Rotolando verso Sud

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Rotolando verso

a cura di Paolo Esposito e Simone Aversano

Sud

Con: Martina Castigliani, Chiara Coppola, Alessandro Basile, Giovanna Circiello, Eliana Ciappina, Andrea Ciccolini, Antonino Caffo, Graziano Rossi, Mario Secondo, Francesca Zinetti, Angelo Bruscino, Giulia Tesauro, Pier Paolo Mottola, Marina Bisogno e Ilaria Giannetta

realizzato dalla redazione di

Caffè News (www.caffenews.it)


Capitoli 0. Una filosofia di vita 1. Una lunga notte 2. Giù al Nord 3. Giovani del Sud, quale futuro? 4. Cultura, dove sei? 5. Arte, scommessa dimenticata 6. Giovani, la politica è nostra 7. Web, partecipiamo al cambiamento 8. Ambiente, salviamolo dalle mafie 9. Preti di frontiera 10. Quel fresco profumo di libertà 11. L’impresa di essere giovani 12. Italiani, cittadini del Mondo 13. Tra sogni e realtà

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foto di copertina: © Simone Aversano


Capitolo 0 – Una filosofia di vita Ci siamo sempre detti che se fossimo nati altrove, in qualunque altra città che non sia nel Mezzogiorno del nostro Paese o comunque non fossimo così legati a una terra così bella quanto difficile, non avremmo mai pensato di “giocare” a fare i giornalisti. E’ il contesto in cui si vive che ci fa acquistare quei valori e quella sensibilità improntata alla denuncia di ciò che non va. Indro Montanelli diceva che i giovani vanno buttati a mare per vedere se sanno nuotare e noi in questo mare ci siamo buttati da soli, a capofitto. Nell’era del web 2.0 nel 2005 ci siamo ritrovati in rete e come anelli di una stessa catena abbiamo nel corso degli anni accorciato le distanze da Nord a Sud del nostro stivale. La storia di www.caffenews.it è la storia di ragazzi giovani, giovanissimi, che quotidianamente cercano di costruire il proprio futuro in un Paese sempre più spaccato in due e che vivono in una società dove attraverso internet e i nuovi media è possibile sprovincializzare un problema, una notizia ed unire quindi l’Italia. Caffè News non è un semplice bar, il più delle volte regno della perdizione, ma un luogo virtuale in cui ci si può gustare ‘na tazzulella e’ cafè, o del buon the con dei biscotti, o anche un cappuccino. E tra un caffè e un cappuccino poter scegliere un giornale per conoscere gli avvenimenti del giorno, magari seduti a tavolino, trovandosi così a discuterne con i propri vicini, scambiando con loro qualche battuta, quattro chiacchiere. Quella di Caffè News è una filosofia di vita nata tra i banchi di scuola, da una lezione di un vecchio professore di italiano sul Caffè di Pietro Verri. Un Caffè, il nostro, che nel 2005 ha inaugurato in Italia l'era del citizen journalism in qualità di giornale libero, esente da filtri o mediazioni. Non ci sono posizioni unanimi, ma singole autonomie individuali con la voglia di fare giornalismo dal basso, la naturale risposta alla perdurante crisi dell’informazione tradizionale. Una bottega, la nostra, che informa coniugando diversi temi, dall’attualità, politica ed economia alla cultura, prestando anche una certa attenzione alle tematiche relative al Mezzogiorno e diventando così un punto d'incontro per chi ha lasciato il Sud del nostro Paese per trovare fortuna al Nord Italia e all’estero. Il Sud come punto di ritrovo, ma anche di ritorno per quanti lo vivono giorno dopo alla propria Itaca. “Rotolando Verso Sud” vuole essere un viaggio, un monologo personale intrecciato a più voci, come un'intervista allo specchio in cui raccontiamo tutto ciò che vediamo e sentiamo, come un racconto riflessivo e dal taglio profondo, anche se leggero nei toni e nei

lo spirito di speranza e impegno. Perché la speranza è ciò che manca al nostro tempo. Un diario di

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sentimenti. L'obiettivo vuole essere quello di lasciar trasparire la freschezza di noi tutti e infondere

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giorno e per quanti, pur avendo lasciato questa Terra, sono fortemente legati alle proprie origini,


viaggio in giro per l'Italia in cui ci muoviamo contemporaneamente su due fronti, da una parte quello dei nuovi media, di internet, che hanno rivoluzionato le nostre vite e dato il via a un nuovo modo di fare giornalismo per rendere problemi particolari sempre più generali, di tutti, perché anche un milanese ha il diritto/dovere di sentirsi vicino ai problemi di un napoletano e viceversa; dall'altro quello relativo alle incertezze sul futuro di noi giovani, a un'Italia spaccata in due, a una politica sia a destra che a sinistra sempre meno convincente e vicina ai giovani, a un Paese vecchio. A chi ci dovesse chiedere che cosa speriamo di ottenere con il nostro impegno e la speranza nutrita in un sogno comune, noi rispondiamo che non tutto dipende da noi. Come in una catena, dove ogni anello è collegato a quello precedente ed a quello successivo, e non è possibile per nessuno dei singoli anelli sostituirsi all’intera catena, noi sappiamo bene che, come giovani di questa Italia e cittadini di questa era, abbiamo sì un compito da portare avanti, ma non siamo investiti di tutte le responsabilità. A quello che è il nostro impegno deve fare da contraltare l’impegno degli altri soggetti della nostra società. Ed è qui che, in prima battuta, viene in risalto l’inadempienza di una classe politica mai rinnovatasi nel corso degli anni ed ancora profondamente distante dai bisogni di giovani come noi. E’ qui, inoltre, che si comprende quanto lo stesso potere dell’informazione e la professione giornalistica, cui noi ci sentiamo chiamati quasi come “missione” insita nel senso stesso di “essere cittadini”, siano lontane dal loro obiettivo sacrosanto: garantire agli individui la possibilità di usufruire dei diritti che spettano loro. “Diritti” è la nostra parola chiave, forse più che legalità. Una legalità cui siamo tutti affezionati ed accoratamente legati da tempo, forse dal momento stesso in cui ci siamo accorti di essere entrati nell’immenso e meraviglioso universo dei giovani, e di non essere più, quindi, bambini. Essere giovani implica sognare la legalità, per lo stesso motivo per cui i “grandi”, coloro che governano i processi su larga scala che si celebrano sopra le nostre teste e che noi nemmeno immaginiamo, disconoscono la reale essenza della legalità e relegano questo principio al mondo delle idee, come fosse un sogno da sciocchi. E allora chi rimane a sognare questo sogno, se non noi giovani? Ma c’è qualcosa in più nella nostra “missione”, che anche con questo libro vogliamo cercare di intraprendere: abbiamo la convinzione che essere giovani non sia un limite, una spiaggia di passaggio verso i lidi della responsabilità e della vita che ti comanda, in cui sei adulto e devi badare a famiglia e lavoro. Essere giovani, al contrario, significa di essere giovani a trent’anni, o a quaranta. Si smette di essere giovani anche a vent’anni, al contrario, se già a quell’età si inizia a pensare che il futuro non ci appartiene, che la vita non ci appartiene, che principi come la legalità e capisaldi dell’esistenza umana come i diritti in realtà non

ritornato più volte e ancora ritorna nei nostri discorsi: prendere un biglietto, di treno, aereo o

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esistono. Chi si imbatterà nelle pagine che seguono ritroverà spesso un concetto, che è casualmente

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essere padroni della propria esistenza e del proprio ruolo nella società, senza tempo. Non si smette


pullman che sia, e partire per emigrare, per stabilirsi lontano da dove si vive e si è cresciuti. Noi non vogliamo emigrare. Noi non vogliamo abbandonare le nostre case e la nostra vita, il nostro sogno di vita. Noi vogliamo essere l’ultima generazione italiana ad essere costretta ad andar via da casa per cercare lavoro, senza la certezza di trovarlo. Abbiamo anche l’arroganza, se per qualcuno sognare significa essere arroganti, di credere fortemente che saremo davvero gli ultimi a patire questa piaga. E non ci importa di avere immediato riscontro, nero su bianco, di questa nostra prospettiva. Ci importa sognarla, crederci e impegnarci perché sia in questo modo, fare quello che è il nostro compito, il nostro ruolo, secondo le nostre risorse. Caffè News è anche questo, e sarebbe riduttivo credere che il tutto si limiti al desiderio di fondare un altro giornale, un altro magazine online, per riscrivere le stesse notizie che sono state già scritte altrove. Caffè News è l’essenza di quel sogno, è il desiderio materializzato di un futuro migliore. Senza retorica, senza ipocrisie, senza l’ingenuità di fare gli stessi errori che altri prima di noi hanno commesso, fallendo nel loro obiettivo. Noi sappiamo che non possiamo fallire, per una ragione semplice: mancare la meta significherebbe doverci arrendere anche noi, anche questa generazione, allo stato di cose esistente, alla difficoltà (talvolta impossibilità) di trovare un lavoro, alla necessità di emigrare, all’obbligo (quasi costrizione) di abbandonare il proprio sogno ed il proprio credo per salvarsi la vita. Nel Vangelo, Gesù dice che chi vorrà salvare la propria vita la perderà, e l’avrà salva soltanto chi sceglierà di rischiare tutto. Noi vogliamo rischiare tutto, consapevoli che un’alternativa possibile non c’è. Oltre la sconfitta in questa missione, il vuoto. O meglio, la stessa vita che non abbiamo voluto scegliere quando ci è stata offerta come regalo che non si può rifiutare: la vita tranquilla e lontano da prese di posizione, questioni di principio, lontana dai sogni stessi. Una vita da agnelli, insomma, quella cui vogliamo rinunciare. Per scegliere una vita da leoni. Il ché non significa scegliere la trincea, rinunciare al sonno e al pasto caldo, vivere da mendicanti: la vita da leoni è quella di chi non si aggrappa mai definitivamente allo status quo, ma si rimette in discussione ad ogni sfida per essere sempre un buon cittadino e adempiere al meglio i propri doveri nella società. E come afferma Robert Redford in un suo recente film intitolato proprio “Leoni per agnelli”, è di gran lunga meglio tentare ma non riuscire che non riuscire a tentare, e la differenza è che “hai fatto qualcosa, almeno”. Il nostro “qualcosa” è nelle nostre mani e nelle nostre menti. Un sogno che si può scrivere, leggere, attitudini e, perché no, dalle proprie passioni. Ecco il nostro “essere leoni” in una società che forgia agnelli per poter mantenere il controllo sulle cose e sulle persone. Non sappiamo se ce la faremo, ma il solo fatto di provarci con tanto entusiasmo ci indica che la strada giusta è questa e che alla

idiozie. Dicono cioè la verità che nessuno vuole ascoltare.

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fine avremo avuto comunque ragione noi. Come hanno ragione i poeti che, spesso, per i più dicono

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condividere, diffondere, realizzare insieme. Si tratta di inventarsi un lavoro partendo dalle proprie


Capitolo 1 – (Prologo) Una lunga notte Il lunedì mattina arriva sempre di domenica pomeriggio. Maria lo pensa tutte le volte. Ogni volta, avrebbe voluto trascorrere il fine settimana in modo originale, e si ritrova, invece, sospesa nella solita routine, e per giunta stanca. E lo sta pensando anche adesso. Lei, con il marito e il figlio sono diretti all’acquario. Maria e Alessandro sono sposati da tre anni. Si sono conosciuti ad un corso di fotografia: la scintilla è scattata subito. Non facevano che parlare e ridere, uniti dalla stessa passione per la vita, per la bellezza, da carpire quotidianamente, lungo il percorso. Usavano l’obiettivo come una spada, andando in fondo alle cose, soprattutto agli sguardi. Di domenica si davano appuntamento per uscire in primo pomeriggio. Scattavano innumerevoli foto agli oggetti, alle persone, e si divertivano ad immaginarne la storia, i nomi, i sogni, i pensieri. Terminati gli studi, Alessandro ha iniziato a lavorare e a mettere qualche soldo da parte. Alcuni anni dopo, ha sposato quella ragazza appassionata. Mattia è venuto al mondo quasi subito, ed è la loro gioia più grande. Le dieci vasche dell’acquario sono un universo tutto da scoprire per un bambino di tre anni. Maria tiene Mattia per mano. Alessandro le sta vicino. Fissa le vasche e sembra volerci lasciare dentro gli occhi. Mattia inizia a correre da una vasca all’altra. È agitato. Come se non riuscisse a gestire quell’esplosione di improvviso entusiasmo. «Matti, vieni qui a vedere i pesciolini con mamma». Mattia le si avvicina. Maria lo prende in braccio per mostrargli i ricci, le stelle marine, i paguri e i cavallucci. Poi è la volta di scorfani, murene e lumachine di mare. Nella grossa vasca centrale sfila una gigantesca tartaruga marina. Mattia sgrana gli occhi. Alessandro si allontana a fumare una sigaretta. «Vado a prendere una boccata d’aria, Marì». Maria si gira verso il marito, lo segue con gli occhi, lo accarezza da lontano. Mattia saltella, gridando «caretta caretta», ignaro che la caretta è solo un genere animale e non una specie. Il piccolo è entusiasta, strepita, corre, urla. Non ci sono altri bambini lungo i corridoi delle vasche, ma non si sente solo. I vetri, dietro cui nuotano le varie specie di pesci, sono, agli occhi del bimbo, la porta che lo separa da un mondo meraviglioso. Maria gli scatta qualche foto, lo segue. Zumma, e pensa che il figlio è tutto suo padre. Stessi occhi, stesso

attenta che non si faccia male. Suo marito resta a guardare, appoggiato ad una colonna. Davanti a lui colori sfavillanti, ma quel mondo, quella dimensione, non riescono a rapirlo. Baratterebbe la sua età per una ormai perduta. Cederebbe gli anni da vivere per quelli vissuti, quando sapeva di poter

questo ragazzo malinconico che ha riposto la polaroid nel cassetto? Si fruga nelle tasche: cartacce,

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contare su stesso, sulle sue idee, sul suo lavoro. Chi è quest’uomo con le spalle al muro? Chi è

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sorriso, stessa sensibilità. Alessandro ricompare. Mattia scorrazza felice, e la madre gli sta dietro,


solo cartacce inutili. La bellezza di sua moglie lo consola, ma non riesce a dirglielo. Non ce la fa ad abbracciarla e a dirle che sta male, è troppo orgoglioso per piangerle sulla spalla. Meglio far finta di niente, meglio tacere. Maria è consapevole che il marito è distante anni luce, la sua mente è altrove, i suoi occhi vagano, ma per quali sentieri? Sono giorni che Alessandro è reticente. Inutile fargli domande, glissa, ed anche ora, le appare taciturno e smanioso. -

Andiamo? L’acquario sta per chiudere!

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D’accordo, Ale… vedi se riesci a convincere tuo figlio.

Alessandro si avvicina a Mattia. Lo solleva con una mano, come una manciata di foglie. Il bambino emette un urlo. Sgambetta per restare, scalciando come un puledrino recalcitrante. Lungo il percorso per tornare a casa, Alessandro non apre bocca. Mattia dopo aver pianto, è crollato come un ghiro tra le braccia del padre. L’appartamento è arredato in maniera semplice. Accessori di legno, cuscini colorati, lampade: ogni ambiente ha le sue sfumature di luce, ogni stanza ha il suo arredo scelto con pazienza. Le pareti trasudano di sorrisi ingialliti, di pranzi in famiglia dopo una settimana di impegni. Trapelano ricordi, vecchie aspettative, voci, promesse. C’è tutto questo tra le quattro mura di casa, e per Alessandro, è come scavare in una ferita aperta. «Ale, metto Matti a letto», avverte Maria, varcato l’uscio. Alessandro accende un’altra sigaretta. Affoga nel fumo le preoccupazioni. Suda freddo, si sforza di mantenere il controllo: non vuole che Maria lo veda in questo stato. Si sforza di allargare la mente e di lasciar scivolare i pensieri, così come balzano al cervello, senza soffermarsi. Scorrono come fotogrammi, scene di un film muto lungo una vita. Gli vengono in mente il viso innocente di suo figlio, la sua risata. Ricorda il primo giorno alla Cisab, la sua azienda, quella a cui ha dedicato ore ed ore del suo lavoro, e che ora lo manda in mobilità. “Esigenze di riorganizzazione aziendale” hanno detto, e così è scattato il piano. I sindacati hanno garantito il massimo impegno, ma la lotta è dura. Si lavora sui turni, senza sapere che cosa accadrà dopo. Si chiede a cosa siano serviti tanti sforzi, tanti anni di studio. Quanta pazienza hanno avuto i suoi genitori per vederlo laureato. Le immagini gli ronzano in testa, implacabili. La moglie lo raggiunge, Mattia è ormai a letto. Ci sono solo loro due adesso, loro che si conoscono a fondo, loro che di solito non hanno segreti. Maria interroga lo sguardo di suo marito perso nel vuoto, il viso avvolto dal fumo. Gli si avvicina, gli

Alessandro resta immobile, chiude la mano della moglie nella sua. Rimangono in silenzio per cinque, interminabili minuti. Ma tu te lo aspettavi che facevamo sta fine Marì?

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Ma quale fine Ale. Lo so, non è un momento facile, ma sono certa che si risolverà tutto. Siamo giovani, possiamo ricominciare altrove, specie ora che Mattia è piccolo.

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poggia una mano sulla spalla. Respira, nonostante la puzza di tabacco, sente il suo profumo.


Alessandro non risponde. La concretezza di sua moglie lo conforta. È sempre stata battagliera, mai arrendevole. Una fucina di idee brillanti, all’occorrenza di escamotages. Maria di giorno lavora in libreria, e la sera in un bar. Piccoli lavori per un compenso appena sufficiente a coprire l’affitto, le spese delle bollette. Alessandro e Mattia l’aspettano, guardando cartoni animati e mangiando ciambelle. Maria ama leggere. Il lavoro in libreria le permette di essere felice, di svegliarsi ogni mattina col sorriso sulle labbra, contenta di stare a contatto con i libri e con la gente. Non si è mai iscritta all’università, dopo il liceo è andata via da casa ed ha cominciato a lavorare. Divideva l’affitto con una sua amica, finché non ha conosciuto Ale. Non si rassegna la giovane donna, certa che riuscirà a prendere suo marito per mano e ad aiutarlo a risalire la china. Lo stipendio di Alessandro permetteva a tutta la famiglia di respirare. Stasera Alessandro non ha voglia di parlare. Pagherebbe per risvegliarsi in una vita diversa. -

Se questa maledetta crisi economica fosse esplosa prima, almeno non avrei messo al mondo un figlio. Se fosse più grande, chissà cosa penserebbe di me.

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Ale non c’è niente da pensare. La tua azienda, come molte altre in Italia, sta attraversando un periodo di crisi, e i lavoratori ne pagano le conseguenze. Non c’è nient’altro.

Già nient’altro… queste tre parole riecheggiano nella mente di Alessandro. Proprio non riesce a venir fuori dal suo stato d’animo. Maria allora si allontana. Sa che quando Alessandro è troppo nervoso, va lasciato solo. Sarebbe disposta a tagliarsi una mano per aiutarlo. Lo ricorda col sorriso, innamorato della vita e sempre aperto al dialogo. Non c’è verso di distoglierlo stasera. Fuori ha iniziato a piovere, l’acqua scivola sui vetri del balcone della stanza da letto, e Maria vorrebbe solo starsene stretta a suo marito. I lampi squarciano il cielo, illuminando ad intermittenza gli oggetti, come la speranza che vacilla davanti ad un futuro tutto in salita, ma poi ritorna a rischiarare le idee, come un timido sole dopo una bufera. Era cominciato tutto una settimana prima. La notizia della mobilità girava da un po’ nei corridoi delle officine Cisab, tuttavia tutti speravano che gli amministratori delegati giungessero ad una diversa soluzione. Alessandro è assente da allora, da quando ha ricevuto la comunicazione ufficiale. “Le vendite sono in picchiata e l’azienda rischia il collasso” hanno spiegato. Quando è tornato a casa con quella lettera, Ale ha pianto. Saranno due o tre le volte in cui Maria ha visto Alessandro piangere, e mai avrebbe voluto assistere ad una scena mani. È stanca, i pensieri l’hanno distrutta, e crolla dal sonno. In salotto, con Alessandro è rimasta solo la luce fioca della lampada. È seduto intorno al tavolo di legno, al centro della stanza. Fuori impazza il temporale. Nasconde la faccia tra le mani. Maria ha spento la luce. È andata a letto. Non

sua madre qualche giorno fa. Non ne ha scartato ancora uno. Sono così invitanti che scintillano.

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una voce in tutta la casa. Alessandro nota sulla credenza una scatola di cioccolatini. Glieli ha portati

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simile. Maria si spazzola i capelli, si spalma la crema e si infila sotto le coperte, fredde, come le


Apre la scatola: cioccolatini farciti al liquore, alla nocciola e al caffè. Cioccolato fondente e al latte. Ne mangia uno, è così buono che sorride. Deglutendo gli viene in mente che in fondo la vita è una scatola di cioccolatini. Non sai mai quello che ti capita. La disarmonia e la confusione sono ovunque, e mai, ad Alessandro, era sembrato così vero. Resta qualche minuto a contemplare l’immobilità del tempo, la percezione fasulla del reale, che dopotutto è solo un’illusione. Quello che stanotte gli appare irreparabile, domani, forse sarà solo un brutto ricordo. Tutto cambia, gli equilibri di una vita saltano: gli esseri umano sono pedine nelle mani di uno stratega, troppo potente per essere contrastato. «Devo farcela» pensa e finalmente accenna ad un sorriso. Ancora troppe le domande che lo attanagliano. Scivola nella stanza da letto. Maria dorme, beata, rannicchiata su un lato. Semplice e leggera, ma risoluta. Una contraddizione in termini, come la vita. La vita, che un attimo prima gli era sembrata simile a una scatola di cioccolatini. Anche Mattia dorme sereno. Neanche immagina i problemi del padre. Si muove nel lettino e abbraccia il suo orsacchiotto. Cerca protezione. Alessandro guarda suo figlio muoversi nel buio. Il nodo che gli gravava sul petto ora sembra sciogliersi. Una vampata di calore lo invade. Vorrebbe solo garantire a quel pargoletto indifeso una vita dignitosa. L’orologio segna le due. Sono ore che vaga nel silenzio. Cerca una risposta. Non ha sonno. Gli balena un’idea. Ritorna in salotto e accende il p.c. Apre una pagina di Word e inizia a scrivere “Diario di un lavoratore in mobilità forzata – Parte prima”. Butta giù pagine e pagine di confessioni, impressioni, sensazioni, e più scrive più si sente meglio. Le dita scorrono veloci sulla tastiera. Parola dopo parola, lo sconforto sembra dissolversi. Quel che resta della notte scivola via, a suon di tazzine di caffè e sigarette. L’ultima si è consumata lentamente, scandendo i minuti che separano Alessandro dal muovo giorno. Il sonno lo sorprende alle prime luci dell’alba e crolla davanti al computer. Maria lo trova il giorno dopo, ancora alla scrivania, appisolato, con un sorriso stampato sul volto. Lo stesso che aveva Mattia la notte prima.

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Capitolo 2 – Giù al Nord Il diciannove di dicembre, in piazza Verdi, quella del degrado e degli studenti nullafacenti, quella dell’università più antica del mondo, ci rimanevamo sempre e solo noi, i ritardatari. “Tocca sciamu. Devo andare in stazione a vedere se è rimasto qualche biglietto”. Il caffè la mattina del diciannove di dicembre non ce lo levava mai nessuno, con la scusa di un saluto, degli auguri di Natale e i biglietti con la polverina dorata. Auguri e buon Natale, ci rivediamo tra poco amici. Era un caffè di quelli presi con calma sui tavolini di piazza Verdi, quando anche Bologna, la rossa e la calda Bologna, non risparmia il freddo vento del Nord. Un appuntamento fisso con chi hai visto fino alla sera prima, ma bisogna darsi appuntamento, abbracciati con il bavero della giacca alzato per trovare sempre e solo loro: i motivi per tornare a casa. “Luca sii scemo tu. Non lo troverai mai un biglietto del treno oggi, ma chi ti credi che tutti quelli che devono tornare a Lecce si decidono all’ultimo momento come te?”. Tornare a casa, significa che, in fondo, che cosa sia la casa te lo ricordi e che tutto quello che c’è stato nel mezzo non sia poi nemmeno così tanto casa tua. In piazza Verdi, noi ritardatari ci riunivamo ogni Natale e di domande ne avevamo sempre le stesse. Ci prendono, ci costringono a sradicare ed emigrare lontano da dove siamo sempre stati e poi bisogna pure tornare a casa, con tanto di nostalgia che si riaffaccia e voglia di mare e di sole. “Che quell’affare grigio che voi vi vedete tutti i giorni, che pensi che sia sule quello?”. Me lo diceva sempre Silvia, ad ogni intervallo di lezione, quando a ottobre si cominciava a formare la condensa e ogni parola era un soffio bianco nell’aria fredda. “A quest’ora giù si fa ancora il bagno e così pure la mia famiglia”. “Sii fortunata tu che per tornare a casa ci metti solo tre ore”. Io sono sempre stata quella del Nord a Bologna, quella che viene da qui vicino e che ogni tanto il weekend, prende il treno per andare a mangiare i cappelletti e la torta della mamma ed è “na privilegiata”, che il duro sapore della solitudine e dello sradicamento manco sa cosa vuol dire. Io da quando mi sono trasferita a Bologna ho imparato il dialetto leccese, e a riconoscere se tu sei di Melpignano o di Bari Centrale. Conosco i piatti tipici calabresi e la faccia smunta dei siciliani, che sotto le Due Torri ci stanno ormai da

fuggono nelle piazze del centro, io ho imparato la pizzica, che a Bologna si balla in ogni dove. E poi ci dicono, tornate a casa che è tardi. Ma qual è la casa? Luca il biglietto per tornare a Lecce lo ha

caffè. Che Silvia glielo diceva, non lo troverai mai e poi lui, chissà come, andando a piedi fino in stazione, riusciva a strappare quel foglietto colorato al bigliettaio, manco poi glielo avesse rubato.

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sempre comprato il 19 di dicembre, quando c’era freddo e noi con il bavero alzato sorseggiavamo il

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troppo tempo. Nelle notti d’estate, quando la città con il suo cemento sputa afa e calore e i ragazzi


Si partiva il 20 o il 21, io per il Nord, a poche ore di distanza con un viaggetto che durava una Repubblica e una dormita di mezz’ora e loro con il viaggio della speranza. I ritardatari aspettano che Bologna si svuoti e non somigli più a casa loro, per poi prendere il treno che li riporti alla terra loro, per ricordarsi che è vero, alla fine, quella è solo una casa di passaggio. Li accompagnavo io di solito, con quei valigioni rossi e legati con lo spago che in via Indipendenza facevano un gran rumore e la notte sembravamo profughi che stessero fuggendo da chissà cosa. Era una festa quella passeggiata così eccezionale, da trasformare il viale in un paesaggio dagli scorci nuovi, da rendere tutto un ricordo da fossilizzare perché chissà al ritorno che tutto non sia poi ancora lì ad aspettare. Noi ritardatari andavamo così al treno, con l’amaro in bocca e quella rabbia delle cose ingiuste che fa combattere quelli dalle maniche colorate e avvoltolate sui gomiti contro i mulini a vento e i principi stupidi. Luca lo diceva sempre, io protesto. Questi mi chiedono di partire, mettermi sulle spalle vent’anni di vita e ricominciare da capo al Nord, dove io manco avrei voluto venirci e dove i miei mi ci hanno dovuto spedire. Mamma fa i sacrifici per mantenermi quassù, il cibo me lo spedisce con i pacchi grandi delle Poste Italiane, così risparmio un po’ e chissà mai che mangio le cose sane di casa nostra. Luca lo diceva sempre, mentre con i valigioni rossi percorrevamo via Indipendenza alle 11 di sera, dal Nettuno alla Stazione Centrale e l’aria era un po’ di festa e un pochino no, con la malinconia che si impadroniva di tutti e colorava le mura, facendoci pensare che chissà quando ci saremmo poi ritrovati sotto i portici a Bologna. A volte bastava uno sguardo, per capire che Luca con la sua sigaretta accesa, stava già protestando anche senza parlare oppure era lui che attaccava con quel “Vedi che” e poi si perdeva tra le virgole e le parentesi di ogni pensiero. All’altezza di via Irnerio, dopo la banca, lui me lo diceva sempre: “Sai che io, l’Università l’avevo cominciata a Lecce, mica ci volevo venire qui”. Lo diceva con il nodo in gola, quello che conoscevo bene e che ormai avevo imparato a rispettare. Lo diceva deglutendo forte, per non farmelo vedere che si emozionava, se no finiva che lui di forte non aveva niente, nemmeno la faccia scura. “Vedi è che giù ci stavano i problemi, non c’è l’organizzazione e ogni cosa è un forse. Per fare gli esami stavamo in fila davanti alla porta del professore e poi infilavamo lo statino sotto l’uscio, sperando che lui ci contattasse per fare un appello. Capisci?”. Uno disorganizzato come Luca non avrebbe l’ha detto: se vuoi noi ti si fa andare a Nord che là vedrai che ti trovi meglio. Allora, se poi mi ci spedite qui dove il sole è grigio e l’inverno bisognerebbe solo dormire, poi non potete chiedermi di tornare per le vostre feste comandate, di riandare a respirare l’aria di casa mia vera che è solo una ti fa piacere andare giù, che alla fine quando c’hai la pancia piena, mica ti lamenti così tanto. E che saranno mai nove ore di treno”. Gridava Silvia all’improvviso, come lui stesse rovinando

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violenza fisica per farmi capire che là dove voglio stare non ci potrò mai stare”. “E smettila su. Che

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mai potuto sopravvivere all’Università del non si capisce chi o cosa è responsabile. “Mamma me


l’atmosfera da gita in via Indipendenza. “La senti?” diceva allora Luca, con il sorriso che a volte dopo la sigaretta e dopo che i valigioni erano quasi arrivati in stazione, si faceva sfuggire. “Silvia, l’amica tua, lei non ha problemi. Si fa scarrozzare da una casa all’altra, lei legge tutto il tempo sul treno e manco si preoccupa se intorno cambia il paesaggio e noi cambiamo aria. Io non ce la faccio, è questione di rispetto, se mi imponi una casa, mica me la puoi togliere ad ogni tre per due, ad ogni festa che si decide dall’alto”. E poi c’era Marzia, che ci seguiva in silenzio perché lei era molto più grande di noi ragazzetti e tutte quelle dinamiche lei le conosceva a memoria. “È solo quel groppo in gola, non ti preoccupare”. È il groppo in gola, me lo spiegava lei, la più grande, che prende quelli del Sud che stanno al Nord, ogni volta che devono salire sul treno Intercity Notte che li porterà a casa. Comincia qualche sera prima, mentre ti rigiri nel letto e pensi che ancora, sì proprio così, dovrai fare un viaggio della speranza. Il treno Intercity Notte, che unisce l’Italia, che sia BolzanoLecce, Torino-Lecce, Bologna-Lecce, parte verso le 11 e arriva la mattina seguente. Trenitalia a volte lo chiama Freccia Adriatica, loro lo chiamano il “viaggio della speranza” e ci si abbandonano come destinati, come senza scelta. “Vedi ragazzì”, non lo so perché ma davanti a quel treno, io che venivo dal Nord, diventavo subito ragazzì per Luca, “tu una roba così non l’hai mai vista. Non solo ci costringete a cambiare casa, terra e dialetto, ma poi ci caricate in treni merci senza aria condizionata o riscaldamento, senza aria per respirare e senza posti per dormire. Siamo merci forse per voi? Siamo numeri che da giù vengono su?”. Lo salutavo poi, a quel punto, perché sapevo che il dolore era troppo grande e chissà quali brutte cose mi avrebbe detto e tanto valeva stringerlo forte fin quasi a soffocarlo e dirgli solo, ci vediamo presto. “Non lo ascoltare, ragazzì. Ti portiamo dolci e cibo da giù e a gennaio cena a casa dei leccesi così assaggi anche tu un po’ di roba buona”. Ci lasciavamo così, loro sul treno della speranza, io al binario 6 con la faccia malinconica di chi pensa di vivere lo stesso trauma, ma sa che in fondo per loro là è un po’ più dura. La prima chiamata arrivava due ore dopo: “Beddha mi annoio”. Era Silvia che telefonava continuamente e ad ogni ora, perché mentre se ne stava su quel treno lungo e infinito non faceva che pensare a tutto quello lasciato indietro e allora le venivano i dubbi sulle cose rimaste in casa e sull’esame di storia di gennaio: “Te lo ricordi che libri dobbiamo portare per la Venturi?” e cose piccole del genere, che le vagoni, ma stiamo bene”. Io non ci ho mai creduto a quei racconti, che sembravano venire dall’oltretomba e forse invece erano solo distanti qualche chilometro. Lo diceva Marzia, voi non potete capire. E che sarà mai da capire, un po’ di affollamento su di un Intercity. Valigioni grandi che funziona a seconda dei vagoni. “Tornano tutti a casa, ragazzì. Non puoi capire l’emigrazione Sud-Nord, se almeno una volta non hai preso uno di questi treni che uniscono le città del lavoro con

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come quelli loro e altrettanto rossi, scatole, pacchi e persone. I finestrini sigillati e il riscaldamento

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facevano passare un po’ di tempo. Ma lì come state Silvietta? “Bene, la gente è squicciata assu i


la nostra terra. Persone, uomini, donne e bambini ovunque, gente di ogni età che si infila su di un trenino piccolo e stretto per passare sette giorni a casa propria”. Luca era quello che si arrabbiava di più, lui l’ombroso, “‘sta storia” qui divertente del viaggio della speranza non l’ha mai potuta sopportare: “Ma che capisci? Ci tolgono pure la dignità di un viaggio da esseri umani, pensano che manco quella ci meritiamo. Se vogliamo tornare a casa, tocca vivere come bestie e accontentarci di tutto perché già siamo fortunati che al Nord ci hanno accolto”. Il punto più bello del viaggio è alle 6 del mattino, quando il trenino pieno pieno comincia a varcare la frontiera del Sud d’Italia e tutti si accorgono che qualcosa sta cambiando. Silvia lo ama quell’istante e me lo diceva sempre lei, io non sono triste per il viaggio della speranza, perché so che all’alba ci sarà quell’attimo. Si vede il sole. “Ma un sole vero, ragazzì. ‘Na roba che voi del Nord mica la capite”. E che sarà mai, un po’ di giallo nel cuore dell’inverno. “No no” diceva Silvia, “tu devi immaginare questo treno, carico di valigie e di persone, dove si fanno i turni per stare in corridoio a respirare un poco d’aria e dove tutti stanno lì ad imprecare. Si passano le ore a lamentarsi e raccontare le storie del Nord, di cosa fa bene e cosa fa male. Tutti parlano e parlano e finalmente in dialetto, tutti, senza che nessuno guardi con l’aria storta perché dice che non ha capito. Vabbè, poi è chiaro, urliamo un po’ che noi se non urliamo un po’ non siamo contenti. Insomma ad un certo punto della notte il treno si spegne, e si comincia a sonnecchiare, con gli occhi vigili e attenti, ma chiusi in un qualche modo. È il sole delle sei e mezza che ci sveglia, quando l’aria si schiarisce e stiamo tutti a guardare fuori. È una luce gialla, senza nuvole o nebbia e respiriamo un sapore di casa, che non puoi nemmeno immaginare. Siamo arrivati, dico a Luca tirandogli la manica della giacca. E il resto è solo attesa”.

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Capitolo 3 – Giovani del Sud, quale futuro?

Una malinconica domenica di fine estate e nell’aria l’autunno che vuole arrivare. Il mare è già increspato e di un blu intenso. Ed amici che prenderanno presto un treno, un aereo, l’auto e se ne andranno via dall’estate e dalla propria terra, macinando chilometri per arrivare a destinazione, su, nel profondo Nord. E mentre loro si chiedono il perché della loro partenza noi, che li salutiamo dal posto di mare che ci appartiene e che sarà nostro anche d’inverno, ci chiediamo perché restiamo qui. Se la scelta giusta è la nostra o la loro. Andare. Partire. Arrivare. Tornare. Restare. Ogni vita segue il proprio percorso. Molti partono, accomunati da uno stesso destino, ma molti restano. Fin quando sarà possibile; o forse per tutta la vita. I giovani del Sud, ad ogni modo, sono accomunati dal fatto di vivere in delle terre baciate dal sole, rigogliose, ricche di sapori, odori e profumi; ma anche così devastate, stuprate, insanguinate e povere. Contraddizioni profonde nelle quali si nasce, difficili da ripudiare durante il percorso di vita perché molto spesso condizionano ogni scelta, anzi quella fondamentale: vivere al Sud o abbandonarlo. Umori diversi e diverse motivazioni inducono ciascun individuo a rinunciare a qualcosa per avere qualcos’altro. L’emigrazione dei popoli c’è sempre stata, è fenomeno naturale. La vera domanda da porsi è, invece, perché vada sempre verso un senso, e mai nell’altro; si risale sempre verso il settentrione e non si scende mai verso il meridione. Chi sceglie di restare non va identificato come “eroe”, è un individuo che compie una scelta, coraggiosa. Priorità diverse spingono a strade diverse. Ma in chi rimane c’è forse qualcosa in più: qualcosa che si identifica con la voglia di rischiare se stessi, in primis, di tentare. Nascere al Sud non vuol dire nascere senza sogni; anzi, i nostri, molto spesso hanno i colori caldi della terra, i ritmi dei tamburi, le onde del mare. Non farli diventare in bianco e nero, per molti, vuol dire andare a realizzarli altrove; per altri, quelli che restano, vuol dire tenerseli stretti. Domandarsi ogni giorno circa il proprio futuro è cosa legittima, buona e giusta. Figuriamoci al meridione: è una domanda che ci attraversa, alla quale tentiamo di dare una risposta. Noi giovani del Sud a quale futuro andiamo

istruzione, ma che abbiamo le valigie pronte sotto il letto, più di ogni altro, ci chiediamo: dove e come concretizzeremo ciò che sogniamo? Quali sono le diversità che esistono – inutile negarlo – tra noi meridionali ed i nostri coetanei del Nord? La risposta immediata a quest’ultimo interrogativo –

politico nel quale viviamo. La nostra waste land è in totale contrapposizione con la pianura padana: due realtà diverse, due modi di essere diversi. Molto spesso, in un gioco di contrasti, è la pianura a

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che poi potrebbe racchiudere tutti gli altri – si identifica nella diversità del contesto socio-culturale e

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incontro? Noi che siamo tra coloro che – nella nostra Italia – possiedono maggiormente cultura ed


fagocitare molti di noi, se si escludono le attraenti terre estere; i sogni chiusi in zaini e valigie e via, per diventare “fuori sede”, anche a vita. Immedesimandosi in coloro che percorrono questa strada è possibile immaginare molti dei quali lo fanno per rompere definitivamente gli schemi, per realizzarsi personalmente altrove, lontano. Ed altri che, invece, lo fanno comunque a malincuore, coscienti delle difficoltà, ma altrettanto consapevoli di voler realizzarsi in una pianura che, inevitabilmente risulta molto più attraente, affascinante, prosperosa e fertile. Ed allora questo futuro di cui tanto si parla, si concretizzerà mai nel meridione? Quanto costerebbe ad ognuno impegnarsi per costruirlo qui, questo futuro? I sogni dei ragazzi del Sud sono quelli comuni; sono uguali a quelli di tanti altri: un lavoro certo e se possibile gratificante; la possibilità di costruirsi e mantenere una famiglia; una vita sicura e serena. Obiettivi comuni, che in altre parti d’Italia o d’Europa sembrano essere facilmente raggiungibili; o che comunque sono punti all’ordine del giorno delle agende governative, mentre qui sembrano isole in lontananza, difficili da arrivare. Ma esistono comunque delle variabili che incidono quotidianamente sulla strada del nostro futuro. Quelle che noi consideriamo variabili (e non costanti perché crediamo possano avere una fine) si traducono in giochi di “potere”. Non si può trascurare il ruolo del “potere” politico che dall’alto dello scranno determina, con le proprie decisioni, le scelte di ognuno di noi; il ruolo del “potere” amministrativo e cioè di una macchina burocratica che assomiglia sempre di più ad un bradipo; il ruolo del “potere” criminale. E le commistioni tra i tre poteri diventano limitanti. E privano della parola, a volte anche della vita, colpendo anche coloro che hanno il coraggio di denunciare e tentano di contribuire all’inversione di rotta. E per coloro che sono più deboli si materializzano valigie da chiudere; per coloro che credono nel cambiamento diventano lotte aspre e quotidiane per sopravvivere e per dar vita a quei sogni tanto semplici e colorati che rischiano di smaterializzarsi all’alba. Osservare la realtà che ci circonda è un processo quotidiano. Il verbo esatto è osservare, e non vedere; è necessario infatti, proprio per comprendere il mondo reale, scrutarlo ed analizzarlo in tutte le sue forme. Solo in tal modo, diviene possibile inoltre individuare soluzioni o, senza troppe pretese, ipotesi di miglioramento plausibili. In questo processo giornaliero, capita di incontrare sulla strada tanti ragazzi. E tanti adolescenti. L’esperienza di formazione con giovani “dispersi”, che L’idea “meravigliosa” di creare percorsi di formazione per qualifiche professionali alternativi al sistema tradizionale di istruzione, in teoria funziona. È data l’opportunità infatti, a tutti coloro che non sono avvezzi ad approfondire il percorso culturale tradizionale fino alla laurea o anche oltre, di legati, ad esempio, all’artigianato, o al settore il terziario; una qualifica che consenta facilmente un ingresso nel mercato del lavoro andando così a ricoprire ruoli ed a svolgere lavori che oggi,

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imparare una professione, acquisendo una qualifica che per lo più afferisce ad antichi mestieri

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precocemente hanno abbandonato la scuola, porta a guardare la società da un altro punto di vista.


soprattutto al Sud, tendono a scomparire. Ecco quindi il proliferarsi di corsi di qualifica per giardiniere, ceramista, estetista, meccanico, animatore turistico e via dicendo, promossi dalle regioni, finanziati dalla Comunità Europea, attuativi di leggi e direttive. In tal modo, da un lato si offre un’opportunità nuova di formazione, dall’altro si individuano misure alternative per ridurre una serie di scompensi e disagi: integrazione sociale di fasce emarginate, disoccupazione, sostegno di settori produttivi in decadenza, eccetera. In teoria tutto dovrebbe funzionare. Peccato che l’oste ci metta del suo. E l’oste in questo caso sono proprio i soggetti destinatari di tale formazione: i ragazzi e le ragazze adolescenti, adulti del domani. Le loro facce sono altre facce che appartengono al Sud: quelle delle classi disagiate, che vivono precariamente ed ai margini territoriali, dove vigono regole sociali e di comportamento arcaiche, e l’emancipazione si caratterizza solo in un modello innovativo di cellulare o nelle scarpe all’ultima moda. L’offerta sulla carta di un miglioramento sociale e culturale si concretizza in un impegno quotidiano da parte dei formatori, di coloro che ci credono davvero e che davvero realizzano tali attività formative, che diventano molto spesso, più che insegnanti, fratelli, sorelle e genitori. Essi insegnano a questi adolescenti le fondamentali regole sociali di comportamento, della relazionalità, della comunicazione, l’educazione civica, il senso di appartenenza ad una Nazione e ad uno Stato, diritti e doveri fondamentali del cittadino. La sfida diviene quella di renderli “persone”, mature, autonome, che si aprano al mondo attraverso una crescita culturale e individuale; di renderli “cittadini”; significa scontrarsi con le famiglie legate a retaggi culturali arcaici che a stento accettano l’emancipazione sociale e culturale. Alla fine dell’impegnativo percorso triennale – tanto durano i percorsi per l’obbligo formativo ed il dirittodovere all’istruzione – quello che resta è purtroppo poco: l’auspicato inserimento nel contesto sociale e lavorativo, per coloro che riescono a qualificarsi e non abbandonano l’attività formativa, non è così facile; questi ragazzi e queste ragazze difficilmente vengono accolti dal contesto sociale e lavorativo. Il Sud non è pronto nemmeno per questo. L’idea di una esclusiva acquisizione culturale per essere nobili e buoni cittadini, eredità di borbonica matrice, vige ancora e non consente la riqualificazione di giovani che stanno ai margini. La piccola goccia in mezzo al mare è sinonimo, in questo caso, dell’impegno di alcuni di noi, dei formatori che cercano, attraverso metodi educativi,

che lo fanno non solo per lavoro, ma anche per passione; scrivendo per un giornale, monitorando il territorio, cercando di portare la legalità, costituendo e lavorando in associazioni che intervengono nel contesto sociale, attraverso azioni educative e di promozione. Il tanto atteso e auspicato rilancio individuare nuove proposte e nuove idee per l’abbattimento di limiti e barriere. E potrebbe ancor di più avvenire con un impegno politico, serio, reale e concreto che abbia, tra i suoi punti di forza, la

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culturale potrebbe, infatti, avvenire anche attraverso nuove forze giovanili, che siano in grado di

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di contribuire al cambiamento di questa terra. E questo impegno si affianca a quello di tutti coloro


garanzia dei diritti minimi, capisaldi della nostra Costituzione, che molto spesso sembrano venir meno. Qualche giovane, che ha fatto dell’impegno politico una scelta di vita, sostiene che “il lavoro permetterebbe di ricucire il tessuto sociale e di dare speranza alle nuove generazioni e rilanciare il Mezzogiorno”. Il diritto al lavoro, purtroppo, molto spesso cessa di essere “diritto” per ognuno di noi e resta sogno. Ed è in questa intercapedine che si possono insinuare la corruzione, il malaffare, la criminalità. E da qui l’arruolamento in “fabbriche” non lecite, che fanno di molti giovani disperati manovalanza e classe operaia per pochi spiccioli. O per tanti, ma sporchi. Il cambiamento passa anche da qui, da una strada difficile e tortuosa per la riaffermazione di regole e diritti. Un’operazione che dovrebbe essere primario compito della classe dirigente. E la consapevolezza che quella di oggi sia deludente, collusa e “sporca” dovrebbe lasciare il passo alla speranza del domani. La futura classe dirigente sarà composta dai miei coetanei di oggi. Il che vuol dire che il cambiamento è nelle nostre mani. E lo Stato? In un viaggio dentro la realtà sociale, le esperienze personali, le opinioni della gente comune, i limiti soggettivi, quelli oggettivi e culturali, lo Stato dov’è? Tutti gli interrogativi, l’intera analisi della situazione meridionale, le ipotesi di miglioramento, le strade del cambiamento percorribili, i disegni del nostro futuro si collocano all’interno di una cornice più grande. E’ lo Stato, la Repubblica, della quale il meridione fa parte, ad abbracciare anche noi, che viviamo giù al Sud. Lo Stato non c’è, è sparito, oppure fa di tutto per identificarsi esclusivamente con divise che quotidianamente perlustrano le nostre strade, ma che in realtà si sacrificano, muoiono, a volte senza ricevere nemmeno un grazie. Non è più ospedali a norma, piani regolatori, istruzione di qualità, uffici efficienti, sicurezza sociale, meritocrazia, tutela della libertà. E così tutti noi vestiamo la divisa dei precari: chi lotta affianco alle Istituzioni perché ci crede veramente anche se tutto intorno crolla; chi grida le ingiustizie attraverso le proprie parole stampate sui quotidiani e si ritrova una busta con dei proiettili dentro casa; chi si impegna nelle associazioni; chi contribuisce ad educare alla legalità; chi gestisce un’attività commerciale scontrandosi con tasse legali e non; chi studia manuali pensando di mettere in pratica teorie di giustizia; chi siede in un consiglio comunale. Guardiamo in alto e ritroviamo l’articolo 3 della Carta Costituzionale: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza

sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,

abbattimento degli ostacoli, effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita del Paese: non mantenuta, o per essere benevoli, solo in parte. Uno Stato garantista, che fornisce assistenza ai

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economica e sociale del paese”. Eguaglianza formale: non mantenuta. Eguaglianza sostanziale,

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distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e


“disagiati”, non è mai positivo. Uno Stato che abbatta gli ostacoli è indispensabile più di uno Stato che regala soldi e finanziamenti a pioggia che diventano cattedrali nel deserto. Ed è legittimo chiedere, da parte del cittadino del meridione che ha eguale dignità, diritti e doveri di un cittadino del Nord, che lo Stato ci sia, ma realmente. Soprattutto attraverso la riaffermazione delle norme: in tal modo si potranno mediare i conflitti e iniziare nuovamente a parlare di libertà e di diritti dei cittadini garantiti. In uno Stato di diritto, il rispetto delle norme è primario compito che spetta innanzitutto all’apparato statale stesso. Ciascun cittadino, seguendo l’esempio ed essendo “educato”, imparerà a chiedere tutela dei diritti e delle libertà e, al contempo, sarà anche rispettoso dei propri doveri. Utopisticamente, in una democrazia che funzioni, lo stesso popolo che governa dovrebbe essere esempio per gli altri concittadini che vengono governati, in uno scambio dialettico volto alla crescita dello Stato. Ma senza andare oltre, ipotizzando democrazie ideali e perfette, c’è semplicemente da dire che sarebbe importante intervenire alla base: educare i futuri governanti. Ricordando quanto importante sia stato il Sud nell’avventura dell’unificazione italiana, si dovrebbe realizzare concretamente un processo di rieducazione, ed auto-rieducazione, dei cittadini meridionali alla vita democratica, al rispetto della legalità e ad una cultura di appartenenza ad un qualcosa di grande, quale è la Nazione. L’interrogativo da porsi è se davvero esiste il coraggio di rischiare, di “cambiare”. Noi giovani meridionali, con tutta questa consapevolezza di limiti e barriere, ma anche di “arieti” da usare per far breccia, vogliamo realmente farlo? Noi, futuri genitori, futuri consiglieri comunali, provinciali e regionali, futuri governatori e governati, riusciremo a scardinare le convinzioni sfidando la realtà, i retaggi, le convenzioni e le tradizioni? In altre parole, intendiamo davvero darci una possibilità? Vogliamo davvero “costruirci” il futuro?

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Capitolo 4 – Cultura, dove sei?

Cultura è quello che è un popolo, e un popolo è rappresentato anche dalla città in cui esso vive. Crescere e vivere in una città come Roma involontariamente influenza un certo modo di percepire le cose e fa sorgere, fin da subito, un apprezzamento non indifferente per l’arte in sé. Non si può obiettivamente restare indifferenti girando per i viali storici della Capitale, così come quando capita di entrare in chiese meravigliose dall’architettura certosina, o di sedersi in piazze mozzafiato, e magari di sentirsi minuscoli di fronte a tanta meraviglia, di fronte all’Arte, proprio quella con la A maiuscola; così come farsi rapire dalla bellezza nel passeggiare sul lungomare di Napoli col Vesuvio che fa da cornice o di camminare per i centri di Milano, di Palermo, di Catania, di Firenze e così via. Città, queste, così ricche di storia, che sono nervo portante di quest’Italia che oggi sembra essere un po’ allo sbaraglio – e non solo culturalmente. Forse con il tempo ci si fa l’abitudine anche se poi crescendo ci si rende comunque conto della fortuna che si ha nel vivere in una metropoli come Roma. Pensiamo alla scultura e ci viene in mente Bernini, pensiamo alla pittura ed ecco Michelangelo e Caravaggio. Pensiamo alla poesia ed ecco Trilussa e il suo delirante dialetto. Pensiamo al cinema ed ecco Mamma Roma, Accattone del Pasolini neorealista, pensiamo alla magia di un Federico Fellini che di Roma era innamorato al punto di dedicargli uno splendido ed omonimo film nel 1972 e al punto di ambientarci un capolavoro come La Dolce Vita. Pensiamo poi al teatro, alla musica e ai suoi cantautori che tanto l’hanno celebrata: da De Gregori a Lo Cascio, passando per Venditti fino a Baglioni. Ecco, immaginate a questo punto un piccolo bimbo, chioma bionda ed occhi pieni di speranza, nato al volgere degli anni Ottanta, in una cornice come quella di Roma: pensate alle sue passeggiate in via del Corso, ai gelati mangiati sul Pincio o ai rigori parati al papà a Villa Pamphili. Forse è destino che nella testa di un ragazzino circondato da tale contesto la passione per la cultura prenda poi il sopravvento. Immaginiamo il nostro ragazzino figlio di un chitarrista jazz, e già a cinque o sei anni quella musica così speciale ed inconfondibile prendevano il sopravvento assieme alla canzone d’autore italiana. L’onnipresente musica: a casa, in auto, nei lunghi viaggi, nei pomeriggi di primavera, o nei primi concerti dove i suoi genitori lo portavano e nei quali puntualmente il ragazzino si addormentava. Poi c’era il cinema e la fortuna di

quel determinato contesto familiare che influiscono in maniera decisiva con il passare degli anni su di lui. Anni dove inizia ad allargare sempre più i propri orizzonti musicali. Subentra poi la passione

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vedere, forse anche troppo precocemente, tanti film importanti. Ecco, tutte queste componenti e

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entrava nelle sue orecchie con estrema naturalezza. Il blues, il country e la west coast americana già


per la scrittura, unita ad un’innata curiosità e alla voglia di raccontare. Tutto questo fa maturare in quel ragazzino nato e cresciuto a Roma la scelta che da grande avrebbe fatto il giornalista. La spontaneità nel sentire le storie degli altri, nel domandare e nel confrontarsi. L’attrazione che su di lui faceva la figura del giornalista, così misteriosa, così irresistibile. Sempre sul chi va là, sempre in bilico, con poche certezze e con l’aria di uno che deve continuamente arrangiarsi. La sua eleganza, il suo sapere. D’altronde cosa c’è di più bello? Scrivere, raccontare, intervistare. Già ma di cosa scrivere, di cosa occuparsi? Di politica? No, il nostro ragazzino non è cresciuto in un contesto tale da farlo appassionare a quel mondo e a quell’ambiente, tantomeno a chi è disposto a tutto pur di prendere il potere. Di finanza? Cronaca? Neanche quello. E allora di cosa scrivere? Ma certo, cultura. Quanto può essere bello, per un ragazzo cresciuto circondato dalla musica nella città d’Arte più bella del mondo, andare ai concerti e recensire quanto visto, e fare lo stesso dopo un film visto al cinema, o dopo una “prima” teatrale. Ma la musica per lui è sempre un gradino sopra. Giornalista musicale, dunque. Ma da dove cominciare? Come si diventa giornalista? Nessuno in realtà sa mai dare una risposta chiara a questo quesito, lo si deve capire da soli. Se vai da un giornalista e gli dici che in futuro vorresti fare il suo stesso mestiere, questi te lo sconsiglierà subito. Ti dirà di “girare altrove”, ti dirà che si vive male, con ritmi sballati e senza stabilità alcuna. Ammetterà che quella del giornalista è sì una bella professione che porta tante soddisfazioni, ma allo stesso tempo ti avvertirà di quante scocciature, di quanti “pesci in faccia” da prendere negli anni, e di quanti sacrifici è fatto quel lavoro. Così ti chiedi se vale davvero la pena intraprendere una strada del genere senza tra l’altro un minimo di raccomandazione, senza nessun familiare che possa darti quella “spintarella” necessaria per fare il salto giusto. Il nostro ragazzino finisce le superiori, dopo cinque anni di liceo classico-linguistico conclusi abbastanza egregiamente, e si chiede cosa fare. Fa i suoi errori di valutazione, però alla fine si accorge quanto valga davvero la pena fare ciò che si ama e ciò per cui si è maggiormente portati: quindi, scrivere. Scrivere, senza pensare al futuro e a quello che tra dieci anni ti ritroverai fra le mani. Così il ragazzino, ormai quasi adulto, approda alla sua prima redazione, passaggio fondamentale perché fin da subito riceve lo spazio giusto per far maturare la sua esperienza giornalistica, trattando tematiche a lui vicine che vengono poi racchiuse

missione: scrivere considerazioni riguardo il ruolo sempre più marginale che la cultura continua ad avere con il passare del tempo. Scrive questi articoli perché ha sempre pensato che molta gente non ha ben chiaro il concetto di cultura e che per questo la riconoscenza verso di essa tenda sempre più

missione: perché volendo continuare anche in futuro a scrivere di musica, di cinema e di teatro in primis, non potrebbe accettare il fatto che tra qualche anno le riviste di musica cominceranno a

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a sgretolarsi. E c’è una ragione ben precisa nella scelta di affrontare il suo impegno come una

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in quella enorme “branca” chiamata cultura. Fin da subito quel ragazzo si dà una missione nella


chiudere (e molte lo hanno già fatto), che i dischi saranno sempre di meno e così via. Una piccola battaglia personale nonostante sia difficile convincere le persone, soprattutto quelle che con la cultura hanno poco a che fare. E sono molte, troppe queste persone. Le cose un po’ più nascoste e sottovalutate attirano sempre in maniera più palese l’attenzione di quel ragazzo. E allora scrive, scrive per un magazine online, fa la radio, e il suo obiettivo principale è proprio quello di far aprire gli occhi e le orecchie alla gente, cercando di condividere con chi lo legge, o con chi lo ascolta, le sue emozioni. Il suo obiettivo, insomma, è quello di influenzare in positivo le coscienze, dando alle persone qualche motivo in più per alzare la testa, fissare meglio lo sguardo e cambiare direzione. Senza l'arroganza di riuscirci, in fondo lui è soltanto un giovane con tante speranze che fa quel che può per realizzarle. Con i suoi articoli, punta i riflettori sulle cose che troppo facilmente vengono snobbate. Già, la cultura. Bell’impiccio parlare di cultura. Soprattutto provare a spiegare cosa ne sarà, domani, della cultura. Una parola apparentemente così semplice che, però, nasconde delle insidie; una cultura che si presenta, oggi più che mai, piena di nodi da sciogliere. E così, prima di parlare del futuro della cultura, bisogna chiedersi: ma quale cultura deve avere un futuro? E, ancora, cosa è la cultura? Se volessimo darne una definizione esatta e completa, dovremmo probabilmente richiamare autori del passato che hanno dedicato la loro esistenza a quell’insieme di conoscenze, saperi, attività e passioni che prendevano appunto il nome generico di cultura. Un ombrello ampio sotto il quale rientravano anche gli usi e i costumi di una popolazione, e sotto il quale, oggi, si fanno rientrare forse un po’ troppe cose e un po’ troppi eventi, ma sicuramente una grande famiglia entro la quale condividono lo scettro la musica, la letteratura, l’arte in genere, ma anche arti “nuove” come il cinema o la fotografia. Quel che è certo è che, quando parliamo di cultura, siamo di fronte ad un insieme di attività umane che presuppongono conoscenza, formazione e creatività, tre ingredienti basilari per “fare cultura”, quella che qui si vuole intendere. Quella che produce idee, che dà forma a pensieri, emozioni, sensazioni. Quella che crea, che plasma, che innova e sperimenta, avendo chiaro il passato dal quale proviene e il presente che vive, provandosi a inventare un futuro, uno di quelli possibili. Conoscenza, formazione e creatività, tre termini così astratti messi su carta, che diventano reali allorché si fondono nel corpo e nell’anima di una persona

plasma tutto se stesso alla luce di quella spinta interiore, modellandola a sua volta, in uno scambio continuo e reciproco. Come l’esempio del ragazzino che abbiamo osservato. In tempi come questi, a parte l’interesse generale per una cultura “commerciale”, fatta purtroppo e soprattutto di mode da livello culturale dell’italiano medio. Non è un discorso fatto per puntare il dito sugli altri (visto che “altro” siamo anche noi), ma per far presente che oggi viviamo in una società in cui lo stile di vita è

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seguire – e, come tali, passeggere ed effimere il più delle volte – si nota di quanto si sia abbassato il

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(musicista, scrittore o più generalmente artista) che, spinto dalla sua passione, studia e si forma,


sempre più frenetico. Un sistema in cui la vita trascorre tra il lavoro – o la ricerca di esso – e gli interessi personali della gente che nella maggioranza dei casi sembra vivere coi “paraocchi” e pensare solo ai suoi problemi quotidiani, alle questioni contingenti, o al cosiddetto tornaconto; che vede, ancora, persone affannarsi, sì, ma fare tutto di corsa e con poca dedizione, con distrazione, oserei dire senza passione. Siamo schiavi del sistema e il discorso è che molti non lo sanno mentre altri non vogliono ammetterlo. Si vive male, e l’essere umano è davvero molto distratto. In una città come Roma questa cosa si avverte molto, ma anche nelle altre metropoli del nostro Paese la situazione non è così diversa. La maggior parte delle persone segue troppo le tendenze e quello che i media ci mettono in testa. E spesso, troppo spesso, siamo così pigri che ci limitiamo a seguire, appunto, quelle che possiamo definire le mode del momento, che corrispondono quasi sempre a quel che i media non solo ci propongono – perché in tal caso si presuppone una possibilità di scelta che non sempre c'è – ma a quel che essi ci mettono in testa. Ciò comporta soprattutto il fatto di non riuscire a soffermarci un solo istante su cosa valga davvero la pena “seguire” e cosa abbia davvero valore e dunque, su cosa sia davvero cultura e quale quella da salvaguardare. Quale sarà soprattutto la cultura da tramandare a chi verrà dopo di noi. Una cultura, quel che noi oggi facciamo materialmente ma anche e soprattutto “spiritualmente”, sarà la base di partenza di chi vivrà nella stessa città, nello stesso Paese dopo di noi e dovrà partire da quei “mattoni” che noi accumuleremo oggi per costruire qualcosa, che, come in un cerchio continuo, andrà a fare da fondamenta delle generazioni future. Basta guardarsi intorno con occhio critico per renderci conto che, ad esempio, le persone non vanno che a certi concerti, a un certo tipo di rappresentazioni teatrali – ma c’è ancora chi va al teatro? – che le sale cinematografiche hanno il pienone solo per il cinepanettone o per film stranieri super gettonati dalla televisione; che la musica che si ascolta è solo quella che viene passata alla radio. Una radio che da quarant’anni passa sempre la stessa musica. Basta avere un orecchio attento per rendersi conto che tante canzoni, che vengono passate come qualcosa di straordinario, non sono altro che una serie di semplici accordi camuffati da qualche cosa qua e là, e le saprebbero suonare tutti coloro dotati di un po’ d’orecchio musicale e di buona volontà. Il paradosso è che poi si va proprio ai concerti di “quelle persone” che vengono passate in radio, quasi

solo per passare la serata; non si leggono nemmeno più le recensioni dei film che si proiettano prima di andare a vederli, perché magari non c’è tempo. Si sceglie il film in base all’orario più comodo nel quale viene proiettato. Si sta troppo a casa durante la settimana e la gente si accontenta

feriali e andarsi a vedere un bel film. Vogliamo parlare poi del teatro? A teatro non si va praticamente mai, a parte chi può permetterselo e allora ecco che quel modo di fare cultura è per

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di quello che la televisione le passa quando sarebbe molto meglio uscire di più durante i giorni

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mai azzardandosi a recarsi ai concerti di band che propongono musica originale. Al cinema poi si va


poche “elette” tasche, che di sabato vanno a rinchiudersi al Globe Theatre, al Sistina o all’Argentina, o al San Carlo di Napoli oppure a La Scala di Milano. E così si assiste al fenomeno, sempre più frequente, che porta alla chiusura di cinema di nicchia e d’essai, e alla contemporanea costruzione di enormi multisala nei grandi centri commerciali che, molto spesso, restano vuoti o, comunque, propongono sempre le stesse, solite, minestre riscaldate. I locali musicali (dove fino a qualche anno fa si proponevano tante novità interessanti) scompaiono e le band emergenti non hanno nemmeno luoghi idonei dove proporre la propria musica. Il problema è che la gente non si fa nemmeno più “un giro” in questi coraggiosi locali e perciò sono spesso vuoti e finiscono col chiudere. E questo strappa terreno fertile alla musica emergente, che non trova spazi. Prendiamo come esempio una città del calibro di Napoli: lì fino a dieci anni fa c’era un grandissimo fermento musicale, c’era una discreta proposta di musica originale con grandi nomi e prezzi accessibili. Capitava la sera in cui in un club suonava gente come John Scofield e il giorno successivo c’era una nuova band, magari del posto, che si esibiva sullo stesso palco. Poi inspiegabilmente, ad un tratto, tutto quel fervore si è spento. I locali hanno iniziato a chiudere e gli ottimi musicisti che circolavano da quelle parti si sono dileguati nel vero senso della parola. Ma parliamo degli artisti. L’artista in Italia non ha un minimo di agevolazione o sussidio per svolgere la propria attività, soprattutto perché i soldi che, oggi, si devono investire per incidere un album sono tanti e gli unici introiti che un artista può avere sono quelli che provengono dai concerti. Figuriamoci cosa succede se non si riescono più a fare neanche i concerti... In Italia c’era e sicuramente c’è, qualcosa di meraviglioso e di sconosciuto che dovrebbe avere maggior voce e visibilità. Chissà, per esempio, nella sola Sicilia quanti altri gruppi formidabili ci siano, che difficilmente – o mai – usciranno dai propri confini, perché magari non sono in linea con gli assurdi canoni commerciali che si devono rispettare per approdare nel mainstream! C’è innanzitutto disinformazione – a livello musicale, ma non solo – causata principalmente dai media che, invece di focalizzare la loro attenzione su “prodotti” di qualità, si concentrano soltanto ad ampliare i propri orizzonti e a promuovere quel che fa fare loro più soldi. Ma di tutto questo la gente “comune” sembra fregarsene. Anzi se ne infischia altamente di queste problematiche, continuando però a denunciare come il livello della musica e dell’arte in fare? L’unica cosa che si può fare è insistere, martellare facendo informazione in questa direzione, passare in radio i brani di quegli artisti emergenti e sconosciuti. Ma più di questo è difficile fare ancora. Si deve realizzare un cambiamento di mentalità da parte di tutti noi. Più facile a dirsi che a numeroso di persone. Non bastano articoli, interviste e quant’altro. Ci vuole molto di più. Ci vuole la volontà comune, da parte di chi fa cultura, di chi la produce, di chi ha o avrebbe il compito di

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farsi, perché per cambiare la mentalità di un popolo non basta il farsi sentire di un gruppo, anche

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genere sia calato sensibilmente, cosa che non è affatto vera. Sorge spontanea la domanda: come


promuoverla, di voltare pagina e di dare spazio e voce a chi davvero ha qualcosa da dire, di dare la facoltà a quei “cervelli” che fuggono via. Non solo i musicisti trovano difficoltà in Italia, ma tutti coloro che, in qualche modo, “creano idee” e “ideano il futuro attraverso il pensiero”. Dare loro la possibilità di avere una porta aperta, un orecchio che li ascolti e che gli dia la possibilità di dire la loro. Possibilità di esprimersi. Non è che, dalla sera alla mattina, si può mandare a monte la programmazione di una radio, ad esempio, e passare tutta musica di nicchia! Perché magari la cosa potrebbe piacere, sì, ma a chi? A coloro che hanno già una certa “sensibilità” e preparazione. Ma questa cosa ai più risulterebbe magari fastidiosa. Cosa fa chi vuole conoscere un artista più a fondo? Va in un negozio, ma non trova niente dell’artista che cerca e così automaticamente anche quel minimo di buona volontà viene spezzata sul nascere. Lo stesso discorso vale per la letteratura. Avete mai pensato che, oltre ai grandi autori francesi, oltre alla letteratura inglese, tedesca, oltre ai grandi russi dell’Ottocento, oltre ai pilastri della letteratura italiana esiste qualcos’altro? In Italia, certo, ma anche nell’Est Europa, o in Asia. E allora? Allora si dovrebbero unire le forze e cercare di sfatare tanti luoghi comuni. Ci sono tante barriere che devono essere abbattute, se vogliamo lasciare qualcosa di buono a chi verrà dopo di noi. Deve rinascere la speranza e la fiducia nella musica, nel cinema, nella pittura, nel teatro, nella scrittura. E non si venga a dire che è tutta colpa della crisi. È una scusa. Che non regge più. In fondo, basta fare piccoli sforzi – che non sono di tipo economico – come alzarsi dal divano dopo cena ed uscire, oppure non andare subito a casa dopo il lavoro, ma di ritagliarsi quei cinque minuti per andare in libreria e comprarsi un bel libro. Quelli sì che sarebbero già dei grandi sforzi e quello è il sostegno che si deve dare ad un Paese, quando si vuole che quel Paese faccia cultura. Sarebbe, senza dubbio, meglio leggere venti pagine di un libro la sera prima di andare a dormire, invece di stare inchiodati davanti alla televisione, o su Internet, a vedere quei tristissimi programmi il cui obiettivo principale è quello di fare share, di ottenere il numero di ascolti più alto, proponendo all’inebetito telespettatore cose assurde e, a volte, così “basse” da far pensare che un certo tipo di TV andrebbe proprio eliminato. Eppure la televisione dovrebbe essere la prima sostenitrice della cultura – era nata e s’era diffusa anche per questo – e invece quei pochi programmi interessanti vengono trasmessi in fasce orarie secondarie. I film più belli vengono

vari palinsesti se non in seconda o addirittura terza serata. Per non parlare delle nuove pellicole dei registi emergenti che sono davvero tanti. Od anche le rubriche, di cinema, di informazione come ad esempio “Cinematografo” di Gigi Marzullo, sono sempre secondarie e, essendo trasmesse in orari

nuovi orizzonti e permettergli di acquistare una capacità di scelta che manca ai più. Così si sente dire che il cinema italiano sia in crisi, cosa anche questa assolutamente da “smontare”. È come se si

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sballati, pochi, ma davvero troppo pochi, possono usufruire di un servizio, che potrebbe aprirgli

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proposti nelle ore più assurde della notte. Capolavori di grandi registi non vengono mai inseriti nei


facesse di tutto per toglierci la possibilità di avere davanti le cose più interessanti, come se per quelle non ci fosse posto. C’è qualcosa che non va. C’è per forza qualcosa che non va e chi “consuma” cultura e la musica soprattutto sa bene che televisione, radio e gli altri mezzi di comunicazione hanno un potenziale culturale enorme, ma purtroppo quel che viene passato in radio è solo tanta ripetitività. Niente di nuovo. Sempre e solo le solite cose. Quando la gente inizierà a capire che la cultura non è solo conoscenza, ma anche riconoscenza verso gli artisti, forse qualcosa cambierà. Ma se si continua a navigare in queste acque sporche difficilmente la situazione potrà migliorare in futuro. Perché fare cultura è ben altro e non può essere ridotto a programmi di second’ordine spacciati per Arte. Noi non ci stiamo! Cultura è oggi sempre più sinonimo di giovani generazioni, che sono quelle che con maggiore sensibilità si approcciano alla musica, ma anche al cinema, la letteratura e tante altre forme di arte spesso lasciate a loro stesse, oppure profondamente fraintese. Giovani e cultura. Sembrerebbe quasi la ripetizione della stessa parola, ossia “futuro”. La cultura è la base del futuro, perché è l'unica espressione dell'uomo in grado di dare sempre linfa alla quotidianità, al presente, al dovere di oggi proiettato nelle prospettive del domani. I giovani sono i protagonisti del futuro, sono il simbolo vero del futuro che ci aspetta. Noi giovani siamo il futuro. Dobbiamo ricordarcelo con orgoglio, nonostante le mille difficoltà di essere giovani oggi in Italia unite ai mille ostacoli da oltrepassare per fare cultura con passione, per irrorare di “bellezza” l'aridità della nostra società. Ma cultura e giovani, nelle loro enormi criticità dell'oggi, hanno anche un luogo specifico più di ogni altro: il Sud. Cultura, giovani, Sud dell'Italia. Una catena di elementi del nostro oggi in cui si riflette quello che l'Italia potrebbe essere domani. Ma chissà se lo sarà...

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Capitolo 5 – Arte, scommessa dimenticata “Con la cultura non si mangia”. Parole in commentabili, pronunciate più e più volte da tanta parte della politica italiana, nel corso dei decenni. L’attenzione della classe politica negli ultimi quindici anni nei confronti della cultura è stata assolutamente minima, se non nulla. Negli ultimi cinque anni, poi, c’è stato un dimezzamento dei finanziamenti pubblici al settore. Ma gli investimenti nel settore cultura sono davvero soldi sprecati? Hanno ragione i politici? La cultura rappresenta davvero soltanto una palla al piede, un ingombro alla crescita, un orpello gradevole agli occhi, ma che in realtà diviene un inutile fardello che la storia ha consegnato all’Italia, e che adesso dobbiamo mantenere nostro malgrado? La prima cosa da fare per scoprirlo è passeggiare un po’ per la nostra terra natìa. Chi viene dalla Campania, più precisamente da Aversa, ha intorno a sé luoghi imbevuti si storia: una città normanna, che ha dato i natali a un musicista del calibro di Domenico Cimarosa, che ebbe l’onore di suonare presso le corti di Vienna e San Pietroburgo, oltre che essere citato da Goethe, Stendhal, Verdi e D’Annunzio. Il borgo antico e le tante chiese presenti al suo interno potrebbero rendere Aversa una meta turistica, vista anche la sua posizione intermedia tra Napoli e Caserta. Proseguendo verso Caserta si incontrano Santa Maria Capua Vetere e Capua, prima di arrivare a Caserta, che ospita la famosa Reggia vanvitelliana voluta da Carlo III di Borbone. Se invece ci si dirige verso Napoli si potranno visitare Pompei (che ospita i famosi scavi e il Santuario della Beata Vergine del Rosario), Ercolano, Torre Annunziata e Torre del Greco (che ha avuto l’onore di ospitare Giacomo Leopardi nella famosa Villa delle Ginestre). Giunti a Napoli poi, la terra che Goethe definì “feconda e felice” e “dove tutti scorazzano in paradiso da mattina a sera senza preoccuparsi di alcunché”, non si può far altro che terminare il proprio itinerario con un giro in costiera. E’ davvero inutile tutta questa bellezza che la natura e i nostri avi hanno gelosamente custodito per poi consegnarla nelle nostre mani? Come sempre, la prima cosa che bisogna fare quando si cerca una risposta è analizzare bene la domanda e cercare di distinguere quali sono le

spostandosi dalla propria terra e in particolare andando dal Sud verso il Nord, o andando in vacanza all’estero, di notare altrove una maggiore attenzione alla valorizzazione del patrimonio artistico e culturale. Ogni minimo spazio viene valorizzato, nulla viene lasciato al caso, ma soprattutto gli minimo dettaglio, c’è maggiore attenzione verso ciò che è “cosa comune”, le strade vengono tenute pulite, i servizi sono spesso efficienti. E spesso, anche l’accoglienza che viene riservata ai turisti è

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abitanti del posto hanno una finissima cura per la propria terra. Tutto sembra essere curato nel

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alternative che si hanno davanti per poi verificare qual è quella più credibile. Capita spesso,


diversa. Potrebbe sembrare una stupidaggine, ma già da queste piccole cose si notano le differenze di mentalità. E così ti capita di essere in Spagna, magari con un gruppo di amici, e ti fermi in uno di quei negozi di souvenir per acquistare qualche sciocchezza da portare a casa. Prima di entrare ti raccomandi con gli altri di stare attenti e di guardare bene i prezzi. Dalle nostre parti, in Campania, purtroppo molti cittadini poco perbene fanno il cosiddetto “pacco”, ossia si aspettano il turista per spilargli un bel po’ di soldi e farlo tornare a casa un po’ più leggero. Così entri con i tuoi amici un po’ diffidente in qualche bazar spagnolo. E rimani sorpreso, trovando molta cordialità, prezzi contenuti, e scambi anche qualche parola con il negoziante che parla un po’ di italiano. Prima di andar via ti dice anche qualcosa dell’Italia e ti lascia dicendoti: “Io non sono mai venuto finora in Italia, perché è troppo bello il vostro paese, non saprei da dove cominciare. Da sopra a sotto, è tutto bello”. Non si può davvero cavare un ragno dal buco, quindi, da tutta questa bellezza? La cultura non può dar da mangiare? E’ meglio guardare altrove? Su una cosa forse i politici nostrani hanno ragione. Sulla cultura la politica ha ben poco da mangiare. E non solo la politica, ma anche tutta quella zona grigia che in questi anni ha “mangiato”, anzi lautamente banchettato al fianco della politica. Ma qui la questione da risolvere è se la cultura possa essere un fattore di rilancio e sviluppo per il territorio, aumentando l’offerta d’impiego, e quindi facendo “mangiare” non pochi eletti, ma larghe fasce della popolazione, specialmente i giovani. Bisogna rispondere a questa domanda non solo nei termini di una valorizzazione del patrimonio artistico e culturale già esistente, ma nei termini di un rilancio e di un coordinamento delle industrie creative e culturali nella nostra terra. C’è da chiedersi se sia possibile che a Napoli, città dove hanno vissuto e operato personaggi del calibro di Totò, Eduardo De Filippo, Massimo Troisi, Benedetto Croce e sono state composte canzoni come ‘O sole mio, Reginella, Lunarossa e Marechiaro, si ricrei un fervido clima culturale che possa far emergere nuovamente la qualità presente nei giovani e possa ricreare un’immagine della città degna della sua storia. Anche oggi ci sono molti ragazzi in gamba, nel napoletano come in ogni zona d’Italia imbevuta di cultura, che si dedicano a svariate attività culturali, ma spesso lo fanno con scarse possibilità di successo e senza alcun ausilio economico da parte di nessuno. Perché non dare a questi ragazzi una possibilità? Le istituzioni dovrebbero provare a stimolare e a far all’iniziativa del sindaco di Londra, Boris Johnson. Eletto nelle fila dei conservatori, ha subito reintrodotto il latino nelle scuole pubbliche, ritenendo che abbia un ruolo fondamentale nella comprensione della lingua, e che “la sua conoscenza non deve essere un privilegio limitato soltanto

città puntando sulla cultura e sulla creatività. Questi settori non vengono visti come importanti solo in quanto parte dell’eredità della città, ma anche e soprattutto perché rappresentano lo snodo per un

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a chi ha avuto il privilegio di un’educazione privata”. Ha poi voluto rilanciare l’immagine della sua

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convergere tutti gli operatori che lavorano nel settore. Rotoliamo verso Nord e guardiamo


rilancio economico in un periodo di crisi. Ecco perché Johnson ha sottolineato l’importanza della collaborazione tra scuole, università, istituzioni locali e istituzioni culturali per favorire una crescita di tutto il settore culturale che possa comportare dei benefici sull’intera economia della città. Creatività e cultura da una parte, e benefici sull’intero settore economico dall’altro, sono visti non in conflitto, ma in stretta relazione. Qualcuno potrebbe storcere il naso e dire che in fondo quelle del sindaco di Londra sono belle parole, ma che come sempre rimarranno solo sulla carta. Se si vanno a leggere i dati non è così. Londra è, tra le metropoli della cultura, quella che ospita più studenti stranieri, quella che attira più capitali dall’estero per attività culturali, negli ultimi anni è cresciuto il numero di visitatori di musei, gallerie d’arte, cinema, ed inoltre Londra compare ai primi posti nell’organizzazione di festival e concerti. Nel 2012 nella città si terranno le Olimpiadi, e il sindaco ha già inaugurato il simbolo posto all’ingresso del Villaggio Olimpico, realizzato dall’architetto indiano Anish Kapoor. E’ possibile creare tutto questo anche a Napoli, Roma, Lecce, Palermo? Possiamo creare un marchio Sud partendo dalla cultura e dalla creatività? Spesso la politica italiana lamenta che il mondo culturale, soprattutto il mondo dell’informazione e dell’editoria, offrono un cattivo servizio all’immagine del Paese, l’immagine di una terra ricoperta dai rifiuti e dagli scandali, non mostrando invece ciò che la nostra Penisola ha di bello. Bisogna capovolgere la questione. Quali strumenti ha offerto la politica alla cultura per poter mostrare una terra diversa da quella che, purtroppo, in questi ultimi anni (e non solo) realmente è stata? La dignità dell’Italia, del Sud, di Napoli è stata offesa, calpestata, umiliata. Ma per fortuna l’anima del popolo non è morta. I sentimenti più profondi, seppur imputriditi da tutto questo marciume, stanno riemergendo e sono pronti per mostrare il vero volto di un Paese meraviglioso. E questo discorso vale soprattutto per le terre purtroppo ancora depresse, come il Mezzogiorno. Un Sud che non è quello dei rifiuti, non è quello dei ragazzini che spacciano la droga per pochi soldi, non è quello di chi ammazza a sangue freddo davanti agli occhi increduli della folla, non è quello dell’omertà. Questo è il volto cattivo del Sud, che per troppo tempo ha potuto prevalere per colpa dei silenzi e dei ritardi della politica e della società civile. Non è forse arrivato il momento di cambiare? Forse non è colpa del mondo della cultura se la nostra immagine che arriva all’estero è questa. Forse la cultura è l’unica ed ultima

ad usare due parole che da tempo in Italia, specialmente al Sud, sono state dimenticate: competenza e dignità. Tanti sono i giovani meridionali che si affacciano alla cultura, molti anche bravi, ma spesso per mancanza di coordinamento sono costretti ad abbandonare anzitempo il proprio sogno.

dovrebbe fornire al bambino i primi strumenti su come rispettare il territorio e come interagire con esso; l’istruzione secondaria dovrebbe stimolare nei giovani la curiosità verso il mondo culturale e

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Per reagire a tutto ciò, si dovrebbe partire dall’inizio, dall’istruzione. L’istruzione primaria

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speranza che ci resta per destare l’Italia dal suo torpore. “Come?” si chiederà qualcuno. Provando


creativo, aiutandoli a riconoscere le proprie capacità; l’istruzione superiore dovrebbe aiutarne l’accrescimento e lo sviluppo, in modo tale che alla fine del piano di studi escano fuori individui e cittadini completi, prima ancora che studenti modello. Il ruolo principale dell’istruzione è quello di attirare i giovani verso questo mondo, spesso visto come lontano ed estraneo. Ma forse bisogna anche puntare alla collaborazione tra le istituzioni, delle collaborazioni tra più enti limitrofi che mirino a trovare soluzioni condivise per la realizzazione e la sponsorizzazione di mostre, festival, opere teatrali, in cui si dia l’opportunità a giovani ragazzi di mettersi in gioco ma non soltanto per il giro di qualche serata, o settimana. L’importante è soprattutto la stabilità dei progetti, che devono diventare pane di vita per chi ha capacità artistiche e culturali e, giustamente, non vuole essere costretto ad abbandonare il proprio sogno, il proprio modello di vita, per declinare su qualcosa in cui non si rivede. Il soggetto sono sempre i nostri giovani. E quanti sono costretti ad andar via, rotolando verso il più “intelligente” Nord o verso l’estero? Sulla stessa onda d’idee, bisogna puntare sulla valorizzazione del patrimonio artistico e culturale dei nostri territori, anche con la collaborazione di investimenti privati. Ma forse senza una politica di promozione culturale a monte di ogni progettualità, non si va avanti come si potrebbe. Imprese creative e culturali, intellettuali, mondo accademico, istituzioni locali, associazioni culturali, tutti dovrebbero legarsi all’unico obiettivo di trovare delle soluzioni per rilanciare l’immagine del Sud all’estero e per migliorare davvero la vita in quelle terre. Senza alcun pregiudizio legato al partito politico, alla città di appartenenza o a qualsivoglia ragione. Se si dovesse perdere di vista l’obiettivo comune per disperdersi, come spesso accade, questo discorso sarebbe inutile. Pensiamo a Napoli e alla cultura partenopea. Quanto soluzioni sono possibili, e la classe politica spesso non le ha neppure vagliate… Una potrebbe essere quella del rilancio del teatro e della musica napoletana, con l’istituzione di un festival ogni anno, il cui premio sarà un tour in giro per l’Europa (e magari gli Stati Uniti, dove la canzone napoletana è sempre molto apprezzata), oppure la realizzazione di opere pubbliche con la partecipazione di investitori privati, finanziamenti alle università per progetti di ricerca sulla cultura napoletana in collaborazione con università estere. Forse, dopo tutto questo immaginare e costruire con la nostra mente, abbiamo fatto riemergere la convinzione che con la cultura si possa “mangiare”

posti di lavoro in questo settore, con conseguente maggiore affluenza di turisti e crescita anche per quel settore. Potrebbero nascere nuovi luoghi di svago e ritrovo anche nelle zone depresse, che invece avrebbero tantissimo in termini di cultura da mostrare e raccontare, e tanti privati sarebbero all’estero potrebbero tornare a casa. Infondo, se sono andati via non è certo perché non stavano bene dove sono nati e cresciuti. Dove si potrebbe mai ritrovare la stessa, immensa bellezza dell’Italia? Ci

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invogliati ad investire anche in quelle zone. Persino i tanti giovani che sono andati a studiare

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eccome. Aumentando ovunque, con impegno ed efficienza, l’offerta culturale, significa creare più


piace sognare questo sogno per non pensare allo schifo che quotidianamente ci circonda. Ci piace pensare che un giorno sul Sud, ma anche sull’Italia intera, tornerà a splendere limpido il sole. Ci piace sognare che un giorno la nostra terra natìa possa essere invasa da migliaia di turisti al giorno, che ne possano apprezzare la straordinaria bellezza in ogni angolo, e il calore umano della gente. Forse è solo un sogno che non si avvererà. Ma perché non dovrebbe?. Infondo per realizzarlo basta volerlo. Ma dobbiamo essere in tanti a farlo.

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Capitolo 6 – Giovani, la politica è nostra

L'arte di governare la società. È questa, secondo un'antica definizione della scolastica greca, la culla del nostro pensiero occidentale, la definizione di “Politica”. Nel nostro caso parliamo della società italiana, un complesso connubio di elementi positivi e negativi che ci rende unici nel mondo, un mondo nel quale semplicisticamente, ma anche sintomaticamente, siamo definiti con tre parole emblematiche: “Spaghetti”, “Mafia” e “Mandolino”. Quando si sentono questi tre elementi, usati come un marchio da bestiame per segnare gli italiani, si nota che ci vanno stretti, sembrano ingiusti per noi che siamo nati e cresciuti in Italia ed amiamo il nostro paese, nonostante tutti i suoi mali. Sappiamo di essere molto più di queste tre parole. Ma non si può non tener conto del fatto che questi tre elementi sembrano molto azzeccati, non possiamo ignorare il fatto che proprio questi tre elementi, sono stati scelti dai non italiani per etichettarci, non possiamo non considerare ognuno di questi elementi fondamentali nel tentativo, forse vano, di ottenere una comprensione più ampia dell'Italia anche grazie alla visione che hanno di noi dall'esterno, e non solo attraverso una visione dall'interno. Capire l'Italia, e la sua società, significa anche capire la politica italiana che, essendo l'arte di governarci, è la via attraverso la quale tutti noi veniamo condotti anno dopo anno, decennio dopo decennio, secolo dopo secolo verso il futuro seguendo un tracciato che dovrebbe essere percorso all'insegna del rispetto delle leggi, delle migliori condizioni di vita possibili per tutti e del progresso culturale e scientifico, amministrando il bene pubblico che è patrimonio di ogni cittadino. Essendo quella italiana una società complessa, gestire i bisogni di milioni di persone che generano un patrimonio immenso è sicuramente un'impresa ardua, un compito che richiede capacità particolari, che porta inevitabilmente a compiere degli errori, un'attività che si deve evolvere costantemente per tenere il passo dei cambiamenti che investono la società in generale ed ogni sua sottocategoria. Per fare politica bene, nell'interesse dei cittadini, è indispensabile avere delle capacità specifiche, morali, culturali, intellettuali e caratteriali. Nessuno pensa che sia facile,

accontentati. La nostra società, come tutte quelle di stampo occidentale e in generale quelle complesse, è talmente variegata e ramificata che, come modalità più giusta per creare un sistema di gestione del bene pubblico è stata scelta la cosiddetta “Democrazia”. Siamo troppi e troppo diversi,

di accontentare la fetta più ampia di popolazione. Li scegliamo attraverso un voto, con un segno regaliamo la nostra fiducia ad un politico piuttosto che ad un altro. Il fascino e il potere che deriva

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ma siamo d'accordo nell'eleggere i nostri rappresentanti e mandare al potere quelli che promettono

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nessuno pretende l'infallibilità, ma tutti giudicano, tutti hanno bisogni, tutti vogliono essere


dal gesto di incrociare due linee su un nome o un simbolo è incredibile. Noi cittadini con un semplice movimento regaliamo il potere. Siamo pronti ad accettare la vittoria di uno schieramento diverso da quello che avremmo voluto vedere con lo scettro in mano perché, sopra a tutti e a tutto, ci sono delle regole, la Costituzione in primis, che ci tutelano, che regolano, indirizzano ed arginano il potere di chi ha in mano la gestione del patrimonio di tutti. Queste regole sacrosante andrebbero rispettate, prima di tutto da coloro che siedono nei palazzi dove si prendono le decisioni sul nostro Paese, qualora ciò non avvenga si rischia il pericoloso inquinamento e la deformazione di tutto il sistema di potere votato ed accettato dal popolo. Si rischia di vedere l'interesse di tutti diventare secondario rispetto all'interesse di pochi. I casi di azioni sanguinose legate o scaturite dal tentacolare universo politico e gli esempi di mala gestione del potere (mantenendosi sul vago e dicendo solo “mala” per non dire delinquenziale o criminosa) e del patrimonio dell'Italia, purtroppo non sono pochi. L'autunno caldo del 1969, la strage di Piazza Fontana a Milano, gli attentati di stampo politico e gli scontri sanguinosi tra polizia e manifestanti degli anni '70, lo scandalo Lockheed, l'assassinio di Aldo Moro, l'assassinio del giornalista Mino Pecorelli, l'assassinio da parte delle Brigate Rosse del magistrato Vittorio Bachelet e del giornalista Walter Tobagi, la strage di Bologna, il sequestro da parte delle Brigate Rosse del democristiano Ciro Cirillo, liberato grazie alla mediazione della camorra, la P2, lo scandalo Gladio, la morte, dopo un attentato mafioso, del magistrato Giovanni Falcone, lo scandalo di Tangentopoli, la morte, in un altro attentato mafioso, di Paolo Borsellino, Bettino Craxi, ex Presidente del Consiglio dei Ministri, con più di venti capi d'accusa sulla testa, che scappa dall'Italia. E poi ancora Vittorio Dotti, esponente di Forza Italia, viene accusato di corruzione, gli scontri durante il G8 di Genova e la morte di Carlo Giuliani, l'editto bulgaro e l'inizio dell'assolutismo televisivo di Silvio Berlusconi, Clemente Mastella e la moglie che vengono inquisiti per corruzione e concussione, Berlusconi, Presidente del Consiglio, sempre al centro di vari scandali, inchieste e processi, tra i quali: il Lodo Mondadori, un giro di escort, concorso esterno in associazione mafiosa (per il quale viene condannato Marcello Dell'Utri, collaboratore di Silvio Berlulsconi sin dagli anni '70 in Fininvest e nella fondazione di Forza Italia e del Popolo delle Libertà), violazioni della legge antitrust, corruzione e frodi fiscali. Tutto ciò è

distruggono la Democrazia e il senso dello Stato servirebbe, da solo, come biglietto aereo per volare via, lontano dall'Italia. Ma noi sappiamo che non prenderemo questo biglietto. Sappiamo che la maggior parte di queste pessime rappresentazioni del nostro Paese, la maggior parte delle storie che

abbiamo nemmeno vissute in prima persona. Essere nati negli anni '80 è un peso ulteriore sulle spalle come cittadino e come giovane, da questo punto di vista. Essere non più che trentenni,

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l'hanno caratterizzato in negativo e di cui ancora oggi portiamo tutti noi il peso sulle spalle, non le

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veramente disgustoso, sentire tutti insieme, uno dopo l'altro questi atti che macchiano, offendono e


nell'Italia di oggi, vuol dire essere doppiamente vessati per il solo fatto di venire etichettati con quei tre arcinoti termini con cui ci bollano all'estero, quali piazza mafia e mandolino. Noi giovani di questa generazione siamo doppiamente colpiti da tutto ciò perché non abbiamo e non possiamo avere alcuna responsabilità per tutto quanto accaduto. Né nel bene né nel male, perché se certi fatti ed eventi di pessima memoria sono avvenuti non è stato certo per errori nostri, ma al massimo dei nostri genitori e nonni o di coloro che sono poi diventati non-più-giovani con soli dieci anni in più di noi; ma anche perché il tempo non ci ha permesso neppure di porre un nostro freno ad una certa deriva, in quanto eravamo comunque troppo piccoli, troppo inesperti, troppo presi giustamente dalla giovinezza e dall'adolescenza che, ingenua ma già ferita, si consumava per noi durante parte di quegli anni infuocati ed infami. Chi, come noi, aveva solo pochi anni quando risuonavano i rumori atroci delle bombe di mafia, da Capaci ai Georgofili passando per Via D'Amelio, sa bene che cosa significa non esserci stati, non aver potuto esserci. Chi, come noi, ha saputo solo diversi anni dopo che in quei momenti, mentre noi piagnucolavamo nelle culle o nei passeggini, i nostri genitori piangevano come italiani dinanzi alle barbare uccisioni a cavallo tra anni '80 e '90, sa benissimo che cosa significa essere figli nati orfani di un tempo che ha seminato panico e distruzione nel nostro Paese. Sappiamo anche che i politici dovrebbero governare con impegno, trasparenza e senso dello Stato, oltre che con un pizzico di altruismo, non molto, giusto quel tanto che basta per non pensare solo ai propri interessi; dovrebbero rendere, o almeno dimostrare di provare a rendere, migliore questo Paese. Oltretutto, spostando il ragionamento su un piano un po' più gretto rispetto al grande e raro valore del “Senso dello Stato”, chi sta seduto su quelle poltrone che ti permettono di prendere, proporre o vagliare decisioni importanti per il presente ed il futuro dell'Italia, se non hanno quelle qualità che ho elencato sopra, almeno dimostrassero di avere un briciolo di lealtà. Si, di lealtà verso quelle persone che scegliendo il tuo nome o il tuo simbolo sulla scheda elettorale credono in te, pensano che le tue proposte siano le migliori, e sono disposte, pagando le tasse da te imposte, a pagarti uno stipendio che, per dirlo con parole misurate, contribuisce a mantenere il tuo standard di vita su livelli piuttosto alti rispetto alla media nazionale. Infatti siamo convinti che non esistono persone che andando a votare mettono volutamente la croce sul nome di colui il quale, già sanno, li

che, di tutte le qualità elencate nelle righe precedenti, ci siano politici che non ne possiedono nemmeno una, anche solo per un discorso di calcolo delle probabilità. Tra i vari sentimenti che ci investono pensando alla situazione attuale del nostro Paese, uno che affiora più prepotentemente

fenomeni e comportamenti che certe volte ci portano, nostro malgrado, a fare un tipo di ragionamento che non sopportiamo: la generalizzazione, ma spesso siamo talmente sfiduciati che

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degli altri è la tristezza. Tristezza per una situazione degradata, tristezza perché assistiamo a

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“fregherà” facendo i propri interessi e infischiandosene dell'intero Paese. Non possiamo credere


non abbiamo la voglia di spezzare l'ingannevole comodità intellettuale generata dal generalizzare. Ci intristiamo sempre più spesso leggendo i giornali e, parlando fra noi, diciamo: «E’ mai possibile che in un paese civile governino certe persone?!». Si tratta di capire perché ci troviamo di fronte ad una situazione simile: o non siamo un paese civile, oppure c'è qualcosa di sbagliato, qualcosa di profondamente marcio in tutto il sistema. Poi però pensiamo che certi soggetti stanno dove stanno perché qualcuno li ha votati e, in più, ci rendiamo conto che i cittadini che si ribellano a questo stato di cose disastroso sono veramente pochi rispetto a quelli scontenti, che si lamentano o che dovrebbero lamentarsi. Quando entriamo in questo vortice di idee, la tristezza si tramuta in rabbia. Rabbia perché amiamo questo Paese e quindi non sopportiamo l'idea di assistere al peggioramento costante della situazione sociale, politica, economica e culturale che ci circonda. All'interno della società, che viene governata dalla classe politica, il nostro ruolo, il nostro posto, la categoria alla quale apparteniamo quale è? Beh, la risposta è semplice: facciamo parte dei giovani. Noi siamo il futuro, questa è una verità assoluta, una verità resa certa dalle leggi biologiche. Noi siamo quelli che spesso si sentono dire “Ah, meno male che ci sono i giovani”, “Ah, per fortuna ci siete voi e tutto sarà in mano vostra”, “Ah, che belli i giovani, sono la nostra speranza” e altre frasi inutili di questo tipo, spesso pronunciate ipocritamente. A parole sono tutti molto bravi, ma la verità è che per noi giovani c'è sempre meno spazio e nessuno è disposto a farsi da parte o ad aiutarci seriamente, per darci la nostra possibilità e porre delle solide basi per il futuro che non è solo nostro, è di tutti. Uno specchio fedele del poco spazio che viene lasciato a noi giovani, dell'immobilismo cronico di cui l'Italia, purtroppo, è un esempio a livello europeo, deriva proprio dal mondo politico. Secondo un rapporto stilato nel 2008 dalla Luiss, il 60% dei politici italiani ha più di settant'anni, è un dato sconfortante se lo paragoniamo al fatto che, per esempio, Barack Obama è stato eletto presidente a quarantasette anni, David Cameron a quarantaquattro anni come Josè Zapatero mentre Silvio Berlusconi, quando ha vinto le politiche nel 2008 per la terza volta, aveva ben settantadue anni. È sconfortante, non esiste il minimo ricambio generazionale. Sembra quasi che vogliano dirci che per un giovane è inutile sperare che sia arrivato il suo turno, sembra che vogliano farci capire che, chi ha avuto il proprio spazio e la propria occasione nella vita, ora, nonostante la grande quantità di dire: “Basta, ho fatto ciò che dovevo e che volevo, ora tocca a qualcun altro”. I politici, qualsiasi età essi abbiano, vengono eletti per assolvere un compito: approvare le leggi, leggi che, obbligatoriamente ed inevitabilmente, devono essere conformi a ciò che è stabilito dalla

Ufficiale nel 1947, sono la base sulla quale si regge la nostra Repubblica Italiana e sono incontrovertibili. Gli articoli sono 139, occupano più o meno una trentina di fogli A4, non ci vuole

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Costituzione Italiana. Che gli piaccia o no, questa serie di norme, pubblicate nella Gazzetta

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rughe, non si accontenta, vuole ancora di più fino all'ultimo, e non si fa da parte perché incapace di


molto tempo per leggerli e ci vuole ancora meno tempo per arrivare alla prima pagina ed imbattersi all'Articolo 3, ma sembra che qualcuno non abbia compiuto nemmeno questo minimo sforzo. “La legge è uguale per tutti”. Per tutti, non c'è altro da aggiungere. Il concetto è chiaro, ma, purtroppo, a quanto pare, c'è chi vuole sfuggire a questa regola. Sicuramente sono in molti ad avere questo desiderio, il problema è che qualcuno ci sta riuscendo. Andando ad esaminare il recente operato di questa anziana classe politica balza agli occhi una massa cospicua, per non dire esagerata, di leggi dello stesso tipo: parliamo di quelle leggi che non servono ad aiutare la comunità, ma vanno incontro ad un solo cittadino, sto parlando delle leggi ad personam. Questa categoria di leggi, inutili per il Paese, ma utili per pochi eletti, o amici di eletti, vengono citate e nominate spesso dai giornali, ma forse non ci si rende conto di quante veramente siano. I numeri parlano chiaro e sono sconfortanti. In 15 anni, più o meno da quando è avvenuta la scesa in campo del “Cavaliere” Silvio Berlusconi, le leggi create su misura per lui ed approvate definitivamente sono state trentasei. È incredibile, trentasei. Negli ultimi quindici anni, Berlusconi ha governato otto anni, quindi, per lui e solo per lui, sono state messe a punto e discusse circa cinque leggi all'anno. Per non rendere ancora più deprimente questa situazione non contiamo altre undici proposte di legge, sempre ad Berlusconem, depositate in Parlamento o non riuscite. Purtroppo, i vari governi che si sono succeduti in questi ultimi quindici anni, non si sono limitati ad un totale di cinquantadue leggi ad Berlusconem: centocinque sono state le leggi varate per categorie ristrette e privilegiate di persone. Un numero incredibile e lo diventa ancor di più se andando a fare una semplice somma con quelle elencate precedentemente, il risultato è 157, che, diviso per i quindici anni di governo, mostra un Parlamento impegnato a discutere e approvare più di dieci leggi all'anno riservate a pochissime persone. È triste doverlo ammettere ma non è finita qui, perché, sempre negli ultimi quindici anni sono state varate altre quindici leggi ad personam, ma, questa volta, non per il Cavaliere. Parliamo di cinque leggi riservate a Marcello Dell'Utri, uno dei bracci destri di Berlusconi con il quale ha fondato Forza Italia. Una per cercare di far avere la revisione del processo ad Adriano Sofri. Tre per fare in modo che Piero Grasso potesse andare alla Procura antimafia al posto di Gian Carlo Caselli. Due per salvare il gruppetto dei cosiddetti “Spioni Telecom”. Quattro per proteggere Nicolò Pollari,

ad personas a quelle precedentemente elencate si arriva alla cifra spaventosa di 172 che, distribuite negli ultimi quindici anni di storia italiana, diventano più di undici all'anno. Tutte queste leggi per salvare una persona sola, tutto questo tempo sprecato per approvare delle norme che sono

privi di qualsiasi etica e moralità che pensano solo ad ingrandire il proprio orticello. E per i giovani? Nulla di tutto questo. Per i giovani nessuno sforzo eccessivo, nessun aiuto concreto da parte di

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probabilmente contrarie alla Costituzione, tutta questa energia per favorire personaggi miserabili,

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direttore del SISMI dal 15 Ottobre 2001 al 20 Novembre 2006. Se si sommano anche queste leggi


quelli che governano lo Stato. Sostanzialmente ce la dobbiamo cavare da soli, passando per un sistema scolastico, che dovrebbe essere il nostro trampolino di lancio verso il mondo del lavoro, che, in ogni sua sfera, fa acqua da tutte le parti; che, di legislatura in legislatura, non fa che peggiorare. L'Università italiana, in Europa, è sempre di più il fanalino di coda a causa dell'incapacità cronica dei Ministri della Pubblica Istruzione. Per i giovani non si nota nessuno sforzo da parte della classe politica, qualche sporadica azione di facciata non serve a risolvere la situazione. Per capire quanto sia scarso l'impegno politico verso i giovani basti pensare che il Ministero della Gioventù, che dovrebbe indirizzare gli sforzi politici ed economici dello Stato per andare incontro alle generazioni future, è stato creato solo nel 2006. Solo quattro anni fa, il 18 maggio, nel secondo Governo Prodi, è stato creato il Dipartimento per le Politiche Giovanili e le Attività Sportive. A capo c'era Giovanna Melandri, ministro senza portafoglio. Nel 2008 il nuovo Governo Berlusconi ha cambiato il nome del ministero in Dipartimento della Gioventù e ha nominato ministro, sempre senza portafoglio, Giorgia Meloni. Se paragoniamo la nascita dello stesso tipo di ministero in altri paesi Europei il risultato è sconfortante. Per esempio in Francia il “Ministre de la Jeunesse et et des Sports” è nato il 22 Gennaio 1947 e in Germania il “Bundesministerium für Familien und Jugendfragen” è nato nel 1957. Sembra che le iniziative per aiutare i giovani siano delle incombenze da risolvere quando si trova un buco di tempo. Questa è l'impressione che la politica italiana regala ad una categoria in difficoltà, una categoria composta da persone che spesso vengono etichettate come perditempo, mammoni, fumaspinelli o nullafacenti. Sembra che, come si suol dire, ci “pisciano” addosso e vogliono farci credere che stia piovendo. Non è possibile che noi giovani dobbiamo aspettare anni che venga proposto un pacchetto di iniziative da quello che dovrebbe essere il nostro ministero di riferimento, mentre per una persona sola, in quindici anni, sono state ideate cinquantadue leggi. Questa situazione vergognosa rappresenta da sola un altro invitante biglietto aereo per scappare lontano dall'Italia. Ma ancora una volta, nonostante la rabbia per lo schifo che vediamo, decidiamo ancora di non andare al check-in, di non salire su quell'aereo: vogliamo restare, vogliamo farcela nonostante l'aiuto nei nostri confronti, da parte del mondo politico, sia praticamente assente. Si parla tanto di quello che

sembrano avere le idee chiare, ma la situazione non cambia mai, ai nostri occhi il futuro rimane incerto. La situazione più difficile di tutte si presenta davanti ai ragazzi del Sud. La macchina scolastica non sembra completamente efficiente, lo si può intuire dal livello di analfabetismo che

Lotta contro l'Analfabetismo (UNLA), nel 2005 il 12% della popolazione italiana, circa 6 milioni, era totalmente analfabeta, mentre i laureati sono solo il 7,5%. Confrontando questi dati con il resto

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rimane stazionario da almeno dieci anni. Secondo i dati pubblicati dall'Unione Nazionale per la

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bisognerebbe fare per i giovani, per l'istruzione e per l'introduzione nel mondo del lavoro, tutti


d'Europa è facile notare che siamo uno dei paesi con il tasso più basso d'istruzione. Se invece andiamo a considerare anche quelli che possiedono solo la licenza elementare, considerati appena alfabetizzati, scopriamo che arriviamo al 36,52% della popolazione. Considerando la situazione regione per regione, scopriamo come il Sud Italia ha i valori percentuali di analfabetismo più alti del Paese. Al Nord le percentuali oscillano fra il 2 e il 4%, al Centro Italia troviamo valori inferiori al 10% mentre in Sicilia si registra l'11,3%, in Molise il 12,2% e in Calabria il 13,2%; il record è detenuto dalla Basilicata con il 13,8%. Interessante notare come, alcune regioni del Sud, oltre ad avere un alto tasso di analfabeti, hanno anche un alto tasso di laureati. Per esempio la Calabria, e proprio la Basilicata, hanno, percentualmente, più laureati di Piemonte e Lombardia. Questo dato rende evidente un problema: al Sud lo Stato si presta male al suo rapporto con i cittadini. Le istituzioni discutono sul ponte di Messina, ma non pensano a migliorare, per esempio, le strutture universitarie in modo da evitare che i ragazzi del Sud diplomati, che desiderano proseguire gli studi, siano costretti ad emigrare verso il Nord abbandonando la propria terra natale, nella quale difficilmente torneranno visto che l'offerta di lavoro è spesso qualitativamente e quantitativamente scarsa. Al Sud l'unica Università conosciuta e competitiva al livello Europeo è la Federico II di Napoli. Questi dati non sono segreti, eppure le alte sfere sembrano non vederli. Per i giovani, dunque, ancora nessuna mossa da parte della politica, nonostante, soprattutto al Sud, la situazione si presenti più difficile. Più difficile anche perché i ragazzi che vivono nelle zone controllate dalla mafia si trovano a vivere quotidianamente a contatto con delle realtà criminali organizzate. Un maggior sostegno da parte delle istituzioni sarebbe sicuramente utile per allontanare i giovani dalla criminalità organizzata e poterla poi contrastare. Secondo uno studio dell'ANCI pubblicato nel 2009, i giovani hanno una totale sfiducia nei confronti delle istituzioni, tant'è che, se interrogati sulla crisi economica, credono che le soluzioni non stiano arrivando dagli addetti ai lavori, ma sono i cittadini, da soli, che hanno la possibilità di uscirne con le proprie forze. Sempre lo stesso studio dimostra come i giovani italiani siano preoccupati “rispetto al futuro del Paese, specie per quel che concerne il degrado ambientale, l'inadeguatezza di politici, imprenditori e manager, la corruzione diffusa, la presenza di corporazioni che frenano lo sviluppo. Essi puntano ad una maggiore

chiedere una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita pubblica dimostra come, non avendo fiducia nella classe politica, che infatti dovrebbe essere rinnovata, sono i giovani a doversi impegnare per cambiare la situazione, oltre a dover subire la mancanza dell'appoggio che ci

un sentimento di rifiuto verso la politica e le istituzioni che spesso vengono letteralmente disprezzate. La sfiducia che i politici si sono guadagnati è totale, soprattutto nelle zone del Sud

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servirebbe, dobbiamo anche impegnarci perché la situazione cambi. Si sta sviluppando tra i giovani

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partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e a un ricambio della classe politica”. Il fatto di


Italia dove spesso lo Stato sembra inadeguato o, peggio ancora, poco interessato a contrastare la Mafia. Sempre secondo lo studio dell'ANCI, “per il 74% dei giovani le politiche giovanili realizzate in Italia, sono inadeguate”. Ovviamente, i più scontenti sono quelli del Sud e delle Isole: qui i giovani critici verso le mosse del governo raggiungono l'80%. Su questa insoddisfazione pesa moltissimo la problematica delle possibilità lavorative. Al Nord la difficoltà nel trovare lavoro è denunciata da poco più della metà dei giovani, mentre al Sud sfioriamo il 91% di scontenti. È una percentuale altissima che dovrebbe spingere la politica ad intervenire, o almeno a dimostrare un sincero interessamento. Ma il problema è che l'atteggiamento passivo, per non dire menefreghista, della classe politica verso le problematiche legate al futuro dei giovani, e quindi dell'Italia, ha creato un disamore ed un disinteresse dei ragazzi nei confronti della politica, che in origine dovrebbe essere quella via attraverso la quale si può creare un cambiamento della società. Circa il 50% dei giovani è disinteressato, parla poco o quasi per niente di politica. Questa scarsa mobilitazione, purtroppo, rallenta le possibilità di generare un cambiamento, di sensibilizzare una classe politica che ha quasi completamente sfibrato la speranza dei giovani Italiani. Questo sarebbe un altro buon motivo per prendere quel famoso biglietto aereo, ma ancora una volta non accettiamo, ancora una volta restiamo con i piedi, con la mente e con il cuore in Italia. Restiamo perché vogliamo che le cose cambino, perché se ce ne andassimo e il miglioramento avvenisse, sentiremmo di aver fallito. Preferiamo provarci fino all'ultimo ed uscire sconfitti, ma a testa alta, piuttosto che andarcene subito e senza lottare. Vorremmo dei figli italiani che vivono in un Paese sano e magari una sera, mentre siamo a cena con loro, ci chiedono di raccontargli di quel periodo di cambiamento che abbiamo vissuto da giovane, proprio come fanno i ragazzi della nostra generazione quando chiedono del '68 ai genitori. Vorremmo dei nipoti che vivono in un Paese ancora più sano, che si intristiranno quando il nonno inizierà a fare dei racconti strampalati sulla sua giovinezza, che a loro sembrerà un tempo antichissimo, e parlerà di quando non c'era altro che precariato e disoccupazione, della crisi economica, delle leggi ad personam. E' troppo sognare un futuro simile? In molti siamo disposti, per fortuna dell'Italia, a restare ed impegnarci per far sì che le cose cambino. Non prendiamo quel biglietto aereo. Forse veramente, nonostante le difficoltà che ci troviamo davanti, nonostante il Capitolo - Pagina

mondo politico non ci aiuti, noi giovani siamo il futuro di questo Paese.

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Capitolo 7 – Web, partecipiamo al cambiamento

Se i giovani sono il futuro, il futuro della nostra società è sicuramente imbevuto di nuove tecnologie, immerso in esse e nella loro conoscenza per lo sfruttamento pratico, come volano della crescita della nostra dimensione di umanità. Giovani e nuove tecnologie formano un binomio oggi imprescindibile di come va interpretata ogni mossa della nostra società, nei momenti di sviluppo come in quelli di crisi. E tra le nuove tecnologie, la spiaggia cui è più opportuno approdare se di questo mondo ci si vuole capire qualcosa, è quella del Web 2.0, la Rete Internet proiettata in una dimensione di personalizzazione e partecipazione diretta degli utenti/consumatori che si fanno a loro volta produttori. Se ci sforziamo di ricordarci com’era la nostra vita prima di Facebook magari non ce lo ricordiamo nemmeno; o prima di Msn, Twitter e così via. Questo perché oramai i cosiddetti “social media” sono talmente sociali che sono diventati parte integrante della nostra vita. Non passa attimo che un’idea che ci passa per la testa, una citazione, un progetto, non vengano descritti sui nostri profili digitali. Ed è proprio questo uno dei temi scottanti che negli ultimi anni, proprio con il boom delle piattaforme sociali, risalta negli ambienti accademici e di ricerca: l’identità digitale. Non sono pochi i casi di gente comune che ha perso il lavoro per una battuta poco azzeccata lasciata qua e là sul web, o per uno sfogo contro colleghi di lavoro. Tutto questo lascia intendere una sola cosa, e cioè che internet è realmente diventato (ma forse lo era già da prima che ce ne accorgessimo) l’agorà per eccellenza, il vero e proprio luogo dove la democrazia, con le dovute eccezioni, regna sovrana. Non è un mistero che oggi buona parte del lavoro si ricerchi e si trovi su internet, come non è un mistero che molte aziende, nel momento in cui sorge la necessità di nuove assunzioni, commissionino indagini sui propri candidati analizzando la loro identità digitale. Basta poco dunque a distruggere anni di carriera, di studio e di lavoro. Basta un click di troppo, o quasi. L’interesse sulle metodologie utilizzate per la costruzione di un sé alternativo è alla base di molti studi realizzati già alla fine degli anni novanta e che vedono, quasi tutti, un adattamento delle

digitale. «Chi usa i sociali media 2.0 deve imparare a darsi una strategia, deve costruire la propria “identità professionale online” – spiega Davide Bennato, docente di Sociologia dell’innovazione all’università di Catania. Che vuol dire? Che la Rete veicola un’immagine di noi, fatta sia di ciò che ne aveva uno dava un’idea immediata di sé e dei propri interessi, in modo esplicito. Chi non ne aveva uno non era in rete. Oggi invece con i social network ognuno racconta molte cose di sé in siti

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mettiamo esplicitamente, sia di ciò che diciamo in rete nei social media. Prima c’erano i blog. Chi

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teoria di Goffman (1990) sulla costruzione del sé nella vita sociale, declinate alla vita sociale


e in momenti diversi. Parla della propria vita privata. E’ nato insomma un web delle conversazioni e per questo nascono motori di ricerca come, ad esempio, Social Mention, che è una piattaforma dove è possibile monitorare la reputazione di una persona sul web. E’ inevitabile che in questo contesto socio-culturale al massimo grado di eterogeneità dove gli utenti di internet sono tutti potenziali clienti di un qualcosa, anche gli organi di informazione abbiano sentito la necessità di adeguarsi, non solo nei metodi di presentazione ma anche nei linguaggi utilizzati così da rendersi appetibili alle nuove generazioni di internauti. Ma la più grande novità della nuova era di internet, la cosiddetta 2.0, è quella di porre l’interesse generato da internet non sulla lettura di contenuti da parte dei singoli individui, quanto piuttosto sulla produzione, il cosiddetto consumatore che si trasforma in produttore dando vita alla figura del “prosumer”, termine coniato nel 1980 dal futurologo Alvin Toffler. Questa svolta verso un consumatore “consapevole” viene concepita dalle aziende italiane come una necessità fondamentale, quella di virare verso nuovi modelli di business che mettano oggi, invece che l’utente finale al centro della catena produttiva, l’utente digitale. E' proprio questo virare che può rappresentare per il Sud, un modello di crescita efficiente, non solo per superare la crisi (che è ancora in atto), ma per porsi ai livelli innovativi di altre aziende europee ed americane. Non stiamo parlando di profezie o di un futuro lontanissimo. E’ infatti del 2010 una ricerca

su

100

aziende

italiane condotta

da Paola

Dubini

e

Martino

Garavaglia

dell’Osservatorio business tv dell’Università Bocconi che ci dice come l’utilizzo di blog, community, web tv, web radio e social network da parte delle imprese italiane è in crescita. Lo studio ha valutato la presenza in rete delle aziende in base a due dimensioni: la ricchezza del contenuto e l’intensità della relazione costruita con il cliente. Le aziende vivono i nuovi media come un canale supplementare per informare il pubblico, in linea con la strategia complessiva di comunicazione. La propensione a utilizzare il web 2.0 è bassa, così come lo sforzo di fornire un servizio informativo sofisticato attraverso il sito. La comunicazione digitale gestita dall’azienda avviene prevalentemente sul sito istituzionale. Il 23% del campione analizzato si sforza invece di utilizzare il web per fornire un servizio all’utente, che seppure spesso moderatamente coinvolto è invitato a dire la sua. I contenuti prodotti dall’azienda sono relativamente pochi e la strategia all’altra) attorno al marchio o ai marchi d’impresa. Al contrario, il 20% del campione caratterizza la propria presenza sul web e sui social media per un forte investimento nei contenuti, arrivando a fornire veri e propri servizi informativi ai propri utenti che possono interagire con l’azienda. Queste

al marchio. Infine, il 22% delle aziende del campione ha posto in atto strategie di comunicazione sul web caratterizzate per alta intensità di relazione e ricchezza di contenuti. Si tratta di imprese che da

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aziende si caratterizzano per brand molto forti, e tendono a centralizzare la comunicazione intorno

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editoriale seguita privilegia l’uso di contenuti liquidi (facilmente trasferibili da una piattaforma


più tempo investono in rete, con una forte identità di marchio, ma che accettano il rischio di utilizzare i social media come ambito specifico di comunicazione e terreno di sperimentazione. Spesso l’utilizzo del web da parte di queste aziende non riguarda solo l’attività di comunicazione ma coinvolge i processi aziendali. Tradotto in termini più semplici, la ricerca (ma ce ne sono di altrettanto autorevoli), ci dice che man mano che le piattaforme di social media si affermano come canale di attrazione di numeri molto elevati di utenti, le imprese sviluppano una presenza in rete dei propri marchi, si creano le precondizioni per lo sviluppo di strategie di comunicazione mirate che non si limitino a considerare il web come un ulteriore canale informativo e promozionale, ma un ambiente che permetta di creare valore a partire da un coinvolgimento diverso degli utenti. Ma perché le aziende, soprattutto al Sud, dovrebbero investire su nuove strategie di comunicazione? In Italia il web conta oggi 25 milioni di navigatori. Navigatori vuol dire potenziali clienti. Sarebbe un grave errore quindi escludere questi potenziali clienti, di cui una gran fetta utilizza internet in modo esclusivo rispetto ad altri media, come target di riferimento. Gli strumenti offerti dalla nuova era di internet danno opportunità soprattutto alle piccole e medie imprese che da sole difficilmente riuscirebbero a farsi largo tra i giganti di ogni settore produttivo. Non tutti sanno che in Italia, a dispetto delle continue critiche, i primi passi verso modelli imprenditoriali innovativi sono già realtà. Il “Decreto Incentivi” convertito nella legge 33 del 9 aprile 2009, ha introdotto in Italia la disciplina del cosiddetto “contratto di rete”. Le PMI che scelgono di partecipare ad una “rete” possono dar vita a collaborazioni tecnologiche e commerciali con aziende della stessa filiera produttiva, acquisendo maggiore forza contrattuale, agevolazioni amministrative e finanziarie per la ricerca e lo sviluppo. Tutto questo per un motivo molto semplice: per raggiungere modelli innovativi di business ed affari le imprese hanno bisogno di stare insieme. Come ha spiegato in diversi contesti Marco De Candia, Presidente Assoservice Società di Servizi di Confindustria Bari e BT: «Una rete può essere formalizzata attraverso un consorzio, un’ATI o un contratto di rete, ma anche sotto altre forme riconosciute come i distretti. Sull’aspetto sostanziale è importante sottolineare che la rete è un modo di organizzare comportamenti economici e i sistemi produttivi legati ad essi; tuttavia si tratta soprattutto di una struttura collaborativa permanente. Il contratto di rappresentanza unitaria verso l’esterno. Si arriva al contratto di rete dopo un iter di reciproca conoscenza che ha creato affidabilità e complementarietà». Molti sono i casi nei quali importanti aziende nazionali non hanno fatto i conti con il web e con l’avvento dei social network. Oggi le

Questo impatto è stato devastante per alcune case di produzione nostrane. Molte aziende infatti non hanno tenuto conto dei modelli di interazione che i “nuovi clienti” internauti hanno saputo stabilire

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notizie viaggiano in rete almeno 10 volte più veloci di quanto lo facciano sui media tradizionali.

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rete risponde a esigenze di condivisione di scopo, fondo patrimoniale, governance decisionale,


tra di loro. Oggi prima di andare in vacanza in una nuova località, prima di fare un master, prima di scegliere il regalo di Natale, andiamo sul web a controllare quello che fa paura alle aziende: le opinioni. Il passaparola sul web è diventato una catena talmente forte da indurre molti dinosauri aziendali a cambiare le regole di ideazione e produzione per il lancio dei nuovi prodotti sul mercato, perché diventano preponderanti le indicazioni che arrivano, sia nella fase di sviluppo e ben prima dell'effettivo rilascio del prodotto stesso, dai consumatori, attraverso i canali telematici. I casi della Fiat 500 o di alcuni modelli di scarpe Nike, i cui colori sono stati rivisti in corso d'opera sono solo gli esempi più noti. E’ per questo che le piccole e medie imprese che si aggregano in rete hanno la possibilità di ascoltare le voci dal basso, grazie alla flessibilità e alla creatività. Flessibilità come capacità di non nascondersi in una nicchia ma di avere soluzioni replicabili, lavorare sui volumi, avere costi più bassi, assumendo persone per la loro capacità di adattarsi alle nuove esigenze del mercato più che al mantenimento di vecchi modelli, seppur efficaci. Creatività in quanto deve usare le capacità personali degli imprenditori per non limitare il proprio potenziale, deve saper creare significati, identità ed immaginare cose nuove. La voglia e la capacità di condividere la conoscenza e di fidarsi degli altri rivestono un ruolo cruciale per il successo di una rete. E’ qui che si gioca la partita importante. Un gruppo coeso può così giocare alla pari sui mercati con grandi aziende. Molte aziende, infatti, si sono adeguate alle nuove strutture produttive cercando, a volte esse stesse, delle nuove figure professionali prima inesistenti. Anche in questo caso il Sud è territorio di ricerca e di studio già dal 2008. “Mercati emergenti per i contenuti digitali del web 2.0” è infatti il titolo di un workshop organizzato da Sardegna Ricerche focalizzato sull’aspetto delle emergenti professionisti 2.0, ovvero di come cambiano le figure professionali in quanto a competenze, mercato, clienti, con l’avvento dei social media. Il risultato ultimo è che con l’avvento della tecnologia e dei nuovi sistemi di comunicazione interaziendali, molte competenze prima sconosciute si sono insediate nella vita lavorativa di milioni di persone, cambiando così anche il modo di relazionarsi con il mondo esterno. E’ inevitabile quindi che, ad esempio, il giornalista moderno debba saper usare i più svariati sistemi di comunicazione digitale per poter comunicare in ogni istante con la propria redazione, così come è evidente che, secondo precisi modelli di marketing, la strategia aziendali di

conseguenze che esso comporta, in quanto a competenze non sempre possedute. Fortunatamente molto spesso sono le grandi aziende che fanno da volano per la diffusione delle nuove conoscenze e possibilità tecnologiche oggi a disposizione. In prima fila Telecom Italia con il suo “Working dell’imprenditoria 2.0 campana. Il resoconto è che in Campania sussiste la classica dicotomia della realtà italiana: moltissimi giovani che hanno buone idee si scontrano con la paura dei manager delle

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Capital” che, nella tappa napoletana di fine 2009, si è concentrata proprio con la condizione

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qualsiasi impresa che voglia aumentare i propri introiti, debba “declinarsi” sul web, con le


aziende che ancora vedono la Rete come un pericolo. Si tratta di una situazione difficilmente superabile perché la maggior parte delle aziende partenopee sono a carattere familiare: c’è quasi sempre una sola persona a decidere e, se questa non è particolarmente illuminata, difficilmente viene imboccata la strada dell’innovazione. Tra le startup più fortunate nate in suolo partenopeo troviamo Nascar, web agency ben nota a livello italiano, cresciuta a tal punto da uscire dalla fase di startup, per poi rientrarvi con un nuovo prodotto, il social network CiaoPeople. Uno dei campi di maggior interesse, dove più facilmente si può costruire il connubio tra impresa e social networking è senz’altro quello del turismo. Un esempio è “Angeli per viaggiatori”, una community per mettere in contatto chi viaggia con gli abitanti dei luoghi visitati. Il mondo imprenditoriale è quindi in fermento, e non solo presso quelle strutture che possono permettersi ingenti costi di ricerca e sviluppo. Come dimostrano i casi precedenti, il binomio idee-contesto permette una realizzazione pressoché immediata dei progetti in cantiere, possibile dai costi di produzione minori in ambiente digitale. Questo aspetto rappresenta però un boomerang non di poco conto per le nuove figure in essere. Molte aziende infatti, volendo immettersi nel mercato con nuovi servizi di customer satisfaction (blog, chat, ecc..), commettono l’errore di affidare tali mansioni a chi già svolge altro all’interno dell’azienda. Questo è un errore comune, purtroppo, perché se da un lato rappresenta la reale volontà di spingersi oltre i confini imprenditoriali oramai valicabili, dall’altro rappresenta un forte limite alla reale convinzione di arrivare dove altri ancora non sono arrivati. Se pensiamo ad un webmaster di un’azienda che, all’interno dell’orario di lavoro, svolge le sue normali funzioni di monitoraggio e controllo dei sistemi informatici, ma ad un certo punto della vita aziendale gli viene affidato il compito di occuparsi anche della reputazione digitale dell’azienda e del lancio dei servizi sui social network, come la prenderà? Dedicherà al nuovo compito la stessa attenzione posta a quello principale o si stancherà presto facendo solo lo stretto necessario, ad esempio lasciando un tweet ogni tanto e aggiornando lo status su Facebook solo quando si ricorderà di aver creato un profilo aziendale su Facebook? Sembrerà strano ma molte aziende oggi hanno un webmaster che è anche un “social manager”; non chiediamoci quindi come mai quest’ultime non utilizzano i nuovi canali adeguatamente o affermano che il web 2.0 non è pronto per le aziende. Casomai sono le ritagliarsi una fetta importante nelle strategie di marketing aziendale. “Social Media Manager” e “Community Manager” sono due delle figure più richieste al momento e che, come molti ignorano, richiedono una struttura di base ben radicata in ambito digitale e dei processi informativi. Questa

particolare per la gestione della conoscenza e dei meccanismi di apprendimento. Si aprono nuove possibilità di sviluppo organizzativo che, per migliorare le performance, per diffondere

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trasformazione apre grandi spazi di innovazione per tutti i processi strategici aziendali, e in

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aziende a non essere pronte per il web sociale. Da qui la nascita delle nuove figure in grado di


l’apprendimento, per sostenere l’innovazione, per costruire appartenenza e motivazione, mettono in campo modalità nuove di intervento: informali, guidate dal basso, spontanee, contestuali. Nelle reti di vendita, nei servizi di assistenza post vendita, nella produzione, nel marketing e in tutte le aree aziendali, la dimensione informale dell’organizzazione dimostra un ruolo crescente nella costruzione del risultato; di questa il management comincia ad occuparsi, rivedendo profondamente i modelli di leadership e di governo. L’impulso è dato, oltre che dalla velocità del cambiamento e dal valore crescente del capitale umano nella competizione, dal fatto che i mercati e i contesti in cui le organizzazioni operano stanno funzionando come delle conversazioni e delle community di clienti. E tutto questo pone nuove sfide alla gestione dei saperi aziendali, ai sistemi manageriali, al marketing, alla formazione. Giusto per fare chiarezza distinguiamo la figura del Social Media Manager da quella del Community Manager per alcuni tratti fondamentali. Il Social Media Manager è di norma alle dipendenze dell’ufficio marketing e ha l’obiettivo di studiare, pianificare e controllare la presenza della azienda sui media sociali. E’ una figura formata in marketing la quale conosce ed ha esperienze nel marketing online ed in particolar modo nelle tecniche di marketing sui media sociali. Il Community Manager è alle dipendenze del Social Media Manager o direttamente del marketing aziendale e rappresenta la voce e il moderatore dell’azienda nei media sociali. Stimola e modera le discussioni tra i partecipanti ai gruppi sociali sui network digitali dove è presente l’azienda. La formazione del Community Manager è di tipo sociale/psicologico, con orientamento alla relazione con i clienti. Si intuisce quindi come la presenza in una azienda di servizi legati ai media sociali deve essere opportunamente pianificata e studiata nei minimi particolari, al fine di evitare l’effetto contrario, cioè lo stimolare una comunicazione di immagine negativa nei confronti del brand o del singolo prodotto. Pertanto ogni azienda che vuole intraprendere la strada del marketing nei media sociali deve prevedere l’inserimento in organico di un buon e qualificato Social Media Manager. In alternativa, e soprattutto per realtà medio piccole presenti in molte zone del Sud, dove i social media rappresentano un canale di comunicazione inesplorato, ci si può rivolgere a consulenti esterni o a web agency specializzate nei media sociali. La modalità migliore resta in ogni caso la prima, e cioè avere un esperto di media sociali presenza e un feedback continuo dell’azienda sui network di riferimento. La figura professionale diventa così la voce dell’azienda e pertanto, oltre ad essere in diretto contatto con le risorse di comunicazione interne, deve essere formato a 360° sul brand e sui prodotti/servizi offerti. Non

digitali, si rischierebbe in questo modo di utilizzare metodologie e linguaggi completamente diversi tra di loro. In conclusione, attenzione a non assumere o ingaggiare Community Manager pensando

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basterebbe nemmeno “convertire” l’ufficio stampa classico in un ufficio stampa votato ai media

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interno all’azienda, anche perché i risultati non sono di certo imminenti, ma richiedono una


al Social Media Manager. Quest’ultimo in fase di start-up può compiere attività di Community Management, mentre non è possibile la situazione inversa per mancanza di competenze. Non è raro incontrare, tra i reparti IT e gli altri settori aziendali, difficoltà di comprensione delle reciproche esigenze. Questa criticità oggi è accentuata notevolmente dallo sviluppo dei social media e degli altri servizi tipici del web 2.0 che faticano ancora ad entrare in azienda. L’innovatore aziendale deve saper coinvolgere tutti i reparti produttivi: dall’IT alle risorse umane, dal marketing al settore legale, ed è lui che può ricoprire il ruolo di ponte tra le diverse istanze espresse in azienda. Questa esigenza è venuta fuori in svariati settori del mondo produttivo nazionale. Non è più prerogativa delle aziende di settore (Ict, Web, Comunicazione) il fatto di voler allargare i propri orizzonti verso lidi telematici inesplorati. Economia, edilizia, ferramenta, studi legali, tutti oramai sono presenti sul web, e tutti sentono l’esigenza di essere presenti sul web, per allargare le proprie conoscenze. Avere un network ben costruito rappresenta una marcia in più per garantirsi nuovi clienti. I social network permettono di creare reti di contatti professionali in poco tempo. Oltre a Facebook, che rappresenta un “contenitore” generale, dove è possibile intrattenere rapporti amicali e lavorativi allo stesso tempo, altre piattaforme vengono in aiuto nella costruzione di un’identità aziendale. LinkedIn è tra questi proprio perché, nei suoi pochi anni di vita, ha saputo creare una piattaforma in grado di far dialogare tutte le strutture organizzative di una singola azienda, facendo da collante tra imprese e professionisti di tutto il mondo. LinkedIn ha l’obiettivo di facilitare i rapporti tra gli ambiti lavorativi basandosi sulla teoria dei “sei gradi di separazione”, un'ipotesi secondo la quale chiunque può essere collegato a qualunque altra persona attraverso una catena di conoscenze con non più di 5 intermediari. Al di là di tale teoria, il successo del network è proprio quello di aver creato tanti settori specifici nei quali qualunque azienda o privato può inserirsi per promuoversi e creare business. La varietà delle piattaforme messe in campo dalla comunicazione digitale non permette di fornire un elenco preciso e univoco di social network dove è possibile fare impresa. Basti pensare a portali nati per determinati scopi e che poi sono diventati strumenti per aziende. YouTube è tra questi. Nato come portale di condivisione di contenuti video, è passato a vendere spazi pubblicitari ad aziende nazionali, fino a diventare il luogo dove anche piccole e medie imprese si promuovono

sui social network ha permesso lo sviluppo della cosiddetta SNA, la Social Network Analysis, ovvero l’analisi delle reti sociali basata sui flussi matematici instaurati tra i diversi elementi della rete. Tale approccio, utilizzato da tempo in ambito universitario, è stato introdotto anche nelle

incentivare verso il proprio marchio. La necessità, di cui dicevamo in precedenza, di creare una rete di imprese “in rete” è alla base del lavoro dell’agenzia “2.0TaskForceItal” , che creato un sito dove è

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aziende più lungimiranti proprio per analizzare il flusso di utenti che un singolo social network può

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attraverso video amatoriali e non professionali. L’importanza delle relazioni professionali costruite


possibile analizzare a che punto sono le imprese italiane in materia di web 2.0. All’indirizzo http://sites.google.com/site/socialmediacase/elenco-aziende, si possono visualizzare tutte le aziende italiane presenti sui social media e che, in generale, utilizzano il web 2.0 come canale alternativo per proporre, supportare, incentivare, l’utilizzo e l’acquisto dei propri prodotti, oltre alle classiche modalità di distribuzione “offline”. Ognuno può inserire la propria azienda che, se idonea alle caratteristiche richieste, può entrare a far parte del network nazionale che conta un centinaio di iscritti. Un motivo in più per le aziende italiane, del Sud in primis, per uscire da uno stallo economico che troppo spesso comporta una riduzione delle prospettive, un chiudersi a riccio che non permette di guardare avanti con fiducia. I social network e la nuova era di internet, rappresentano una possibilità concreta di uscire fuori dal coro dell’empasse imprenditoriale nostrana. Anche al Sud il futuro è già presente, abbiamo gli strumenti, le idee e le capacità per innovare il sistema economico nazionale. Molto dipenderà da quanta fiducia avranno le imprese meridionali nell’adottare nuovi strumenti, metodologie e figure in grado di ampliare le conoscenze e il modo di relazionarsi con il mercato. Con questa fiducia nessun obiettivo resterà irraggiungibile. Anche al Sud, dove i giovani vivono difficoltà accentuate rispetto al resto d'Italia ed a tante regioni dell'Europa. Occorre sicuramente che i giovani, dall'alto della loro padronanza e del loro protagonismo sul web e nelle nuove tecnologie, sappiano per primi far comprendere alle aziende come ri-pensare e ri-strutturare la propria offerta di prodotti, inglobando anche la rete di internet. Far capire ciò alle aziende, dalle medio-piccole alle grandi, significa essere sulla buona strada per la creazione di nuovi posti di lavoro indicatissimi per giovani, laureati, esperti di nicchia che rischiano di morire soffocati in una società che non dà loro voce e debito spazio. Si tratta quindi di entrare in un circolo virtuoso che possa anche e soprattutto garantire al mercato dei canali legali e legittimi attraverso cui fare impresa e raggiungere i potenziali clienti. Canali trasparenti e sotto il controllo di nessuno, perché affidati alla rete ed ai suoi spontanei e liberi utenti. E la trasparenza deve essere oggi più che mai alle fondamenta della legalità.

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Capitolo 8 – Ambiente, salviamolo dalle mafie

La legalità deve sempre essere il punto di arrivo, l'obiettivo del nostro vivere nella società. Ma questo comporta anche il poter “perdere” le battaglie per poter affermare la legalità, comporta di poter risultare sconfitti, anche se parzialmente, soprattutto se dall'altra parte rispetto a noi di sono le mafie. Il web esiste, lo abbiamo visto, e fa sempre più parte delle nostre vite. Spesso è utile per venire a conoscenza di fatti che saltano fuori in ogni minuto del giorno e della notte. Ed appunto il web può aiutarci a conoscere meglio, più da vicino, la conformazione e l'esistenza della criminalità organizzata che ci circonda e regola le nostre vite, anche se noi non lo vogliamo. La criminalità organizzata, attraverso mafia, camorra e ‘ndrangheta, ormai si abbatte in maniera significativa su madre natura, che di certo senza l’aiuto di uomini che combattano le cosiddette “ecomafie”, non potrebbe molto. Ovviamente tutte le atrocità che vengono commesse, sono a discapito non solo dell’ambiente, ma incidono di conseguenza anche sulle vite delle persone, che spesso vivono in aree a pochi metri da discariche (molte delle quali abusive), fiumi oltremodo inquinati, fabbriche che bruciano materiali tossici. L’elenco potrebbe allungarsi a dismisura, ma c’è da fare una premessa, che riguarda chi si oppone, o dovrebbe farlo, alla criminalità che si occupa di “affari ambientali”. Si parla delle amministrazioni locali, provinciali, regionali. Giunte di ogni appartenenza politica che non poche volte sono colluse con il sistema dei clan, padroni assoluti di intere aree, deturpate dalla voglia di guadagno illecito, dal desiderio di domare il territorio in tutti i suoi chilometri quadrati. Gli esempi che si possono fare sono centinaia, ma l’eccessiva offerta informativa, paradossalmente ci consegna delle notizie spesso di scarsa qualità, la maggior parte delle volte accatastate nei telegiornali piuttosto che nei quotidiani. Il meridione del nostro Paese è in particolar modo colpito da tante emergenze che si intrecciano tra loro. Basti pensare al problema dei rifiuti in Campania, soprattutto a Napoli e provincia. A cavallo tra 2007 e 2008 la situazione delle discariche divenne insostenibile: l’immondizia era dappertutto, dalle strade più periferiche fino al centro storico della spazzatura. Eventi che purtroppo conosciamo bene. Oppure no? La situazione, grazie all’intervento del governo Berlusconi, è sembrata in tempi rapidi ritornare sotto controllo. Peccato che nei servizi dei vari TG nazionali la pulizia delle strade si è limitata a Piazza del Plebiscito, mentre in tanti altri

dimentica in fretta. Improvvisamente però, nel mese di settembre del 2010 le agenzie tornano a battere notizie sul ritorno dell’immondizia per le strade della cintura napoletana. Questa volta sono i

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quartieri di Napoli e dintorni i problemi non sono ancora finiti. Ma si sa, il popolo italiano di oggi

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città partenopea. E ancora, le polemiche per il termovalorizzatore di Acerra, i roghi appiccati alla


comuni di Terzigno e Boscoreale, cittadine situate ai piedi del Vesuvio, così come ad esempio Giugliano a nord di Napoli, a fare le spese di una situazione che in pochi giorni diventa incontrollabile. L’esasperazione della popolazione, che non vuole una nuova discarica sul proprio territorio, è tanta, ma è anche vero che dietro tutto questo caos, potrebbe esserci l’azione dei clan camorristici (come pensare il contrario, d’altronde?), che controllano spesso e volentieri le società e le aziende che si occupano dello smaltimento dei rifiuti. Perché questo esempio? La vicenda dell’immondizia che sommerge le strade della Campania è forse quella più importante a livello mediatico, per quanto riguarda il complicato argomento della notiziabilità dei fatti ambientali. Fatti legati alla criminalità organizzata, ma anche trattati con estrema superficialità dai media, facendo così in modo che l’utente finale (il cittadino), non possa avere notizie realmente affidabili. E qui entra in gioco internet. L’informazione oggi corre soprattutto online, a una velocità piuttosto elevata. Così rapida che i nostri cervelli sono oberati di notizie, immagini, video, parole, opinioni. Questo induce gli utenti che navigano ad avere idee confuse su quello che realmente accade rispetto agli eventi che si succedono, ancora di più quando si tratta di fatti che riguardano la loro salute o quella del territorio dove vivono. Spesso infatti, abitare nella zona dove verrà costruito un termovalorizzatore (vedi Acerra), oppure (come succede a Roma nei dintorni di Malagrotta) nelle vicinanze di una grande discarica, non è automaticamente sintomo, per quei cittadini, di cognizione perfetta della situazione che hanno attorno. In quanti saggi, testi universitari, magazine, si parla e si è parlato del giornalista come cane da guardia del potere? Tuttavia la figura di colui che ha il diritto/dovere di raccontare le cose come stanno, attualmente è come se avesse cambiato obiettivi. Si parla infatti di sensazionalismo, spesso accostato alla diffusione più o meno estesa delle notizie, ed è una “crisi” che colpisce più o meno tutti i media, a cominciare dalla televisione. E’ una logica ormai ben conosciuta da chi si occupa di studiare i processi comunicativi. Molte ricerche hanno constatato come la maggior parte degli italiani si informi attraverso i telegiornali, che però spesso danno notizie sempre più distorte. Il giornalista Marco Travaglio la pensa così sull’attuale situazione del nostro Paese: “Se in America il giornalismo è il cane da guardia del potere, in Italia è il cane da compagnia. O da riporto”. E’ evidente che c’è un problema, ma il bicchiere non è

persone più adulte, internet sta dando invece la possibilità di dimostrare che una informazione vera, oggettiva e imparziale è possibile realizzarla grazie all’aiuto delle giovani leve. Basta andare su Google per trovare una miriade di siti, blog, forum, social network, dove la voglia di legalità

lavoratori, dalle giovani famiglie (poche per la verità come numero). Finalmente una bella notizia allora: c’è ancora chi ci tiene a madre natura. Il termine utilizzato ormai giornalmente per descrivere

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ambientale è parecchio sentita dagli studenti universitari ma anche più piccoli, dai giovani

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totalmente vuoto, anzi. A fronte infatti di una situazione deficitaria che coinvolge soprattutto le


i tipi di reato che hanno a che fare con l’ambiente è ecomafia. Termine coniato da Legambiente, indica appunto quei settori malavitosi che hanno scelto il traffico e lo smaltimento illecito dei rifiuti, l'abusivismo edilizio e le attività di escavazione come nuovo grande business. La rete è diventata spesso la miglior possibilità (in alcuni casi l’unica) per poter avere accesso alle notizie sui disastri compiuti dalla criminalità organizzata. Dunque sono molti i giovani attivisti che sul web si scambiano informazioni, girano filmati, inviano notizie. Tutto questo ha un obiettivo primario: dare risalto alle tante problematiche che coinvolgono i cittadini e il loro territorio. L’enorme quantità di emergenze che coinvolge il nostro Paese, nella maggior parte dei casi, non è alla conoscenza di noi comuni cittadini. L’italiano medio si informa soprattutto attraverso i telegiornali, ma grazie a internet e al web 2.0 i disastri che riguardano la natura e gli esseri umani riescono a infiltrarsi nel circolo dell’informazione. Esempio dei nostri giorni: ad ottobre 2010 i telegiornali, siti internet e quotidiani cartacei sono nuovamente invasi da notizie sulla tragica situazione dei rifiuti in tutta la Campania. Da Caserta a Napoli e fino a Salerno si riaccendono nuovamente le proteste per la probabile apertura di nuove discariche. Alcune città che si trovano a ridosso del Parco Nazionale del Vesuvio sono sommerse di immondizia, con conseguenze tossiche per la popolazione, anche a causa dei roghi appiccati dagli stessi cittadini per gridare contro le istituzioni. Gran parte della Campania è ancora sommersa dai rifiuti, ma per fortuna c’è chi denuncia a ogni ora del giorno questa catastrofe. L’associazione “La terra dei fuochi” (www.laterradeifuochi.it) si occupa proprio di segnalare ogni avvenimento che desta preoccupazione dal punto di vista ambientale. Il sito (presente anche sui maggiore social network) è stato fondato da Angelo Ferrillo, che in una intervista rilasciata ad agosto al sito “Terranews.it”, ha spiegato che l’idea è stata mossa “da una sorta di esasperazione dovuta alle numerose prove di un problema che attanaglia la mia terra, messo in evidenza dai “Dossier Ecomafia” di Legambiente e dal libro di Saviano”. A cavallo tra settembre e ottobre del 2010 il cielo campano ha assunto un colore diverso, quello del fumo che sale dalle campagne di Giugliano piuttosto che di Pozzuoli, Terzigno o di qualsiasi altra zona dove l’immondizia non viene raccolta da giorni, da settimane. Nella stessa intervista per “Terra News”, Ferrillo parla dell’importanza del web: “L’iniziativa ha avuto un grande seguito e numerosi segnalazioni degli utenti, quasi esclusivamente cittadini delle zone colpite dal disastro, “La terra dei fuochi” consegna ad ogni ora del giorno immagini e filmati di una situazione a dir poco sconcertante, mentre le amministrazioni (forse escludendo quelle locali, quindi presenti sul

il dominio del clan dei Casalesi è incontrastato, è diventato uno dei territori dove gli incendi di immondizia ci consegnano una Campania stravolta, dove ogni giorno salgono fino in cielo un fumo

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territorio) non fanno che promettere di risolvere la situazione. E la camorra? L’Agro aversano, dove

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cittadini si sono uniti nel segnalare, documentare e denunciare”. Infatti grazie alle innumerevoli


nero e denso di rifiuti speciali, le urla delle proteste notturne. Allora ci si chiede come sia possibile coltivare le terre che ci regalano frutta e verdura e poi sapere che il tutto viene mangiato dai figli di quei genitori che vivono a Giugliano piuttosto che ad Aversa o alle pendici del Parco nazionale del Vesuvio dove vorrebbero aprire una discarica. A proposito di Giugliano, durante gli ultimi sette anni i cittadini del comune a nord di Napoli hanno subito l'esproprio delle campagne per dare posto alle ecoballe, già giudicate “irregolari”, ed ora vivranno accanto all'impianto che dovrà liberarli di uno dei più grandi danni ambientali della regione, l’emergenza rifiuti che nessuno di loro ha voluto (Fonte Ecodallecittà.it). Se poi consideriamo qualche numero, l’emergenza diventa ancora più allarmante. L’affare “monnezza” è di 600 milioni di euro l’anno, una cifra più che appetibile per la criminalità organizzata, ben felice di speculare sulla natura e sulle persone. Altre cifre? Se ci sarà nel prossimo futuro solo il famoso inceneritore di Acerra, ci vorranno “appena” 35 anni per smaltire rifiuti ed ecoballe varie (Fonte Ecodallecittà.it). Ringraziamo la rete però: le persone che caricano su “La terra dei fuochi” le video inchieste dei roghi campani, fanno più giornalismo di tanti quotidiani. Cambiando regione e problema, provando a proiettarci in un’altra catastrofe degli ultimi anni, il terremoto di L’Aquila del 6 aprile 2009 ha seminato morte e distruzione, ma per molti cittadini italiani è ormai acqua passata. Non per la popolazione di tutta la zona che fa riferimento a L’Aquila e dintorni, dove invece i problemi relativi a tutto l’apparato socio-economico sono lontani dall’essere risolti. Anche dal punto di vista ambientale la situazione è ancora in uno stato deficitario, con conseguenze disastrose per la natura e successivamente per gli esseri viventi. Una delle questioni più allarmanti riguarda le abitazioni provvisorie di chi non ha potuto tornare nelle proprie case dopo il sisma di un anno e mezzo fa. Il progetto C.a.s.e (acronimo di “complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili”), promosso dal governo Berlusconi e dalla Protezione Civile, tra le tante lacune riscontrate ne ha una quantomeno scandalosa. Gli appartamenti costruiti nelle cosiddette “new town” sono privi del sistema di fognatura ma anche degli impianti di depurazione. Ciò vuol dire che gli scarichi delle abitazioni vanno a finire direttamente nel fiume Aterno, che di problemi di inquinamento industriale ne ha già tanti. La situazione è monitorata costantemente da chi ha interesse a portare a conoscenza un dramma nel dramma. Il quotidiano

a quello che ci si dovrebbe aspettare da una redazione, cioè il racconto dei fatti così come sono, senza schierarsi da una parte o dall’altra. Lo stesso direttore di Primadanoi.it ci spiega com’è la situazione a poco più di un anno e mezzo dal terremoto: “Il problema credo che in qualche modo zone i sottoservizi (la rete fognaria per intenderci)”. Le condizioni di vita degli abruzzesi che vivono in queste case riguardano anche il territorio che li circonda. Lo scarico dei liquami oltre a

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sia stato solo 'rattoppato' in quanto da quello che si era appreso allora a mancare erano in alcune

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abruzzese online PrimaDaNoi.it è uno di questi. Diretto da Alessandro Biancardi, il sito corrisponde


provocare inquinamento nel bacino dell’Aterno, coinvolge anche il suo affluente, il Vera, e il Raiale, a sua volta affluente del Vera. Le zone di Bazzano, Sant’Elia, Assergi, Paganica e Camarda sono quindi assoggettate all’incuria di chi si è disinteressato a risolvere un’emergenza che già esisteva prima del terremoto del 2009. Biancardi ci racconta un aneddoto piuttosto importante: “Più di una volta abbiamo raccolto testimonianze di operai o titolari di ditte che hanno lavorato nei famosi cantieri del progetto C.a.s.e che ci hanno fatto capire che sono stati “invitati” a lavorare in fretta per rispettare i tempi. Il risultato però in alcuni casi è scarso se si guarda alla qualità del lavoro e dei materiali usati. Le pareti esterne, in alcuni casi di legno, dopo un anno sembrano già consumate dalle intemperie, il che fa ragionevolmente prevedere che quelle case potranno avere una durata fortemente ridotta (probabilmente non eccedente il decennio)”. E’ paradossale dunque pensare che il progetto C.a.s.e sia stato realizzato per dare alla popolazione abitazioni dove poter “ricominciare” una nuova vita e poi, man mano che passano i mesi, ci si ritrovi con delle mancanze strutturali. E’ come se gli abruzzesi fossero in pasto giorno dopo giorno ad un susseguirsi di drammi, che riconducono tutto a un solo sentimento: quello dell’abbandono. Senza dimenticare l’infiltrazione della camorra. Imprenditori vicini al clan dei Casalesi erano pronti a investire nei progetti di ricostruzione post terremoto, ma anche negli appalti per il G8 del 2009, dapprima programmato in Sardegna a La Maddalena e poi spostato proprio all’interno del “cratere” del sisma. Non solo criminalità organizzata però, infatti la Procura dell’Aquila ha indagato anche su esponenti della politica e dell’imprenditoria. Grazie alla rete, tutte le notizie che in qualche modo gli “old media” lasciano in brevissimo tempo nel dimenticatoio, fondano il sapere di disastri di portata nazionale. Quando si parla di web 2.0 non si può non pensare ai social network. I cittadini abruzzesi, grazie alla diffusione su internet dei problemi ambientali del loro territorio, in qualche modo sono riusciti grazie alle proprie forze a rendere visibili fatti che altrimenti non avrebbero avuto notiziabilità. E quando si parla di web 2.0 non si può non pensare ai giovani. L’Aquila da sempre è considerata una città universitaria, dove ragazzi di tutta Italia arrivano per studiare. E’ anche grazie a loro che le segnalazioni di illegalità sul territorio fanno il giro della rete. L’impegno successivo è affidato alle redazioni giornalistiche locali (nell’esempio, quelle abruzzesi), che

cittadini/utenti attraverso la rete. Internet, insomma, come piedistallo dal quale cancellare pian piano la nebbia che si attaglia sui misfatti della criminalità organizzata nei nostri territori, e sulla conoscenza degli stessi da parte di noi tutti. Ma abbiamo ancora altri esempi da osservare, da tutto il territorio nazionale rispetto ai mali che lo opprimono. “Lentini. Un fazzoletto di terra e agrumi, un centro di sole 27.000 anime fra Catania e Siracusa, che da più di vent'anni, ormai,

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tracciare come in un immaginario disegno della comunicazione mancata, distorta, inefficacie su

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dovrebbero affidarsi soprattutto alle notizie “pescate” sul campo e diffuse spesse volte proprio dai


detiene un macabro record: fra quegli agrumeti, infatti, uomini, donne e bambini continuano a morire di leucemia con un tasso tre volte superiore alla media nazionale”. Questo è l’inizio dell’inchiesta realizzata dalla giornalista catanese Natya Migliori per LiberaInformazione.org (l’Osservatorio nazionale sull’informazione per la legalità e contro le mafie), datata 2008 e intitolata “Inchiesta: vent’anni di silenzi – Ecomafie e leucemie a Lentini”. L’inchiesta è diventata poi un film-denuncia sulla terribile situazione che coinvolge Lentini, cittadina in provincia di Siracusa. Laggiù, nel profondo Sud del nostro Paese, ogni giorno passa quasi inosservata la battaglia di tanti genitori nei confronti di una “bestia” più grande di loro, la leucemia infantile, che colpisce il 57,9% dei bambini da 0 a 4 anni. Una percentuale che purtroppo ci regala non una, ma tanti avvenimenti intrecciati tra loro. A partire dalle storie di Manuela e Michele, rispettivamente 8 e 7 anni, scomparsi all’inizio degli anni ’90 a causa della leucemia, che li ha portati via alle loro madri, Lucia e Rita. Da lì, è iniziata la prima delle storie, quella dell’Associazione “Manuela-Michele”, che combatte quella terribile malattia che arriva proprio dal luogo di nascita di quei due bimbi volati via troppo presto. Il 12 luglio del 1984 a Lentini, Contrada San Demetrio, cade un aereo cargo della vicina base americana di Sigonella. Nelle fusoliere e nelle ali del velivolo erano presenti dei contrappesi in uranio impoverito, al tempo legali in Italia. Elio Insirello, biologo e consulente tecnico per la Procura della Repubblica di Siracusa per il caso lentinese, spiega a Natya Migliori cosa potrebbe essere accaduto: “Mi sono chiesto se e in che misura quell’incidente abbia potuto incidere sulle patologie di Lentini. C’è la reale possibilità che l’uranio impoverito, incendiatosi in seguito all’impatto, abbia la sua incidenza. Gli effetti dell’uranio bruciato sono compatibili infatti non solo con l’insorgere della malattia, ma anche con la data in cui è stato registrato il drastico aumento delle patologie leucemiche, circa dieci anni dopo, esattamente il tempo stimato per il manifestarsi dei sintomi. Più i giorni passano, insomma, più ci rendiamo conto che i casi di leucemia a Lentini sembrano legati all’uranio impoverito”. Primo fattore quindi, l’uranio impoverito. Su Libera Informazione l’inchiesta di Natya Migliori è stata ripresa nel settembre del 2010 da Norma Ferrara, che a distanza di 2 anni torna sui fatti di Lentini e dintorni con l’inchiesta “Morire a Lentini - Una video inchiesta racconta di ecomafie e leucemia in Sicilia”. Sul dossier

preso spunto dal lavoro della giornalista catanese per realizzare (insieme alla stessa Natya) un film inchiesta, “Morire a Lentini”, dove vengono a galla tutti i retroscena della vicenda che ormai sconvolge da più di 20 anni la zona tra Catania e Siracusa. L'inquietante elenco di cause possibili

lentinese, è il centro di maggiore stoccaggio di armi nucleari del bacino mediterraneo ed ospita, per di più, una mastodontica struttura ospedaliera a cui fanno capo quasi 10.000 soldati di stanza nel

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continua. E ancora una volta torna di scena Sigonella. La base americana, sita in pieno territorio

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della Migliori nel frattempo è nato un film di denuncia. Il regista e produttore, Giacomo Grasso, ha


Mediterraneo. “Gli investigatori della D.I.A. di Catania hanno rilevato che la base di Sigonella compare tra gli enti e le istituzioni pubbliche che per anni hanno scaricato rifiuti in discariche gestite da prestanome del clan Santapaola-Ercolano”. Le parole del virgolettato sono di Antonio Mazzeo, giornalista siciliano che come Natya Migliori ha dato vita a un dossier che riguarda le condizioni della zona di Lentini. Dunque, anche la mafia farebbe parte degli ingranaggi di una questione che non solo arriva dal passato e ferisce un territorio nel presente, ma avrà conseguenze anche a breve e lungo termine nel futuro. E mentre perdura il silenzio assordante di chi a livello nazionale tiene, inconsapevolmente o meno, nascosta questa tragedia al resto dell’Italia, è importante sottolineare come il contributo del film “Morire a Lentini” della casa di produzione catanese “Gemini Movie Production” possa dare visibilità a una questione che ancora non è conosciuta come dovrebbe essere. In Italia, si leggeva nel 2009 in un articolo apparso sul sito web de “Il Sole 24 Ore” a firma di Roberto Galullo, vengono commessi 70 reati ambientali al giorno con un fatturato illegale annuo di 20 miliardi di euro e più di 250 clan che si spartiscono la torta. Bastano questi pochi numeri per capire di che cosa si sta parlando. Ma per andare a fondo alla questione cifre, non c’è cosa migliore di citare il Rapporto Ecomafia 2010, dossier realizzato ogni anno da Legambiente, dove trovare tutte le storie e i numeri della criminalità ambientale. Questi i dati di maggior rilievo: aumentano gli arresti (+ 43%, da 221 nel 2008 agli attuali 316) e gli illeciti accertati (28.576 oggi, 25.776 lo scorso anno) pari a 78 reati al giorno, cioè più di 3 l’ora. Aumentano del 33,4% le persone denunciate (da 21.336 a 28.472) e dell’11% i sequestri effettuati (da 9.676 a 10.737). Nello specifico, si registra una decisa impennata di infrazioni accertate nel ciclo dei rifiuti (da 3.911 nel 2008 a 5.217 nel 2009), e un leggero calo nel ciclo del cemento (da 7.499 a 7.463), crescono i reati contro la fauna (+58% ) e i diversi reati contro l’ambiente marino e costiero. Stabile l’immenso giro d’affari, nonostante l’inasprirsi della crisi economica, pari a 20,5 miliardi di euro (Fonte: Legambiente, Rapporto Ecomafia 2010). Occorre ripeterlo: grazie alla rete e a migliaia di siti internet, pagine di social network e forum, la catena di notizie che giungono fino a noi lievita in modo impressionante. Il che renderebbe necessario da parte degli “old media” un netto cambiamento di rotta per far sapere anche a chi non usa internet che i disastri spesso non

Migliori - non è importante solo nella lotta alle ecomafie, è fondamentale per la difesa stessa della libertà di informazione”. Usiamo le sue parole perché rispecchiano un sentimento comune, quello che corrisponde al desiderio di informare con la lettera maiuscola: “Ogni idea, ogni movimento che monopolio, quale canale può avere oggi se non il web? Senza la pluralità delle “piccole” realtà indipendenti che esistono grazie alla rete, che spazio ci sarebbe per la libera informazione?”.

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venga dal basso, ogni inchiesta giornalistica che voglia svincolarsi dalla fitta ragnatela del

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vengono risolti con l’arrivo della “cavalleria”. Invece “il ruolo del web 2.0 – racconta Natya


Questi due interrogativi portano alla ribalta un problema a carattere nazionale che però coinvolge troppo spesso il Meridione rispetto al Nord: le tante collusioni della società con la criminalità organizzata non fanno altro che rendere più difficile il lavoro della giustizia ma anche dei veri giornalisti. Se sui quotidiani cartacei la parola inchiesta compare ormai raramente, al contrario il web è un’immensa fucina di reportage, notizie sempre più complete e non fatte di “copia e incolla” da altri siti. E’ importante secondo Natya Migliori, pensare alle nostre leggi fondamentali: “L'articolo 21 della Costituzione, oggi più che mai, va difeso. E l'unico mezzo possibile sembra incarnarsi sempre più nella rete”. Un cambiamento radicale, almeno a breve termine, sarà difficile intravederlo, ma grazie al web le possibilità si moltiplicano e Madre Natura a sua insaputa potrà contare su tanti cittadini che combattono ogni giorno gli scempi commessi dall’uomo stesso. E non soltanto in ambito ambientale, ma innanzitutto sociale: scempi e soprusi nascosti tra le pieghe di piccole comunità ai margini della società che conta, di quella “ufficiale”.

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Capitolo 9 – Preti di frontiera

Si scopre a diciassette anni di non essere nati in un posto qualunque. Capisci che le regole di convivenza civile sono completamente sovvertite. A diciassette anni, Sasà detto o’ capocchia (testa vuota) per scommessa cominciò a camminare e poi addirittura a correre sui tetti delle macchine ferme per un ingorgo a Corso Secondigliano. Percorse per 150 mila lire più di trecento metri sui tetti delle macchine terminando la sua corsa davanti alla questura, quella stessa questura sul corso Secondigliano che è stata oggetto di otto arresti fra i poliziotti per spaccio di stupefacenti. Capita poi a venti anni di vincere il concorso nel Genio Ferrovieri ed entri così a far parte dei napoletani migranti. Il caso della questura di Secondigliano chiarisce molto bene quanto sia labile il confine che divide la gente onesta dagli affiliati o dai meri ladri o spacciatori. E’ difficile, molto difficile, non farsi contaminare dalla mentalità della camorra che costituisce l’agenzia predominante in luoghi abbandonati a se stessi, dove la presenza dello Stato è merce rara e dove non c’è riparo come in un mare in tempesta. In questi luoghi dove l’ex legge 167 ha distribuito edifici su edifici di tredici piani e stipato le persone in veri e propri ghetti, ci sono però spaccati di società civile, persone che si battono giorno per giorno per ripristinare la legalità e i veri valori. L’Italia è la settima economia del mondo ed è assurdo che la Campania si trovi in uno stato di abbandono culturale pressappoco totale, i valori della legalità non dovrebbero essere alternativi, ma vigenti. Gli spaccati di società civile promuovono lo sport, i diritti sindacali, il senso di cooperazione e la cultura del lavoro in terre dove portare un chilo di zucchero alla moglie del boss ti fa guadagnare 100 euro. In questi posti ci sono persone come i sacerdoti che si fanno carico di un’intera generazione data in pasto alla camorra. Uno di questi è don Aniello Manganiello, prete della parrocchia S Maria della Provvidenza e responsabile del centro Don Guanella situato spalla a spalla con la Masseria Cardone, feudo dei Licciardi, che diede i natali a Gennaro detto a scigna, sanguinario boss degli anni ottanta e novanta, un uomo capace d’imporre il racket perfino al 10 Ottobre 2010, giorno dell’ultima messa. Un uomo che ha fatto un buon lavoro, che ha avvicinato la gente alla Chiesa, ha insegnato la legalità nel nome di Cristo, fondato una squadra di calcio di cui era presidente ideando una manifestazione intitolata “Diamo un calcio alla droga”.

Scampia è una luce in fondo al tunnel che va fortemente considerata come terra di missione al pari del Bangladesh o della Guinea Equatoriale. Con Piscinola e Chiaiano, Scampia forma una

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Attraverso i valori dello sport cercava di salvare una vita al giorno dagli artigli dei clan. La Chiesa a

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all’aeroporto di Napoli. Don Aniello Manganiello ha operato a Miano-Scampia per sedici anni fino


municipalità di quasi centomila abitanti. Segmenti di una Napoli recintata in lotti, che è il novo termine per definire i ghetti, dove non si è proiettati verso l’esterno, ma anzi la mentalità camorristica ti costringe a stare dentro al recinto, dentro al lotto, ti ghettizza e la tua Napoli trasuda sempre più di eroina e cocaina piuttosto che di Vesuvio, sole e mare. Si può pensare alla periferia di Napoli come terra di missione? La religiosità stessa ha premesse e radici molto profonde, ma il rispetto di usanze religiose o l’adesione a delle tradizioni servono per lavare la coscienza, sono valide esteriormente e in una qualche misura sono sterili perché non portano ad una vera e propria maturità cristiana. Il vero lavoro di missione a Scampia, come nel casertano, è esportare le regole che valgono nella parrocchia anche al di fuori, affinché si possa far breccia verso i non credenti. Ciò è molto difficile se la Chiesa è concentrata solo al suo interno. La chiesa di S. Maria della Provvidenza era aperta al quartiere e don Aniello era in prima fila per contrastare i clan, creando un modello alternativo secondo i canoni religiosi che l’ha portato anche a denunciarli diverse volte in TV, ad indicare i luoghi cardine dello spaccio, ad esigere più controlli dalle forze dell’ordine. Don Aniello ha rifiutato di “sposare” camorristi, di battezzarli o di celebrare l’Eucarestia, metteva gli affiliati nella condizione di dimostrare la loro conversione anche solo per ricevere la comunione. Questo modo di essere sacerdote ha portato minacce di morte al parroco anti-camorra. Don Aniello Manganiello è stato trasferito (controvoglia) a Roma l’11 Ottobre 2010. Il cuore del problema a Scampia, come a Castelvolturno o a Casal di Principe, è la mancanza di modelli sociali in quanto quelli vigenti sono perversi e di matrice camorristica. In questo c’è la responsabilità di istituzioni che si interessano solo al centro della città che coincide del resto col centro economico, mentre a Scampia nei primi insediamenti degli anni ‘80 hanno dovuto protestare con dei blocchi stradali, sostenuti dai gesuiti, per avere una scuola, ma una parrocchia non può sostituirsi allo Stato. Scampia è un altro centro di un’altra economia che è quella criminale basata sullo spaccio di droga e purtroppo i giovani crescono con l’idea che sia un commercio come un altro, che si venda qualcosa a qualcuno di cui lo Stato non se ne occupa. Forse non se ne occupa perché da lì non si vede il mare, non si fa turismo che tiene in piedi l’economia, ha una sua logica triste che molti religiosi a Scampia avversano. Tra questi religiosi c’è padre Fabrizio Valletti, un gesuita che nel 2006 ha pastorale, culturale e sociale che oggi è un ente di formazione legata all’industria e all’artigianato. Il centro è dotato di laboratori formativi, spazi per mostre e una biblioteca (l’unica del quartiere) che vanta più di seimila volumi. È uno spazio culturale e sociale che ha messo in piedi relazioni con assomiglia molto a quelle create nei posti di missione all’estero. Il centro Hurtado è riassunto così nelle parole di padre Fabrizio Valletti: “La vocazione alla fede nasce anche dal contesto in cui ti

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istituzioni e con le scuole, ma è prima di tutto uno spazio religioso, una forma di chiesa che

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inaugurato il centro Hurtado nato dal progetto Scampia lanciato nel 2000 per coniugare azione


trovi. La missione nasce dal confronto con la sofferenza e ti senti ispirato a offrire qualcosa. Dare opportunità di formazione sociale, professionale e culturale significa combattere l’ignoranza che è la bestia peggiore e a questa festa non inviti solo i cristiani, inviti tutti”. E poi ancora: “Se la Chiesa rimane solo un luogo in cui si dispensano momenti di religiosità è molto difficile incidere sulla legalità. Infatti i pentiti di camorra non lo fanno per conversione spirituale, ma per opportunismo, perché quando un camorrista è messo all’angolo cerca una via di fuga e la collaborazione è una di queste”. Dunque Scampia ha bisogno di questi sacerdoti che il sistema definisce “scomodi”. La via è il Vangelo e la strada pastorale è la missione, una missione non intesa in senso stretto ma una missione atta a separare la falsa fede dei boss della camorra che, come spiega il vescovo di Caserta, Pietro Farina, “hanno una falsa religiosità, entrano in Chiesa con una coscienza errata ed un sacerdote non dovrebbe neanche accettare le loro offerte”. Anche il vescovo di Capua è nettamente in contrasto con le logiche dei clan e, quando è necessario, non fa mancare messaggi anche duri contro i boss. Come all’indomani dell’incidente stradale che causò la morte di due agenti di polizia nel casertano, mentre effettuavano un inseguimento, era il periodo che culminò con l’arresto di Giuseppe Setola e dei suoi. Bruno Schettino definì i camorristi “bestie”. La diocesi di Capua guidata da Schettino è anche responsabile del centro Fernandes di Castelvolturno, una struttura di prima accoglienza che attualmente ospita sessanta immigrati e che si propone non solo di accogliere, ma anche di integrare le diverse etnie presenti che sono a maggioranza africana. Castelvolturno, il 18 settembre 2008, è stato teatro di una mattanza di sei immigrati africani, tre ghanesi, due togolesi e un liberiano ad opera dell’ala stragista e scissionista facente capo a Giuseppe Setola. A Castelvolturno risiede la più grande comunità africana d’Occidente. Il comune casertano ospita 23.594 abitanti di cui il 10% è immigrato proveniente prevalentemente dall’Africa Occidentale. Ci sono poi gli irregolari ed è ancora in corso la guerra delle cifre che secondo il comune sarebbero 15.000, mentre per Medici Senza Frontiere sono oltre 20.000. Obiettivo primario delle strutture religiose è anche strappare gli immigrati dalle mani sia della camorra casalese, egemone sul territorio, sia da quella nigeriana che ormai coopera con quella locale. Ma l’abbandono istituzionale è riassunto in pieno da Renato Natale, ex sindaco di Casal di Principe e presidente 1989): “E’ il luogo dove si può scaricare tutto ciò che non piace. E’ una discarica non solo ambientale, ma anche umana. C’è disintegrazione sociale. Un territorio in queste condizioni è utile a chi vuole controllarlo illegalmente”. In questo territorio ha operato dal 1996 al 2009 presso il

si inviano dei padri missionari in Campania? I comboniani sono presenti in molte località italiane, ma il presidio di Castelvolturno ha gli stessi connotati e la stessa funzione di quelli a Nairobi o a

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presidio dei Comboniani di Castelvolturno anche Padre Giorgio Poletti. Non è strano che nel 2010

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dell’associazione Jerry Masslo (immigrato sudafricano assassinato a Villa Literno il 25 Agosto


Kingstone. L’abbandono istituzionale è evidente anche ad un cieco, i comboniani vanno a colmare un vuoto statale cercando di battere sul tempo la camorra casalese o nigeriana. Abbiamo conosciuto personalmente padre Giorgio Poletti nella casa dei comboniani, che si trova proprio di fianco al Centro Fernandes. L’abbiamo intervistato in merito alla vicenda dei permessi di soggiorno in nome di Dio, permessi rilasciati da padre Poletti in aperta polemica con le politiche governative in materia d’immigrazione. Ne è nata una bella conversazione che ci fa capire perché alcune zone della Campania abbiano bisogno di un nuovo senso di religiosità che deve differenziarsi da quella apparente che è propria anche dei camorristi che vivono in dimore circondate da statue di Cristo. Una religiosità più concreta che vada a toccare la sofferenza nel profondo fino a sporcarsi le mani e l’anima, che dia un aiuto quotidiano in questo momento storico che è uno dei periodi più bui della storia della nostra Repubblica. Padre Poletti è un missionario scomodo per il suo modo d’intendere la vocazione, egli differenziava Dio, nel senso che secondo lui c’è differenza dal Dio che vedi da una villa con piscina da quello che vedi da una baraccopoli. Un po’ come dire che il Dio della gente di Posillipo non è lo stesso Dio che vedi a Scampia o a Castelvolturno. Contestava senza mezzi termini i religiosi che ci parlano da grandi case lussuose nonostante il voto di povertà. Padre Poletti e i comboniani di Castelvolturno fanno un buon lavoro nell’accogliere e risolvere le molteplici problematiche connesse alla condizione di rifugiati in cui si trovano gli immigrati che vengono nelle nostre terre. E sembra che gli alti prelati si “divertano” a trasferire chi lavora bene in Campania. Infatti padre Poletti è stato trasferito nel 2009 a Verona. Un altro sacerdote che si è contraddistinto per il suo impegno anticamorra è don Luigi Merola, ex parroco di Forcella, anch’egli minacciato di morte fino a quando nel 2003 fu intercettata la frase di un camorrista: “lo ammazzerò sull’altare”. Gli fu assegnata una scorta che don Luigi ha chiamato “i miei angeli terreni”. E’ stato parroco a Forcella dal 2000 fino al 24 Giugno 2007, giorno della sua ultima messa. Negli anni di Forcella ha rimosso tutte le telecamere che la camorra ha fatto istallare nella zona documentando fenomeni di spaccio in una cassetta che fu poi consegnata al Questore. Un giorno fu uccisa per errore Annalisa Durante, una ragazza di quattordici anni, e don Luigi mobilitò il quartiere per tanti giorni. I segni di quella mobilitazione sono visibili in una nuova scuola che oggi porta proprio il nome di Annalisa territorio. Quando l’aria ha cominciato a farsi pesante, don Merola ha lasciato a malincuore Forcella per fondare un’associazione denominata “’A voce de’ creature” che ha come finalità il contrasto in tutte le forme possibili della dispersione scolastica e la formazione professionale di nuove figure, Napoli e precisamente nella villa di “Bambù”, soprannome del boss Raffaele Brancaccio. Nel giardino della villa, il boss aveva persino un leone che è stato poi donato. La fondazione “’A voce

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nonché il recupero di vecchi mestieri. La fondazione di don Merola si trova in zona Arenaccia a

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Durante e che senza don Merola difficilmente la gente di Forcella poteva annoverare sul proprio


de’ creature” è presente a Napoli, Castellammare di Stabia e Salerno. Oggi don Merola è anche consulente per la commissione parlamentare antimafia. Fare il sacerdote a Napoli non è semplice, non è semplice aver studiato tanti anni per poi dover chiudere gli occhi davanti a certe scene che deturpano il futuro della nostra terra, oppure doversi tappare le orecchie per non sentire l’assordante silenzio delle istituzioni. La storia dell’Italia del dopoguerra è colma di sacerdoti che hanno fatto grandi cose, scosso coscienze, si pensi a don Milani, o a don Puglisi o ancora a don Peppino Diana. Si pensi a don Ciotti, il fondatore di Libera. Don Aniello Manganiello ha salvato tante vite e su tutte due ragazzi spiccano come prodotti della sua opera. Uno è Davide Cerullo, che quando don Aniello arrivò a Miano aveva diciotto anni ed era già stato in carcere perché pusher dei Di Lauro. Adesso è sposato, ha due bambini e ha scritto un libro, “Ali Bruciate”, per Edizioni Paoline. L’altro ragazzo che sul suo cammino ha incontrato l’ormai ex-parroco di Scampia è Genny Sacco, che allora era un tossicodipendente di crack ed ecstasy. Oggi Gennaro Sacco è un frate dell’Ordine dei Francescani Rinnovati. Questi cambiamenti radicali dovrebbero avvenire su vasta scala dando una visione alternativa delle possibilità in terre così abbandonate. Don Aniello ha dato speranza e, così come Davide Cerullo e Gennaro Sacco, sono “rinate” alcune ragazze di Scampia che hanno fondato una radio e l’hanno chiamata RadioSca, perché sia la voce del quartiere. Ma il cammino burocratico che deve compiere una persona normale a Napoli per poter accedere alla realizzazione di un qualsiasi progetto è tortuoso ed è paradossalmente volto allo scoraggiamento, come se fosse un progetto perverso piuttosto che una radio. Nel 2007 nella piazza telematica di Scampia lo staff di Città della Scienza, Sviluppo Italia Campania e Napoli Marketing, ha annunciato un bando per gli incubatori di impresa rivolto alle giovani cittadine della settima e ottava municipalità di Napoli, appunto Secondigliano e Scampia. Da allora le ragazze di RadioSca hanno subìto ritardi burocratici, minacce di fondi dirottati verso altri enti, imposizioni sui fornitori che alzavano le quote per attrezzare lo studio di RadioSca fino a far dichiarare che il progetto era fallito prima ancora di vedere la luce. Finalmente RadioSca vede la luce il 1° Ottobre 2010 all’interno del progetto casa della socialità. La programmazione va bene e gli ascolti anche, lo studio è ben attrezzato. Ma a Scampia il sole stenta a sorgere e la tranquillità di poter lavorare e produrre qualcosa che in una serie di sabotaggi: il 15 Ottobre staccano la corrente impedendo l’intervista guarda caso a don Aniello Manganiello; sabato 16 Ottobre chiedono l’intervento del 113 definendo le ragazze titolari del progetto “abusive”; la domenica, ripristinata la corrente, staccano la connessione internet;

del Comune di Napoli e di Città della Scienza, che svolgeva mansioni di segreteria e tutoraggio. Ci sentiamo di dare l’in bocca al lupo alle ragazze di RadioSca e un incoraggiamento a non mollare,

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successivamente il personale di custodia non lascia entrare le ragazze. Il tutto nel totale abbandono

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qualsiasi posto sembra scontato a Scampia non è così. Dal 15 al 20 Ottobre 2010 RadioSca subisce


perché la tecnica di rendere la vita impossibile a chi crede in qualcosa è vecchia come il mondo. Senza un buon sacerdote che incanalasse quanto di buono c’è nel popolo di Scampia, secondo noi questi progetti e questa apertura mentale generale che si era creata intorno al parroco anticamorra non sarebbe accaduto. Scampia è un territorio che potenzialmente è aperto ad un cambiamento, perché comincia ad aumentare, ma non fa notizia, la gente onesta che la camorra non la vede neanche come una possibilità remota di scelta di vita. La gente è esasperata da una crisi economica che ha colpito tutti, anche le organizzazioni criminali che, per forza di cose, hanno liquidità per entrare in mercati legali, in primis nelle ricostruzioni del terremoto dell’Aquila, e hanno quindi bisogno di reclutare manovalanza a tutti i livelli. Ciò lo si può impedire con una presenza massiccia dello Stato che non deve essere finalizzata solo alla repressione, ma anche volta alla riqualificazione, rimarcando il solco di don Ciotti che gestisce ex terreni di mafia e camorra, o di don Merola che ha la sede della sua fondazione nella villa di Bambù. Sbandierare gli arresti di boss o presunti tali e lasciare il territorio in balia di altre famiglie che si fanno la guerra per accaparrarsi il territorio, aumenta la distanza tra il paese reale e la stravagante sintesi politica che ultimamente si compie in Parlamento. La Chiesa cattolica al momento si trova alle prese con il problema della pedofilia, che ne sta mettendo a repentaglio l’immagine stessa agli occhi della comunità mondiale, ed è uno dei problemi cardine del cattolicesimo moderno e secolarizzato. L’occasione di schierarsi contro chi crea sottosviluppo è un’occasione di riscatto che difficilmente ricapiterà. Territori come Scampia, Secondigliano, Casal di Principe, il quartiere Sanità, che annovera tra le sue fila un comboniano che risponde al nome di Alex Zanotelli, e tutto l’agro aversano, hanno bisogno di sacerdoti senza orari di ricevimento, senza quel distacco ecclesiastico che da sempre fa collocare i prelati nell’immaginario collettivo. Abbiamo bisogno di sacerdoti come don Antonio Maione che nel 1990 fece leggere sull’altare di S. Maria delle Grazie un discorso contro la camorra a Nunzio Giuliano, camorrista pentito e fratello di Luigi, più noto come Lovegino, ex rais di Forcella. A Scampia ci sono le sale giochi che spesso coincidono con luoghi di spaccio che sono piene di giovani e le chiese sono vuote, perché tra i sacerdoti e i giovani è aumentata la distanza. I giovani percepiscono i sacerdoti come uomini di riferimento di un’istituzione che non svolge più in pieno il

sacerdoti che combattono la camorra avendo la propria parrocchia aperta giorno e notte, sono accusati di protagonismo dalla Chiesa stessa. Viviamo nell’era del post-idealismo, dove con la forza delle idee non si riesce più a tenere coesa la società. Non esistono più classi di riferimento, ma solo incentrato su questo pensiero; era l’uomo che si recava in fabbrica, era l’uomo che si recava in chiesa o in qualche associazione culturale dedicata a qualche santo. Oggi non è più così: oggi

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interessi configgenti. Negli anni passati al centro del pensiero globale c’era l’uomo e tutto era

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suo ruolo. C’è un laicismo diffuso che è anche distorto, perché coincide con ateismo. Alcuni


l’uomo si reca in fabbrica fino a quando la proprietà non decide di chiudere i battenti e trasferire la produzione in Messico, quindi l’uomo è costretto ad emigrare oppure a cambiare lavoro. Non è più il lavoro che va dall’uomo, ma l’uomo che si reca verso il lavoro ovunque esso sia. Al centro del pensiero globale non c’è più l’uomo, ma la produzione, indipendentemente dal contesto di vita. Questo è ciò che ci ha offerto il pensiero neo liberale e neoliberista. Tutto ciò genera sfiducia e precarietà che non è più un nuovo modo di intendere l’occupazione, ma una condizione sociale vera e propria. Come si può pretendere, che in un clima del genere che ha colpito nella stragrande maggioranza i giovani, gli stessi si rechino in chiesa negli orari prestabiliti da un qualsiasi sacerdote? La Chiesa oggi, soprattutto in alcuni luoghi, deve essere la strada, perché è la strada il luogo delle frustrazioni più profonde ed è lì che deve essere presente. La Chiesa in alcuni luoghi deve ostacolare la camorra che promette di far guadagnare 5000 euro a settimana ad un ragazzo di diciotto anni, deve creare una comunità che abbia un’identità, che abbia degli ideali, che abbia una capacità di discernere il bianco dal nero, il giusto dallo sbagliato, attraverso dei sacerdoti che abbiano la forza della denuncia. Oggi solo chi denuncia riempie le piazze: pensiamo a Roberto Saviano, alla Fiom e alla CGIL che riempiono le piazze per una cosa che oggi sembra straordinaria, ma non dovrebbe essere così. La normalità dovrebbe essere dire “no”, dire no allo sconvolgimento di un contratto di lavoro nazionale, all’abusivismo edilizio e allo smaltimento illegale di rifiuti, dire no in un contesto in cui tutti dicono sì. La Chiesa ha uomini molto validi che dicono e hanno detto no, uomini che rispondono al nome di don Alessandro Santoro, che decise tra le tante cose di sposare una donna; uomini come don Virginio Colmegna e la sua casa della carità a Milano, che è stato capace di ricevere due milioni di euro dalla buona uscita di Alessandro Profumo, ex AD di Unicredit; uomini come don Gallo, sempre lontano dal potere e che ha capito gli umori della gente forse prima di tutti. Ben vengano i don Milani, i don Giuseppe Diana, capaci di alzare la voce contro il Clan dei Casalesi scrivendo il documento intitolato “Per amore del mio popolo non tacerò”. Per questo ha pagato con la vita il giorno del suo onomastico, come don Giuseppe Puglisi, freddato nel quartiere Brancaccio a Palermo sotto casa il giorno del suo 56° compleanno. Questi uomini erano il cuore pulsante delle comunità che avevano creato, ma sono stati lasciati soli

due volte. La Chiesa ha una grande opportunità di riscatto nelle terre di camorra, ha la grande opportunità di denunciare smettendo di denunciare, mettendosi a capo di un popolo che è sempre stato il suo. Del resto anche Gesù ha pagato con la vita perché in fondo era un rivoluzionario, forse

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il più grande che l’umanità abbia mai conosciuto.

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all’interno della Chiesa, trasferiti ad altri incarichi o diffamati, e nel caso di don Peppe Diana uccisi


Capitolo 10 – Quel fresco profumo di libertà Ci mettono a disagio le storie di cui non si può essere partecipi, perché i luoghi in cui si spara, per molti di noi restano nomi, e i nomi che premono il grilletto hanno accenti complicati, un che di distante o di straniero. Specialmente per chi è nato al nord, dove certe vicende hanno un alone sfumato, le raccogli qua e là, tra un'alzata di spalle e l'espressione da chi ne ha viste tante, per lo meno sufficienti a poter dire che è sempre stato così. Che le cose non cambieranno mai, che un'alternativa forse la si potrebbe imporre con la forza, ma la testa della gente, quella no, non la cambi. Sono parole che passano in fretta, te le improvvisano al telegiornale, come memorie veloci e per lo più deboli che restano in mente giusto il tempo di stringere gli occhi corrucciati, nello stesso gesto che fai davanti a una tragedia lontanissima, che porta con sé un sapore un po' retrò. Faide di quartiere, spartizioni di chilometri, regole di comportamento o di linguaggio: difficile decodificare, complicatissimo farlo proprio, comprenderlo e trattenerlo in sé. Forse davvero la geografia ci sta limitando, non ci permette di entrare con disinvoltura nelle spiegazioni che personalità più esperte cercano di tramandare. Magari sentire odori e calpestare suoli davvero ci lascia qualcosa dentro, non fosse altro che una traccia. In molti trovano nell'amore per la propria terra la forza per andare avanti. C'è chi te la distrugge, chi te la impesta e tu hai come questa rabbia dentro, che ti monta e che non sai frenare, un impeto di reazione e di onore che non ti lascia e ti costringe a tener duro, stringere denti e muscoli del collo, perché la testa non la abbassi. La voce men che meno. Per molti di noi camorra, mafia, 'ndrangheta sono sempre stati componenti di un unico, lontanissimo disagio, una gorgone di infinita esistenza, con radici ben piantate nel meridione, e uno sguardo che non si spingeva troppo più in là. Questa era la nostra ignoranza. Questa la fossa di incomprensione da cui è difficilissimo tirar fuori il collo. Ci consoliamo ripetendoci che in fondo la determinazione di ciò che facciamo è data dal nostro giudizio dell'evento, dalla maniera in cui ne modelliamo il senso e la portata; che non ci sono, in definitiva, destini a cui piegarsi, ma minuscole circostanze, più o meno

non esistono ignoranze incolmabili, incomprensioni impossibili da evitare, limiti invalicabili. La terra settentrionale, spesso fredda, ha l'umido che ti entra nelle ossa: d'estate stai a boccheggiare, l'inverno insinua spifferi sotto qualsiasi finestra, ed è una continua lamentela da qualche anno a

cantilena che sembra essere un cruccio comune. Nemmeno con l'inevitabile ci si rassegna. Ma intanto l'umido te lo tieni dentro e lo porti un po' in giro, tra qualche svago, nell'intimità dei colpi di fulmine, in mezzo alle amicizie, sul tappetino della palestra, nei locali del fine settimana. Qualche

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questa parte, non si parla d'altro, il tempo che è cambiato, le solite irriconoscibili stagioni, una

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involontarie, sottratte al tempo e rese parte della nostra personalissima umanità. Che in definitiva


uscita, frequenti paranoie da ventenne, le classiche incomprensioni con chi ti è accanto, come quando urli in casa che nessuno ti capisce, che voi non sapete niente della mia vita, e finisce che sbatti qualche porta e ti senti molto adulto e molto solo. Solo che alla fine quella porta la riapri su una strada ordinata, le cose intorno a te si muovono, funzionano e se anche non te ne accorgi, sei tu che non dai peso a significati di onestà o coraggio perché non tieni a mente che intorno a te certe parole hanno una portata più debole, e un sapore di gran lunga meno acre che in altre zone. C'è un pensiero però che da un po' di tempo non ci lascia pace. E' come un rintocco che ci distrae spesso, e che ci capita addosso nei momenti inopportuni. Ci rimbomba in testa quando siamo soli e sentiamo il tempo che scorre addosso e non lo sappiamo frenare. E' un rintocco che ci fa sbattere gli occhi durante il momento più noioso di un film, di fianco a qualche amico, c'è un mega schermo, le immagini in troppe dimensioni, e un personaggio armato che mi si appoggia sulle ginocchia. Batte e batte e ci lascia il fiato corto quando siamo nel nostro letto e abbiamo le coperte tirate fin sotto al mento, perché abbiamo timore. Noi nel Paese ci crediamo. Crediamo nell'idea di una patria millenaria o secolare, fosse anche qualche scarno decennio, noi continuiamo a crederci. Crediamo nell'idea di un popolo vicino, che combatte e riflette pur di riconoscersi unito. Abbiamo creduto a lungo nell'ardore per l'unità, nell'eroismo di chi si è sacrificato, e se anche non fosse questa nostra, la storia a cui far riferimento, ardore e sacrificio me li tengo stretti, per continuare a dar loro valore. Alla nostra idea manca tutta una memoria che nessuno ci ha consegnato e che dobbiamo strappare a morsi, rovistando qua e là e creando ricordi e orgoglio dove non ci sono stati dati. La nostra pelle non conosce i delitti di cui il nostro Paese si è sgravato. Camorra, mafia, 'ndrangheta. Camorra, mafia, 'ndrangheta. Ce le ripetiamo, una litania, un verso, una cantilena. Un motivetto che ci si infila in gola e lì si incastra. Camorra, mafia, 'ndrangheta. Quanto dureranno queste definizioni, per quanto saranno ritenute valide, quando invece dovremo disfarcene, perché cambieranno equilibri, si allineeranno poteri e troveremo in bocca soltanto parole, nemmeno un senso. Camorra, mafia, 'ndrangheta. Sono parte di quel che sono perché non esiste Italia senza i calcoli loro, non c'è patria, né territorio se il loro nome e le loro scelte non sono lì a depredarlo, a farlo misero, a chiedere cinismo e rassegnazione. Mafia, camorra, 'ndrangheta. Dialetto complicatissimo, lingua a parte,

trattative che si spartiscono le nostre durate brevi. Noi non li conosciamo, ma sappiamo che loro stanno a batter cifre, a ribassare costi degli appalti, si accollano i nostri rifiuti. Ci servono altri Mille, giubbe rosse in avanscoperta, narratori di un mondo pur sempre nostro, che ci insegnino ciò

ci avvicini le facce e ripeta, come fossimo bambini, dillo insieme a me, questo è Schiavone, Riina, Zagaria, Setola, Badalamenti, hanno fatto questo, ottennero quest'altro. Infine, qualcuno, li ha

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che già ci appartiene, ma che non sappiamo vedere. Qualcuno che possa svelarci le dinamiche, che

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indecifrabile. Un codice che passa di bocca in bocca, sono decisioni, sentenze, tutto un campo di


fermati. Prima del fermo, altri uomini li avevano accusati, denunciati, affrontati a viso aperto. Qualcuno ha avuto coscienza. E’ gesto umano, ancor prima che civico, scegliere di tener conto di questo stato di cose, prendervi parte e mantenere vivo il fastidio verso le organizzazioni criminali, non piegandosi ingenuamente alla loro infiltrazione, silenziosa, evidente. La responsabilità del nord, verso se stesso, se non verso un sentimento nazionale spesso sminuito, deve essere quella di respingere la complicità vantaggiosa con l’imprenditoria criminale, e sostenere quell’idea di riscatto per territori in cui la scelta più complessa resta quella di essere uomini. Noi il nostro orgoglio lo dobbiamo creare. Impastarlo e soffrirne, poi tenercelo stretto, perché la distrazione è una minaccia efficace, e la giustificazione le fa da compagna. Non abbiamo ancora venticinque anni, abbiamo esami da preparare, qualcuno di cui innamorarci, amici con cui uscire, libri da leggere e lavori sottopagati da portare avanti. La memoria di chi si è opposto all'illegalità, per noi non è una necessità. Non ci svegliamo al mattino con un pensiero fisso in testa, non abbiamo chiodi impertinenti e inevitabili che non si lasciano ignorare, e nemmeno nomi ricorrenti che dall'infanzia mi perseguitano, come fantasmi di un passato che una volta adulto vuoi decifrare. La nostra memoria è una scelta. Noi non vogliamo dimenticare. E non ci vengano a dire che è facile sostenere certe scelte, non ci raccontino che dichiararsi contro l’illegalità, contro il compromesso sia un percorso da ingenui idealisti, rintanati negli slogan e nei propri eroi martiri, cadaveri. Non è mai così. La scelta di un ventenne, oggi, è una scelta complessa. Ancor prima che contro gli sbuffi di chi si stanca in fretta di stare ad ascoltare, bisogna imporsi la disciplina di resistere al cinismo: quello che accomuna, quello che ti rende impensabile il cambiamento, quello che prima o poi intacca anche le tue, di giornate. E’ doloroso continuare a cercare, è faticosa l’indignazione e la rabbia che montano nel petto dinnanzi agli scandali, e ancor più davanti alle giustificazioni. Per questo sentiamo spesso il sapore della resistenza nei piccolissimi gesti che ci accompagnano, e che mi fanno ripetere di non voler trovare serenità pensando a quanto sono distante. Sentiamo nostro il Sud, anche se non ci viviamo, resta nostro chi lo difende, ci appartiene chi ne paga le conseguenze. Abbiamo scelto di interrompere il tam tam della nostra cantilena. Non lo facciamo per zittirla, né per dimenticarmene, ma abbiamo bisogno di un andamento differente, di un motivetto nuovo che ci

male, perché son belle. Quelle che hanno l'onestà e forse anche la purissima incoscienza di chi ancora crede che si possa cambiare il mondo. La lotta all'illegalità è questione umana, informazione e comprensione quotidiane; districare le matasse in cui si aggruma il sistema mi sa rendere lo

naturale, e i timpani della morale pubblica possono vibrare soltanto se una voce la si ascolta, soltanto se la si cerca, se la si conserva. Bisogna lottare per riconoscere nel mondo le tracce di chi

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scenario accessibile, mi concede la possibilità di incrinarlo. Ma la coscienza non è acquisizione

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faccia più da mantra che da condanna. Abbiamo bisogno di parole, quelle serie, quelle che fanno


vogliamo diventare, e soffrire della loro partecipazione, perché non esiste dignità nel lasciarsi attraversare dalla vita. E' il silenzio ad estorcerci una coscienza di legalità. Per questo ci affianchiamo a chi con il silenzio non ha voluto rapporti, a chi ha detto e scritto in età giovanissima, quando si ha tutto da perdere perché si ha tutto da diventare. Peppino Impastato e Giancarlo Siani, due uomini che un'idea la tenevano bene a mente, e che cercavano di realizzarla: l'idea di permettere un’alternativa premettendo il diritto. La parola di Peppino Impastato ha seguito traiettorie sinuose, scontrandosi in echi diversi. Nasce nei ripetitori di una radio, viene brutalmente strozzata dal silenzio di un dopo esplosione, si incanala nel ventre di sua madre, rioccupando spazi uterini affaticati ma all'erta, e di nuovo si fa memoria e lotta per chi, quella voce, vuole ancora ascoltarla. Nella primavera del 2010, le chiavi della casa del boss Tano Badalamenti, condannato all'ergastolo per l'omicidio di Peppino, vengono consegnate al fratello Giovanni, lui che da più di trent'anni sputa fuori, con determinazione e con orgoglio, i raschini di polvere maledetta di quell'esplosione assassina. La casa è stata svuotata e ripulita prima che Giovanni potesse oltrepassarne la soglia e si trovasse a percorrerne gli spazi. Cento passi più uno. Cento passi che separano casa Impastato dalla facciata di Don Tano, cento passi che oggi non bastano più. Un altro passo ancora, quello che dal fuori ti precipita nelle stanze del non più. Non più al di qua della soglia, dove il passato ha la voce di Peppino e non si zittisce; non più quello che era al di là della porta, la retorica mafiosa, le riunioni decisive, l'intimidazione, le pietre con cui spaccare il cranio; non più i binari, non più il tritolo che riduce in pezzi e lascia un funerale con la bara leggera, il fiato secco di una madre, gli stomaci rivoltati di chi, al solo pensarci, si sente amputato della propria umanità. Propria, perché la lotta alla mafia è uno scontro personale e nello strazio, ogni uomo identifica sé stesso e sente il cuore ribaltarsi. La sfida inaccettabile lanciata da Peppino non è stata la sua candidatura politica: certo, quella ha corrisposto alla linea di frontiera, ma non si ignorare l'intera distesa di parole che, come manovre ripetute di attacco, lo avevano avvicinato al fronte. Parole scritte, parole dette, parole che hanno sì la forza di chi le pronuncia, ma che diventano ancor più pericolose in virtù del loro ascolto. Pericolose parole di svelamento del sistema, della mistificazione di cui gode e si nutre il potere criminale, sbeffeggiato e insultato da un uomo che avvicina la cittadinanza nell'istinto di un

una moralità contrapposta radicalmente all'indecenza mafiosa. Figure come Peppino Impastato, Padre Puglisi, Giovanni Falcone, Don Peppe Diana, dovrebbero tutti appartenere alla familiarità della nostra nazione, non come icone intoccabili o eroismi eccezionali, ma nell'immediatezza della

parole, la rabbia per la loro uccisione, devono diventare sentimenti inevitabili sui quali dichiarare le nostre richieste. Ma la speranza nasce dall'esperienza, quella che ci fa conoscere le possibilità di

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loro umanità. La conoscenza dei gesti quotidiani, di piccole scelte progressive, la lettura delle loro

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sorriso divertito. Quello che non riusciamo a fare, in quanto italiani, è pretendere la formazione di


cambiamento, che ce le affonda nella carne, mostrandoci un percorso che sembrava già segnato e a cui, invece, abbiamo stravolto la direzione. «La speranza – diceva Danilo Dolci- è ben diversa dall'illusione, fonda se stessa sull'intenzione di procedere, un procedere che è non soltanto spingere i passi, ma saper aspirare, avere il senso della direzione». E' per questo che progettare se stessi diventa un sistema di vita, perché la bellezza, come la felicità, alle volte inizia con un'attesa, come una prospettiva, ancora meno di un progetto, ti si infila da qualche parte e ti condanna la vita alla sua continua ricerca. La lotta alla mafia, alla camorra, alla 'ndrangheta, il contrasto fondamentale all'illegalità deve essere un intento comune, e quotidiano, rinvigorito dall'attività intellettuale. Che la coscienza italiana si conformi secondo la retorica legale, è una necessità che non può e non deve essere affidata soltanto alle aule di tribunale; il cittadino deve avere accesso alle informazioni, deve poter sviluppare, qualora lo voglia, la propria etica anti-mafiosa, e a questo proposito le parole efficaci degli scrittori giocano un ruolo di primaria valenza. Perché la lotta alla mafia è uno scontro su più fronti, e la collaborazione di ogni settore, in azione congiunta, rinforza il fronte stesso. Potremmo rivolgerci alle istituzioni, alla politica, nel tentativo di riconoscere un'espressione di decisa legalità. Ma non è un mistero quanto ci sta attorno ed è chiaro che la serietà dell'impegno istituzionale manca agli attributi che riserviamo ai nostri governanti. Non ci è concessa la fiducia nella coerenza, o nella rettitudine, perché a speranze di questo tipo corrisponde sempre l'accusa di ingenuità. Il pensiero è molto semplice: non esiste senso nel richiedere onestà ed efficienza ai politici, dunque il mio voto non ha nessun valore per gli interessi che voglio tutelare. Non me li garantisce, non me li procura. E allora, nessun partito, nessun ideale, nessun programma a cui fare affidamento. Soltanto qualche personaggio di turno, che di volta in volta compra croci su di una scheda. Fintanto che avremo l'abitudine di avvicinare la politica come uno spazio altro a cui chiedere sommesse concessioni, fintanto che considereremo normale assistere a giochi di contrattazione e a patti sottobanco, non riusciremo a pretendere la limpidezza della condotta. Fino a quando seguiremo i movimenti indecorosi e spudorati dei politici da una spilla all'altra di partito, ecco, sino a quel momento non avremo abbastanza forza per dichiarare che noi no, noi siamo diversi, noi al nostro voto ci teniamo, e le nostre scelte le vogliamo far sentire. Quello che manca è

rinchiusa nei propri agi, scambio di una poltrona per un favore altrimenti irrealizzabile, o concessione di potere a scapito di un diritto, nostro per nascita e per Costituzione. Per questo la legalità resta un tema importantissimo, perché costringe ad interrogarsi sulle implicazioni che

diventati obiettivi da raggiungere e non condizioni da garantire. Il movimento culturale della lotta antimafia, quello caro al pensiero di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino ha però la possibilità di

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legano la politica a-morale alla sfiducia indifferente dei cittadini, alla svendita dei propri diritti,

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un'idea diversa, soffocata, non scomparsa: l'idea di una politica che non sia padrona volutamente


forgiarsi in altre sedi, ossia a partire dalle espressioni culturali: è per questo che cinema, letteratura, informazione, sono punti cardine per la coscienza pubblica e personale. E' conoscendo emotivamente l'orrore, provandone disgusto, che possiamo dichiarare i nostri MAI PIU', ed è proprio dei grandi comunicatori rendere ciò che non è stato esperito, parte del nostro vissuto. Quelle parole di contrasto, quelle che possono infilarsi dentro e diventare tue, io le ho cercate. Oltre le nostre porte sbattute, al di là delle risate con gli amici, abbiamo rincorso anni che sembrano secoli e abbiamo trovato un volto che potrebbe essere tra i nostri vicini, nelle serate passate fuori casa, al di là di una cornetta alzata con cui chiacchierare. Venticinque anni fa nostra madre ci coccolava, le mani sul ventre, magari canticchiando e certo, teneva stretto un segreto appena concepito. Noi ancora un niente, non un nome, non un pensiero, nemmeno un paio di occhi, ci rannicchiavamo in un utero protetto. Giancarlo, sotto i colpi voluti dai Nuvoletta, si accasciava nella sua auto. Consumato il fiato in qualche ultimo singulto, tornava al niente da cui io stavo arrivando. Il ventitré settembre di venticinque anni dopo ci ritroviamo davanti ai cancelli di un palasport. Raccontiamo a Vittoria di Giancarlo Siani, le diciamo del suo talento, le raccontiamo dei ventisei anni che aveva compiuto pochi giorni prima di essere ammazzato. Un ragazzino. Spieghiamo a Vittoria che Siani aveva scritto un articolo, parole di un ragazzo in attesa di assunzione. Le diciamo che nell'85 a Torre Annunziata viene arrestato il boss Valentino Gionta e le spiego che a provocarne volontariamente l'arresto fu il suo alleato, Lorenzo Nuvoletta, referente in Campania di Totò Riina. Nuvoletta aveva problemi con un altro boss, e per evitare uno scontro acconsente a pagare un prezzo infame, l'eliminazione di Gionta. Tutto questo Siani se lo sente raccontare da un capitano dei carabinieri, e lo scrive. Tre mesi dopo, sotto casa sua, l'esecuzione, per zittire chi scrive, bene, dell'infamia, per tacere una voce talentuosa e un carattere onesto. Cerchiamo di trasmettere a Vittoria quel dolore indignato e senza fiati che noi sentiamo, e capiamo che qualcosa ci aiuta ad incontrarci nell'incredulità, un dettaglio, sembra insignificante tra le carte delle inchieste, uno sfogo, indispensabile a noi due, che restiamo in piedi, davanti ai cancelli. Daniela, una collega di Siani, è in redazione con lui quella sera. Organizzano la serata, c'è il concerto di Vasco, Giancarlo cerca i biglietti, ma non riesce a trovarne e decide di tornare a casa, lì dove lo aspettano. I cancelli sono

l'auricolare è caduto sulla spalla, ma la musica è talmente alta che riusciamo a sentirla lo stesso. Sono ore che ripetiamo le stesse parole, che ricordiamo strofe, volevamo essere preparate ad ogni cambio registro, ad ogni fiato tra le parole. Ad ogni concerto di Vasco ci prende così, diventiamo

imbarazzo alle spalle di Vittoria, che continua a guardarmi, ma sta scegliendo le parole, e resta in silenzio. Il ragazzo intanto ha le mani nascoste, non ci sono, si son perse nelle tasche di lei e con la

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serissimi. Abbiamo una coppia davanti a noi, lei si sta appoggiando senza volontà e nemmeno

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ancora chiusi e centinaia di persone ci si stringono attorno. L'ipod di Vittoria ancora sta andando,


guancia cerca il suo collo e sposta i capelli, piano, un po' sorride, un po' sembra spazientito. Sarà l'umidità appiccicosa di queste parti, oppure l'attesa, magari quei capelli gli sembrano troppi. “Quindi magari Vasco, quella sera, lo avrebbe salvato”. “Non lo sappiamo, Vitti. Sinceramente non crediamo”. Non crediamo che un'uscita diversa lo avrebbe salvato. Non in quell'occasione, non in quegli anni. Forse però quei gusti di ventenne salvano un po' noi, mentre ci sentiamo più vicini a storie di venticinque anni fa. Forse ci salvano perché ancora fa male sentire lo scandalo che ci brucia in gola. Magari ci stiamo salvando piano piano, senza troppo rumore, scavando qua e là, creando appigli a cui aggrappare i nostri ideali giusti. Magari ci stiamo salvando perché siamo lontani e comunque abbiamo bisogno di parlarne, di non lasciar cadere; perché sentiamo che dinnanzi all'umiliazione, al degrado e ai soprusi, solamente la bellezza del dignitoso impegno, e della ricerca della felicità salvano l'uomo dalla disperazione. O forse, alla fine di tutti i pensieri, qualcosa di più semplice ci si para davanti. Qualcosa che non puoi tacere, una sensazione, lo stupore di una speranza. Il corpo che ti si blocca, termini giusti che non riesci a trovare, spiegazioni efficaci e altisonanti che non puoi offrire. Ti resta un pensiero, quello sì, chiaro, unico, talmente banale da darti l'imbarazzo di sentirsi un po' infantili. Tant'è. L'inevitabile è che davanti a certi gesti, dinnanzi a certi uomini, la salvezza ci è concessa, perché riconoscere qualcuno che nell'inferno sembra tutto fuorché un dannato, ti costringe a volergli assomigliare un po'.

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Capitolo 11 – L’impresa di essere giovani

Sono giorni che mi torna alla mente e tra le mani la lettera di mio cugino, timbro della U.S. Mail città di New York, anche adesso la porto in tasca dopo l’ennesimo tentativo, l’ennesima camminata, l’ennesima sala di attesa per finire con l’ennesimo incontro, che inizia con un colloquio pieno di «è giovane, non ha mai lavorato, appena laureato, nessuna esperienza» e, dopo altri 10 minuti buoni di domande e nessuna richiesta, finisce nella migliore delle ipotesi con un «sa, la crisi» o con un «vi faremo sapere», senza convinzione, che fa morire anche la speranza. Questa situazione appena letta, e che continueremo a leggere fino alle estreme conseguenze, è la situazione di partenza, e spesso anche di arrivo, che almeno 300.000 giovani campani e ancor più giovani italiani hanno affrontato nell’ultimo lustro, addivenendo a quelle conclusioni che hanno costruito nel tempo la nuova emergenza lavoro. Un’emergenza che, di fatto, vede occupati circa un giovane su quattro nel nostro Paese e tanti, assolutamente troppi ed eccellenti, scappare letteralmente in Europa e in America, alla ricerca dell’occupazione. E non solo. Ma ora torniamo alla nostra storia… Scoraggiato dall’incontro con il Direttore del personale, entro in un bar per un caffè ed inizio a comporre il numero di telefono di casa per avvisare i miei : «Ciao Mamma, sono io, tutto bene? Sì, il colloquio l’ho fatto, è andato come gli altri, mi spiace dovrai tenermi con te a casa ancora per un bel po’». Mia mamma ride, scherza, dice che è casa mia, che se voglio posso restare anche tutta la vita. Lo so che è sincera, ma io mi sento male: ho 27 anni, laureato da due, voto 105 in Economia e Commercio alla “Federico II” e chiedo ancora soldi a mio padre e a mia madre per campare. Ho fatto tanti lavoretti in passato, mentre studiavo, ho servito nei pub, ho fatto il pr per locali e discoteche e una miriade di altre cose; oggi sono laureato, ho speso anni sui libri e i miei migliaia di euro, ho girato praticamente tutta la Campania per un lavoro decente, anche per fare semplicemente il ragioniere in un’azienda familiare, ma niente. E’ vero, per un posto da operaio, muratore, imbianchino non ho mai neanche chiesto, ma allora che ho studiato a fare per 27 anni, se alla fine torno a fare il

quella che lui aveva potuto cogliere, facendomi studiare, formare: quanti sogni hanno sacrificato lui e la mamma per darne uno a me. Ci inseriamo tra le riflessioni del nostro giovane amico, perché

bisogna ricordarlo, fino alla mia generazione (anni '80) esisteva il bacino demografico più grande d’Italia in termini di giovani e dove l’età media della popolazione era di circa 30 anni, mentre al Nord si avvicinava molto ai 40. Oggi la situazione non è cambiata, come dire che la Campania era

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vale la pena fare una piccola immersione nella realtà campana ed in generale del Sud Italia, dove,

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muratore come mio padre? Mio padre, che ha speso la sua vita per darmi una possibilità migliore di


ed è un vivaio di futuro: laureati, diplomati, neo professionisti e neo imprenditori (la provincia partenopea è la seconda in Italia per tasso di natalità e mortalità di giovani imprese). Un vivaio che purtroppo, scontratosi con l’inaccessibilità del sistema, con la mancanza di meritocrazia, ed in generale con l’ancien regime della peggiore gerontocrazia prodotta dalla nostra nazione, non ha saputo e potuto trovare spazio ed opportunità per realizzarsi. Il tutto unito alla deindustrializzazione del nostro territorio, dovuta alla scomparsa dei maggiori centri produttivi del passato, che non hanno trovato in generale un territorio amico, complici la burocrazia del paese, l’illegalità diffusa, il costo del denaro più alto d’Italia e la produttività più bassa. Come anche ha inciso la mancata conversione di tante aree alla nuova vocazione turistica, sempre auspicata e mai realizzata, e chiaramente l’assenza di uno Stato che funzioni. Insomma, queste tra le principali cause del venir meno costante di tante piccole e grandi opportunità che negli ultimi 10 anni hanno contribuito a far crollare il Pil del Mezzogiorno di quasi 20 punti percentuali in Campania. Ecco la cornice dove il nostro giovane amico si muove… Il caffè era buono, lascio il bar e mi dirigo alla Metro. Per strada compro uno dei tanti giornali che riportano bandi di concorso, li leggo, prendo appunti e inizio a pensare all’ennesimo concorso. Poi ripenso a quello sostenuto qualche mese fa, eravamo in migliaia per poche centinaia di posti e sul viso mi compare un amaro sorriso: e dire che ci ho provato anche ad andare fuori, da Modena a Milano ho fatto e sostenuto almeno quindici colloqui. Tutti mi proponevano uno stage iniziale di qualche mese con rimborso spese da 350 euro e sarebbe anche andato bene, ma poi? Dove dormivo, come mangiavo, avrei dovuto chiedere ai miei un altro sacrificio, magari un prestito in banca? Non ce l’ho fatta. In banca ci sono anche andato da solo, spinto dalle tante pubblicità, ma niente: un euro non te lo danno mica se non hai una busta paga o qualcuno che garantisce per te con una fideiussione! Ecco uno dei nodi critici del sistema economico al Sud: la mancanza di fiducia e l’applicazione non scritta, ma fattuale, del criterio di rischio geografico; cosa voglio dire? Mi spiego meglio: al Meridione gli istituti di credito non solo applicano costi più alti ai prestiti, ma sono soprattutto maggiormente restii a concedere credito, in special modo ai giovani e alle loro imprese appena nate, senza ovviamente storia, ma spesso con idee brillanti. Imprese che esportate al Nord o in Europa spesso creano e realizzano realtà forse quello dell’usura, che resta l’unica possibilità iniziale per tanti e che, in sostanza, definisce fin dal primo prestito la fine e la morte di migliaia di iniziative, che sul nascere si vedono condannate. Purtroppo anche in questo l’Italia è divisa a metà; infatti, per quanto la crisi degli ultimi anni abbia

ulteriormente peggiorate, arrivando a creare una stretta economica che ha determinato una crisi di liquidità del sistema, peggiorata dai ritardi dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni, che al

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fortemente penalizzato anche il Nord, le ataviche restrizioni già applicate nel Sud sono

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piccole, ma dal grande futuro. Chiaramente questo stato di cose fa il gioco del denaro illegale,


Sud sono di circa seicento giorni, mentre al Nord di “appena” centottanta: tali inadempienze determinano la prima causa di fallimento di vecchie e nuove imprese nel Meridione. Insomma ho cercato, provato ed insistito, ma sembra che qui non ci sia nulla per me. A volte penso che magari ho sbagliato approccio, che sarei dovuto partire come tanti amici per cercare e creare il mio futuro all’estero, magari a Londra o anche in Spagna, dove molti amici hanno trovato lavoro e dove il sistema degli ammortizzatori sociali aiuta tutti, anche i più giovani. Così è andata a Giovanna, due anni alla Barclay, poi licenziata e ora ha per un anno un sussidio dallo Stato di 20 mila euro, in attesa di trovare nuova occupazione. Eppure parliamo di un paese dell’Europa meridionale, con difficoltà maggiori dell’Italia, ma un welfare più equo e attento tanto ai giovani quanto ai lavoratori senior. Qui ci chiedono di trovare coraggio, ministri vari si succedono nell’etichettare i giovani della “Bamboccioni”, quasi a dire: scansafatiche e mammoni. Ma non si rendono conto della situazione ridicola in cui si trova il Paese, dove il nostro sistema di ancoraggio e sussistenza economica si basa sulle pensioni e sulle indennità dei nostri nonni e non sulla capacità di generare ricchezza delle generazioni successive? E’ un sistema ormai troppo impoverito da politiche di debito e da miopia governativa, che ha preferito mantenere intatti privilegi e caste per proteggere vecchi, anziani, partiti, sindacati, etc, dimenticando completamente che non c’è futuro senza continuità generazionale. Qui vale la pena fare una pausa, per ricordare un evento che si può reputare di natura straordinaria, poiché è uno di quei momenti che danno la misura del tutto e che passa attraverso la lettura di una lettera del direttore generale della Luiss, Dott. Celli, che dirige una delle migliori e maggiori università italiane, centro di eccellenza, dove si produce quella economia della conoscenza e quel ricambio generazionale nella classe dirigenziale che dovrebbe far ripartire il Paese. La lettera è indirizzata al figlio appena laureato e pubblicata su uno dei maggiori quotidiani nazionali: il padre invita il giovane a scappare dal Paese, perché mentre gli riconosce abilità e doti di valore, non riesce a trovare in Italia il luogo dove il ragazzo potrebbe metterle a frutto. La questione è importante: mette in luce quella che non è una provocazione, ma l’incapacità dichiarata anche delle Upper Classes di trovare spazi e opportunità nel Paese, il che determina chiaramente che lo stato di disagio si amplifica nelle famiglie e nelle classi sociali meno abbienti, arrivando ossia l’abbandono totale di ogni fiducia e sforzo nella ricerca di lavoro e occupazione. Da qui la nascita di una nuova classe di disadattati, quella dei “NEET” (Non in education, employment or training), che raccoglie due milioni di giovani italiani, di questi la metà interamente residente al che si ritiene già senza speranza, nonostante l’età e l’istruzione ricevuta; saranno capaci di condizionare fortemente il futuro, se non saremo in grado di scuoterli e proporre, anche attraverso

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Sud, in maggioranza in Campania. I giovani “NEET” rappresentano un pezzo di una generazione

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addirittura a trasformare un fenomeno di disoccupazione in una questione molto più allarmante,


politiche di merito, un vero e proprio innesto nella nostra società di innovazione anagrafica e non solo. Insomma facile parlare di coraggio, soprattutto se lo si fa da podi privilegiati e da cattedre, dove pontificare costa poco, ma io ho battuto la testa contro il muro già molte volte e l’unico risultato è stato ritrovarmi bernoccoli sulla fronte. Non mi arrendo ancora, però, dopotutto ho idee ed energie da vendere e non ci sto a rinunciare. Devo troppo a chi ha creduto e sacrificato molto per me: la mia famiglia, che tanto ha investito. E non ci sto nemmeno a scappare, a correre fuori, dove sicuramente non sono solo rose e fiori! Anche se lì l’orizzonte è più definito e la probabilità di raccogliere, dopo tanti sacrifici, è quasi una certezza. Fa strano anche solo pensarlo, ma “fuori” il merito, la capacità di lavorare e il mettersi in gioco sono riconosciute e premiate. Comunque eccomi arrivato al prossimo appuntamento della giornata, con un amico e collega dell’università, eccolo lì, fermo sulle scale al telefono. «Ciao Pasquale, sono qui». Mi raggiunge e ci salutiamo. Pasquale ha la mia età, ha appena terminato un dottorato di ricerca in economia internazionale, che purtroppo non verrà rifinanziato. Vista l’impossibilità di fare una carriera nell’ambito universitario che abbia tempi ragionevoli, mi ha contattato e ora mi sta proponendo di metterci insieme e tentare un'avventura. L’idea è fondare una piccola impresa, per esportare agroalimentare e moda. Lo ascolto con interesse, mi spiega la sua idea, mi mostra il business plan e starlo ad ascoltare mi scuote, mi entusiasma addirittura, riaccende in me più di una fiammella, insomma ritrovo un po’ di coraggio e forse anche la speranza in un riscatto personale. Ci lasciamo sorridenti e ci diamo appuntamento a domani, nella sede di una nota associazione di imprese. Devo dire che percorro la strada di casa con una nuova fiducia e, con qualche piccolo gesto scaramantico, spero di catturare un po’ di fortuna che è meglio non farsi mancare mai. L’incapacità di trovare lavoro subordinato ha fatto nascere nei giovani, e non solo, la proposizione e il tentativo di mettersi in gioco, alimentando la nascita di nuove imprese. Quindi, potremmo dire che in Italia l’auto-imprenditorialità, soprattutto se di prima generazione, è indotta dal sistema economico, che non riesce a trovare sbocchi diversi, ma purtroppo, specie al Sud e nella provincia di Napoli, questa auto-imprenditorialità detiene sia il record positivo di nascita sia quello negativo di morte, stabilendo una vitalità media delle neonate imprese non superiore ai 48 mesi. Nella maggior parte dei casi, le “giovani” aziende non chiudono

pagamenti e dal mancato finanziamento degli istituti di credito, che operano sulle micro e piccole imprese una stretta creditizia che ha dell’inusuale in un paese che si regge per il 90% della sua economia proprio sulle piccole imprese, che sono il motore pulsante dell’Italia e che l’hanno resa come l’indebitamento ad alto rischio di insolvenza complessivo delle banche è, per il 75%, affidato a poche grandi imprese italiane, che rappresentano circa il 5% del sistema produttivo, mentre il

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negli anni una delle maggiori potenze industriali al mondo. Da una recente ricerca, infatti, si evince

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per mancanza di ordini o per bilanci in perdita, ma per la mancata liquidità generata dai ritardi dei


restante 25% è affidato a piccole e medie imprese, che esprimono rischi di insolvenza molto più bassi per quantità e qualità dei crediti. Alle 9 e 30 minuti siamo al centro direzionale di Napoli. Di fronte a noi, dall’altro lato del desk, da pochi minuti una responsabile dell’associazione di imprese risponde alle nostre domande, le chiediamo se esistono percorsi agevolati per le nuove imprese, per ottenere credito dagli istituti, prestiti d’onore. Le spieghiamo il progetto, insomma in un’oretta buona ci facciamo un’idea di massima. La dottoressa ci spiega che per una società di servizi non esistono particolari sovvenzioni, ma ci fissa un appuntamento con il responsabile di un Confidi per chiedere finanziamenti. Ci invita ad andare avanti e scommettere sull’idea perché, parole sue, in Campania esistono tanti ottimi prodotti che hanno bisogno di essere internazionalizzati e che per cause varie, non ultima la crisi inerente ai rifiuti (più che diffusa mediaticamente) ci sono stati forti cali nelle vendite negli anni passati e che ci sarebbe la condizione di ripartire, sperando che non si ripresentino altre emergenze. Io e Pasquale discutiamo ancora, andiamo anche da un amico commercialista, ci spiega come aprire una partita IVA, ci consiglia una forma societaria, ci spiega quali moduli ritirare in banca, insomma ci mette di fronte ad una burocrazia che potrebbe scoraggiare chiunque, ma che non basta a fermare il mio rinnovato entusiasmo. Io e Pasquale ci lasciamo, fissando un appuntamento per la mattina dopo direttamente in banca, per versare il capitale necessario a costituire la società. Ora per me arriva la parte difficile, perché mortificante: chiedere ai miei i capitali necessari alla costituzione della società. Mi servono cinquemila euro. Qualcosa di mio l’avevo messa da parte, ma non è sufficiente. Aspetto la cena, ne parliamo a tavola: i miei come sempre non si tirano indietro, credono in me e a mamma vengono gli occhi lucidi, qualche lacrima sale sul bordo dei miei occhi e mi brucia il petto a chiedere questo ulteriore sacrificio, questa scommessa a me che ancora oggi sono un peso per chi mi ha amato e cresciuto. Ingoio il boccone, però, e mi riprometto che non ci saranno prossime volte di questo genere, che sarò io in futuro a ripagare tutto e che li renderò orgogliosi di me. Vado a letto con il petto in fiamme e con la rabbia dentro di chi vuole affermarsi nella vita. La questione del capitale iniziale è da sempre il primo e spesso insormontabile scoglio per lo start-up di un’azienda. Purtroppo non ci sono alternative, fondi di garanzia o prestiti d’onore che tengano: il primo problema da risolvere ed spesso l’unica risorsa nel Sud è la famiglia di origine. Al Nord, invece, c’è qualche differenza sostanziale, perché il sistema del credito è molto più favorevole ad investire sui progetti. C’è da dire che ci sono anche molte iniziative, come gli “Incubatori d’azienda”, che agevolano i percorsi di

per le neonate imprese. Ed in Campania non mancano esperienze di successo in questo ambito, ma sono poche e non molto conosciute, sicuramente una maggiore diffusione di informazioni, già

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costituzione, mettendo gratuitamente a disposizione le strutture e l’accompagnamento burocratico

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affrontare per la nascita di un’azienda è quello di trovare investitori nell’idea e nel progetto e troppo


nell’ambito universitario e in quello dei professionisti, come commercialisti e avvocati, potrebbe aiutare a cogliere questo tipo di opportunità. Per tornare brevemente alla sempre viva questione del credito, invece, un ottima soluzione per reperire risorse e finanziamenti è la formula del Confidi, enti di garanzia che aiutano non solo ad ottenere credito dalle banche, ma anche ad ottenerlo a costi inferiori. Unico neo: troppo spesso si richiede almeno la presentazione di bilanci approvati da due anni, cosa impossibile per una giovane società appena nata. Camminare fino in banca stamattina ha il sapore della speranza, ad ogni passo mi convinco che la scommessa che sto affrontando, investendo su me stesso, è la strada giusta. E mi piace anche che la nostra azienda si impegni come progetto di business nella valorizzazione dei prodotti e dei beni campani, mi fa sentire utile anche nei confronti del mio fin troppo massacrato territorio che ha tante eccellenze da esprimere. In banca fila tutto liscio: apriamo il conto di garanzia, versiamo il capitale e ritiriamo l’attestazione da consegnare al notaio. Oggi il commercialista ci consegnerà oggetto e statuto della società, ci siamo quasi: la nostra piccola avventura sta per iniziare, penso a quanto siano cambiate le prospettive in una settimana e, anche se qualche volta si affaccia la paura di fallire, guardo Pasquale pieno di fiducia, ripenso alle facce dei miei e ritrovo il coraggio. Come ufficio useremo il garage di Pasquale, il computer sarà il mio portatile e i cellulari saranno la nostra segreteria mobile e sempre attiva. Da domani iniziano gli appuntamenti, che anche grazie all’associazione di imprese siamo riusciti ad ottenere. Ora dobbiamo solo convincerli. Pasquale ha studiato tutte le leggi e le pratiche burocratiche ed oggi andrà all’ICE (ufficio commercio estero), dove ha già contatti; io mi occuperò dei clienti e dell’amministrazione quotidiana. Insomma ci siamo, manca davvero solo la firma dal notaio. Iniziare un’attività di impresa, come si vede, è un operazione abbastanza complessa e soprattutto prevede costi iniziali altissimi per chi ha poche risorse. Purtroppo nel nostro Paese la procedura è ancora lunga e farraginosa, a differenza delle altre nazioni europee, dove costituire un’impresa costa in media il 50% in meno e il tempo medio per la registrazione è di circa 7 giorni, in Italia la media va dai 20 giorni del Nord ai quasi 60 del Sud. Insomma un bel gap, che già alla partenza rallenta e non poco. Oggi, però, in virtù di nuove disposizioni europee anche l’Italia dovrebbe accelerare sui tempi di costituzione e c'è da augurarsi che anche la differenza di velocità

sarà la novità, ma da oggi sono ufficialmente un imprenditore. Io e Pasquale abbiamo brindato e ci siamo augurati buona fortuna e anche il notaio e il commercialista ci hanno incoraggiato, ma ora si lavora, finalmente! L’incontro in associazione è andato bene, con il nostro entusiasmo abbiamo

siamo pronti a superarli tutti. Inoltre, ho ripreso vecchi contatti e ho iniziato a chiamare i tanti amici andati via e con loro ho condiviso il progetto e ho chiesto una mano a penetrare nei loro mercati.

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contagiato le aziende presenti e, anche se già sono apparsi i primi problemi e le iniziali criticità,

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tra la macchina burocratica del Sud e quella del Nord possa essere ridotta. Mi sembra ancora strano,


Tutti si sono detti disponibili, qualcuno mi ha incoraggiato e ho sentito nella sua voce la nostalgia di casa, in altre voci, invece, ho sentito lo scoramento e la delusione per un Paese che li ha delusi e feriti, ma nessuno mi farà mancare il suo aiuto e forse questo sarà un piccolo modo per riavvicinarci tutti a casa nostra, per costruire con le nostre mani una nuova speranza per tanti che sentono nel cuore e nella mente l’appartenenza a questo territorio difficile come un punto di orgoglio e di merito. Il nostro Paese che ha bisogno di una bella scossa e di nuova energia, non solo per ripartire, ma soprattutto perché non esiste innovazione e progresso senza ricambio generazionale, come non esistono società giuste e competitive, dove non si creano le basi per premiare il merito e la professionalità. Oggi, purtroppo, c’è una percezione del futuro che rende pessimisti e che, per la prima volta nella storia, rende i figli meno propensi a credere nel domani, guardando con invidia ad una vecchia generazione che aveva prospettive migliori e più chiare. Ribaltare questo stato di cose è fondamentale, affinché l’impresa di essere giovani in Italia consegua al giusto profitto, che si traduce nella continuità sociale e culturale di una storia che ha fatto e reso eccezionale la nostra nazione, per creatività, eccellenza e competitività. Dopo il Made in China, l’unico Made che veramente conta è quello marcato Italy, costruito appunto sugli sforzi e il lavoro dei “vecchi” giovani. Questa eredità non deve essere perduta, ma raccolta e valorizzata, investendo su questi straordinari ragazzi che troppo spesso si trovano a combattere con atavici problemi e baronie, che ingessano il Paese. Il nostro racconto non è semplicemente inventato, ma ricalca una storia vera, ancora in corso e alla quale auguriamo tanta fortuna. Soprattutto perché riuscire qui da noi, a Napoli, in Campania, al Sud dell'Italia, spesso significa vincere ovunque. C’è tanto bisogno di esempi positivi che indichino che la strada dell’impegno e la forza della volontà vincono e superano anche ostacoli che sembrano insormontabili. C’è bisogno di piccoli fari che mostrino come l’impresa di essere giovani, anche se talvolta colleziona sconfitte, è molto dolce soprattutto quando, invece della battaglia, si vince la guerra per affermare se stessi e la qualità delle persone e del territorio dove si vive.

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Capitolo 12 – Italiani, cittadini del Mondo

Li riconosciamo subito negli aeroporti, ai controlli prima dell’imbarco, quelli come noi che sono tornati a casa per un weekend o per passare le feste in famiglia: documenti già alla mano, computer fuori dal bagaglio e bustina dei liquidi ordinatamente riposta per il consueto passaggio sotto il metal detector. Pochi secondi per riordinare gli effetti personali, voltarsi per salutare con la mano chi ha nostalgia di vederli partire e già le luci del duty free, dove gli stranieri si fermano a comprare il panettone o la pasta colorata, annunciano la partenza imminente. È il momento questo in cui tanti pensieri assalgono la testa. Ognuno si dirige verso la porta d’imbarco con lo sguardo verso i propri passi ed i ricordi dei giorni appena trascorsi, i volti delle persone care, i luoghi familiari dell’infanzia che si sovrappongono a quelli nuovi di una vita costruita altrove. Siamo un popolo silenzioso, nomade, certi delle nostre origini ma dubbiosi dell’identità alla quale apparteniamo, ammesso di averne una sola. Seduti al tavolo del ristorante dove Enrico lavora, un sabato notte a fine serata, ci siamo trovati a sorseggiare del vino rosso. Gli ultimi clienti si alzano e ci lasciano il locale vuoto per le nostre discussioni tra amici. “Questo è Nero d’Avola, arriva dalla Sicilia”, dice fiero Enrico aprendo la bottiglia. Nato e cresciuto in un paesino dell’entroterra laziale, ci confessa: “Sai cosa mi attendevo da Parigi? Ancora adesso me lo chiedo. Sapevo che sarebbe stato difficile abbandonare i miei cari, gli amici con cui ho diviso la vita e non solo. Abbandonare le mie abitudini e quelle poche certezze che mi hanno accompagnato per anni…”. Le sue parole ci incuriosiscono e con la coda dell’occhio incrociamo lo sguardo di Nicoletta che vuole saperne di più. “Certo mi immaginavo le difficoltà, ma non credevo che una città così bella e famosa potesse avere stanze tanto piccole!”. La naturalezza di quella considerazione ci fa sorridere ed annuire con la testa. Adattarsi a quegli spazi abitativi che a Parigi si chiamano “studio” non è facile. “Il primo appartamento in cui sono stato era più piccolo della mia camera in Italia!”. Chissà se Mina avrebbe cantato “Il cielo in una stanza” qui a Parigi, poiché di cielo quei pochi metri quadrati ne avrebbero della città. Un altro sorso di vino ed il clima disteso ed intimo si è presto instaurato tra noi. “Alla gente che incontri per le scale e non risponde al tuo saluto oppure lo fa, apparentemente, dice con un pizzico di malinconia. “Beh”, gli rispondiamo, “a Milano non conoscevamo i nostri vicini di casa ed il saluto era una formalità, non di certo una cortesia”. “Giusto”, interviene Nicoletta, che fino ad allora era rimasta zitta ad ascoltare le confessioni di Enrico e sorrideva

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controvoglia non ero abituato. Se penso al mio paesello dove tutti mi salutavano e sorridevano…”,

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contenuto davvero poco ed altrettanto meno si scorge dalle minuscole finestre che danno sui tetti


quando si trovava d’accordo con le sue considerazioni. “Quando torno a Bari ed incontro i vicini di casa o conoscenti per la strada, quelli che prima si limitavano ad un saluto fugace, mi fermano per sapere della mia vita e mi fanno tante domande, si aspettano di sentire che ho fatto fortuna, manco avessi vitto alla lotteria!”. “Eh già Nicoletta, sai che la prossima volta ci inviti fuori a cena?”. “Spiritoso! Se volete vi invito a cena sul serio, ma a casa mia, e vi faccio assaggiare le orecchiette più buone che avete mai mangiato”. “Affare fatto! Non lo dire però ai tuoi vicini di casa di Bari, fargli credere che vai al ristorante ogni settimana con ostriche e champagne!”. “Ma tu scherzi! Ci rimangono quasi male sapendo che qui ho un lavoro normale, quello che non sono riuscita ad avere in Puglia e nemmeno a Milano, se è per questo, dove sono stata un anno prima di partire per la Francia”. “E perché scusa? Casomai dovrebbero essere felici per te”. “Già, ma la gente a volte non comprende perché te ne vai”. Cala il silenzio, quella sensazione la conosciamo bene tutti. Nicoletta è pensierosa, non vogliamo distoglierla dal suo ragionare, ma vorremmo distrarla un poco perché ora notiamo un velo di tristezza nei suoi occhi. In Italia era un’insegnante, come tanti in attesa di un posto fisso che arrivò solo dieci anni dopo, quando ormai era già partita. Quel posto non lo accettò e sua madre ancora gliene vuole. Ora insegna italiano e tra i suoi clienti c’è qualche amatore del bel paese e soprattutto personale di aziende che hanno rapporti commerciali con l’Italia. “Ma il tiramisù che fate in questo ristorante è quello vero?”, chiediamo ad Enrico per provocarlo. “Il cuoco, l’aiuto cuoco ed il sottoscritto sono italiani. Qui si fa vera cucina di qualità, non un surrogato franco-italien come nei locali turistici”. Sappiamo come farlo arrabbiare, conosciamo i suoi punti deboli. La porta del ristorante si apre, si affaccia una coppia di francesi che non ha ancora cenato. La cucina è chiusa ma Enrico, affabile come sempre, li invita a bere un bicchiere di vino e propone un piatto di affettati e formaggi rigorosamente nostrani. Torna al tavolo con noi. “Sapevo che avrei dovuto abituarmi a nuove persone, una nuova cultura, nuovi usi, sapevo che avrei dovuto adattarmi ad un nuovo lavoro ma di certo non immaginavo che avrei dovuto abituarmi anche agli italiani ed al loro modo di essere, qui a Parigi”. “Che cosa intendi?”. “L’altra sera è venuto un italiano con amici suoi, parigini quelli veri, con la puzza sotto il naso. Mi ha fatto un sacco di domande sull’origine dei prodotti, sul tipo di cottura degli alimenti, ha persino voluto vedere la cucina e poi ha preteso uno sconto alla saperla lunga”, commenta Nicoletta. “Grazie a Dio non sono tutti così. Ce ne sono tanti qui, e la maggior parte brave persone, come noi, delusi della propria terra e col gusto del viaggio”. Dopo qualche anno di lavoro all’estero, tra chi è rimasto dopo l’Erasmus e chi invece ha oltrepassato il

chiediamo che cosa vogliamo fare del nostro futuro e soprattutto dove vogliamo mettere radici. Difficile considerazione dopo aver appurato le differenze, i vantaggi e gli inconvenienti di chi ha

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confine per afferrare quell’opportunità professionale che avrebbe faticato a trovare in patria, ci

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fine! Noi lo sconto lo facciamo, ai clienti simpatici però!”. “Quelli sono gli italiani che credono di


provato l’esperienza dell’emigrato. Siamo partiti dall’Italia nello stesso momento, lei un mese prima di me, per due destinazioni diverse. La sua è stata Londra, un pullulare di giovani e di nazionalità che si ritrovano in un melting pot in continuo divenire, dagli odori speziati e dalle cucine etniche. La prima volta che andammo a farle visita era impiegata come commessa in un negozio italiano di abbigliamento, i suoi colleghi di lavoro erano tutti stranieri e questa coincidenza le rese l’adattamento più facile. Arrivata alla stazione di Londra cercammo di non perderci tra le linee della metropolitana per prendere la direzione giusta. Le vetture dei treni lì sono talmente piccole che la parola “tube” rende perfettamente l’idea di che cosa significhi stare in piedi e fare attenzione alla propria testa, mentre ci si tiene agli appositi sostegni. L’appartamento che condivideva con altri due ragazzi era situato in un vecchio stabile anni ’70, nei sobborghi della città, con la moquette che ricopriva la superficie di tutte le stanze, come si usa in quella parte dell’Inghilterra. Marina è la nostra amica d’infanzia, ci conosciamo dalla prima elementare e siamo cresciute insieme nella periferia di Milano. Le nostre case erano vicine, quasi una di fronte all’altra, e dal balcone della sala dei miei vedevamo la finestra della sua cameretta. A volte ci salutavamo con la mano, aprendo le finestre, e restavamo là per un po’ facendo gesti a distanza, poi ci chiamavamo al telefono per verificare se avessimo ben capito. Da ragazzi abbiamo scelto scuole diverse ma siamo sempre stati grandi amici. Quando Marina si è laureata abbiamo festeggiato fino all’alba nella pizzeria di suo padre e crediamo di non aver mai visto tante persone rinchiuse in uno spazio così piccolo, pareva una discoteca abusiva improvvisata per l’occasione. Nessuno sperava nell’accelerata di una carriera brillante, specie alle prime armi, ma ci aspettavamo di mettere perlomeno a frutto i sacrifici dei nostri genitori e trovare una forma di stabilità ed indipendenza. Probabilmente non sapevamo ancora cosa volessimo, eravamo assetate di esperienza e di una vita nuova, solo nostra, costruita da noi stesse e dalla possibilità di esprimere quello che eravamo e potevamo essere. Fu lei la prima a dare segni di irrequietezza dopo un anno di lavoro, senza contratto, come assistente amministrativa. “Sai che Barbara è partita a Londra per fare uno stage?”. “Ma torna?” era la domanda più spontanea. Quello era il momento in cui gli Erasmus e gli stages all’estero esplodevano come miraggi di pepite d’oro ed i giovani ne erano indubbiamente attratti. Barbara fece ritorno a Milano quella mattina quando l’accompagnammo all’aeroporto: aveva un solo bagaglio con sé e tanta paura, ma non voleva lasciarla trasparire. Ci vediamo ancora, con meno frequenza, e soprattutto ci scriviamo, chattiamo, ci tagghiamo e, ogni tanto, ci facciamo la classica telefonata serale di due ore.

accompagnato per tanti anni e che ci aiuta a crescere. Poco prima di Natale ci arriva una sua e-mail, carica di riflessioni e ricordi, emozioni che condividiamo a fior di pelle. La gente ci trova cambiati,

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Tutti i mezzi di comunicazione sono i benvenuti per tenere viva un’amicizia che ci ha

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dopo sei mesi, Marina invece partì senza un lavoro e senza un posto dove stare. Ricordo ancora


aperti, sicuri di noi, svegli ed intraprendenti. Noi siamo sempre le stesse bambine che giocavano insieme, coi nostri dubbi e le insicurezze di sempre. “Quando arriva il Natale e vedo la gente riunirsi nelle proprie case, con le famiglie, ed io faccio la valigia per tornare a casa, mi sento una nomade, quasi non avessi più un posto a cui appartenere. Delle volte invidio le persone come mia sorella ed i nostri amici che sono ancora legati alle vecchie abitudini e ai vecchi posti. E pensare che quando vivevo a Milano erano cose che non sopportavo! Ora provo nostalgia e mi chiedo dove sia veramente casa”. Una volta, nel dopoguerra, c’era la tendenza ed il bisogno di ritrovare i propri connazionali all’estero, in una comunità che offriva accoglienza ed indicazioni per una nuova vita in terra straniera. Oggi che la società si è fatta più internazionale e le appartenenze etniche si disperdono nella varietà di culture che la compongono li si incontra per caso, per strada e nel metrò, e quasi non li si riconosce più talmente si sono radicati nella realtà locale. Si può anche stare a conversare con uno di loro per qualche minuto e solo quando un leggero accento o un modo di gesticolare o di bere il caffè li tradisce allora si ha la certezza delle loro origini. Dal 2004 ne ho incontrati davvero tanti, la maggior parte di loro sono trentenni e quarantenni trasferitisi in Francia dopo aver conseguito la laurea in Italia ed un breve iter di impieghi non soddisfacenti. Storie diverse, città lontane, nord e sud che perdono le distanze di considerazioni politiche accese per ritrovarsi in una sola dimensione dove scoprono di avere molto in comune. Abbiamo incontrato Sara in un ristorante argentino, a pochi passi dal quartiere latino, nella zona universitaria di Parigi. Eravamo seduti con amici a due tavoli adiacenti e la svista di un cameriere che sbagliò ordinazione ci fece scambiare la prima battuta. Discutemmo per parecchi minuti, tra una pietanza e l’altra, nell’euforia di un sabato sera pieno di clienti. Solo dopo averla sentita ordinare il caffè, rigorosamente ristretto, ci sorse il dubbio che fosse italiana. Il suo accento perfetto non lasciava ad intendere che fosse straniera pure lei. Sara arriva dalla periferia di Roma, laureata in Relazioni Internazionali, consulente occasionale per l’esercito italiano quando organizza brevi formazioni in strategia militare. Un genio, diciamo noi, ogni volta che la sentiamo parlare in tante lingue e ci racconta delle sue missioni all’estero per conto dell’agenzia non governativa per la quale lavora. Professioni che un tempo erano riservate solo agli uomini, in un ambiente competitivo dove bisogna disinvoltura da un’esercitazione con la mimetica ad una missione di collaborazione per lo sviluppo nei paesi disagiati all’organizzazione di una cena informale a casa sua, degna delle migliori forchette. Andiamo al cinema insieme, mi porta a vedere dei concerti di musica classica e

arricchiscono e sono contenta di averla come amica. Pensiamo che il nostro paese sia incosciente a fare scappare cervelli come il suo, che in Italia si ha bisogno di queste persone, intraprendenti e

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contemporanea, rappresentazioni teatrali, la varietà e la raffinatezza della sua cultura mi

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essere forti e saper primeggiare per fare emergere le proprie capacità. La ammiriamo, passa con


professionali, aperte e curiose, le sole in grado di poter dare una nuova direzione alle sorti della nazione. Internazionali, attive, continuamente alla ricerca di stimoli, potenziali leader in grado di influenzare positivamente la gente e spronare al cambiamento giusto. Crediamo che queste siano le persone che dovrebbero ricoprire le cariche pubbliche odierne, penso che Sara e quelli come lei dovrebbero diventare i politici di oggi, non del domani, perché il futuro è adesso. La guardiamo e non si ferma un attimo, nei suoi occhi brilla un fermento costante di opportunità. E’ appena tornata da un colloquio a Bruxelles, uno dei suoi clienti in Asia le ha proposto un lavoro. I suoi genitori, che l’hanno vista partire, sapevano che non sarebbe tornata se non per le vacanze. “In Italia avevo un posto a tempo determinato come assistente di direzione. Guadagnavo poco e la casa me l’hanno dovuta comprare i miei. Mi sentivo un peso per loro, avevo bisogno della mia indipendenza, della mia libertà”. Di certo una come lei non si è fatta intimorire dalla sfida di una vita diversa, dalla ricerca di stimoli ed occasioni professionali all’estero, conscia e pronta ad affrontare le difficoltà che si sono manifestate inevitabilmente. Chi la incontra ha l’impressione di trovarsi davanti una cittadina del mondo, internazionale e cosmopolita, capace di sfoderare diverse identità ed in grado di adattarsi ad usi e costumi di altri popoli con estrema naturalezza. Ma a noi, che è riservato il privilegio della sua amicizia, è chiaro ed evidente l’animo italiano che la domina quando si adopera in cucina. Pentole, utensili ed accessori provengono rigorosamente dall’Italia, persino il fornetto per fare le pizze, perché “quelle che fanno a Parigi non sono così croccanti e leggere”. Per la gioia dei commensali, si trasforma a sorpresa in una Sofia Loren della casa, intrattenendo gli ospiti con le sue degustazioni ed i racconti di vita familiare alle porte di Roma. Si direbbe una scena della commedia all’italiana. Sono più di quattro milioni gli italiani che vivono all’estero. C’è chi è tornato, chi è ripartito e chi dice di aspettare che la situazione politica ed economica cambi prima di considerare un trasferimento al contrario e fare quel viaggio di ritorno una volta sola. Ma cambierà veramente? E cosa deve cambiare prima di tutto? Chi ci guarda dallo stivale ha pareri contrastanti: i politici giudicano che partire non è una mossa costruttiva per risolvere i problemi del paese, gli amici ci congratulano per aver osato un’opportunità anche altrove e la famiglia, per quanto orgogliosa della nostra intraprendenza, ci lancia sguardi languidi sperando di vederci un giorno tornare. Qualche vivesse in Puglia. Si chiama Dino, ha 27 anni e dopo aver frequentato la scuola d’arte di Firenze si è trasferito a Berlino. Che sorpresa! Pittore, sculture, persino fotografo, scopriamo di avere un parente eclettico che ci racconta le sue peripezie su e giù per lo stivale, per poi finire all’estero! Pare una attraversato le frontiere per cercare quel qualcosa che in terra natale mancava. Pare che l’abbiano trovato e ce ne rallegriamo. Chattiamo di tanto in tanto, ci scambiamo gli auguri e ci teniamo

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mania, una moda degli ultimi anni, eppure è così, anche i nostri cugini della Puglia hanno

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tempo fa riceviamo una richiesta di amicizia su Facebook da parte di un cugino che credevamo


aggiornati. “Com’è la tua nuova vita a Berlino?”. Bella, interessante, diversa, in movimento. Si torna a casa quando si può, quando si trova un biglietto low-cost ad un prezzo vantaggioso, quando si prendono dei giorni di ferie e si parte per le vacanze. Ma dove si va, visto che ci piace tanto stare in giro per il mondo? A casa, è la risposta più gettonata. Strano che dopo aver fatto tanta fatica per lasciare l’Italia, trovare un lavoro, cercare una casa ed imparare una lingua nuova, si passi il tempo libero cercando di tornarvi. Può sembrare assurdo, ma è la condanna di quelli che sono partiti e si riempiono le valigie di cibo e leccornie del proprio paese, maglioni nuovi, cappelli di lana fatti dalle nonne, foto ricordo, libri e CD di edizioni italiane. Manco fossimo detenuti volontari di prigioni di cristallo oltralpe, i nostri familiari si prodigano per non farci sentire la nostalgia di casa e ci attrezzano di tutto quello che di italiano possa servire in terra straniera. Macchinette del caffè, utensili da cucina, santini, vestiti, calendari, ogni tanto spediscono un pacco sorpresa di viveri, come se all’estero si morisse di fame. “Cosa ti manca di più?”, chiediamo a nostro cugino. Senza esitare un attimo, ci arriva la risposta in chat “La mamma”. E detta da un giovane italiano è credibile ed inconfutabilmente prevedibile. “Pensi di tornare?”. La risposta non è immediata stavolta, ci giungono tre puntini di sospensione per farci capire che sta pensando. “… forse un giorno”.

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Capitolo 13 – Tra sogni e realtà

Quando si pensa al proprio futuro non lo si vede. E forse proprio per questo è così bello, perché lo si può immaginare, in modo confuso ma bello. Gli si dà il colore del cielo di maggio e il profumo del mare agitato e poi il sapore del caffè o della pasta al sugo e la voce di Ligabue e gli occhi di persone che si vorrebbero incontrare, o che abbiamo già incontrato e vorremmo rimanessero con noi, ma soprattutto gli si regala la cosa più preziosa che si ha: i propri sogni. Piccoli, grandi, banali, irrealizzabili sono i sogni che ci fanno vivere a diciassette anni. O almeno dovrebbero. Sono i sogni che ci fanno alzare presto la mattina e aprire gli occhi che ci bruciano, che ci fanno stare con la testa poggiata alla finestra che ci separa da un mondo troppo bello e veloce per starcene seduti in un banco, sono i sogni che ci fanno credere nelle promesse, nostre o di altri che siano, che poi quelle che facciamo a noi stessi sono le più difficili da mantenere. Sono i sogni che ci fanno scrivere. Se i sogni sono un progetto del futuro che vorremmo, scrivere è la cartina con disegni, bozze e misure di quel progetto. Scrivere è sognare su carta, è credere nella potenza delle parole, è illudersi che se quel progetto lo vedono in tanti forse insieme si potrà provare a metterlo in atto, è non arrendersi allo scorrere delle cose, ma tentare di cambiare quel flusso, è dire “ci siamo anche noi”. Scrivere è legarsi ad altri in nome della libertà, un po’ come l’amore, sì, scrivere è un atto d’amore. Il sogno di ragazzi come noi, anzi uno dei nostri sogni, è di fare i giornalisti. E’ iniziato tutto un po’ per gioco, prima con il giornalino della scuola, poi con siti Internet e le testate locali. Però non avevamo mai pensato a fare davvero i giornalisti. Un pomeriggio ti capita di andare, per un articolo per il giornalino scolastico, a intervistare gli operatori di una casa famiglia. Uno di loro ti chiede: “Allora vuoi fare il giornalista?” e tu rispondi che non lo sai, non ci hai pensato. “E’ difficile riuscirci” ti rispondono di rimando. A diciassette anni non hai la minima idea di cosa vuoi fare da grande, tantomeno se vuoi fare o no il giornalista, però senti che ti piace fare domande e registrare le

andare in giro per una testata locale, magari a intervistare il responsabile di un progetto teatrale. Mentre aspetti per porre le domande, senti questo signore che dice ad un altro ragazzo: “Aspetta un attimo, devo prima parlare con un giornalista che sta qui”. Giornalista. Non c’avevi mai pensato a

ancora ti fa credere di esserlo, anche se magari non la sarai mai. Perché giornalisti infondo lo si diventa anche per vocazione, non serve per forza un tesserino che attesti la tua iscrizione in un albo. E’ un po’ come fare l’artista, o il cantante. Tu canti e balli, e basta quello. Non c’è altro che debba

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quella parola addosso a te, ma la naturalezza con cui viene pronunciata quando non te l’aspetti

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risposte, ma soprattutto provi un’enorme attrazione per quel “difficile”. Passano i mesi e ti ritrovi ad


essere certificato, o documentato. E sei giornalista anche soltanto perché inizi a raccontare, perché senti il richiamo della penna e delle pagine su cui annotare fatti e considerazioni. E ti piace vestirti di quella parola, e magari tornando a casa dopo l’intervista, con la registrazione in tasca, pensi che sì, farai di tutto per diventare giornalista. Lo prometti a te stessa, e le promesse che si fanno a se stessi sono le più difficili da mantenere. Ma i sogni portano a questo e portano anche a impegnarsi in nome di quelle promesse. Ripetere le proprie promesse è già un impegno. Si potrebbe far finta di niente, lasciarle stare per un po’, dimenticarle e pensare ad altro e invece ripetendole le sbatti contro la tua negligenza e pigrizia, contro i tuoi fallimenti e allora le rafforzi ancora di più, rafforzi ancora di più i tuoi sogni. E magari capitano occasioni indimenticabili per ripetere a te stesso le tue promesse, come nell’aula magna della tua scuola, durante una conferenza sui giornalisti minacciati, all’arrivo di Rosaria Capacchione, con la scorta. Pensi che nel “mondo che vorresti” (per dirla alla Vasco) la libertà non sarebbe stata tolta a nessuno, men che meno a chi difende con le parole la libertà altrui. Eppure lo sguardo della Capacchione in quell’aula non sembra minimamente scalfito da una situazione del genere, anzi, è dritto, rivolto al fondo dell’aula, alto ma non presuntuoso, forte, orgoglioso. Quello sguardo ti fa rinnovare la tua promessa. Stesso effetto di quelle parole di Enzo Biagi: “Ho sempre sognato di fare il giornalista (…), lo immaginavo come un vendicatore capace di riparare torti e ingiustizie (…) ero convinto che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo”. Torti e ingiustizie sono pane quotidiano per chi abita questo mondo, ma se in alcuni casi tutti i torti e le ingiustizie si raggruppano sotto la parola “camorra” il discorso cambia e aumenta il desiderio di diventare quel vendicatore. La camorra prese piede in Campania, a Napoli prima di tutto, esportata dalla Sardegna, durante la dominazione spagnola. La camorra attecchì soprattutto nei quartieri popolari della città partenopea, inizialmente commettendo violenze ai danni del popolo, successivamente diventando una sorta di polizia privata che difendeva i contadini dai soprusi dei signorotti locali, poi gestendo il racket del gioco popolare della morra (da qui probabilmente il nome) e chiedendo il pizzo ai commercianti, fino ad estendere il suo potere anche in ambito politico ed influenzare la politica del Regno delle due Sicilie. Esattamente come oggi. Inutile analizzare le responsabilità che i vari governi hanno avuto in questo fenomeno, quello che

qualcosa è cambiato non è stato certo in meglio. Le radici della camorra hanno sempre trovato linfa vitale per mantenere rigogliosi i loro rami, linfa che oggi viene fornita dalla connivenza di parte della classe politica, dall’assenza delle istituzioni, dalla disoccupazione, dall’ignoranza. Basta fare loro soprannomi: “Lell ‘o camorrist”, “Marc ‘o scissionist”. Hanno tra i 12 e i 13 anni e cliccano pagine dedicate a Totò Riina, pubblicano link contro le forze dell’ordine. Macchine lussuose, belle

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un giro su Facebook per capire il fascino che la camorra esercita sugli adolescenti, basta guardare i

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deve far riflettere è che a distanza di secoli, 150 anni dopo l’Unità d’Italia, nulla sia cambiato e se


donne, vestiti firmati: così la camorra li attira e così la vendetta, l’onore, i soldi diventano valori su cui basare la propria esistenza, non avendone altri a portata di mano. Se poi soldi e lavoro non ne hai e vivi in un determinato ambiente, con determinate persone, andare a sparare a qualcuno in cambio di soldi ti sembra la cosa più naturale di questo mondo, finisci inconsapevolmente in una rete dalla quale è impossibile uscire, lì, insieme a tanti altri pesciolini come te che a lungo andare o diventeranno squali o verranno mangiati da un pesce più grosso. Ecco allora che istituzioni, scuole, servizi sociali, parrocchie devono coalizzarsi per togliere questi ragazzi dalla strada, per fornirgli esempi diversi da quello del boss, per indirizzarli verso altri valori, per fornire loro un’alternativa all’arruolarsi tra le fila della camorra, per impedire che un ragazzo di sedici anni non abbia neanche la licenza elementare e venga ucciso mentre sta tentando una rapina in un supermercato. Ma chi cerca di fare ciò, chi compie un dovere di tutti, si attira addosso la bollatura di personaggio scomodo, scomodo non solo per la criminalità, ma anche per alcune istituzioni che spesso sono conniventi con essa. Uno di questi esempi è don Aniello Manganiello, per anni parroco della chiesa di Santa Maria della Provvidenza, a Scampia. Noto per il suo impegno anticamorra, Don Aniello ha avviato diverse attività a sostegno delle famiglie disagiate del popoloso quartiere napoletano e negli anni ha regalato un futuro a moltissimi ragazzi, levandoli dalla strada della criminalità ed ha contribuito, tra l’altro, alla conversione di alcuni camorristi, come il boss Tonino Torre. Ma evidentemente anche lui faceva parte di quei personaggi scomodi ed è per questo che a ottobre 2010 è stato trasferito a Roma, nella parrocchia borghese del quartiere Trionfale. Così il sacerdote, che più volte durante il suo operato è stato vittima di minacce da parte della camorra, si è visto costretto a lasciare Scampia, pronunciando intanto dure accuse nei confronti di istituzioni e Chiesa che lo hanno lasciato solo nelle sue lotte. Se la criminalità organizzata in Italia vuole essere sconfitta bisogna investire sui ragazzi, sulla scuola, sulla cultura, quella vera, quella che sconfigge la sottocultura che porta milioni di ascolti a fiction su boss mafiosi, che fa acclamare come un eroe Antonio Iovine. I grandi arresti non bastano, perché la camorra è come un grande albero che offre frutti e ombra a tanta gente e per quanti rami si possono tagliare ce ne saranno sempre altri pronti a spuntare con le loro foglie sempre più rigogliose e verdi. Per far sì che un albero muoia bisogna

forza, ché non basta quella di un singolo e quindi occorre la collaborazione di tutti. Occorre creare un fitto reticolo di energie che lavorano fianco a fianco in diversi campi e si intersecano per dare un futuro migliore a questa terra che, in fondo, forse, se lo merita. Ma il problema è quel “se si vuole”, organizzata, sulle poltrone del Parlamento siedono indagati per mafia. Il problema è quell’“investire sulla cultura, sulla scuola e sui ragazzi”, che per il momento non sono nient’altro che belle parole.

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è il fatto che mentre vengono annunciati a gran voce i meriti della politica nella lotta alla criminalità

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sradicarlo, afferrarlo dalle radici e strapparlo dal terreno e per far questo c’è bisogno di forza, tanta


Quello che traspare tra i banchi, tra i ragazzi che ogni mattina trascinano le scarpe sotto il peso degli zaini e del sonno, è un enorme senso di vuoto, un enorme spaesamento nel vedere che le uniche certezze che si hanno sono quello zaino e quel sonno, che dopo la scuola, più hai idee chiare e voglia di crederci in quelle idee, più porte chiuse ti si prospettano davanti. Di politica si parla tra i liceali più di quanto si immagini, e si parla anche del proprio futuro, e ci sono commenti, parole che suonano di rassegnazione, di pessimismo, di sfiducia. Se certi pensieri sono di un uomo che ha la sua vita alle spalle, che ha visto governi cadere e primavere sbocciare, speranze morire in fretta così com’erano nate, sono tuttavia giustificabili. Ma se quegli stessi pensieri sono di un ragazzo che ha visto l’Italia vincere i mondiali per la prima volta nel 2006, un ragazzo che “dovrebbe mangiare il mondo a morsi”, vuol dire che si è arrivati davvero a un punto dove qualche domanda è d’obbligo, dove la necessità di cambiamento è diventata un’urgenza. E noi in questo cambiamento vogliamo crederci, “questo è il nostro atto di fede”, per dirla alla Liga. Siamo giovani, e nonostante la rassegnazione di molti nostri coetanei, non potremmo immaginare le nostre giornate senza sogni, così come non potremmo mai immaginare un’estate senza mare. Il mare è una presenza costante per chi vive al Sud. Anche se stai nell’entroterra il mare lo senti, diventa uno dei più grandi desideri appena il sole si fa un po’ più caldo, e se poi non riesci più a sentirlo basta un’ora di macchina per trovartelo disteso avanti agli occhi. Amiamo il mare perché come diceva Jim Morrison “infrangendosi contro gli scogli trova sempre la forza di riprovarci”. Lo amiamo quando è mosso e si gonfia e poi sbatte potente sulla riva e ci riempie del suo odore fresco, lo amiamo quando è calmo, la mattina presto, e ci fa capire che in fondo tutti i pensieri, i dubbi, le preoccupazioni, sono come quel sole che ci si tuffa dentro per tingerlo di rosso e regalargli un po’ di calore in una notte di falò e di luna che si specchia vanitosa. Amiamo il mare perché è di tutti ma non per tutti, lo amiamo perché cambia, ma piano, e se vogliamo possiamo accorgercene quando sta cambiando. Lo amiamo perché ci si può parlare e lui ogni volta ci allarga il cuore, ci schiarisce le idee, se le ruba tutte per portarle al confine del cielo. Ecco, noi sogniamo che il mare non venga più sporcato dal percolato, sogniamo che i sogni dei ragazzi non vengano più sporcati dall’indifferente egoismo di una società consacrata al dio denaro. Capitolo - Pagina

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