Libeccio e la rifornitrice Stromboli. La proiezione “dal mare” era assicurata da un contingente del Reggimento San Marco integrato da reparti dell’Esercito. In totale circa 1.000 uomini tra Incursori e Fucilieri di Marina, Incursori e Paracadutisti “Cavalleggeri Guide” dell’EI, supportati da 4 velivoli AV-8B+, elicotteri medi e pesanti della Marina e quattro A-129 Mangusta dell’Esercito. • A terra la situazione si presentò subito critica: la capitale somala era priva di ogni forma di controllo. L’ONU, sostanzialmente, non aveva ottenuto il successo auspicato e dichiarava il proprio fallimento. • Dopo aver creato la necessaria cornice di sicurezza, evacuammo senza incidenti oltre 2.000 Caschi Blu e il 22 marzo 1995 rientrammo in Patria, abbandonando la Somalia al proprio destino.

9


DIFESA

DIFESA

Il CAPO DI STATO MAGGIORE DELLA DIFESA Amm. Luigi Binelli Mantelli

“Prima di tutto permettetemi alcune considerazioni a carattere tecnico-militare per poi chiudere con alcune riflessioni a più ampio respiro sul futuro. Di IBIS gli autorevoli relatori che mi seguiranno potranno ben illustrare gli aspetti tecnico-militari ed operativi, certamente la missione IBIS e le operazioni ad esse correlate rappresentarono uno dei più intensi e prolungati impegni “a braccio lungo” delle Forze Armate italiane, molto importanti perché ne forgiarono l’animo, la cultura, la dottrina e la logistica in senso “expeditionary”. United Shield rappresentò la prima missione concretamente interforze e multinazionale, esemplare per le numerose operazioni che sono poi seguite. Le componenti operative si integrarono perfettamente. I Reparti dell’Esercito e della Marina mostrarono ottima complementarietà nelle operazioni aeree ed eccellente amalgama in quelle terrestri. Il 26° Gruppo Navale si inserì efficacemente nella Joint & Combined Task Force grazie al livello di addestramento raggiunto, alle capacità intrinseche dei vari reparti ed alla piena interoperabilità con le forze aeree, terrestri e navali statunitensi. Trova già qui conferma la mia convinzione che l’integrazione interforze è pienamente conseguita sul campo, ma non nei palazzi romani, … ma è davvero così importante che lo sia anche nei palazzi visto che c’è una legge (25/97) che definisce le responsabilità e le attribuzioni per realizzare l’unicità di comando e di indirizzo, la pianificazione delle forze, nonché le necessarie sinergie? L’operazione dimostrò già allora, non c’era il COI, l’importanza dell’unitarietà della catena di comando oltre a confermare la bontà delle scelte della Marina nel potenziare la capacità del “tridente di proiezione dal mare”, incentrato sulla disponibilità dell’aviazione navale, di componenti anfibie e di forze speciali imbarcate. Fu un banco di prova importante e un’esperienza fondamentale per il consolidamento di credibili capacità nazionali di pianificazione, gestione e condotta di un’operazione anfibia, che è cosa particolarmente complessa. Un’ultima notazione riguarda la struttura delle forze partecipanti, sostanzialmente basata su due componenti quasi equivalenti IT/US che richiama il moderno concetto di frame work nation per le operazioni multinazionali. Un nuovo concetto che stiamo portando avanti con successo in ambito NATO ed UE insieme alla Germania, partendo dall’ovvia considerazione che è meglio suddividere selettivamente il lavoro assumendone l’onere dove più alti sono gli interessi nazionali e più contenuti i costi, piuttosto che frammentare i contributi nazionali in tutte le operazioni (e oggi sono davvero tante) per un ecumenico criterio di “show the flag”. In realtà non si è mai parlato molto dell’operazione United Shield perché se pure fu un pieno successo sotto il profilo militare, sotto il profilo politico sanciva il fallimento della comunità internazionale per dare un minimo di stabilità al Corno d’Africa. Il risultato fu che al caos istituzionale seguì, com’era prevedibile, l’occupazione dello spazio politico da parte delle corti islamiche che fino ad allora erano state molto defilate, la progressiva crescita del business legato alla pirateria, e poi l’avvento di fazioni ancora più estremistiche, come al-shabab, che oggi opera indisturbata non solo in Somalia ma sta via via estendendo il proprio raggio di azione e le connessioni con altre realtà quaediste (attentati a Nairobi e a Gibuti e rapporti con ISIS e al-nusra in Siria e Iraq). La diffusa instabilità che ancora interessa la regione ha favorito il radicamento della pirateria - che prese piede anche grazie alla donazione di oltre 2000 skiffs da parte delle nazioni unite e delle nazioni costiere per favorire la pesca … sic! - minaccia al libero utilizzo dell’area marittima e crocevia strategico delle rotte che collegano il Mediterraneo e il Nord-Europa con il Golfo Arabico, il Sud-Est Asiatico, la Cina e il Sudafrica. Una prima riflessione dunque sul valore delle cosiddette “missioni internazionali di stabilizzazione”. Se guardiamo ai risultati nel medio periodo in IRAQ, in SOMALIA, in LIBIA sembrerebbero piuttosto missioni di destabilizzazione, ma il problema non risiede nella capacità militare di stabilizzare o meno, piuttosto nella volontà politica di portare a termine il lavoro dei militari, che non può essere che prodromico e complementare di una più incisiva azione di sostegno istituzionale, economico e strutturale, meglio se preventiva. E poi è una questione di tempo, perché quando si decide un intervento di stabilizzazione occorre essere coscienti che non ci si può ritirare al termine della fase più calda, ma ad essa deve seguire un lungo periodo di ricostruzione a partire dalla forze di sicurezza (e qui la missione militare deve sapersi trasformare in assistenza al capacity building) per finire al tessuto politico, istituzionale ed economico. È una lezione appresa nei Balcani (da quanto ci siamo e quando ce ne andremo) e che spero (ma non ne sono sicuro) avrà ulteriore conferma in Afghanistan, con l’avvio di Resolute Support a seguire ISAF. Una seconda considerazione è che “lontano non è irrilevante” e che nell’era della globalizzazione e della diffusa esternalità economica gli interessi della comunità internazionale e anche quelli nazionali non possono essere limitati dalla geografia, ma partire dalla valutazione dei rischi e delle opportunità connesse ai nostri interessi e alla nostra sicurezza.

10

Se si pensa infatti al Corno d’Africa solo in termini di lotta alla pirateria marittima si commette una grave leggerezza perché un’area così estesa e senza controllo offre – e lo vediamo – ampi spazi all’estremismo, all’eversione, all’integralismo, al terrorismo e ai traffici illeciti (armi , droga, esseri umani, solo per citarne alcuni). Se ci pensiamo bene anche la crisi con l’India legata ai nostri Fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone è un portato di questa situazione eppure i Nuclei Militari di Protezione sui nostri mercantili continuano ad assolvere egregiamente alla loro funzione. Situazioni interconnesse dunque e pericolosi santuari che si riverberano direttamente sull’Italia e sull’Europa e lo vediamo in Libia, in Siria, in Libano, in Iraq, nel nostro stesso mare, oggi destabilizzato insieme all’intera regione mediterranea. A questo punto che fare? Qualcosa si sta muovendo per la Somalia e l’Italia sta facendo la sua parte, ma c’è molto da fare e possiamo, dobbiamo fare di più, sono gli stessi somali a chiedercelo. Evidentemente IBIS ha dato i suoi frutti anche a distanza di tempo e per questo possiamo andarne fieri. A partire dalle missioni marittime antipirateria di cui l’Italia è stata sempre in prima linea e spesso protagonista, assumendone il comando, è progressivamente aumentata l’incisività sul territorio attraverso iniziative di capacity building dell’UE (scoordinate ma in via di miglioramento anche grazie alle nostre costanti pressioni su Bruxelles). Oggi siamo al comando di EUTM Somalia (European Union Training Mission) e possiamo nutrire una ragionevole fiducia sul miglior coordinamento (prima inesistente) con la missione civile EUCAP Nestor (EU Regional Maritime Capacity Building Civilian Mission) per lo sviluppo delle guardie costiere rivierasche e con ATALANTA, la missione militare antipirateria dell’UE. A ciò si aggiungono le iniziative bilaterali per preparare le forze di sicurezza somale attraverso la fornitura di materiali e l’addestramento come ad esempio la Missione Addestrativa Italiana (MIADIT) egregiamente condotta dai nostri Carabinieri a favore della polizia Somala. Ulteriore testimonianza dell’impegno italiano in Africa orientale è rappresentato dalla recente attivazione della prima base militare nazionale a Gibuti. La struttura è stata concepita per adempiere ad una grande varietà di missioni legate alla stabilizzazione dell’area. Essa servirà come hub logistico per i citati NMP, per forze e operazioni speciali e per le navi della Marina Militare, oltre che per sviluppare addestramento alle forze Somale e Gibutine. In sintesi, l’ampio spettro di iniziative internazionali pone le basi per l’avvio di un solido percorso di stabilizzazione in tutto il Corno d’ Africa. Ma la strada è ancora lunga, incerta e tortuosa. Per affrontarla con speranza di successo, ancora una volta, occorre “fare sistema”, a livello internazionale, ma prima di tutto a livello nazionale e qui la strada è (forse) anche più tortuosa”.

11


LA VOCE DELLE PMI buon numero di partecipazioni anche da parte di Università, Centri di Ricerca e PMI. Si è inoltre proceduto alla stesura di un Piano Strategico del settore con il supporto sostanziale di Finmeccanica e di Avio Aero.

LA VOCE DELLE PMI

Fatta l’esperienza sul bando nazionale, l’orizzonte di lavoro del CTNA è stato a questo punto il programma quadro dell’Unione Europea denominato Horizon 2020 ed appena avviato. Il CTNA, col suo Comitato Tecnico, ha già lavo-

ricerca di partner (anche internazionali) ed infine di essere seguite ed assistite nella successiva gestione amministrativa del progetto di ricerca, o per lo meno di riceverne l’adeguata formazione. Questo è quello che il CTNA, con il supporto di APRE e attraverso il necessario collegamento con i singoli Distretti regionali e le altre reti esistenti per la ricerca di partnership internazionali, quali il Progetto Network per l’Innovazione di ICE o EACP (European Aerospace Cluster Partnership), intende offrire alle PMI aerospaziali italiane.

IL CTNA ANNUNCIA NUOVE OPPORTUNITà PER LE PMI L’intervento del Presidente del Gruppo di Lavoro PMI Claudia Mona

Riprende “La voce delle PMI” in questa rivista dedicata al settore aerospaziale e mi è stato proposto di intervenire. In effetti di PMI e aeronautica me ne sono occupata parecchio negli ultimi quindici anni, sia come rappresentante della quarta generazione della più vecchia PMI aeronautica italiana, sia per i vari ruoli trasversali in cui mi sono ritrovata, dal Distretto regionale al Cluster nazionale ad alcune esperienze europee fatte anche in precedenza. Non potevo non accogliere l’invito a parlarne. Le PMI sono diventate un grande tema, europeo, nazionale e di ogni politica di settore, aerospazio compreso. Sia che si tratti di ricerca e sviluppo, sia che si tratti di supply chain, di internazionalizzazione, di appositi strumenti finanziari, di nuove forme societarie, di motori per la crescita e l’occupazione; le PMI sono sempre citate, come stakeholder di riferimento ma anche come cardine ed elemento caratterizzante della storia industriale dell’Europa, ed in particolare dell’Italia, e del suo futuro. In contrapposizione c’è la grande impresa, pubblica, privata, multinazionale. Una grande impresa che, spesso, è molte volte più grande del limite massimo fissato per le PMI. Collante dei due poli sono diventati i Distretti o Cluster, delimitati per specifico settore industriale e per territorio di appartenenza. Tutto questo non poteva non accadere anche nel nostro settore, l’aerospazio, fortemente caratterizzato da grandi, grandissime imprese, ma anche da centinaia, migliaia di piccole e medie imprese, tutte strettamente interconnesse tra di loro per la condivisione delle produzioni sulle (e dei destini delle) stesse “piattaforme”, i programmi aeronautici e spaziali. Seguendo tendenze ed esperimenti già in corso in Europa anche da noi i principali territori a vocazione aerospaziale si sono attrezzati per coalizzare gli interessi attorno al settore creando dei Distretti che fossero riconosciuti a livello regionale come l’interlocutore di riferimento sul tema e il collettore degli operatori del settore. Le PMI, soprattutto le piccole e tutte quelle meno autonome nella propria rappresentanza aziendale e di prodotto, hanno trovato quindi un riferimento territorialmente prossimo e in continuità con quanto viene svolto dall’associazione nazionale di settore (AIAD) che potesse operare sul territorio per intercettare le loro necessità aiutandole nel rafforzarsi per consolidare la propria

12

posizione nella supply chain aerospaziale, magari prevalentemente nazionale, nella quale operavano per tentare, anche autonomamente, il salto verso i mercati esteri e proseguire in un percorso di crescita. A loro volta, anche le istituzioni regionali o territoriali hanno trovato un interlocutore unico e ben definito a cui hanno potuto rivolgere le loro politiche industriali, di innovazione, internazionalizzazione o anche di formazione, e verso un settore che fino a quel momento era stato considerato prevalentemente di competenza nazionale. Le attività trasversali condotte in questi anni a favore delle PMI aerospaziali italiane da parte tutti i Distretti regionali, ciascuno con le sue caratteristiche di struttura, disponibilità di finanziamenti e specificità di azioni, sono state moltissime e moltissime le opportunità create. Per la prima volta, oserei dire, tutte le PMI del settore che ne hanno avuto l’interesse e la possibilità hanno potuto entrare in contatto con il grande mondo dell’aeronautica e dello spazio; il travaso di conoscenze, informazioni, regole e modi di operare è stato enorme ed ha permesso di uscire da quella stretta relazione cliente-fornitore conosciuta fino a quel momento per approdare ad una maggior conoscenza reciproca e quindi ad una più proficua collaborazione, come partner, per il comune obiettivo di realizzare le migliori piattaforme possibili, anche magari con prodotti o tecnologie che non si pensava di impiegare o non si pensava di avere in Italia. Una buona parte di questa esperienza fatta a livello regionale ha ora trovato un punto di incontro e di confronto nel Cluster Tecnologico Nazionale dell’Aerospazio per lo specifico ambito della Ricerca e Sviluppo ed in vista soprattutto dei nuovi bandi europei e delle opportunità da andare a cogliere. Il CTNA, che raccoglie attorno a se tutti gli intessi nazionali del settore sia del mondo dell’Industria sia del mondo dell’Università e dei Centri di Ricerca, ha operato inizialmente per il Bando Cluster del MIUR che doveva essere preso come una “palestra per l’Europa”. Quattro sono i grandi progetti che sono stati presentati per il settore aerospazio (aeronautica, elicotteristica, motoristica e spazio) e che sono stati avviati, pur con notevole ritardo. Capofila di ciascun progetto sono i principali player nazionali, ma con un

rato molto nell’ultimo anno per preparare il terreno; si è approfondita la SRA (Strategic Research Agenda), ci si è raccordati con le piattaforme di ACARE Italia per l’aeronautica e di SPIN-IT per lo spazio, si sono studiati i temi e le priorità tecnologiche delle prime calls dei bandi di H2020 di possibile interesse (trasporto aereo, spazio, sicurezza, materiali, ICT, strumento PMI), si sono raccolte, a livello nazionale per il tramite dei Distretti regionali, le manifestazioni di interesse e le possibili proposte di progetto attorno a questi temi e si è aperto un dialogo con APRE, l’Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea, per il supporto nella partecipazione ai programmi europei. All’interno del Comitato Tecnico, nel quale rappresento le PMI del Distretto Aerospaziale Lombardo, si è in un secondo tempo costituito un apposito gruppo di lavoro PMI, che mi trovo a presiedere, per favorire una maggiore attenzione ai bisogni di queste imprese e quindi spingere un loro maggiore coinvolgimento nei progetti europei, anche con iniziative autonome e su discipline trasversali. Le PMI che desiderano aprirsi a questa opportunità hanno necessità di essere informate regolarmente e per tempo delle tematiche e delle scadenze delle singole calls e dei meccanismi di finanziamento, hanno necessità di essere supportate nella preparazione delle proposte e nella

Il lavoro svolto ad oggi ha visto la realizzazione da parte del CTNA, in collaborazione con i Distretti regionali e con APRE, di alcune giornate informative sulle tematiche di Horizon 2020 specificatamente indirizzate alle PMI aerospaziali di ciascun territorio. Sono stati così presentati anche i temi individuati essere di maggior interesse e le possibili proposte di progetto nell’ambito delle Collaborative Proposals per le aree Aviation e Space nonché le piattaforme di Clean Sky 2 di cui si sono fatte promotrici in Europa le grandi aziende nazionali. Alle PMI sono quindi state offerte sia opportunità di partecipare a (o farsi promotrici di) progetti di ricerca bottom up sia opportunità di inserirsi in progetti di ricerca top down di ampio respiro. Ciascuna proposta di progetto ha poi portato o porterà alla costituzione di specifici gruppi di lavoro per la preparazione effettiva delle domande sui bandi europei. Il mio auspicio e scopo per cui tutti lavoriamo al CTNA è che la partecipazione delle aziende italiane, e soprattutto in questo caso delle PMI aerospaziali, ai progetti di ricerca europei aumenti e quindi aumenti la quota italiana di partecipazione a quei fondi stanziati dall’Europa ma che bisogna conquistarsi con la fattiva realizzazione di progetti innovativi per riportarsi a casa quella quota di investimento che spetta al Paese.

Claudia Mona SECONDO MONA S.p.A. Cluster Tecnologico Nazionale Aerospazio Rappresentante PMI nell’Organo di Governo Rappresentante PMI del Distretto Lombardo nel Comitato Tecnico Presidente Gdl PMI

13


AGROSPAZIO

LA COLTIVAZIONE IDROPONICA INCONTRA LA GRANDE DISTRIBUZIONE Intervista a Maurizio Costantino, socio della Società Cooperativa Agricola Ortogranda

Ortogranda è un’Organizzazione di Produttori agricoli, quante aziende sono coinvolte e quali sono le vostre specializzazioni produttive? “Siamo O.P. da quattro anni, ma di fatto lo siamo da 15 anni nel senso che da quando è nata, Ortogranda è punto di riferimento per i produttori locali. La cooperativa è formata da 6 soci che conferiscono il 100% della loro produzione e collabora con altre 70 aziende produttrici. Le specializzazioni produttive sono quelle tradizionali, quindi ortaggi a foglia in autunnoinverno come lattughe, spinaci, valerianella, costine, lattughino e ortaggi a frutto in primavera-estate quali pomodoro cuore di bue, peperoni, melanzane, cetriolo e zucchine”. Perché avete scelto una tipologia di coltivazione fuori suolo? “Per rendere possibile la coltivazione. La coltivazione intensiva in serra pregiudica il terreno rendendolo patria di patogeni tellurici difficili da combattere, oppure utilizzando consistenti dosi di pesticidi. La coltivazione fuori suolo elimina tout cour questo problema: ogni anno si riparte con un terreno vergine!”. Tutte le vostre produzioni sono in idroponica? “No solo alcune, dove la tecnologia della serra lo permette”. Quali sono le principali differenze tra una produzione tradizionale e una in idroponica? “Quella idroponica utilizza una dose di pesticidi notevolmente più bassa. In termini di rapporto siamo 1 a 10”. I costi di produzione sono più alti? E quelli del prodotto? “Non necessariamente, perché dove la tecnologia della serra lo permette le coltivazioni idroponiche hanno una resa superiore, e questo fa scendere il costo al Kg di prodotto”. È stato complicato convincere la grande distribuzione a vendere prodotti coltivati in idroponica? “No, anche perché non è una specifica che viene richiesta. Alla Grande Distribuzione, come al consumatore interessa di più la salubrità del prodotto cioè che sia esente da pesticidi, e che quelli riscontrabili lo siano nella giusta misura. Altra cosa

14

che chiede il consumatore, e quindi la Grande Distribuzione, è che il prodotto sia conservabile e che abbia elevate qualità organolettiche, e questo è quello che noi puntiamo ad ottenere con le coltivazioni idroponiche”. Qual è la risposta del consumatore alla vostra scelta? “Il consumatore è in grado di fare la propria scelta con giudizio! Ha tutti gli elementi per giudicare il prodotto: i propri sensi. Se il prodotto è buono, lo trova con regolarità nel punto vendita, non è mai troppo caro, si conserva, trova delle indicazioni sul prodotto, alla fine il consumatore si affeziona”. La scelta dell’idroponica comporta un grande investimento iniziale in termini di tecnologie, formazione o aggiornamento? “Si questo è il limite della tecnica, ma anche la sfida che una giovane agricoltura deve lanciare alla tradizione. Non vivrà ancora a lungo una tradizione se non è in grado di innovare le tecniche produttive”. Avete in animo di ampliare la vostra rete distributiva? “Certo, ma sono le catene della Grande Distribuzione che vengono a cercarci, sono loro che hanno bisogno di qualità e continuità sui banchi”. Qual è la sua opinione in merito all’utilizzo di tecnologie innovative all’agricoltura? “In parte ho già risposto prima, il problema è che sull’agricoltura i guru della cultura verde, i nostri opinion leader vogliono un’agricoltura di vecchio stampo. L’innovazione tecnologica è vista con sospetto, per altri settori è un elemento migliorativo e assolutamente da perseguire, mentre per l’agricoltura è qualcosa di negativo”. Quale pensa sarà il futuro di questo settore? “Di sicuro la gente continuerà a mangiare, e soprattutto avrà voglia di mangiare qualcosa di sano, genuino e possibilmente prodotto in prossimità (quando è possibile). Questo ci fa ben sperare perché noi stiamo lavorando per portare degli ortaggi in tavola con queste caratteristiche”. Roberta Busatto

C



Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.