Nessuno si mova

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GLI ARCO B ALENI 16


Titolo originale “Personne ne bouge” Traduzione di Sara Saorin Copertina di Eliana Albertini Prima edizione: ottobre 2019 ISBN 9788899842758 Personne ne bouge testo di Olivier Adam Personne ne bouge © 2011, l’école des loisirs, Paris Per l’edizione italiana Copyright © 2019 Camelozampa Tutti i diritti riservati Alta leggibilità Questo libro utilizza il Font EasyReading® Carattere ad alta leggibilità per tutti. Anche per chi è dislessico. www.easyreading.it


Traduzione di Sara Saorin


Olivier Adam è nato nel 1974. È cresciuto nella banlieue di Parigi, ma oggi vive in Bretagna, a due passi dal mare. Costruisce castelli di sabbia con sua figlia e scrive romanzi. Della sua produzione per adulti, Cuore leggero, Scogliera e Stai tranquilla io sto bene sono stati pubblicati in Italia da Minimum Fax. Nessuno si muova è il suo primo romanzo per ragazzi arrivato ai lettori italiani più giovani. Sara Saorin, laureata alla Scuola Interpreti e Traduttori di Bologna, è co-fondatrice di Camelozampa, per la quale ha tradotto i romanzi di Marie-Aude Murail, Christophe Léon, Christian Bobin, Alexandre Jardin e gli albi di Anthony Browne, Tony Ross, Michael Foreman, Quentin Blake.




A Juliette



La prima volta La prima volta che mi è capitato, ho avuto davvero una fifa blu. Ero in cucina che facevo i compiti, perché non mi piace studiare in camera mia. Preferisco sentire i rumori di casa: i programmi alla radio, la musica dallo stereo, la mamma che parla al telefono, anche se lei dice che così mi deconcentro e che, visti i miei risultati, farei meglio a lavorare in un posto tranquillo. Fuori stava facendo buio. Di lì a poco il papà sarebbe rientrato dal lavoro o, meglio, è quello che speravo, perché spesso in inverno torna a casa tardi. Non perché abbia troppo lavoro, ma perché non ne ha abbastanza. Mi spiego: fa il tassista. È un lavoro strano. Più i clienti sono rari e più tempo devi lavorare. Voglio dire, se vuoi guadagnare un minimo. In poche parole, era sera, stavo facendo gli esercizi di matematica. La mamma mi dava le spalle, impegnata a pelare delle carote per cena. Una volta tanto non aveva compiti da correggere (è professoressa di storia e geografia, ma non nella scuola che frequento 9


io, in un’altra, dall’altra parte della città), così si è messa in testa di cucinare. E già questo sarebbe di per sé un fenomeno paranormale. E in quel momento è successo. Lì per lì non me ne ero reso conto, concentrato sulle mie equazioni. Ma dopo un po’, qualcosa mi era sembrato strano: il silenzio. Un silenzio assoluto. In giro per casa nessun rumore di frigo e di elettrodomestici, nel giardino di fianco nessun rumore di auto, niente cani che abbaiavano. Più nulla. Ho avuto l’impressione di essere diventato sordo. «Mamma» ho detto. Ma la mamma non ha reagito. Le sono andato vicino. Era immobile. Come una statua. Teneva in mano il pelapatate e la carota, una pellicina arancione pendeva sopra il lavello. «Mamma» ho ripetuto nel silenzio totale. Nessuna reazione. Nemmeno il minimo battito di ciglia. Mi è venuto un groppo in gola. Sono uscito dalla stanza. Nel salotto, il gatto non muoveva più neanche un pelo. Si era bloccato mentre si stava leccando una zampa, la sua linguetta rosa 10


fuori dalla bocca. L’ho accarezzato per capire, era come morto ma non era morto, la sua pelliccia era calda anche se lui non respirava. Ho dato un’occhiata fuori dalle finestre. In strada, due auto si incrociavano, ma nessuna delle due andava avanti. È stato a quel punto che mi ha preso il panico. Ho provato ad accendere la televisione, ma non è successo nulla. Sono tornato in cucina e la mamma era sempre immobile come prima. Ho provato pure a pizzicarle un braccio, farle il solletico, scuoterla, non è servito a niente. Ho guardato l’ora sul timer del forno. Ho aspettato invano che passasse dalle 18:04 alle 18:05. Ma non ne ha voluto sapere. Non ci capivo più niente. Non sapevo più cosa fare. E, soprattutto, avevo una paura terribile. Volevo chiamare il papà, ma il telefono non funzionava. Allora sono uscito in strada. Le due auto non si erano spostate di un millimetro. Al volante della prima, il conducente teneva un dito infilato nel naso. Nel secondo veicolo, una donna aveva la bocca spalancata. Mi sono domandato se, quando è capitato, stesse ridendo o 11


sbadigliando. Dopo, mi sono chiesto se ero l’unico che continuasse a muoversi ancora o se, in altre case, qualcun altro era stato colpito dallo stesso fenomeno. Il cancello dei vicini era aperto. Sono entrato nel loro giardino. Ho trovato il signor Tellier chino sui suoi rosai. Anche se calava la sera e non ci si vedeva più un granché, le cose stavano così: quando non era al lavoro, il signor Tellier si imbucava sempre in giardino. C’era da pensare che non rientrasse mai in casa. La cosa più impressionante era quel ramo tagliato, sospeso nel vuoto. Ho guardato la scena per un bel po’ visto quanto era inconcepibile, quanto assomigliava a uno di quei trucchi di magia che si vedono alla televisione. Ho spinto la porta di casa. Nel salotto, Léa stava pizzicando le corde della sua chitarra, ma non ne usciva alcun suono. Non ho potuto fare a meno di restare a contemplarla per parecchio tempo. I suoi lunghi capelli neri. I suoi grandi occhi verdi. La sua bocca. I suoi quattordici anni. Era bella come nessun’altra. Non posso nasconderlo, ero innamorato di lei da anni. Da quando essere “innamorato” 12


significava qualcosa per me, in pratica. Anche se avrei preferito morire piuttosto che confessarlo a qualcuno. Dentro al mio petto, il cuore si è messo a battere a tutta velocità. Era la prima volta che mi ritrovavo così vicino a lei. Potevo perfino sentire il suo profumo. Era buono, alla vaniglia. Avrei potuto toccarla, forse anche appoggiare le labbra sulla sua guancia, ma non ho osato. Anche da immobile, mi intimidiva. Era in prima superiore, nella scuola dove insegnava mia mamma, voleva diventare musicista e ci chiamava “nanerottoli”, suo fratello e me. Non l’avevo mai sentita pronunciare il mio nome. Né rivolgermi la parola per dirmi qualcosa di diverso da “sparisci”. Eppure la conoscevo da sempre. Quando eravamo piccoli, doveva pur esserci capitato di giocare assieme, tutti e tre, con suo fratello, nel loro giardino o in strada. Non riuscivo, però, a ricordarmelo davvero. Avevo delle immagini che mi venivano alla mente, ma non capivo se erano dei veri ricordi o se le inventavo un po’, come dei sogni. Tutto a un tratto, ho avuto paura che le cose riprendessero il loro corso e lei mi 13


sorprendesse così, seduto vicino a lei, a guardarla con gli occhi da merluzzo. Ho lasciato la stanza e sono salito in camera di Yohann. Sullo schermo della sua Xbox, nessun calciatore tirava più il pallone e Yohann teneva premuto all’infinito i tasti del controller, a bocca aperta. Avevamo la stessa età ed eravamo nella stessa scuola, in prima anche lui, ma non nella stessa classe. Ci conoscevamo da sempre ed era il mio unico amico. Be’, a essere sinceri, ero io a considerarlo un amico. Il viceversa non era proprio del tutto vero. A scuola, mi evitava. Non ho mai capito davvero perché. Ma finché continuava a parlarmi una volta usciti, a invitarmi a casa sua o a venire a trovarmi, mi andava bene. Non guardavo più in là. Sono tornato fuori. Sono uscito dal giardino e ho camminato fino in fondo alla via. Finiva con una grande scalinata che arrivava sulla spiaggia. Era quasi scesa la notte. Lungo il tragitto, ho incrociato quattro auto ferme e due miei vicini trasformati in statue; dalle finestre delle case si vedeva ovunque lo stesso spettacolo strano. Delle persone bloccate nel bel mezzo di un movimento. 14


L’unica cosa che non cambiava era che, nella maggior parte dei casi, stavano seduti immobili davanti alla televisione. Alcuni trascorrevano tutta la vita così. A qualunque ora passassi davanti a casa loro, li trovavo sempre in quella posizione. Veniva da pensare che fossero ipnotizzati dallo schermo. Il mare, si sarebbe detto una foto. Le onde che non ricadevano mai, i gabbiani bloccati in pieno volo, con le loro grandi ali aperte. Ma la cosa più strana, anche qui, continuava a essere il silenzio. Non c’era più la risacca. Non c’erano più gridi di uccelli. Sul bagnasciuga, tre persone facevano jogging e sulla faccia avevano una smorfia per il grande sforzo. Uno di loro non toccava neanche per terra. Mi sono avvicinato a un gabbiano. L’ho toccato. Il suo corpo era durissimo. Di pietra. Eppure sotto le dita potevo sentire la morbidezza delle piume. La cosa più strana, in tutto ciò, è che non avevo nemmeno più paura. Insomma, non così tanta quanto avrei dovuto, quando ci ripenso. Dopotutto, è vero, era terribilmente angosciante. Chi mi diceva che le cose 15


sarebbero tornate normali? Chi mi diceva che non avrei finito la mia vita tutto solo in un mondo congelato? Il mondo si è rimesso a girare mentre passavo davanti al negozietto di giocattoli. Insomma. Si tratta soprattutto di giochi da spiaggia: secchielli, palette e rastrelli, bocce di plastica, racchette, frisbee e aquiloni. Eppure, per un istante, l’idea mi è balenata. C’era quella tavola. L’avevo puntata tutta l’estate. Un sogno per fare bodyboard. Con un disegno da urlo, tipo drago cinese. Solo a guardarla, potevo sentire che gioia doveva essere cavalcare un’onda standoci sopra, filare a tutta velocità fin sulla sabbia. Bastava entrare, prendere la tavola e portarsela a casa. L’unico problema erano i genitori. Come spiegare da dove arrivava, come me l’ero procurata, con quali soldi? In verità, non so come ho potuto pensare una cosa simile. Voglio dire: visto quello che mi stava capitando. Io, tutto solo, in un mondo immobile. L’orologio al mio polso era sempre bloccato sulle 18:04. In un certo senso, mi sentivo rassicurato. Non su di me, ma sul mio futuro. Se questa cosa fosse durata a lungo, 16


ci sarebbe comunque stato di che sopravvivere: per quanto riguardava il cibo, bastava entrare in qualunque negozio e servirsi (sempre che i prodotti non deperissero, la frutta non marcisse, la carne non si avariasse, come saperlo?). Lo stesso per i vestiti. E anche per i libri, i film e i dischi. Dopo un po’ sarebbe diventato necessario. Avrei finito per annoiarmi, suppongo. Pensavo a tutte queste cose, mi chiedevo se il lettore DVD, i computer, tutti gli apparecchi elettrici avrebbero potuto funzionare, visto che tutto il resto si era fermato. Mi facevo tutte queste domande quando il mondo si è rimesso in movimento: nelle strade la gente camminava, le auto viaggiavano, nel cielo gli uccelli volavano e alle mie spalle il mare si agitava. Mi è sembrato tutto straordinario. Mi veniva da piangere. Mi sono affrettato a tornare a casa. Sono arrivato contemporaneamente al papà. Scendeva dal suo taxi con l’aria tutta allegra. «Sai che c’è? Non ho avuto un cliente decente per tutto il giorno e poi, poco fa, 17


paf!, in chi mi imbatto? Due giapponesi che mi domandano di portarli fino a Mont-SaintMichel, aspettarli là e riaccompagnarli poi al loro hotel nella città vecchia». «Wow! Cavolo, che fortuna hai avuto!» «Cavolo sì. Altrimenti, mi sarebbe toccato lavorare fino all’arrivo dell’ultimo treno… Invece, tu che ci fai in strada?» «Ero dai vicini. Sono andato a restituire un gioco a Yohann». La mia risposta è sembrata convincente, mi ha baciato in fronte come fa sempre. Poi siamo entrati in casa. In cucina, la mamma stava bevendo un bicchiere di vino mentre guardava la valvola della pentola a pressione che girava. «Ehilà!» ha fatto il papà. «Cosa si festeggia?» «Niente» ha risposto la mamma. «Non so cosa mi è preso. Avevo un po’ di tempo. Mi sono detta: “Be’, e se mi mettessi ai fornelli, una volta tanto?”» C’è da dire che, in circostanze normali, è il papà che prepara da mangiare. Dice che adora cucinare. Le sere in cui lui non c’è, se ne occupa la mamma. In genere, prende il telefono e ordina delle pizze. O del sushi. 18


Dipende dai casi. Io mi sono seduto davanti ai miei compiti. Il quadernone era sempre aperto alla stessa pagina, con le sue otto equazioni da risolvere. La mamma mi ha incenerito con lo sguardo. Poi si è rivolta al papà: «È da più di un’ora che è sui quegli esercizi». Ho guardato l’orologio del forno. Erano le 19:22. Se non mi sbrigavo, avrei perso i Simpson. «E posso sapere dove diavolo sei stato?» Ho riciclato la mia piccola bugia del gioco da restituire a Yohann. La mamma ha scosso la testa e si è rivolta di nuovo al papà: «È sparito di colpo, così, senza neanche avvisare. Stavo pelando le carote e quando mi sono voltata, puf!, non c’era più nessuno. Non so mica cosa dobbiamo fare con lui…» Il papà ha sorriso e poi mi ha scompigliato i capelli. Era chiaro che aveva ancora meno voglia di me di sentire la mamma brontolare per l’ennesima volta che era il colmo per un’insegnante avere un figlio a cui non piace né la scuola né fare i compiti. Era vero che non mi piaceva fare i compiti. E neanche troppo la scuola. Quanto a sapere a cosa 19


avrebbe portato tutto ciò, se la disoccupazione, la galera o che ne so io, mi sembrava ancora un po’ troppo lontano per farmene un’idea. Sono tornato a immergermi nelle mie equazioni, facevo una fatica bestia a concentrarmi. Non perché il papà e la mamma stessero discutendo accanto a me mentre si versavano un bicchiere di vino. Ma per quello che avevo appena vissuto. Avrei voluto così tanto parlarne con loro. Raccontarglielo. Ma sapevo che non sarebbe servito a niente. Avevo mentito troppo spesso con i miei. E poi chi avrebbe mai creduto a una storia simile? I giorni successivi sono stati davvero strani. Ero sempre agitato. Mi domandavo se quello che mi era capitato fosse successo davvero. Mi aspettavo che tutto si fermasse da un istante all’altro. Avevo voglia di parlarne con tutti, ma non era possibile. Ho trascorso ore al computer a cercare informazioni sull’argomento. Ho passato in rassegna tutto Internet. Sono andato in biblioteca e ho letto montagne di roba sul tempo. Nel complesso, non ci capivo quasi niente. E il poco che scoprivo non mi era di alcuna utilità. 20


In nessun posto al mondo il tempo si fermava. Nessuno sembrava aver sperimentato questo fenomeno. Nessuno sembrava nemmeno considerarlo una possibilitĂ .

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NESSUNO SI MUOVA in libreria www.camelozampa.com


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