Mezzanotte e Cinque

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Titolo originale Minuit-Cinq di Malika Ferdjoukh © 2002, l’école des loisirs, Paris

Per l’edizione italiana

Copyright © 2022 Camelozampa

Prima edizione italiana: novembre 2022 ISBN 9791254640319

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2022 presso Grafica Veneta, Trebaseleghe (PD)

Camelozampa ha scelto per questo libro carta certificata FSC® e da altre fonti controllate, contribuendo in questo modo a salvaguardare le foreste e le popolazioni che da esse dipendono

Malika Ferdjoukh

illustrazioni di Eleonora Antonioni traduzione di Chiara Carminati

La collana della principessa

Non c’erano stelle quella notte sopra il ponte di pietra. No, neppure una stella… Ma tirava un vento furioso! E freddissimo! Un vento che con un colpo di mannaia aveva tagliato di netto metà della luna.

La principessa Daniella Danilova uscì dal Teatro Nazionale, stringendosi addosso il cappotto di pelliccia. Il gentiluomo col monocolo che la accompagnava le porse il braccio, e presero posto entrambi in una carrozza dalle calde imbottiture.

«Dunque, dov’ero rimasto?» disse il gentiluomo. Spazzò via un minuscolo granello di polvere dal suo collo di volpe. «Ah, sì… È cosa certa: sono innamorato di voi».

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Le raffiche di vento polare facevano tremare la carrozza, ma all’interno, nella tranquilla penombra, il sorriso della principessa Daniella scintillò come un delicato diadema. «Oh?» sussurrò. «E cosa intendete fare, conte Orlok?»

«Suicidarmi, suppongo».

«Sapevo che eravate un signore».

«E voi? Cosa intendete fare, principessa?»

«Cenare, conte Orlok. Ho molta fame». La principessa sventolò una mano candida come una colomba, con gesto automatico si sfiorò il collo… ma strinse il vuoto. Preoccupata, si tastò il collo nudo, tutto all’intorno. Tastò di nuovo. Il sorriso a diadema si spalancò in un urlo: «La mia collana! Por amor de Dios… La mia collaaaanaaaa!!»

La principessa Daniella svenne seduta stante:

infatti, benché fosse di origine spagnola, osservava a meraviglia le usanze della corte di Boemia. ***

Tutti lo chiamavano Mezzanottecinque, perfino lui stesso, dato che aveva dimenticato il suo vero nome, che era Antonin. Mezzanottecinque aveva dieci anni, una nuova idea ogni sette minuti e una sorella più piccola. Non si lavava mai, a meno che un temporale estivo non lo cogliesse di sorpresa. Ma adesso era inverno, uno di quegli inverni infingardi e traditori che ti congelano la goccia al naso. Mezzanottecinque si chiamava così per via dei dodici puntini tatuati a forma di quadrante di orologio che aveva sull’avambraccio da quando era neonato. Il tatuatore era scivolato sulla carne paffuta, e così facendo aveva inciso sopra per sempre due lancette puntate su quello strano orario: mezzanotte e cinque minuti. Per ammirare l’opera bisognava sputarci sopra almeno otto

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volte e grattare il sudiciume con l’unghia… Ve l’ho detto, non si lavava mai. Era inverno, dunque. Ma questo non preoccupava affatto Mezzanottecinque, e neppure Bretella, sua sorella, che non si lavava certo più di lui. Per il momento avevano in mente un’unica cosa: mettere le mani sulla collana della principessa Daniella Danilova per intascarsi la ricompensa.

«Eccola là!» esclamò Bretella, tirando fuori l’indice dalla manica, dove una famiglia di scarafaggi riposava al calduccio.

«Sì, è lei!» gridò Mezzanottecinque scuotendo la zazzera, che pareva fatta di venti zazzere diverse, tanto erano variopinte le gradazioni di sporcizia.

Ahimè, si trattava invece di un bullone smarrito, o di un pezzetto di ferro da cavallo, o di una cosa qualunque che brillava, o a volte anche di un semplice bagliore sulla neve, ma in ogni caso non era mai la collana della principessa. E loro continuavano a cercare. Scuri, magri, piegati ad angolo acuto sulle loro gambe da cavalletta, sfiorando le pietre delle strade coperte di neve. Continuavano a cercare.

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«Eppure è qui che l’ha persa». Infatti, era così. Tra il Teatro Nazionale e la casa di Faust; tredici (o sedici, o venti, a seconda delle voci e del momento) file di perle, rubini di Venezia e diamanti africani. Dal giorno precedente in tutta Praga non si parlava d’altro. Era un modo per dimenticare il freddo e la fame. Una palla di neve si schiantò all’improvviso sull’orecchio di Mezzanottecinque, che si voltò furioso.

«Groschen!» ruggì.

Un secondo lancio di neve lo soffocò. Firmato Gustav, Serafin, Putsch e Groschen; una banda di ragazzini che rubacchiava per le viuzze contorte della Città Vecchia.

«Bretella niente bella!» ridacchiò Serafin. Bretella contrattaccò con buona mira. Mezzanottecinque fece lo stesso. Con le loro sole forze riuscirono a mettere in fuga la banda. Ma dopo tre minuti una specie di bestia urlante, che si scoprì essere Putsch, si scagliò su Bretella, la prese per la vita e la fece finire lunga distesa sulla neve.

«Lasciami!» gridò lei.

«Lascia stare mia sorella!» urlò

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Mezzanottecinque, afferrandola per un lembo della veste. Dall’altra parte, Putsch tirò. Mezzanottecinque tirò più forte. Bretella gridò.

La veste si strappò. Una pioggia di bottoni volò in aria e poi ricadde come un modesto fuoco d’artificio in miniatura.

«Imbecille!» inveì Bretella verso il fratello. Gli altri ragazzi filarono via, torcendosi dalle risate, sotto una raffica di palle di neve. Bretella si affrettò a raccogliere i suoi tesori: la collezione di bottoni, un fazzoletto appallottolato, una caramella rosa e verde. Rimise tutto al suo posto, vale a dire

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nell’orlo della veste, a cui poi fece due grossi nodi per sicurezza. «A cosa ti servono tutte quelle porcherie, mi chiedo io!» brontolò Mezzanottecinque. Saltellò sul posto per scrollarsi dai pantaloni la neve e il fango. Bretella non rispose. Provate un po’ voi a spiegare a un maschio la bellezza di un bottone di madreperla! La musica di un bottone di stagno! Quanto alla caramella rosa e verde… Non valeva neanche la pena di parlarne! Risaliva alla notte di san Nicola, quando gli angeli e i diavoli percorrono le strade di Praga per regalare dolciumi ai bambini.

L’angelo che le aveva regalato quella caramella aveva dei bei capelli neri e delle meravigliose ali fatte di spago. Bretella si era ripromessa di conservarla… per parecchio tempo.

La scartava una volta al giorno, la leccava un po’, ma poco poco, e poi la rimetteva nella carta. Era quasi Natale e ne restava ancora un terzo.

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I topi sanno parlare?

La principessa ha perso un bel gioiello tutto fatto di rubini, perle e oro. Chiunque le renda il suo tesoro non si troverà la corda al collo ma in mano cento bei fiorini d’oro.

In verità la principessa aveva promesso solo venticinque fiorini, non cento. Ma bisognava pur fare delle belle rime! Ed Emil era un giocoliere di rime, oltre che un cantante.

E un domatore di bestie selvagge.

E il migliore amico di Bretella e Mezzanottecinque, che gli piovvero addosso all’angolo di una piazza dove si affollavano i curiosi.

Emil portava in testa un cilindro a soffietto

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dove avrebbero potuto trovare ricovero mille pidocchi e quindici topi. I pidocchi in effetti c’erano, ma i topi erano solo tre (correvano tempi duri). Ed erano topi francesi, assicurava Emil, che li aveva di conseguenza battezzati Frufrù, Nanà e Zizì.

La principessa ha perso un bel gioiello Chiunque le renda il suo tesoro…

Quando scorse i due fratelli, Emil fece loro l’occhiolino e mise fine alla sua solfa: «E adesso, ladies and gentlemen» strombazzò, «davanti ai vostri occhi increduli, ecco a voi un salto mortale!»

I topi, posati su una scatolina di formaggio, eseguirono una specie di capriola per effetto delle scossette che Emil assestava di nascosto.

Alcune fanciulle indietreggiarono terrorizzate. E anche qualche uomo.

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«Ma sono… ratti!» mormorò un giovanotto. «Sono topi, signor mio!» lo corresse Emil affabilmente.

Passò in mezzo agli spettatori, tenendo in mano il cappello a cilindro, e raccolse nove soldi, una pasticca all’anice, e un bottone da ghetta che sparì immediatamente nell’orlo di Bretella. La folla si disperse.

«Sapete una cosa?» disse Emil, con un sorriso sognante.

«Hai trovato la collana?»

«Meglio. In città è arrivata una compagnia teatrale! Magari mi assumeranno!»

Emil sognava di viaggiare. Per due motivi. Primo: per vedere il mondo. Secondo: per ritrovare suo padre, un ricco barone di Moravia (a suo dire) a cui era stato portato via dagli zingari, così sarebbe finalmente diventato il gentiluomo che era sicuro di essere.

«Venite! I loro carrozzoni sono qui vicino!»

***

«E questa sarebbe una compagnia teatrale?» ridacchiò Mezzanottecinque.

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«Come no!» esclamò Emil con fierezza. «C’è scritto sopra, vedi? Teatro Itzhak-Ungar». Mezzanottecinque si guardò dal ribattere. Ci metteva il doppio di Emil per decifrare una parola. E quando c’erano delle Z e delle K, come in questo caso, il tempo quadruplicava. «Un circo!» disse Bretella, affascinata. Le guance le erano diventate rosse per la gioia. O almeno si presume, perché la polvere le rendeva più nere del fondo di un paiolo. Mezzanottecinque le assestò uno spintone che la avvitò in una giravolta. «È un teatro, stupida! Ci sono solo due carrozzoni e non c’è neanche un animale!»

Neanche un animale? Questo a Emil poteva tornare utile!

Da un carrozzone uscì una donna. «Attenzione, cocchi belli!» Aveva in mano un secchio di acqua sporca e in testa il progetto di rovesciarlo sul selciato.

«Vi interessa il nostro teatro?» chiese con un sorriso.

Era una donna molto bella, tutta morbide curve, con un’acconciatura che ricordava una brioche calda, e i denti bianchi come una mela senza buccia.

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Ma per Mezzanottecinque la cosa più notevole erano i gioielli che portava addosso. Ne aveva dappertutto: alle caviglie, alle orecchie, al collo. Anelli, catenine, orecchini, e… Ah! Tutte quelle collane! Ne aveva almeno venti, dal mento fino alle spalle! Mezzanottecinque conosceva abbastanza le cose della vita per saper distinguere il vero dal falso (e quei gioielli erano più falsi di un braccio di legno) ma un’idea grandiosa gli spuntò in testa.

«Eri tu che cantavi poco fa?» chiese la donna ingioiellata, appoggiando il secchio dell’acqua sporca davanti a Emil. «Era bello».

Emil arrossì. Su di lui si vedeva bene, perché lui si lavava la faccia. Aveva deciso di riabituarsi gradualmente al contatto con l’acqua per quando sarebbe ridiventato un gentiluomo. Aveva cominciato col viso e le mani. Poi aveva fatto una pausa. «Per servirvi, bella signora!» si pavoneggiò. «E sono anche un domatore!»

Tirò fuori i suoi topi. La donna arrossì violentemente e i suoi occhi si accesero di spavento.

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«Ratti!»

«Non sono ratti, milady, sono topi» la corresse Emil affabilmente. «Si chiamano Frufrù, Zizì e Na…»

«Butta via immediatamente quelle schifezze!»

Un uomo con degli anelli alle orecchie uscì dal carrozzone vicino. Vide i piccoli roditori sulla spalla di Emil e il viso gli si illuminò:

«Ratti!» esclamò.

«Sono topi» disse Emil.

«Sai fare qualche numero con questi?»

Emil diede subito il via a una dimostrazione di salto mortale sulla scatola del formaggio.

«Ne hai altri?»

«Sono gli unici topi che possiedo, ma…»

«Altri numeri, scioccone! Ne sai fare altri?»

«Ehm… Sì» mentì Emil.

«Fa’ vedere».

Ora o mai più. Se voleva vedere il mondo e ritrovare il ricco barone di Moravia bisognava far colpo su quell’uomo.

Emil desiderò un miracolo dal cielo.

Ma dal cielo scendeva solo un sinistro chiarore giallastro, presagio di neve. Gli acrobati in miniatura eseguirono un ennesimo

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salto mortale… e ahimè, nessun miracolo. A quel punto Mezzanottecinque intervenne: «Sanno saltare in un cerchio di fuoco. Sanno nuotare. E sanno…» si fermò, a corto di ispirazione, represse la voglia di grattarsi il tatuaggio a dodici cifre, perché sapeva che gli dava l’aria da bugiardo. Cosa che era, in quel momento. «E…?» fece l’uomo.

Una carrozza elegante passò proprio vicino a loro, senza quasi far rumore sul tappeto di neve, e sparì col suo passeggero in una via lì accanto. Questo diede a Emil il tempo di trovare una conclusione: «E… sanno parlare!» buttò lì a vanvera, con un sussulto.

Itzhak Ungar e la donna ingioiellata rimasero zitti per un attimo, poi scoppiarono a ridere. «L’hai sentito, Ruby?» disse Ungar pestando i piedi a terra. «Quelle bestiole sono il tesoro degli Aztechi!» Ruby, scompisciandosi dalle risate, andò a

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buttare l’acqua sporca nel fiume e l’uomo fece per tornare nel suo carrozzone.

«È la verità!» gli gridò dietro Mezzanottecinque.

«Fatecelo vedere!» disse l’uomo.

«Voglio proprio vedere dei ratti che si fanno una chiacchierata!» ridacchiò Ruby.

«Sono topi» corresse Emil un po’ stancamente.

«Ci servono gli elementi giusti» replicò Mezzanottecinque.

«Cioè? La polvere magica di pimperimpera?»

«Torniamo domani!» promise Emil.

«Ma certo!» disse Itzhak, scuotendo gli anelli che sembravano ridere ancora più forte di lui. «Un topo che parla, mi impicco se è vero!»

A quelle parole Ruby gli assestò una bella botta sul bicipite: «Non tentare il diavolo. E se questo povero ragazzo dicesse il vero? Il mio povero marito, il mio unico amore, diceva che i bambini hanno dei poteri che gli…»

«E piantala con questo marito!» borbottò l’uomo. «Ti ha piantata in asso!»

«Non mi ha piantata in asso!» esclamò lei

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indignata. «Sei geloso perché dico che è stato il mio unico…»

Emil e Mezzanottecinque si allontanarono. La notte era calata sulla città come uno spegnitoio sulla candela. Emil era deluso. Per colpa di quell’enorme bugia aveva perso la sua occasione d’oro. Non sarebbe mai stato assunto… Un gomito gli arrivò dritto nelle costole facendolo finire tre passi più in là.

«Ehi! Ma che ti prende?» protestò.

Mezzanottecinque si era fermato, muto, più immobile della statua del santo Giovanni Nepomuceno.

«Bretella…» gracchiò infine. «Dov’è finita?»

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