Gli Anonimi dell'anno

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Gli Anonimi del Belpaese. Quelli che la TV non ha detto come si chiamano

A cura di Martina Castigliani Laura Boccia Martina Zadra Gaetano Benedetto Rossella Nocca Giulia Zaniboni Maria Lucia Caniato Daniela Vitolo Martina Castigliani Chiara Zappalà Massimiliano Maccaus Dora Marianna Spinello Andrea Lorenzoni Francesca Papais Aurora Fragonara Leyla Khalil Maria Mercone Paolo Esposito Michele Cascioli Enrico Geretto Silvia Amadori Luca Scialò Claudio Esposito Flavio Bacchetta Alessandro Basile Fortunato Allegro Astrid d’Eredità Mirko Roglia di:


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Introduzione L’Anonimo dell’Anno è il mio vicino di casa, la ragazza che vive in via dei Garofani numero tre, la nonna del sesto piano. Sono persone, uomini e donne in carne ed ossa, a volte sono giovani, altre poi hanno rughe spesse e mani piene di calli. Sono cittadini, immigrati, esiliati, sono muratori e dottori, sono studenti. Hanno un nome, un cognome, un indirizzo ed un numero di telefono, eppure nessuno li dice alla televisione, li chiama per un’intervista per aprirci un giornale, li invita alle cerimonie in comune. Muoiono e nessuno li ricorda, vivono e non fanno rumore. Eppure spostano pietre con il pensiero, hanno occhi profondi come burroni e con le mani smuovono le montagne per far andare quelle rotelle così arrugginite che fanno sì che il nostro paese vada avanti anche quando il mondo, l’Europa, le banche e i politici dicono che non lo farà. Finiranno l’Italia, gli stipendi e le pensioni, cose che sembrano la fine del mondo e che poi non succedono mai. Perché? Perché ci sono cittadini silenziosi che lavorano e si tirano su le maniche, che credono nei valori e che danno tutto quel che hanno. Perché il mondo vero, a volte ce lo dimentichiamo, non sta scritto sui giornali, su Facebook o Twitter o il resto di internet e neppure entra in televisione. Il mondo vero ha una sveglia che suona alle sei del mattino e alla domenica nei centri commerciali a inventarsi regali che costino poco ma rendano tanto. Il mondo vero ha cene da organizzare e compiti delle vacanze da far fare al figlio più piccolo. E alla fine della storia, ci sa tanto, sono gli anonimi di ogni giorno, quelli che la televisione non ha detto come si chiamano - ma noi lo sappiamo - a fare l’Italia. Caffè News e la sua redazione di ragazzotti in giro per l’Italia e il mondo ha deciso così di dedicare il suo secondo ebook agli ANONIMI DEL BELPAESE – QUELLI CHE LA TV NON HA DETTO COME SI CHIAMANO, quei personaggi di cui nessuno sa molto, ma che nel 2011 hanno fatto qualcosa di reale e concreto per cambiare il nostro paese o soltanto per farlo andare avanti. Martina Castigliani

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Dedè e il valore di un sorriso “Donare un sorriso rende felice il cuore. Arricchisce chi lo riceve senza impoverire chi lo dona.” Inizia così la poesia di P. John Faber, biglietto di auguri che la mia amica d’infanzia, di adolescenza e di tuttora, mi ha donato per questo Natale. È dentro questo sorriso che ha vissuto tutti i dodici mesi del 2011, l’anno al confine fra un’epoca e il suo avvenire. Non ci sono solo governi che cadono e crisi che si alzano: dietro di essi appaiono esistenze movimentate e piene, emblemi reali dello “Stato”. Lo Stato, che è “Stato” perché sintesi postuma di tutto ciò che “è”. Fra questi “è”, vi presento Elisabetta, detta Dedè, soprannome che si porta appresso da sempre, mantenendo quel brio che solo ai bambini si può attribuire. Ma dietro queste due sillabe ripetute e frivole, c’è una sostanza corpulenta e solida, che nel 2011 si avvia verso un futuro glorioso, fatto di piccolezze realizzate ogni giorno, ogni giorno con un grande sorriso. Perché è questo il suo motto, il suo progetto: affrontare le difficoltà con forza d’animo e con positività. Può sembrare banale, ma riuscirci davvero è “fare un’impresa”. Il 2011 si apre con un gennaio di studio: è l’ultimo anno dell’università, la laurea di statistica attende. E allora si spende, Dedè, in questa immersione di concentrazione. E che fare? Studiare, studiare, studiare. Eppure, oltre all’impegno che porta sempre a risultati di eccellenza, ci sono mille altre cose: sorprese organizzate per la sorella espatriata e malinconica, disponibilità assoluta per gli amici che hanno bisogno di lei, tempo speso e dedicato a un gruppo di ragazzini che segue con affetto ogni settimana, ogni giorno, con forte predisposizione all’ascolto e al consiglio. Sempre pronta a dire “ci sono”, con quel sorriso che si ritrova nonostante tutto, nonostante tutti. E perciò non importa che siano mille le cose da fare: il tempo si trova. Non si sa bene dove, perché passano i mesi e febbraio, marzo, aprile e maggio si rincorrono a gruppo. Il tirocinio al policlinico di Modena porta via altro tempo, ma grazie ad esso la tesi sarà stupenda: chi avrebbe mai detto che le statistiche aiutano la ricerca sulle cure per il cancro? E invece è lì, ancora una volta per gli altri, il suo impegno. E giugno scoppia di splendore, dopo che gli esami sono finiti in un tripudio di lodi, il dottorato l’attende a braccia aperte, in un concorso che la fa prima. La laurea non è ancora arrivata: a lei piace precorrere i tempi. E già con un piede nel suo futuro, ecco che indossa la corona d’alloro, senza uno sbuffo, con un grande sorriso. I mesi oramai portano all’autunno, e per la testa non rimane tanto la corona: sono meglio i pensieri per gli amici, per i parenti, per le cose pratiche. E così, sprizzando da una parte all’altra, fronteggiando le novità di un’Italia incerta, di una ricerca che nasce offrendo forse poche speranze (ma che lei sa inventare di giorno in giorno, trovandole nelle semplicità del tempo), accompagna decisa i suoi progetti e gli amici e la famiglia, che vi rientrano, stretti. 4


Ci sono anche le difficoltà e i dolori, di cui si parla ma non si scrive, perché si tengono dentro e si decide quale sia il loro posto: fuori. In questo connubio di condivisione e privacy si trova un equilibrio che pare in molti abbiano perso da gran tempo. La dignità si staglia in un piccolo soggetto. Nella sua vita di tutti i giorni, ogni avversità è vissuta con una forza ed un decoro che l’uomo in crisi deve saper trovare, ed imparare se non ce l’ha. È in questo potere che sa trovare, quest’eccellenza silenziosa dell’università italiana, il vero motivo del mio elogio. Perché laddove le forze sembrano esaurirsi, è bello trovare chi sa rinnovarle, per se stesso e non solo. Perché laddove prende lo sconforto, è bello trovare chi sa fare da esempio e ridare la speranza. L’Anonimo dell’anno è chi ha affrontato il 2011 con un sorriso. “E se poi incontri chi non te lo offre sii generoso e porgigli il tuo: nessuno ha tanto bisogno di un sorriso come colui che non sa darlo”. Laura Boccia

La strada lunga che non sai dove finisce Goraždevac è una strada lunga che non sai dove finisce. Vido vive prima di lì dove comincia il paese vero e proprio. Il suo cortile ha il cemento bianco per terra e i fiori tutt’intorno. I giardini del Kosovo, quando ci sono, vogliono i fiori. Senza essere costipati nei vasi crescono dalla terra bassa e un poco più liberi. Vido il serbo, i fiori e la rakia. E il portone di casa disegnato dai buchi lasciati dalle raffiche. Proprio appena prima del checkpoint che controllava le entrate e le uscite dal paese. “Vido è pericoloso stare lì, lasciala la casa, potrebbe succedere di nuovo”. Vido resta, e adesso, dopo il ’99, dopo le bombe e le raffiche, vive ancora nella sua casa e ti viene a prendere davanti al portone e ti guida fin dentro casa, lento, ma deciso. Diana, i capelli a caschetto e che ha imparato a disegnare benissimo le facce delle tigri, che vuole ballare come una grande alla festa finale e fare la brava bambina. Diana, la bambina rom dai capelli nerissimi che sapeva l’inglese e giocava d’estate a pallavvelenata insieme a Drillon che è biondissimo e albanese. Le corse al bagno giù di sotto, “state attenti che cadete” raccomandato a bocca aperta e in italiano. A Peja/ Pec alla recita, l’ultimo giorno di campo, era venuto anche Jovan, vive a Gorazdevac, quella strada lunga che non si sa dove finisce e che è un villaggio serbo intorno a 5


Peja/Pec, città abitata per la maggior parte da albanesi. Jovan c’era e aiutava e guardava attento e sorridente, un poco più in là c’è Fitim. Fitim invece a Peja/Pec ci è nato. E’ un ragazzone altissimo e grandissimo che animava Diana, Drillon e gli altri bambini rom, albanesi, egiziani che al campo ci arrivavano sbucando da tutte le vie intorno alla scuola, assieme a Valznim, a Belinda e a tutti gli altri. Il loro lavoro è importante e necessario per Peja/Pec. E l’entusiasmo spericolato che loro ci mettono, disarmante. Insieme all’esperienza che si va costruendo, e che li porta anno dopo anno a rispondere in maniera sempre più efficace a una città dove, dopo la guerra, il fare qualcosa per gli altri e insieme agli altri sembrava un’utopia. L’accoglienza di Jovan nel suo giardino con il tavolo di legno, il caffè e le Wiston sempre fuori per essere offerte. E le parole. Le parole che tra una boccata e un sorso di caffè cominciano a scivolare fuori e insieme gli occhi diventano grandi così. Posso solo starmene lì, seduta con le braccia sul tavolo ad ascoltare e imparare. Imparare tanto. Casa Colomba sta all’inizio della strada lunga che non si sa dove finisce. Casa Colomba è la casa dove hanno convissuto i volontari di Operazione Colomba, per un periodo della loro presenza in Kosovo. Operazione Colomba è il corpo nonviolento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII. In Kosovo il lavoro è stato lungo e costante, per cercare una strada che mettesse in relazione i serbi e gli albanesi del Kosovo, dopo il conflitto. Una strada che è stata costruita lentamente e con rispetto, condividendo la vita quotidiana degli abitanti della strada lunga che non si sa dove finisce, facendo dialogare tra di loro i serbi e gli albanesi, soprattutto i giovani, attraverso un’esperienza di gruppo studio a cui hanno partecipato entrambi. Il cielo di Gorazdevac era pieno di stelle ogni sera e per strada non passava nessuno. E’ questa la catena di ricordi sconnessi, facce, pezzi di strada che mi viene in mente, soprattutto quando le stelle nel cielo di qui sono troppo rade. Martina Zadra

Valentina e il mondo lontano da casa Il mio anonimo del Belpaese è una ragazza e si chiama Valentina. E’ una persona che studierà lontano da casa e che subisce più di ogni altri i tagli del Governo italiano. Meno borse di studio e aumento dei prezzi. Una donna che studia e lavora, che si impegna, che non abbassa mai la guardia. Che piange e riparte, che combatte contro chi la vorrebbe cambiare, contro chi la vorrebbe diversa e più docile, contro chi la vorrebbe come la plastilina. E’ il mio anonimo del Belpaese perché ogni tanto cede allo sconforto e per questo 6


è più vera; non desidera andare in televisione a mostrare “di essere intelligente”. Una persona che sta imparando con durezza cos’è veramente il mondo: che a volte fa schifo e altre è così bello da non bastare mai. Frequento molto il suo tempo e la sua normalità. Quando devi affrontare un passo decisivo della tua vita, come andare via da casa, e leggi sui giornali che è tutto più difficile e che non sarà facile andare avanti, e comunque vuoi continuare per la tua strada è facile cedere. Chi non lo fa è l’anonimo dei tempi dello spread, chi non si arrende è più forte di questo tempo basato su quest’economia fanatica e sopravvalutata. Valentina è l’eroe dei tempi nostri. E’ l’antitesi delle profezie della televisione. Di quella falsa perfezione che è così precisa e per questo è irreale. E’ il mio anonimo del Belpaese perché mi mostra continuamente una strada un po’ più nascosta delle altre, a volte più insidiosa e bellissima, un modo di essere che non può essere lontano da come realmente ci sentiamo. Un contenitore nuovo e pieno di prospettive, di forza, di preziosa follia. Lei è un posto lontano, che non si conosce eppure ne si avverte il profumo, e che bisogna trovare senza navigatore; altrimenti si corre il rischio di non essere felici. Mi insegna che al mondo bisogna “sentire”. Gaetano Benedetto

Don Ezio e il suo esercito della Speranza E’ stimolante e attuale l’idea di nominare un “anonimo del Belpaese” in un tempo in cui fa di più per la società chi agisce nell’ombra, dal basso, senza far rumore rispetto a chi dovrebbe muovere i destini delle nazioni. Non a caso, quest’anno, il Time ha dedicato la sua copertina al manifestante, all’uomo qualunque, a chi “non è nessuno”, ma vuole farsi motore del cambiamento. Chiedendomi chi potesse essere questo anonimo, nella mia mente ho visto scorrere tante immagini e tanti volti: gente che vedo tutti i giorni e gente che ho incontrato una sola volta, bastata però a lasciare il segno. Persone che, con la loro carica di energia e di vitalità, insegnano a credere che, anche nei momenti più bui, si può trovare una ragione per andare avanti. Persone per 7


le quali la felicità risiede nel guardare gli occhi degli altri e trovarli colmi di gratitudine. Anche se questo non significherà mai raggiungere le prime pagine dei giornali o posizioni di prestigio nella società. Fra questi volti, ho scelto quello di Padre Ezio Miceli, parroco stimmatino della Chiesa di Santa Maria della Speranza nella mia città, Battipaglia. Don Ezio non è un prete come tutti gli altri. O meglio, è come tutti i preti dovrebbero essere, ma non sono quasi mai. Un prete che si spende per gli “ultimi”, i deboli, gli emarginati. Perché, come dice sempre prendendo in prestito le parole di San Giacomo, “la fede senza le opere è morta in se stessa, con le mie opere ti mostrerò la mia fede”. Frase che in fondo racchiude il senso della cristianità. Il Centro di ascolto, l’Associazione Spes Unica, il Centro di Aiuto alla Vita, il Banco Alimentare, la Mensa dei poveri, le case di accoglienza. “Ci sforziamo ogni giorno di assumerci un po’ la storia di sofferenza dei nostri fratelli, di entrare un po’ nel dolore e nella disperazione di chi è solo, come fa Gesù – dice don Ezio – diventando le Sue mani che accarezzano e incoraggiano, i Suoi piedi che vanno incontro al povero, il Suo sorriso che accoglie e consola”. Il Centro di Ascolto da più di dieci anni dona un sostegno morale ma anche concreto, grazie al Progetto Famiglia, al Banco Alimentare e al centro di accoglienza Fili Galardi, alle famiglie con gravi disagi economici. Leondina, Erina, Maria, Pina, Rita, Drusia, Peppino, Pasquale sono i tanti anonimi che, a titolo volontario e gratuito, tengono in vita questo progetto. Il Centro di Ascolto alla Vita accoglie le ragazzemadri, le donne incinte con difficoltà economiche e psicologiche, le mamme con bambini piccoli in momentanea situazione di disagio. Nella casa di Anka, a Eboli, vivono invece bambini dai 0 ai 5 anni che il Tribunale per i minori ha allontanato dalle loro famiglie. La Casa Famiglia li assiste finché ne hanno bisogno e poi, una volta che raggiungono un benessere psico-fisico e socioambientale, li avvia verso una “vita normale”, attraverso l’affido a famiglie adottive o il reinserimento nei loro nuclei d’origine. Qualche chilometro più in là c’è Casa Giona, che ospita psicotici cronici, in particolare schizofrenici, privi di supporto familiare. Qui volontari e tirocinanti assistono 24 ore su 24 i malati. Poi ci sono due centri di prima accoglienza e inserimento sociale per soggetti dipendenti da sostanze stupefacenti e psicotrope, Casa Speranza e Casa Giovanni Paolo II, aperti anche a immigrati senza fissa dimora e indigenti. E sempre il Comune di Eboli ha concesso in comodato d’uso all’Associazione Spes Unica un bene confiscato alla camorra, che è diventato la Casa di Icaro, spazio di lavoro per tossicodipendenti senza fissa dimora, privi di sostegno familiare o ex detenuti. Un’occasione per reinserirsi gradualmente nella società e per sentire di poter essere parte necessaria di essa. Padre Ezio corre da una struttura all’altra e il suo telefonino è sempre bollente di richieste d’aiuto. Qualche fedele storce il naso quando lo scopre ogni tanto esimersi dagli “impegni istituzionali”. Le vecchiette tante volte cercano inutilmente il confessionale in cui farsi assolvere da don Ezio. Ma lui è là dove Cristo gli ha detto di andare: ai piedi dell’infermo per stringergli la mano, accanto al tossicodipendente per dargli un’altra possibilità, vicino al bambino abbandonato per dirgli che è il figlio prediletto da Dio. 8


Don Ezio è il mio “anonimo del Belpaese” perché fa qualcosa di apparentemente normale, ma che nel mondo al rovescio di oggi significa qualcosa di grande. Sono “anonimi” anche i volontari dei suoi centri, che aiutano i più deboli per la semplice gioia di donargli un sorriso, che offrono una possibilità a chi dal mondo è deriso, umiliato, violentato. Oppure è semplicemente invisibile ad esso. Il mio “premio per l’anonimo dell’anno” è dedicato ad ognuno di loro, affinché possa rialzarsi e conoscere quante sorprese può riservare la vita. Rossella Nocca

Il Teatro Sociale di Gualtieri Dormiva un teatro, scolpito al centro di un’agricola contrada… Il rumore delle onde del Po, la nebbia soporifera, ampi e avvolgenti argini erano culla naturale di questo spazio dimenticato. Nato dagli alloggi di un medico e un chirurgo di una lontana corte cinquecentesca, aveva visto danze e spettacoli settecenteschi, incendi devastanti dalle cui ceneri, come ogni buona fenice che si rispetti, era riuscito a rinascere. Così aveva potuto fare “Largo al factotum della città”, piangere la morte di Mimì assieme a Rodolfo, ma anche ballare con gente mascherata a Carnevale o brindare per la festa di Capodanno. Non si era fatto mancare nemmeno la visione di qualche bel film assieme ad Antonio Ligabue, rannicchiato nel loggione, o ai due amanti nel palchetto, anch’essi “rannicchiati” nel buio. Ma dopo il fuoco, l’acqua. Non annegare fu difficile ed esaurite le forze, dopo un ventennio dall’alluvione del 1951, il teatro chiuse gli occhi e si abbandonò ad un profondo sonno. Se non fosse che… “Hai sentito? Hanno messo il teatro all’asta!”. Un tam tam di voci si arrovella in Piazza Bentivoglio e tra le strade di Gualtieri (RE) e il 27 luglio 2006, la cittadinanza rimette piede in quel Teatro… per curiosità, per un’ultima visita, per interesse ad acquistare il palchetto degli innamorati. Ma il teatro si risveglia e magicamente appaiono le Arti che minacciano di suicidarsi se nessuno si ribellerà a quest’asta. No. Uno sparo simbolico uccide il venditore, i cittadini abbattono il muro che chiude una delle porte e le Arti sono di nuovo libere di vivere il Teatro. Da qui, ma in realtà da molto prima, nasce la storia del Teatro Sociale di Gualtieri come lo conosco io. Un luogo che ti lascia senza fiato subito, appena chini la testa per 9


entrare, appena respiri l’aria fredda penetrare dai mattoni, appena scorgi la platea inesistente circondata da bellissimi palchetti, appena ti accorgi di essere entrata dalle quinte del palco, anch’esso inesistente. Perché sì, qui tutto è come appare e non. Qui una sera le sedie sono dove dovrebbero essere e ti godi un concerto di un gruppo che suona alla tua stessa altezza perché il palco non c’è e la scenografia sono i mattoni del Palazzo; e la settimana dopo le cose sono esattamente ribaltate: dai le spalle ai mattoni, gli attori sono in platea e la scenografia gli ordini dei palchetti. Magico. Non c’è nessun altro aggettivo per descrivere un posto così. Attraverso lo specchio che in questo caso non è di Alice, vedi cartoni di pizza mangiata durante lunghe riunioni notturne per costruire una stagione teatrale; vedi guanti e secchi di ragazzi che hanno passato ore e ore a scrostare muri e sostituire assi; vedi vestiti e trucchi di compagnie che si riducono il cachet pur di esibirsi in questo luogo e aiutarlo a sopravvivere; vedi la preoccupazione nei volti di chi questo Teatro l’ha visto e fatto rinascere e sa che è difficile evitare l’affondamento. L’Anonimo dell’anno è un Teatro che è sopravvissuto al naufragio. L’Anonimo dell’anno è Rita Conti, Riccardo Paterlini, Sara Loreni, Nicolò Cecchella, Davide Davoli, Federico Monica. L’Anonimo dell’anno è chiunque si sia letteralmente rimboccato le maniche per far RI-vivere questo posto. L’Anonimo dell’anno è chiunque abbia contribuito, anche solo con la sua presenza, a far VIVERE questo posto magico. Per informazioni: http://www.teatrosocialegualtieri.it Giulia Zaniboni

Monika e un 2012 con buoni presupposti Tre settimane fa ricevo un’email da una certa Monika: aveva letto il mio annuncio all’università e cercava qualcuno che migliorasse il suo italiano, mentre io cercavo qualcuno che migliorasse il mio tedesco. Non mi aspettavo di trovare all’appuntamento una signora di 56 anni. Monika è un’ex professoressa di biologia, ora in pensione, che adesso studia all’università di Hagen per prendersi una seconda laurea in italiano e storia dell’arte. Vivrà un anno a Roma perché è in Erasmus. Non si sente spesso che una “signora” vada in Erasmus; 10


sicuramente, poi, è una scelta che non possono permettersi tutti, in termini sia economici che, come dire, familiari. In ogni caso questa sua decisione, oltre che stupirmi mi ha fatto riflettere su quanto sia importante nella vita non porsi limiti, non arrendersi, credere in un mondo anche solo leggermente migliore e sforzarsi di perseguire ciò che ci sentiamo veramente di fare, che riteniamo giusto per noi stessi. La forza di volontà di ogni persona muove il mondo. Un esempio può essere per l’appunto continuare a studiare, andare a vivere in un Paese straniero, ma mi riferisco anche, anzi in primis, alle piccole decisioni che prendiamo tutti i giorni. L’Erasmus di Monika, a mio parere, può simboleggiare (e non ovviamente essere paragonato) la mia visione del passato 2011, anno in cui molti degli avvenimenti successi sono accaduti grazie a una chiara volontà delle persone di non rassegnarsi, di provare a dare voce a ciò che sentivano dentro. Ci sono stati dei cambiamenti, oppure ne sono stati gettati i semi, che sembrava dovessero accadere in un futuro ogni volta più lontano. Finalmente si è cominciato a vedere in maniera un minimo critica il sistema socio-economico che regola questa pianeta, sempre più malato di denaro; è stato l’anno della Primavera araba, delle proteste in Spagna contrassegnate dagli slogan “Non apolitici, semplicemente non rappresentati”. E’ stato l’anno delle proteste in Grecia e Portogallo, dei cosiddetti “Indignati” da New York a Londra, della prima Presidentessa donna nella storia del Brasile, delle recenti proteste contro i risultati elettorali favorevoli a Putin. In Italia, non solo politicamente, penso stia piano piano cambiando qualcosa: nel campo dell’arte, con ad esempio l’occupazione non fine a se stessa del Teatro Valle (e non solo), la nascita dell’associazione Prima Persona. Tutti buoni presupposti per un anno, il 2012, leggermente migliore del 2011. Maria Lucia Caniato

Bassam Elsaid, un ragazzo di seconda generazione Nel maggio di quest’anno, ho conosciuto la storia di Bassam Elsaid. Facevo qualche ricerca sul tema delle seconde generazioni e sulla campagna di sensibilizzazione per la modifica della legge sull’acquisizione della cittadinanza da parte dei giovani nati in Italia da genitori immigrati, e la sua vicenda mi colpì. Decisi così di contattarlo per farmi raccontare la sua vicenda e per chiedergli la sua opinione in merito alla questione seconde generazioni. Nacque così un articolo: Stranieri per sempre. Quando l’Europa nega la cittadinanza ai propri figli. Bassam è nato a Torino nel 1986 da genitori egiziani e per ragioni burocratiche, quando mi raccontò la sua storia, si trovava nella condizione di non poter ottenere la cittadinanza italiana e per questo rischiava, in quanto egiziano, di dover prestare il 11


servizio militare in un paese in cui non era nato né cresciuto. Oggi la sua vicenda si è risolta per il meglio e lui, a 25 anni e dopo mesi di ansie, è diventato cittadino italiano. Le difficoltà più evidenti che Bassam ha dovuto affrontare sono quelle legate alla legge che attualmente regola l’acquisizione della cittadinanza italiana, ma non sono le sole. Essere un ‘figlio dell’immigrazione’ significa dover imparare a far convivere due lingue, due culture con usi e costumi diversi, insomma significa imparare a far convivere due mondi. È questa una delle sfide più grandi che ogni ragazzo di seconda generazione deve affrontare. Bassam è italiano perché è cresciuto tra gli italiani, ha studiato in questo paese, si riconosce nei valori di questo popolo, ammira quei personaggi che nelle arti e nella politica hanno fatto grande l’Italia. In uguale misura Bassam è egiziano perché la sua famiglia gli ha trasmesso la cultura e le tradizioni del paese di cui è originaria, in casa parla arabo, e vive con partecipazione le vicende che interessano l’Egitto. Nel meticoloso lavoro di costruzione della propria identità Bassam a volte ha incontrato persone totalmente impreparate a relazionarsi ad una persona come lui. Gli è capitato, per esempio, di andare a rinnovare il permesso di soggiorno e trovarsi di fronte una persona che pur leggendo sul documento ‘Nato a Torino’ gli chiedesse alzando un po’ il tono della voce e scandendo bene le parole “tu ca-pi-sci l’i-ta-liano?”. Ho scelto di parlare di Bassam perché lui è il mio “Anonimo” la cui vicenda è simile a quella di tanti altri “anonimi” di seconda generazione. Una giovane realtà italiana che forse si conosce ancora poco e a cui certamente il 2012 dedicherà la dovuta attenzione. Daniela Vitolo

L’insegnante d’italiano per gli immigrati Buongiorno. Buonasera. Mi chiamo e vivo in via. Vengo da. Aiuto. Ho bisogno d’aiuto. Non ho capito, può parlare più lentamente? Carne, pesce, latte, pane. Io sono, tu sei, egli è. Io ho. No. Sì. Si comincia così, alla prima lezione del primo giorno di una scuola di italiano per migranti, un’aula molto spesso ricavata nelle sedi di associazioni, oratori, comuni e centri culturali. Una stanza nel cuore della città, dove chi è straniero può andare ed imparare, gratuitamente, le prime parole d’italiano, quelle che permettono la sopravvivenza. E allora, nell’Italia del razzismo e della destra xenofoba, gli anonimi cittadini si rimboccano le maniche* e escono la sera per andare ad insegnare l’italiano a immigrati venuti da lontano. Cose che sembrano impossibili ed invece sono la quotidianità. Laura studia giurisprudenza e lavora come insegnante di ginnastica a scuola: è insegnante d’italiano da meno di un anno e i suoi studenti conoscono già i verbi della 12


terza coniugazione. Pietro è di Milano, e nel centro per gli immigrati ci è finito per caso, ma ora non riesce a smettere di andarci. È studente di matematica, ma ai suoi allievi parla della storia e della geografia perché dice, “tutte quella grammatica a volte può proprio scoraggiare”. Arianna nella scuola per migranti ci va ogni martedì sera e spesso deve fare la voce grossa con Kalì che la prende in giro, ma ogni volta, alla fine dell’ora le porta un regalo e dice: “scherzavo maestra, lo sai”. Francesca è una professoressa di lettere in pensione, un’esperta dicono nell’ambiente, ma da quando frequenta i migranti ha stravolto il programma: si parte da quello che serve, poi il resto arriverà. Poca grammatica e tanta vita reale, perché chi non conosce l’italiano, non senta le parole come proiettili e sappia riconoscere i discorsi, quando è bene e quando è male. Nella scuola di italiano per migranti succede una magia che in pochi conoscono. Le maestre e i maestri sono più giovani degli alunni e il verbo essere e avere si ripetono un’infinità di volte. Ogni lunedì c’è un nuovo arrivato e allora bisogna ricominciare da capo: “ciao, tu che parole sai?”. Non c’è spazio e tempo per fare i gruppi di livello, e allora si parla in francese ed inglese e il vicino spiega all’ultimo arrivato che cosa vuol dire “io sono”. Gli insegnanti di italiano per migranti sono tanti, dal nord al sud dell’Italia e non necessariamente si parla di loro. Fanno cose scontate, dicono loro; fanno l’integrazione, penso io. Dieci cittadini che aprono una scuola di italiano non fanno notizia e sono molto più silenziosi del furto nel centro, ma, non dimentichiamolo, fanno l’Italia con la “I” maiuscola che un giorno si sveglierà multiculturale e si riconoscerà più ricca. *Si rimboccano le maniche è l’espressione che uso più spesso nei miei articoli o post o espressioni di qualsivoglia tipo, ma è troppo bella ed è, per me, la condizione fondamentale per essere un anonimo del Belpaese. Rimboccarsi le maniche, arrotolate strette fino all’altezza del gomito, così che i movimenti non siano impacciati e che tutti possano fare il proprio lavoro.

Martina Castigliani

L’Italia che va ancora a carbone Io del 2011 potrei raccontare cose divertentissime. Tutte autobiografiche. Successe in tre Continenti. Ché gli amici non smettono di dirmi: “Quando lo scrivi sto libro?”, “La tua vita è un film di Almodovar!” o cose così. Ma di questo 2011 io voglio raccontare una cosa che mi è successa ieri, nella città in cui sono nata, Catania. Una cosa non troppo da ridere. Mi spostavo, di sera – saranno state le undici – dal Teatro Coppola (a proposito, fate delle ricerche su questa nuova e bella esperienza siciliana) a zona Corso Sicilia. La mia poca pratica con lo stradario di Catania, e i recenti cambiamenti alla viabilità 13


della città, mi avevano condotta in straduzze della celebre (pittoresca, è il termine che userebbero in una guida turistica) pescheria (il mercato del pesce, dove vendono anche frutta e verdura). Di notte questo luogo è un po’ meno pittoresco. Non è una zona sicurissima, ma non è ancora da allarme rosso. Sono entrata in via Gisira e in lontananza ho visto, sul lato sinistro della strada, un uomo seduto su una sedia accanto all’unica bancarella rimasta montata. Le altre le smontano tutte il pomeriggio. La bancarella di “cipudda” e “patati”, quella bancarella, resta sempre lì, mi hanno detto poi. Ai piedi dell’uomo, sull’asfalto, dei tizzoni di carbone ardente ai quali lui si avvicinava per riscaldarsi. Sul lato opposto della strada, di fronte alla bancarella, c’era una vecchia Micra. Tutto lasciava pensare che fosse il proprietario della bancarella (abusiva) a cui fa la guardia notturna. Ora, io queste cose le ho viste, l’anno scorso, in alcuni angoli di strada del Perù e della Bolivia. E che l’Italia sia a rischio povertà ce lo ricordano ciclicamente Istat, Caritas e i vari osservatori. Così si fanno chiamare, perché osservano. E lo so che qualcosa la fanno pure, ma insomma, osservano, soprattutto. E spesso, lo fanno con la benedizione delle istituzioni. Anche io, durante le vacanze, ho osservato i libri che dovrebbero aiutarmi a scrivere la tesi di specialistica, ma peccato che ciò abbia prodotto poco. Insomma certe manifestazioni di miseria le ho osservate in paesi lontani (sì, osservate, e ho fatto poco, anche io sono colpevole), so che esistono in Italia, ma vederle con i miei occhi, sul bordo di quella strada nella pescheria deserta è tutta un’altra cosa. Quell’immagine mi ha colpita con forza. Cose da pazzi!, mi sono detta (anzi, me lo sono detta in francese, truc de ouf!). Ora aggiungo la nota ironica di questa storia. Che poi ironica, fino a un certo punto. Passo con la Y di mia madre tra bancarella e Micra e, per svoltare a destra verso Piazza Mazzini, striscio l’utilitaria. Dico nota ironica perché “la sottoscritta alla guida” è un tema che fa ridere molti. Mi fermo e chiedo all’uomo se l’auto sia sua. “Ri cu avissi aggh’iessiri?”, di chi dovrebbe essere?, mi risponde. Poi non dice più nulla e torna a sedersi davanti ai suoi tizzoni. Non guido spesso, ero con l’auto di mia madre e mi ero ritrovata in una zona non raccomandabilissima. Quindi ho chiamato a casa e ho chiesto a mio padre di venire a risolvere la cosa. Mentre aspettavo chiusa in macchina, l’uomo continuava a riscaldarsi col carbone ardente. I titolari del ristorante all’angolo, dove avevo parcheggiato l’auto, che intanto arrostivano carne sul marciapiede in pieno spirito catanese, dopo avermi chiesto se avessi dato le mie coordinate e dopo aver saputo che no, non avevo dato nessun recapito continuavano a dire: “Ma vattene, tanto quello…”. Sì, quell’uomo è uno sempliciotto, possibilmente analfabeta, magari legato ad ambienti non del tutto onesti e trasparenti, ma di certo non uno “sperto”. Chiedete ai vostri amici catanesi (sono un po’ ovunque) di spiegarvi il significato di questa parola, ma non riusciranno a darvi una definizione esauriente. Insomma, secondo gli arrostitori di carne, l’uomo sarebbe un babbeo. Io invece sono rimasta di stucco. Mio padre e mio fratello sono arrivati, ad un certo punto, l’uomo ha mostrato il danno. Non ero responsabile dell’ammaccatura nella 14


zona laterale del paraurti posteriore. Quella l’aveva fatta un camion della nettezza urbana. Io avevo solo staccato la maniglia dello sportello lato passeggero. Mio padre ha chiesto all’uomo se volesse i soldi per ricomprare la maniglia, o se preferisse ricevere direttamente la maniglia. Quando mio padre ha chiesto (rigorosamente in catanese stretto, eredità dei suoi natali a San Cristoforo, uno dei quartieri della città antica) quanto possa costare la maniglia, l’uomo ha risposto: “E iù cchi ni sacciu! Iù ci pozzu riri sulu quantu costa ‘n kilu ri patati!” (“E cosa ne so? Io posso dirle quanto costa un chilo di patate!”). E poi ci ha raccontato che tempo prima, quando lo specchietto retrovisore si era staccato, lo aveva incollato con la colla perché a comprarlo nuovo avrebbe speso troppo, 40 euro. Cioè meno di quanto riesca a spendere io in un sabato pomeriggio nelle mie friperie parigine. Ma lui chissà quante notti passa davanti a tizzoni ardenti per 40 euro. Chiara Zappalà

Francesco Bazzani e l’opera in Burundi Kiremba, Burundi, 27 novembre 2011. Il volontario italiano Francesco Bazzani viene ucciso, in circostanze non ancora del tutto chiarite, da ribelli armati che l’avevano tratto in ostaggio, insieme alla religiosa croata Lukrecija Mamic. Di origini veronesi, il cooperante è morto sul colpo, ucciso brutalmente, a bruciapelo, dritto al cuore, da un’arma da guerra, dopo una vita trascorsa dedicandosi al prossimo. L’uomo, che rappresentava nel paese africano l’Ascom (Associazione per la cooperazione missionaria) della diocesi di Brescia, abitava a pochi metri dall’ospedale dov’è stato rapito, gestito insieme ad alcuni missionari. Chiamato per risolvere un problema elettrico nella casa delle “Ancelle della carità”, è stato tratto in ostaggio da due malviventi armati, ed ucciso otto chilometri dopo, ma i fatti, frettolosamente archiviati dalle autorità locali, andrebbero maggiormente approfonditi: dopo l’arresto e la condanna sommaria dei due presunti rapinatori, si sospetta infatti un coinvolgimento della polizia e dei servizi segreti locali, indispettiti dal presunto aiuto offerto dai cooperanti ad alcune frange ribelli. Ci ha lasciati una persona passionale ed appassionata, da anni sofferente di mal 15


d’Africa, e con a cuore i problemi del continente nero, la condizione dell’infanzia, la salute delle popolazioni locali, l’istruzione e la cura dei bambini. Il cooperante viveva a Kiremba insieme alla compagna Lucilla Volta, dentista, che lo affiancava nell’organizzazione dell’ospedale, occupandosi della soluzione dei problemi logistici e delle attrezzature della struttura sanitaria gestita dalla onlus italiana, operativa da circa 30 anni, con all’attivo undicimila ricoveri all’anno e oltre millecinquecento interventi chirurgici. Francesco aveva preso la decisione di cambiare vita due anni fa, ed era partito per l’Africa, alla volta del quinto paese più povero al mondo: non più soddisfatto della propria esistenza, voleva fare qualcosa di più e, da odontotecnico, sentiva essere giunto il momento di dare una mano più concretamente agli ultimi della terra. “Un uomo aperto, generoso, straordinario e mai stanco di fare, di dare una mano. Infaticabile. Bazzani lavorava gratuitamente, volontario a trecentosessanta gradi. Percepiva solo un rimborso spese e qualcosa per vivere lì, in quella terra dimenticata”, è il commosso ricordo reso ad Adnkronos da Giovanni Goppi, presidente della onlus che Bazzani rappresentava nel paese africano. “Francesco si era candidato per raggiungere il Burundi”, continua, “e per aiutare al meglio la gente del posto aveva studiato e imparato il francese”. Una volta appresa la lingua locale, “aveva fatto le valigie” – conclude il presidente dell’Ascom – “e aveva rivoluzionato la sua vita. Voleva solo far del bene, Francesco. Nient’altro”. Il destino sembrava averlo voluto avvertire già sei mesi prima - ricorda la sorella Rosanna – quando, coinvolto in una rapina, era rimasto ferito, sempre nei dintorni di Kiremba, nel corso di un conflitto a fuoco. Su di lui i riflettori, spenti per la vita e l’opera, si sono accesi al momento della tragica morte, per poi spegnersi definitivamente, come sempre accade in questi casi. Una breve spalla in terza di cronaca, mezzi articoli sulle edizioni dei giornali locali, di rado qualche foto d’archivio. Le buone opere non fanno notizia, non solleticano pruriti che vadano oltre la macabra sequenza della ricostruzione delle sue ultime ore, il rapimento, gli scontri, gli spari, il sangue. Il buio. Ci sono già le vicende di Parolisi e dell’ultimo scomparso ad infarcire le cronache nere del nostro bianco Natale, all’ombra dell’abete con sotto i doni, tra Pandoro e biancospini. Poi, tra lo spread che avanza e l’imminente inizio dei saldi, abbiamo ben altro a cui pensare. Per questo, nell’ultimo scorcio di un anno difficile e tormentato, vogliamo che si riaccendano i riflettori su di lui, e sul ricordo degli uomini buoni ed operosi che adesso e sempre, quotidianamente e lontano dalle ribalte, anonimamente, rischiano ed offrono la vita per il prossimo, ai quattro angoli dimenticati della Terra.Senza toga e senza divisa. Senza stola e senza stellette. Se non col l’incenso e gli onori marziali, tributiamo loro almeno un grazie per il modo in cui, con opera infaticabile, ci rappresentano nel mondo. Per buona creanza, impariamo a non dimenticare, come proposito per l’anno nuovo. Prosit. Massimiliano Maccaus

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Arianna e Ferdinando, due facce della stessa medaglia Il mio anonimo del Belpaese ha una duplice faccia: durante il 2011 sono rimasta profondamente colpita da due persone per la loro combattività e creatività. Non è un semplice caso il fatto che entrambi abbiano origini napoletane. La prima è un volto noto ed è Arianna Ciccone, giornalista e ideatrice dell’International Journalism Festival di Perugia, classe 1970, una vera e propria mina vagante del giornalismo Italiano e rappresenta sicuramente la fetta più genuina di esso, il giornalismo vero, che vanta tra i suoi pionieri Enzo Biagi. Piena di idee, attiva, assolutamente coraggiosa, allegra, poliedrica. Soprattutto, è una rappresentante di un giornalismo trasversale, che valica i limiti politici. Si parla di destra, di sinistra e centro. Insomma, si parla di tutto e di tutti in modo trasversale, che tende a svelare ai lettori/cittadini ciò che succede nel mondo e in Italia in modo particolare, senza filtri, limiti o pressioni. Tutto questo prendendo in prestito le parole di un altro giornalista che seguo con interesse, esorta i cittadini ad “aprire un giornale, nonostante i quotidiani spesso siano molto deludenti. Vale la pena informarsi, vale la pena sentire il dolore e la felicità di un altro. Osservare, guardare e anche soffrire”. Questo è un atto di rispetto e dignità da parte dei giornalisti nei confronti dei cittadini. La sua rivoluzione ‘blu’ parte dal web, avvalendosi di Facebook, Tw i t t e r , b l o g … e c e r c a d i coinvolgere tantissimi giovani, informandoli e ammonendoli su tutto: dall’abrogazione del Porcellum, al Referendum di giugno fino alle elezioni comunali di Napoli. Recentemente mi ha nuovamente colpito uno dei suoi tweet, in occasione della morte di un giornalista molto influente, Giorgio Bocca. Alla notizia della sua morte sul web è iniziata una tremenda guerriglia: chi lo disprezzava, chi parlava della sua incoerenza e del suo odio nei confronti del Sud, chi lo attaccava per altro. In questo contesto mi ha colpito l’avvertimento di Arianna, che ha semplicemente chiarito che “è morto un grande giornalista, con tutte le sue contraddizioni. Se ne sta andando una generazione senza eredi… poveri noi”. Sinceramente, questo è il giornalismo genuino che piace a me e che seguo con passione. Pertanto, per concludere cito anche un altro progetto seguitissimo di Arianna e di Chris Potter, il Festival del Giornalismo Internazionale di Perugia, che nasce per i giovani e si nutre di essi, dando loro tantissime opportunità. In primis, quella di potersi confrontare con i rappresentanti del giornalismo italiano come Marco Travaglio, Luca Telese e la stessa Arianna. 17


Il secondo anonimo è Ferdinando Miranda, studente di Giurisprudenza di 24 anni, che vive a Terzigno. Da circa quattro anni Ferdinando e altri suoi conterranei combattono per la saluta della propria città. Difatti, Terzigno è diventata una vera e propria discarica all’aperto, fatta di miasmi, laghetti fatti da veleni tossici. In sintesi, una pattumiera all’aperto. Ferdinando, insieme ad altri studenti e ragazzi tenaci dell’entroterra vesuviano, combatte dal 2007 contro tutto questo, attraverso associazioni, manifestazioni e interviste (Mtv News, Corriere della Sera). Il suo non è solo un atto di civiltà, ma è anche un esempio per tutti i giovani, talvolta accusati di essere inattivi, ‘bamboccioni’ e incuranti delle problematicità della società civile. E’ un invito a fare di più, a combattere (realmente), a non darsi mai per vinti e principalmente segna il senso di responsabilità che si ha nei confronti delle generazioni future. Perché un nostro figlio non potrebbe fare una passeggiata gradevole a Terzigno o Qualiano? Perché non potrebbe vedere il Parco Nazionale del Vesuvio e le sue bellezze? Ho seguito entrambi con molta attenzione, perché a mio modestissimo avviso rappresentano la fetta d’Italia più genuina, fatta di rispetto civico e sociale e lealtà. Dora Marianna Spiniello

Enzo Orlando, un collega di lavoro L’Anonimo del Belpaese lo puoi incontrare sul lavoro e, se sei un insegnante di sostegno in una scuola primaria, può essere l’Educatore Professionale che, insieme a te, opera in una classe. Lui può occuparsi, per l’integrazione e l’educazione, di un ragazzino di famiglia migrante, proprio mentre anche tu cerchi di fare del tuo meglio con una bambina con autismo. Il collega lo conosci pian piano, giorno dopo giorno, scambiando passaggi in macchina, dato che lavori a più di 20 chilometri da dove abiti. Durante i viaggi in automobile, ci si parla e ci si conosce un po’ meglio. Anche durante la ricreazione a scuola, o durante qualche assemblea dei docenti, hai modo di conoscerlo di più e, magari, di trovare interessi o prospettive simili. 18


Ebbene, questo collega Educatore può chiamarsi Enzo Orlando e tu puoi decidere di parlarne su Caffè News. Qui c’è la possibilità di dare conoscibilità/visibilità anche alle cose piccole, quelle senza le quali le cose grandi non esisterebbero. È tramite Caffè News – un esempio di giornalismo partecipativo autentico e consapevole – che posso narrare di una persona non conosciuta dai grandi media, che però può rappresentare un modello positivo in questo momento storico-sociale italiano e mondiale. Enzo è nato nel 1973 a Palazzo Adriano in provincia di Palermo, città dove ha vissuto fino all’età di nove anni; ha poi vissuto e lavorato a Lucca Sicula in provincia di Agrigento. Infine da diversi anni vive e lavora a Bologna, dove svolge la professione di Educatore Professionale per una cooperativa, la quale opera, per conto del Comune, nelle scuole e nei Centri Giovanili. Infatti Enzo al mattino lavora nella Scuola Primaria con me a Monteveglio (BO) e il pomeriggio si occupa di recupero e integrazione sociale nel Centro Giovanile “Blogos” a Casalecchio di Reno (BO). Il collega di lavoro ci racconta la sua storia. Mi racconta che anche in Sicilia lavorava come Educatore ma che, come spesso accade da quelle parti, al suo salario veniva regolarmente sottratta una notevole somma di denaro. Era la stessa cooperativa per cui lavorava a farlo. Il suo mestiere – giù – gli piaceva molto, e gli dava anche delle soddisfazioni, ma la “detrazione” mensile di denaro dal suo stipendio gli pesava troppo. Lui, giovane trentenne, pieno di energie, non era disposto ad essere vittima di questa ingiustizia tutta siciliana o quasi. Ecco allora, anche con le forze inaspettate che originano dalla morte del padre (1989) e dalla successiva morte della madre (1998), che Enzo trova il coraggio di andare da un avvocato e denunciare l’ingiustizia subita sul lavoro (2003); l’avvocato gli dice: “Lei sa, vero, che se sporge denuncia, in Sicilia non ci lavorerà più?”; ma lui è giovane, è reduce dalle morti del padre e poi della madre, non ha “nulla da perdere”. La denuncia la fa, e puntualmente gli giungono minacce di morte, si accorge anche che il suo nome viene comunicato surrettiziamente alle omologhe cooperative sociali dei paesi vicini. Per lui lavorare in Sicilia non è più una cosa possibile. Allora, giuntagli la voce da un suo amico siciliano che vive a Bologna, decide di andarsene e di raggiungerlo. Da allora Enzo vive a Bologna, dove ha trovato lo stesso tipo di lavoro che svolgeva giù, ma con un contratto rispettato, senza stravaganti ed ingiuste sottrazioni pecuniarie. Per la cronaca: Enzo vince la causa e viene risarcito con una cospicua somma di denaro. 19


Col mio collega, durante la ricreazione, continuo a parlare, parliamo di scuola e di politica. Scopro, ad esempio, che è iscritto alla CGIL e mi racconta delle ultime manifestazioni a cui ha partecipato. Mi parla del “modo sociale” di “stare insieme” differente che trovò quando arrivò a Bologna, rispetto a quello del suo paese siculo; mi racconta anche come anno dopo anno con suo disappunto abbia visto il prender piede nel tessuto sociale del nord Italia di un habitus sociale di ingiustizia che anni prima vedeva in Sicilia. Mi intristisco un po’. Purtroppo non ho tempo di approfondire, devo già correre in classe dalla bambina con cui lavoro. Un giorno magari mi farò raccontare meglio. Un mattino in macchina, avendo chiesto un passaggio per arrivare a scuola, scopro che Enzo è autore di poesie e di testi musicali. “Come me”, penso io. E subito, interessato, approfondisco. Scopro che scriveva i testi per un gruppo musicale e che ha pubblicato delle raccolte di poesie. Lui si propone di darmi una copia di un suo libro. Non ci penso due volte e accetto; all’incontro successivo mi dà il libro, e a quello ancora successivo ricambio il favore con due dischi dei Divanofobia, la band in cui suono. È anche attraverso le sue poesie che mi piacerebbe presentare il mio collega al lettore. Quale biglietto da visita migliore potevo avere per conoscerlo meglio, dato il mio interesse per la poesia? In quel libro troverò gli ulteriori motivi per proporvi questa persona come Anonimo dell’Anno. La raccolta di poesie si intitola “Soldatini & libellule”, pubblicata nel 1996 da Libroitaliano – Ragusa – all’interno della collana Nuova Poesia Contemporanea. Un libro probabilmente introvabile e che racchiude, è vero, componimenti talora ingenui e veementi, grottesche epifanie mistico-religiose («elevando lo sguardo, noto / stampata nello specchio astrale / una “Croce nel Cielo”»); agli occhi critici del poeta contemporaneo, appaiono eccedenti gli stereotipi linguistici e stilistici («nella stessa Barca per affondare»; «pura passione», «Numi antichi, destino, un Albatros», «Pecora Nera», rime alternate). Questa, però, è una poesia vera, genuina, autentica. Non è poca cosa ed è questo che qui ci interessa. Si tenga conto altresì della giovanissima età che aveva l’autore all’ora della pubblicazione, circa ventidue anni. Tra le righe si possono scorgere degli ottimi strumenti esistenziali e creativi che, in nuce, possono aver prefigurato la possibilità di sviluppare strumenti stilistici più evoluti e maturi. I riferimenti poetici chiaramente dichiarati dall’autore sono: Quasimodo, Baudelaire, Pasolini. La raccolta affronta dei temi importanti, molto attuali e, direi, molto italiani. Il difficile e tormentato rapporto con la religione, in particolare quella cattolica, e il suo influsso a livello identitario, sono aspetti che attraversano tutto il libro sin dal suo inizio. Emblematica la terza strofa della prima poesia dal titolo “L’acquario”: «Presuntuosi che qualcuno ci osservi, / egoisti, atroci nell’immenso Acquario, / nuotiamo, pazzi sul filo dei nervi / contiamo Nulla in questo scenario». Frammenti di quella che potrei chiamare nevrosi laico-religiosa li troviamo sparsi in numerose poesie: «sotto un Sole bastardo / privo di santa Pietà»; «e vola verso il Paradiso»; «noi siamo i fiori del giardino Divino / chiamati a rappresentare la vita? / O siamo essenziali comparse / capitate volgarmente per caso? / Impertinente attendo la Prova 20


maestra / paradossale conferma, miracolo certo»; «Apocalisse visiva»; «serpe interiore nella mente incubatrice / violento impatto tra sacro e profano». Ed è questa visione, talora epifanica, tra ciò che è sacro e ciò che non lo è, che ci apre gli occhi verso l’altra colonna portante e parallela della struttura del libro, cioè la “trasgressione”. Questa si manifesta sotto il profilo stilistico con un largo uso di figure ossimoriche, a partire, in modo emblematico, dal titolo stesso della raccolta: “Soldatini & libellule”. Titolo in cui si accostano simbolicamente maschile e femminile, infanzia e adultità, cinismo e fantasia, pesantezza e leggerezza, istinto e sublimazione, ostilità e amore, staticità e movimento. L’ossimoro appare come il correlativo stilistico dell’idea di “trasgressione” che sembra avere l’autore, ossia, direi, quella di capacità o esercizio di rompere con le “certezze” dogmatiche e con gli ordini prestabiliti. Questa attitudine, poetica ed esistenziale insieme, si traduce per l’autore nell’essenza stessa dell’arte: «Paradiso vitale, l’arte è trasgressione.». L’arte si configura insomma come la sublimazione degli opposti racchiusi nel nostro essere. Ed è forse proprio questa capacità che consente alla trasgressione di divenire anche esistenziale: la storia di Enzo ne è l’esempio vivente. La capacità che ha avuto, di cui si è detto, di rompere con la “tradizione” mafiosa, trovando la volontà di denunciare le ingiustizie da lui subite sul lavoro, non è forse un bellissimo esempio di trasgressione? E infatti il tema della mafia è trattato in maniera decisa all’interno della raccolta. Nella poesia “Il guerriero”, dedicata a Giuseppe Borsellino, imprenditore di Lucca Sicula ucciso dalla mafia, leggiamo: «la rabbia interna chiedeva giustizia / e non Vendetta, devianza sicula, ragione gretta» e ancora «nella Terra Muto-SordoCieca, banale / obbedienza». Ma la nota più chiara di trasgressione/rottura col passato arriva in “Trinacria brucia”: «ho sperato che trinacria bruciasse / in una notte non molto lontana. / Per realizzare questo sogno continuo / ho aggiunto un anello alla Catena umana». Ma i temi dell’ossimoro, e della trasgressione per come l’autore la intende, ci portano, volendo, ad ulteriori dettagli. Il rifiuto del dogma conduce ad una valorizzazione dello strumento del dialogo: con limpida assertività l’autore scrive: «stabiliamo il dialogo, come bandiera / dei nostri futuri ideali»; ci indirizza anche alla valorizzazione del singolo individuo e dell’atteggiamento attivo: nella poesia “Una vita alternativa” leggiamo: «quando riscoprirai che esiste un mondo Sano, / oltre i tuoi muri visivi e passivi». Certo questa trasgressione “ideale”, sul piano stilistico poetico, non viene messa sufficientemente a frutto, ma costituisce tuttavia una base importante per un poeta che allora era poco più che ventenne. Enzo Orlando nelle sue poesie denuncia e asserisce, è calato nella concretezza della contemporaneità, con incluse le emergenze ambientali ed ecologiche. Emblematica la poesia “Mondo – Toxico” i cui versi hanno proprio il sapore del nailon: «noi figli di quest’Era sintetica; viaggiamo su rotaie di plastica; soffiano Vento di ripetizione». Gli ultimi due versi, poi, recitano: «L’unica folle speranza è / il mio pensiero 21


preistorico». È questo “pensiero preistorico” a cui richiama l’autore che ci rende più umani, più sensibili, più attenti ai desideri più nostri. E cosa sia la “sensibilità” ce lo fa sentire bene nella poesia “Il bambino di Sarajevo” quando dice: «quel triciclo ribaltato è / un colosso abbattuto» (qui vengono in mente le parole del reporter Vittorio Arrigoni: “restiamo umani”). E il “desiderio” è anche quello che anima la poesia “È tempo di Rivoluzione”, quando ci viene lanciato il monito: «spegni la tua paralisi e scendi in piazza / a gridare il tuo nome / e a narrare i tuoi sogni». Un desiderio – incluso quello strettamente sessuale – che in questa raccolta di poesie tardo adolescenziali risulta forse eccessivamente irruente, a causa della giovane età di chi scriveva, ma un desiderio essenzialmente sano, che richiama a quell’eros consapevole, il quale sa di dover fare i conti con il thanatos e con la razionalità. È uno stato d’animo a cui molti giovani oggi sono esposti. Il desiderio di voler rivoluzionare qualcosa nella società, anche se non sempre si sa bene che cosa, è uno stato d’animo molto vicino a noi in questo momento storico. E così, dunque, l’impegno civile si connota come bisogno e non come sterile azione intellettualistica. Nella poesia “Nessun guinzaglio” leggiamo: «soffia il volo nel tuo cuore / e rinnega questa terra / puoi spaccare queste sbarre / e lasciare qui il gregge». L’idea di sconfiggere la mafia si configura come un sogno/desiderio da perseguire. In conclusione e in sostanza mi interessa far notare che Enzo Orlando è quello che appare: parla di sensibilità, lotta alle mafie, impegno civile, vita alternativa, sofferenza e poi, concretamente, svolge un lavoro di integrazione sociale che richiede tanta sensibilità (la quale si manifesta anche nella sua attività artistica), denuncia con consapevolezza gli episodi mafiosi, manifesta il proprio disappunto nelle piazze, resiste attraverso l’assertività delle sue poesie e la sua vita quotidiana al modello di vita omologata, conosce davvero la sofferenza a causa delle premature morti del padre e della madre e per le circostanze che la mafia ha creato attorno a lui. È proprio questa integrità personale che voglio esibire all’attenzione del lettore. Enzo, il mio collega di lavoro, diventa un modello non idealizzato dalla massa e da non idealizzare, un modello come tanti altri ma non come tutti. Con la sua storia, qui brevemente abbozzata, con il suo libro – per quanto non ancora maturo – costituisce un esempio di Anonimo che è essenziale nel tessuto sociale, per quello che è e per quello che fa. È quindi Enzo Orlando la persona che candido ad Anonimo del Belpaese, e lo faccio persuaso dall’idea che, a ben vedere, Enzo, Anonimo, non lo sia affatto. Andrea Lorenzoni

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Matteo, dottorando e contento L’anonimo del Belpaese è quel ragazzo riccioluto e sorridente che ho incontrato tempo fa ad un campo di volontariato in Umbria. Quando mi capitò di incontrare Matteo Allegretti era un giovane neolaureato in Biochimica delle Macromolecole, che da due settimane si era messo in cerca di un lavoro come ricercatore. Romano de Roma, classe 1984, timido ma appassionato delle sue ricerche, tanto da parlarmene ed affascinarmici a tal punto da farmi avere una copia del lavoro a cui stava collaborando: una traduzione in italiano di una ricerca su tematiche che in Italia non sono molto affrontate. La ricerca, condotta dal prof. Pierluigi Luisi, si poneva domande di filosofia della scienza alle quali cercava di dare risposta con veri e propri esperimenti, indagando il concetto di Vita quale proprietà Emergente sulla Terra. Ovvero come avviene che da materia inanimata si generino entità viventi attraverso dei processi chimici. Matteo si laurea con una tesi sulla Cellula Minima, grazie alla quale riesce a trascorrere un periodo di tempo tra Svizzera (Zurigo) e Germania (Yena). “Avrei cominciato a fare ricerca all’estero anche prima ma in Italia non è una prassi frequente, sono stato fortunato!”. Pubblica un paio di articoli e gli viene proposto un colloquio per collaborare con il Max Plank Institut per la biofisica di Francoforte: una due giorni di colloquio con ciascun professore dell’istituto ed una presentazione finale da esporre a tutto il team. Matteo viene scelto e diviene dottorando. Ed ora come vanno le cose a Francoforte? “Eh, io li sto bene.” Ha un contratto di ricerca che gli permette, dopo i primi mesi di assestamento, di mantenersi ed aver trovato l’emancipazione che cercava. Ciò che maggiormente ama del suo lavoro è avere la possibilità di stare a stretto contatto con grandi menti da cui imparare moltissimo e di riuscire, facendo questo, a viaggiare e conoscere ambienti e persone provenienti da tutto il mondo. Ciò che gli manca però è il tempo libero.. “lavoro moltissimo, non ho più il tempo che a Roma dedicavo allo sport, al volontariato e cose così”. Ma d’altra parte tutto ha un piccolo prezzo da pagare. Sfoga la sua creatività facendo parte dell’editorial board dell’annuale rivista ufficiale dei dottorandi del Max Plank, il cui titolo del prossimo numero sarà Futurama, dove si raccolgono le risposte alla domanda “Come sarà il mondo tra 50 anni?” dei più grandi 23


scienziati di fama mondiale. Ora Matteo si occupa di Microscopia elettronica in ambito biologico e fa parte di quella corrente di scienziati che considerano il riduzionismo del metodo scientifico (che parcellizza la realtà) non sufficiente per comprendere a pieno la complessità della natura. Questa corrente di pensiero trova espressione attraverso un festival ideato quasi trenta anni fa dal prof. Luisi. In questo evento (purtroppo non pubblico) chiamato “La settimana di Cortona”, che si svolge per l’appunto nel piccolo borgo medievale toscano, studenti delle varie discipline scientifiche si incontrano con artisti, psicologi, filosofi e uomini di religione al fine di confrontarsi con i diversi aspetti della realtà. Io nomino Matteo Allegretti anonimo del Belpaese perché è un esempio per tutti quelli che rischiano di farsi abbattere dalle mille difficoltà che si possono frapporre ogni giorno tra loro e le loro ambizioni. Verso la fine della nostra chiacchierata Matteo mi ha ricordato che “la fortuna non è tutto, è vero che le occasioni capitano quando vogliono loro ma se smucini bene ti escono fuori”. Quindi ecco l’augurio: che ciascuno di noi non smetta mai di smucinare, alla ricerca di ciò che vuole fare, essere o diventare. Francesca Papais

Liberazione e Speranza, spezzare le catene dell’indifferenza Ci sono anonimi che danno voce ad altri anonimi, spesso rimanendo lontano dalle luci della ribalta. È il caso dell’associazione “Liberazione e Speranza” che opera da anni in una realtà piccola e defilata come quella della provincia di Novara. Il suo scopo è salvare dalla strada le ragazze vittime della tratta, costrette a prostituirsi. Una piaga che colpisce purtroppo tutta la penisola e che negli ultimi decenni ha fortemente interessato anche la provincia piemontese. Nata all’inizio del 2000, la onlus “Liberazione e Speranza” si occupa di togliere dal marciapiede le ragazze straniere, arrivate in Italia con la promessa di un futuro migliore e poi costrette a degradanti situazioni di sfruttamento. La onlus agisce offrendo un programma di protezione sociale e poi di reinserimento socio-lavorativo (anche nei loro paesi di origine) alle donne che ne fanno richiesta. In 11 anni di attività, “Liberazione e Speranza” ha aiutato più di 500 ragazze in tutta la provincia di Novara a spezzare le catene della schiavitù per riprendere in mano la loro vita. Il cammino verso la rinascita passa dai quattro micro-appartamenti della casa che ospita le rifugiate della tratta, da un percorso di inserimento professionale e soprattutto da un lavoro psicologico di ricostruzione di sé. Nel corso degli anni, a fianco di tante storie andate a lieto fine, altre non hanno purtroppo avuto un epilogo altrettanto felice. Ma anche in questi casi “Liberazione e 24


Speranza” ha dato voce agli ultimi, a chi non ha potuto e non potrà avere più voce. È il caso di Joy Dirisu, una ragazza ventunenne di Benin city, vittima della tratta delle schiave. Joy è stata rinvenuta morta nel torrente Agogna, alle porte di Novara lo scorso 26 settembre. La procura indaga al momento per omicidio. L’ipotesi più accreditata, dagli inquirenti e dai volontari dell’associazione che l’avevano conosciuta, è che il delitto sia stato commesso da un “cliente”. La ragazza si era rivolta più volte al servizio di assistenza della onlus per ritornare nel suo paese natale: era interessata ai programmi di rientro assistito e intendeva liberarsi dalle catene dello sfruttamento sessuale. Purtroppo a spezzarsi sono stati i suoi sogni e non le catene: “Noi non sappiamo chi sia stato a farti fare una fine così atroce. Siamo convinte in ogni caso che ad ammazzarti siano state ancora una volta l’indifferenza e la crudeltà di tutti coloro che ti hanno usata per i loro porci comodi, per nulla sfiorati dal dubbio di avere a che fare con un essere umano meritevole di assoluto rispetto, siano essi i criminali stranieri che alimentano il traffico di esseri umani, siano essi i clienti italiani che hanno approfittato del tuo stato di vulnerabilità e bisogno” Con queste parole, i volontari e le volontarie dell’associazione hanno salutato Joy, riassumendo la sua tragica vicenda in una lettera aperta pubblicata sul sito della onlus. Indifferenza, crudeltà, mancanza di rispetto, criminali stranieri e “clienti” (mi ostino a scriverlo tra virgolette: gli esseri umani non sono merce) italiani. Tutti fattori che relegano in un anonimato doloroso e ingiusto giovani donne in cerca di una vita migliore e ingannate da associazioni criminali. Ma c’è anche un altro anonimato in questa vicenda, un anonimato di segno opposto: quello di tutte le persone e le organizzazioni che lottano senza risparmiarsi, in piccole realtà lontane dall’attenzione dei grandi media, contro l’indifferenza e la crudeltà per restituire dignità e speranza alle persone sfruttate. Un impegno costante e silenzioso dunque, che però a Novara ha prodotto un piccolo miracolo: al funerale di Joy hanno partecipato oltre 300 persone, cifra record per una realtà medio-piccola come quella della provincia piemontese. I miei anonimi del Belpaese sono perciò non solo tutti i volontari e gli operatori della realtà novarese, ma tutti quelli che come loro riconoscono l’umanità dell’altro, indipendentemente dal sesso e dalla provenienza geografica, quelli che lottano contro l’indifferenza, quelli che rifiutano l’anonimato in alcune sue (brutte) declinazioni e lo combattono lavorando duramente, anche nel loro piccolo, per cambiare le cose. Senza proclami altisonanti che rischiano spesso di suonare vuoti. Aurora Fragonara

Hala, mangia prega balla Nata e cresciuta in un paese povero e contadino del Libano, Hala lascia tutto giovanissima per fare la donna di servizio – o badante che dir si voglia – in una famiglia bene di vicino Jounieh, zona cristiana del centro del Libano, venti minuti da Beirut. Chissà quante storie sono iniziate così. Ma chissà quante poi sono continuate esattamente in questo modo, per quasi sessant’anni, con la “bonne” – come la 25


chiamano in Libano – che si fa tata e poi quasi nonna di tutti, al pari della capostipite. Hala è l’anonima dell’anno da 58 lunghi anni: tre generazioni di bambini accuditi come fossero i suoi, infiniti piatti cucinati a quattro mani insieme ad Antoinette per i suoi sei figli, poi per i tantissimi nipoti e per la rispettiva prole. “Keli ya rawhi keli” (“mangia amore mio, mangia”) è il motto che ripete ai più piccini – ma a volte anche ai meno giovani, che vede comunque con occhi materni -, seguito in caso di rifiuto da poco credibili “abahash hebbik” (“non ti voglio più bene!”) o “stoffli” (“fai come ti pare”), concatenati a buffetti sulle guance e bacetti affettuosi. Cresciuta in un paese dove spessissimo salta l’elettricità (come d’altronde in tutto il Libano) dove a volte mancano i comfort considerati basilari (come carta igienica di tanto in tanto umilmente sostituita da cartaccia normale) ma dove non manca l’ospitalità più completa e la voglia di offrire quanto si ha a chiunque venga a farle visita, Hala alimenta fin da piccola una grande fede fra processioni, liturgie cantate e notti passate a dormire all’aperto con le capre e a guardare il cielo. La povertà non pesa e la tristezza non divora la voglia di godere della vita. Le notti d’estate passate all’aperto, che a tanti fanno accapponare la pelle, sono le più attese da Hala e fratelli. Poi a sedici anni inizia la nuova vita: via in un’altra città, un altro lavoro, una nuova casa, sei bambini non suoi da accudire, ancora giovanissima, le stanze da ripulire e il giardino da curare, i cani e i gatti che aspettano da lei la loro razione giornaliera di avanzi. Hala non abbandona la fede: segni di croce ripetuti di fronte ad ogni chiesa, nei rari spostamenti in macchina in cui si accompagna sempre ad un rametto di basilico o ad una gardenia – le sue fragranze preferite – direttamente colte dal giardino. Sciorina bisbigliando corone intere di avemarie mentre cucina, e chi non la conosce si insospettisce di fronte al sussurro continuo. Celebre è l’episodio di Hala che si carica sulle spalle il piccolo Joseph, preoccupata per la sua rosolia improvvisa, e parte in pellegrinaggio scalza con il bambino in spalla, chilometri di pianura poi di salita ripida. Antoinette, la mamma di Joseph, ancora ride della decisione irremovibile e fedele di Hala: nessuno l’avrebbe dissuasa dalla sua idea ferma di intraprendere il pellegrinaggio sul cammino roccioso per invocare la pronta guarigione del bambino. I bambini – o ex-bambini, di tutte e tre le generazioni, visto che Antoinette è ormai bisnonna – la adorano: solo Hala, magrolina e piccola ma robustissima, li ha rincorsi cinquant’anni fa da casa fino all’imminente autostrada dove si erano avventurati da soli, incoscienti e birichini, con il rischio di essere falciati dalle auto; solo lei li ha ripescati sul tetto di casa a cui gli era proibito l’accesso ma dove, sempre per infantile prodezza, si erano azzardati a salire (con il rischio, fra l’altro, che per il timore di essere pescati e rimproverati perdessero l’equilibrio e cadessero); solo lei un giorno è silenziosa e paziente e sorveglia i pasti con occhio vigile – chiedendo continuamente ai bambini se hanno voglia di mangiare qualcos’altro, si sa mai che dovessero restare affamati – e la sera dopo si scatena intonando stornelli libanesi e saltellando la dabke, ballo tipico, agile come un grillo, con un bicchiere di arak (liquore tipico) in mano. E con tutto l’affetto inebriante con cui elargisce sorrisi e parole dolci, di tanto in tanto allo stesso modo sforna anche parolacce e lancia accidenti senza alcuna volgarità, generando una risata generale. Poi Hala fa il pane, e le sue “serate” saj (così si 26


chiama il pane tipico che prepara) sono dei veri e propri eventi in quella che è la sua nuova famiglia: pane con spezie o formaggio, o in versione dolce con cioccolato o burro e zucchero. La gente non aspetta altro, lei si siede a terra in giardino, bandana in testa e mani infarinate, e forma abilmente grandi dischi di pane arabo, versione libanese di una pizzaiola napoletana provetta. Parla soltanto arabo, anche se attorno a lei spessissimo la gente discorre in francese, italiano, inglese: sotto sotto capisce un po’ di tutto, ma solo in casi estremi sfoggia qualche parola di francese maccheronico mischiato al libanese: “beddik un ou deux?”, “Ta’mli douche?”, “Oui ou non?”, “Haida mouton!”. Da sessant’anni cresce i bambini rincorrendoli per casa con tartine a merenda, piangendo come una nonna affettuosa se partono per mesi o per anni, proprio come se fossero i suoi, irrorandoli con acqua benedetta e incenso se stanno particolarmente male. Mai un lamento, mai una rivendicazione. Viene da chiedersi se un tempo nei suoi disegni c’era un futuro diverso, magari una famiglia tutta sua. Quella in cui è finita, però, benché non sia composta da suoi consanguinei, ha trovato in lei una salvezza, una persona di carattere, saggia, divertente e mai noiosa, su cui contare sempre. E non c’è mai stato un litigio di rilievo: Hala si è guadagnata la stima e la fiducia e Antoinette non lo ammetterà forse mai, ma anche se le due in partenza avevano in comune (per caso!) soltanto il cognome – differenti erano l’estrazione sociale, le abitudini e le convenzioni – sessant’anni di convivenza hanno fatto il resto, piano piano, in silenzio, giorno dopo giorno, in un apparente anonimato che però ha fatto di Hala la seconda mamma di una ventina di bambini. I sacrifici vissuti con spensieratezza, a cuor leggero, con vivacità ed entusiasmo, fra parole affettuose e accidenti lanciati all’elettricità che salta. “Kahraba sharmuta!” Personaggio comico ed insieme donna umanissima e spontanea, Hala è e rimarrà probabilmente una rara eccezione che, con i piccoli vizi a cui da sessant’anni abitua chiunque faccia la sua conoscenza, richiama la più naturale gratitudine e riconoscenza. Esempio da portare, forse, a tante mamme e donne italiane. Proprio lei, che mamma concretamente non lo è mai stata. Ma in fondo, che importa? Leyla Khalil

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Bartleby che resiste Inizialmente, quando mi è stato chiesto di scovare l’anonimo del Belpaese, di scrivere un articolo su un personaggio o un evento che avesse segnato il 2011, sconosciuto però al grande pubblico, non riuscivo a trovare un’individualità che potesse rappresentare in maniera pregnante quello che avevo in mente. Ho sfogliato le pagine della memoria, ma niente… nessuna notizia originale, “anonimamente” significativa. Poi ho pensato che non doveva trattarsi necessariamente di UNA persona, di una singolarità, ma potevo scrivere anche di un insieme, di un gruppo, forse un magma indistinto, eh sì, ancora più anonimo così! E allora dedico le mie parole al Bartleby… ricercatori, precari, giovani, studenti, movimenti, cultura, libri, musica, birra, fumetti, idee, pensieri, ricordi, menti, chiacchiere, volti, fumo, autoformazione, controinformazione, sì… tutto questo è il Bartleby. Sarà la nostalgia dei portici e dei tetti rossi, ma sfogliando e sfogliando è qui che sono arrivata. Bartleby è uno spazio libero in via San Petronio Vecchio, nel cuore del centro storico di Bologna. E’ un luogo che produce saperi, attraverso un flusso di scambi continuo, prezioso come l’ossigeno, perché - si sa - senza confronto, senza contatto non c’è divenire, ma stallo, morte. E’ un luogo fatto di persone, costruito da chi è in lotta per migliorare quello che c’è là fuori, quello che non possiamo più sopportare, quello che non ci fa sognare il futuro che ci meritiamo. Movimento, controcultura, liberi percorsi del sapere. Il gruppo del Bartleby è perciò sempre presente e attivo. Numerosissimi sono gli eventi musicali, culturali e sociali organizzati in questo spazio, dai seminari di autoformazione ai concerti; dalla attiva e propositiva partecipazione ai movimenti di studenti e precari alle presentazioni di saggi, fumetti, e letteratura non convenzionale. Bartleby è importante, perché la cultura è importante! Non possiamo riservarle un posto in ultima fila nella costruzione delle relazioni sociali, ma deve essere centrale. Abbiamo bisogno di una produzione sempre nuova e continua di saperi e cultura, se vogliamo che qualcosa cambi. Per un capovolgimento dello stato delle cose ci vogliono idee, e le idee nascono negli spazi liberi, dove possono circolare ed evolversi e diventare sempre più ricche attraverso lo scambio. E allora non lasciamo morire il Bartleby, perché ha troppo da fare! Non ha tempo per chiudere, aiutiamolo a resistere! L’augurio che vi faccio per questo 2012 è quello di trovare la forza di smettere di “copiare”, di accettare la staticità delle cose che non vogliono trasformarsi, come faceva lo scrivano del famoso racconto di Herman Melville (da cui prende il nome questo spazio libero), e di agire, insieme. Vi lascio così alle parole di Bartleby: “Il mio nome è Bartleby, e l’inizio di questa mia nuova storia è nelle ultime pagine di un libro. Quasi due secoli fa lavoravo nello studio di un giudice: copiavo e ricopiavo testi dietro un paravento. Quando cominciai a sottrarmi al lavoro mi dissero di andarmene. Eppure pensavo che quello studio, quelle quattro mura 28


potessero essere la mia casa. Ben presto mi accorsi di essere ospite indesiderato. Non capivo perché e rimasi a pensarci: solo le porte della prigione mi furono aperte. Oggi sono evaso: per fuggire sono entrato nelle pieghe dell’Onda. All’inizio è stato difficile: ho preso parola nelle assemblee, sono sceso nelle strade e ho incontrato migliaia di persone che avevano i miei stessi desideri. Nelle mie arterie adesso circolano saperi liberi. Ora continuo a camminare incontrando studenti e precari, artisti e migranti, scrittori e musicisti, poeti e lavoratori, costruisco con loro il nostro futuro, coloriamo insieme la città, rompiamo i divieti e abbattiamo muri. Oggi non ho paura. Nessun controllo, nessuna telecamera, nessuno schieramento può fermarmi. Da oggi costruisco la mia metropoli. Non c’è immagine che mi rappresenti, non c’è schermo che mi contenga: sono autonomo e quindi in continuo divenire. Oggi apro una porta. Apro finestre dove c’erano paraventi e finalmente guardo alla città e a tutti quelli che l’attraversano. Preferisco, voglio e spingo la vita in questo fiume di desideri, nel tumulto che supera lo stallo. Oggi ho trovato casa.” Maria Mercone

I mitici ragazzi di CleaNap Una città sommersa dall’immondizia, la vita politica e civile regolata dalle mafie, la popolazione costretta a fuggire, un gruppo di ragazzi che non si arrende. Realtà o finzione? C’è un filo conduttore che lega le vicende narrate ne “La città che brucia” (Zerounoundici Edizioni), il nuovo romanzo di Marcello Peluso, e la tenace attività di “guerrilla di civiltà” condotta dai ragazzi di CleaNap, i volontari che hanno iniziato la loro avventura incontrandosi per pulire, arredare e migliorare le piazze di Napoli come atto di protesta estremo, positivo e attivo, e che oggi si impegnano a 360 gradi in attività volte a sottrarre la città dal degrado e dalla sporcizia: lezioni di compostaggio, eco orienteering, flash mob per la riduzione dei rifiuti. Nato dall’iniziativa di Emiliana Mellone, il movimento, apartitico e privo di ogni etichetta ideologica, ha coinvolto pian piano sempre più persone tanto da divenire oggi un’associazione senza scopo di lucro. E’ una guerra per la civiltà e non una guerra di civiltà che mostra la parte più bella e pulita di Napoli. Arrendersi e pensare ad un futuro senza speranza significa pensare ad un futuro dove interessi e mafie hanno vinto. Ma come sarebbe un futuro senza speranza? Nel romanzo “La città che brucia” (www.lacittachebrucia.it), Jenny e Mario, due sedicenni nati e cresciuti nel ventre di una città ridotta a discarica a cielo aperto e territorio di guerra, abbandoneranno le caverne del Sottosuolo, dove la popolazione è 29


costretta a vivere, per scoprire chi ha ridotto quel paradiso in un inferno. In Superficie conosceranno il vero volto dei nuovi padroni, “loro”, che hanno imposto la propria legge del terrore, vietando la parola perché non possa divenire mezzo di ribellione e rivolta. Metafora di un futuro in cui hanno vinto le mafie, il libro assume un significato simbolico se letto alla luce della resistenza attiva svolta da CleaNap in una città troppe volte alla ribalta dei media per spiacevoli avvenimenti di cronaca e per l’emergenza rifiuti. L’intento è anche quello di innescare un circolo virtuoso di consapevolezza e legalità. Per questo motivo, e mai come in questa circostanza, l’unione fa la forza e l’acquisto del libro contribuirà a finanziare le attività di CleaNap. Paolo Esposito

Sei tu, giovane ragazza, che… Il mio Anonimo del Belpaese è sconosciuto anche a me. Sei tu, giovane ragazza che in un pomeriggio qualunque, mentre mi trovavo seduto al tavolino di un bar, ho visto rincorrere un signore di mezza età. Ho pensato fosse tuo padre o tuo zio, ma poi ho visto che avevi in mano un portafoglio e dopo essere riuscita a attirare la sua attenzione, glielo restituivi. E lui era contento, e tu dopo avere sorriso davanti al suo ringraziamento te ne andavi senza pretendere nessuna ricompensa. Il tuo piccolo e all’apparenza insignificante gesto mi è tornato spesso in mente leggendo storie di cronaca in cui si parlava di enormi patrimoni di origine criminale o di generosissimi regali in cambio di sospetti favori da non rivelare pubblicamente. Il tuo comportamento condito da grande naturalezza (“ingenuità” direbbe Massimo Gramellini) è simbolico di quell’onestà e di quelle persone perbene che ne sono dotate. Quelle persone che vengono dileggiate da molti di quei personaggi in primo piano sui giornali e sui tg come “quelli che non hanno capito come gira il mondo” ed eppure sono così importanti per il mondo (ed anche per l’Italia). Grazie a loro questo paese in cui viviamo, benché sia stritolato dalla morsa dell’illegalità e della speculazione internazionale, è riuscito a sopravvivere anche a quest’anno che ha visto lo spread superare quota 500 e cadere addirittura un Governo che sembrava determinato a resistere anche alle cannonate. Voglio finire quest’anno col tuo ricordo come pungolo a continuare a essere per molti “dei fessi”, ma continuare a dormire tranquilli la notte. Michele Cascioli

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Kaos Kalmo L’entrata è una porta che si apre al contrario: non si spinge, si tira. Si entra in un mondo alla rovescia, dentro una contraddizione elegante dove si mescola tutto. Dove si mescolano anche le parole, che contraddicendosi esprimono la loro essenza più pura. Il caos (anzi: il Kaos) esplode dentro di te e a quel leggero smarrimento impregnato di non convenzionalità si aggiunge istantanea la tranquillità, la consapevolezza di essere a casa. Voglia di pantofole e di appoggiarsi per un attimo in quel divano rosso imperiale, nel senso che da lì, da quel preciso punto del mondo, vedi passaggi di tante persone diverse. C’è chi è frettoloso e chi ha voglia di gridare, c’è chi ha voglia di ballare e chi vuole leggere il giornale; chi gioca a carte e chi pretende di avere ragione. E nessuno sa come, lì, tutte queste personalità riescono a trovare uno spazio comune, a non spegnersi ma ad esaltarsi, a coaugulare tanta differenza in pochi attimi. Vecchi, giovani, giovanissimi, stranieri, italiani, belli e brutti, famosi e non famosi, simpatici e antipatici. Sprofondo nel divano e rifletto. “Resit, ciao. Sì tutto bene, te? Un caffè grazie”. Poi mi alzo, entro nell’altra stanza, il cuore pulsante del locale, e mi immergo nella musica, le casse fanno scivolare fuori un avvolgente pezzo scelto da Franco, anzi: dal Tacco. E’ lui a tracciare la costruzione della colonna sonora, da estrapolare dall’infinito iPod. Arrivano Pat Metheny e Morricone, Mina e la Joplin, Orbit e i Modena City Ramblers, i Beirut e Chet Baker. E la sera, ogni sera, a foraggiare la musica sono tutti, tutti quelli che si ritrovano ad avere una sensibilità comune, come per incanto. Si balla, si ride, si scherza. Si parla, si riflette. Non di rado ti capita di imbatterti in un artista o in uno scrittore, in un senatore o in un cantastorie. Che poi, in fondo, siamo tutti dei canta storie: le nostre. Basta trovare il luogo adatto, spogliarsi della diffidenza e trovare qualcuno che tolga lo strato di indifferenza e ti Ascolti. Lì succede questo. Per questo io nomino il Kaos Kalmo, locale di San Stino di Livenza, personaggio anonimo del Belpaese. Personaggio animato da tanti personaggi che vogliono essere e far parte, non solo essere serviti. Personaggi che lì ritrovano la leggerezza perduta e lo slancio, ricarica di idee, spunti, speranza. enrico geretto

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Un Dimonios per la pace Spesso la realtà supera la fantasia, forse perché non sappiamo più sognare. È da essa che dobbiamo partire per vivere un’esperienza unica. Ognuno di noi è una vita, un respiro, una storia esclusiva, ognuno di noi ha scelto cosa fare della propria esistenza ed oggi mi sento di dedicare il titolo “Anonimo del Belpaese” a chi anonimo lo è davvero. Caro “Dimonios”, sei anonimo ogni giorno, sei anonimo dalla nascita ed indossare una divisa non ha facilitato la tua conoscenza. Eppure, oggi, sei il “soldato che non difende la schiavitù ma la libertà”, sei il soldato che parte per 6-9 mesi in terra straniera per portare un sorriso anche quando la lontananza dalla Patria sembrerebbe soffocarlo. Sei soldato da quando avevi 18 anni ed oggi che stai in Afghanistan e sei alla tua terza missione all’estero non hai tempo di pensare che la tua sia stata una scelta difficile, devi pensare solo alla tua vita, a ritornare in terra di Sardegna per riabbracciare chi ti ama. Sei Luca, Francesca, Andrea, Giuseppe, Daniele, Laura. Hai 28, 30, 36, 41, 50 anni. Sei sardo, italiano, dimonio. Fai parte della Brigata Sassari, indossi il fazzoletto bianco e rosso: “Su biancu est fide pro non zedere / incontra a s’inimigu, a sos affannos; / su ruju est s’amore pro sos mannos, / pro sa Patria…” (Il bianco è la fede per non cedere / di fronte al nemico ed alle avversità; / il rosso è l’amore per antenati, / per la Patria…) Sei l’uomo, la donna, che cammina fiera di portare la mimetica, sei tu spirito che doni la vita a questo Paese. Sei il marito che, appena può, chiama la moglie in Sardegna per dirle ti amo e chiederle come procede, per ringraziarla di mandare avanti la famiglia durante la sua assenza, per colpa del fuso orario quando da te è mattina qui è notte fonda, quando da te è ora di pranzo qui è mattina e spesso rischi di svegliarla eppure la rendi la donna più felice di tutte. Sei il militare che passando per la strada sente addosso gli occhi della gente e va fiero di questo, sei colui che la gente vede solo come una divisa e non pensa all’uomo la donna che c’è sotto. Sei il papà, la mamma che appena messo piede in aeroporto corre ad abbracciare i propri figli. Hai uno strano modo di amare questa Nazione, la ami quando ti ritrovi con una mano ad accarezzare il volto di un bambino afghano e con l’altra a stringere il mitra. La ami da lontano, la sogni e pensi a chi qui ti ama, pensi a noi italiani, pensi che sei lontano dall’Italia per noi, eppure sei lì ad aiutare chi italiano non è. Ti senti fiero di servire questo Paese aiutando gli afghani a costruire scuole e strade in sicurezza, ti senti fiero quando devi uscire in ricognizione con i tuoi colleghi e porti quanti più vestiti e cibo all’interno del blindato perché sai che potresti incontrare bambini svestiti e affamati. 32


Sei tu “anonimo” tutte le volte che trovi un bambino scalzo, a cui regali delle scarpine e gli insegni a fare il nodo come farebbe ogni papà. Sei marito, padre, figlio, fratello, sei chi per la propria scelta di vita ha fatto soffrire i propri cari, sei chi ha delle persone che gli scrivono frasi d’amore come questa: “Con oggi sono 3 mesi… E non abbiamo avuto ancora la gioia di stringerti a noi.. AJO’ figlia mia… Qui hanno tutti bisogno di te… Ci manchiii..torna presto….un bacio mamma e papà..”; sei tu donna o uomo che piangi davanti a quei puntini di sospensione, che ne senti il peso. Sei un “anonimo” di guerra e di paura. Sei sardo quando ti manca la terra di Sardegna, lo sei quando ti mancano le cene in compagnia, quando ti manca il profumo del mare ed il verde delle colline. Sei sardo quando non puoi lavarti e per giorni sopporti la sabbia che si è attaccata al corpo, sei sardo quando tieni duro davanti ad un attentato ed a testa alta continui la tua missione perché tu sei nato per vivere da soldato. Sei fragile quando vieni a sapere che la tua zona non è più sicura come si pensava, quando sai che anche solo uscire potrebbe costarti la vita ed allora hai paura, eppure esci. Soldato fragile quante volte ti sei ritrovato a camminare per strada ed a venire circondato di improvviso da 20-30 bambini dei quali non sai e non saprai mai se si tratta di orfani, né come si chiamano o se semplicemente riusciranno a diventare adulti. Sei solamente tu: orgoglioso, generoso, fiero, chiuso, solare. Hai scarponi che ogni giorno lasciano migliaia di impronte nel deserto, hai un sorriso che ti rende umano, non più schiavo di un potere sovrano. Siete voi “Dimonios” quando state in squadra, quando uscite per ricognizione in gruppi da 4-5 elementi, magari a piedi, magari dentro il corazzato, quando sapete che il lavoro di squadra è tutto e spalle contro spalle costruite una visuale a 360° per salvarvi, magari in una situazione difficile. Siete soldati quando vi emozionate davanti al PC, unico mezzo per sentire i vostri cari. Siete esempi di orgoglio quando salvate un vostro compagno ferito o quando a rischio della propria vita recuperate il corpo di un altro soldato morto. Siete italiani, fieri di esserlo, fiera sarà questa Nazione finché saranno uomini e donne come voi ad indossare il tricolore. Silvia Amadori 33


Luca Mongelli e la sua vitalità, nonostante tutto Una storia triste che risale a dieci anni fa, ma che solo grazie a una trasmissione televisiva ha acquisito un minimo di notorietà da qualche settimana. Una storia di becero razzismo. Protagonista una Svizzera xenofoba e intollerante: il piccolo paesino di Veysonnaz, comune del Canton Vallese con poco più di 400 abitanti; vittima un piccolo italiano: Luca Mongelli. Era il 7 febbraio del 2002 quando Luca, di soli 7 anni, fu trovato seminudo nella neve di Veysonnaz dove viveva con la sua famiglia. Un freddo gelido che gli ha fermato il cuore e dunque la mente, al punto da ridurlo in stato comatoso e in fin di vita, tanto che era già pronto l’espianto dei suoi organi (reni e fegato) a due bambini della sua età. Il padre Nicola aveva già firmato l’autorizzazione, ma la madre Tina s’imputò, certa del risveglio del figlio. Aveva ragione. Dopo 3 mesi e mezzo Luca si risvegliò. Oggi vive su una sedia a rotelle, ha conquistato dei miglioramenti nell’attività deambulatoria, ma non vede e la sua vita è diventata quella di un ragazzo con forti disabilità. Come ciò non bastasse, ci si mette anche quella giustizia mai ottenuta, per quelle persone che gli hanno fatto del male e non hanno mai pagato; forse perché hanno gli “agganci giusti”. Appena risvegliatosi Luca disse alla madre: «Mamma, trovate i ladri, c’è un signore che m’ha spinto, c’hanno paura di andare in prigione». Tina lo filmò, perché giudici e poliziotti sapessero. In quel filmato di diciotto minuti, Luca racconta una persecuzione che chissà da quanto durava («mi facevano bere le formiche») rispondendo alle domande caute della sua mamma («io andavo in bici e quello in bici, io alle corse e lui alle corse…»). E poi quel disegno del fratello che allora aveva 4 anni, che assisté all’atroce scena. Marco, rimasto nascosto dietro un albero quella sera di febbraio, disegnò infatti a scuola la scena di tre ragazzi grandi che infierivano sul fratello maggiore. Ma ciò non è bastato. I giudici dicono che Luca non era attendibile perché la sua mente era danneggiata e che Marco non lo era perché troppo piccolo. I giudici svizzeri dissero che a ridurlo così, coi vestiti non a brandelli ma appoggiati nella neve accanto a lui, senza un morso addosso ma con segni che paiono frustate sulle natiche, era stato il suo cane, Rocky; un pastore tedesco di soli sei mesi, prima affidato a una signora e poi ingiustamente soppresso. Probabilmente chi ha eseguito quella vile atrocità su Luca ha gli agganci giusti; appartiene a quelle famiglie “bene” che in Svizzera sono la maggioranza. Intanto il prossimo 7 febbraio il caso andrà in prescrizione e i genitori del ragazzo non vogliono rassegnarsi. «Ci appelliamo al ministero degli Esteri perché chieda agli svizzeri di riaprire l’inchiesta. Luca merita la verità», spiega papà Nico, che s’è laureato a Ginevra lavorando. Ora dirige una catena di diciotto ristoranti: cinque giorni a Zurigo a far soldi per curare Luca e poi il finesettimana qui a Giovinazzo, in provincia di Bari, a guardare i risultati di quelle cure, nella casa dove Tina e i bambini sono tornati dopo «l’incidente», come lo chiamano. Ha ingaggiato perfino la profiler del caso Dutroux e un investigatore privato. A riportare in auge il loro caso una puntata de La vita in diretta, programma che va in onda tutti i pomeriggi della settimana su Raiuno, condotto da Mara Venier e Marco Liorni. Poi un articolo sul Corriere della sera. 34


Oggi Luca fa il quarto ginnasio al liceo di Giovinazzo, con un’insegnante di sostegno. Suona il piano, fa terapie, ha una grande ironia, due meravigliosi genitori e, soprattutto, una grande voglia di vivere. Speriamo che possa migliorare le proprie condizioni di salute, e soprattutto, il suo caso sia riaperto prima della prescrizione. È a lui che voglio dedicare questo piccolo riconoscimento. E’ un giovanissimo “anonimo” contro il quale il destino si è accanito, ma verso il quale lui si rivolge con una vitalità e un’ironia invidiabile. Perché solo chi ha perso molto apprezza la vita fino in fondo. Coraggio Luca! Luca Scialò

Il teatro più piccolo del mondo “Sbrigatevi: il centesimo resta fuori”. Questa avvertenza compare nella pubblicità del Teatro della Concordia di Montecastello di Vibio, piccolissimo e delizioso Comune in provincia di Perugia, incastonato nel magnifico paesaggio delle colline umbre. E’ proprio vero che “il centesimo resta fuori”. Il teatro infatti ha solo 99 posti a sedere, ed è considerato perciò “il più piccolo del mondo”. Ma la particolarità davvero unica di questa singolare struttura consiste nel fatto che è stata fedelmente riprodotta, in miniatura, l’architettura dei più famosi e prestigiosi teatri italiani ed europei, dei quali riproduce fedelmente la forma goldoniana, in tutte le sue caratteristiche: la piccola, elegante platea, tre ordini di minuscoli palchi lignei, il soffitto finemente affrescato con classici motivi floreali, il palcoscenico impreziosito da un bel sipario di velluto rosso porpora. Questo piccolo gioiello, dal 1993 (anno di conclusione dei lunghi lavori di restauro, dopo ben 42 anni di chiusura e decadimento) è al centro di un ambizioso progetto, gestito da un’apposita associazione: la Società del Teatro della Concordia che, grazie all’impegno e alla passione dei soci, progetta e realizza numerose iniziative culturali. L’associazione produce spettacoli, concerti e conferenze, ma utilizza il Teatro anche come originale location per matrimoni civili, per convegni o feste di varia natura, promuovendo tali iniziative all’interno di pacchetti turistici sui luoghi umbri, che coniugano gli aspetti culturali con quelli gastronomici: numerosi gruppi di turisti, infatti, in aggiunta alla visita del 35


teatro o alla visione di spettacoli, possono usufruire di una cena tipica umbra e di un pernottamento con colazione. Il Teatro della Concordia appartiene al Comune, e l’associazione ne cura l’amministrazione in regime di convenzione con l’Ente, seguendo precise norme e tariffe che vengono discusse ed approvate dal consiglio comunale. In tal modo il piccolo teatro, oltre che costituire un pregevole polo artistico e culturale sul territorio, rappresenta anche un modello di gestione corretta e trasparente di un bene fruibile dalla collettività locale. Quest’ultimo aspetto, soprattutto se rapportato ai numerosi casi di “cattiva politica” e alla crisi dell’attuale periodo… assume un valore non di poco conto, e fa sì che questo “Teatro più piccolo del mondo” possa a ragione essere annoverato tra le cosiddette “buone pratiche” amministrative, ed essere citato come uno dei protagonisti del panorama culturale nell’anno che sta per concludersi. Claudio Esposito

Free Lance, Milite Ignoto Quando leggi la definizione di questo termine su Wikipedia ne ricavi una sensazione di nobiltà quasi vicina all’esaltazione. Cito testualmente: “Un free lance è un libero professionista in generale, indipendentemente dal settore specifico di attività […] indica la libertà del rapporto lavorativo […] in cui è necessario essere al di sopra delle parti […]”. Bello, eh? Peccato che la realtà sia ben diversa dalle definizioni auree. E’ nobile essere “al di sopra delle parti”, ma questa connotazione ideale non mi risulta esser spesso di aiuto nel conciliare il pranzo con la cena, o l’affitto con il pieno di benzina, prosaicamente parlando. Una mia conoscente fa la spola tra tribunali e studi d’avvocato da tanti anni, ed è pagata la lauta somma di 750/800 euro al mese, rigorosamente in contanti ed in nero, ma perfettamente al di sotto del limite massimo dei pagamenti cash fissato dal decreto Monti a 1000 euro. Non è demagogico azzardare che la legge in questione si fermi a tale soglia con lo scopo di salvare anche questo meccanismo poco etico. Mal comune mezzo gaudio, o solo mal comune, dato che il gaudio non risalta neanche a metà. Negli studi legali o notarili, nelle redazioni di giornali, nelle università, negli ospedali, questo esercito silenzioso di free lance (vedi precario, così come l’operatore ecologico è l’equivalente politically correct di spazzino, oppure escort quello di puttana) ingrossa le sue file sempre di più, tra interminabili tirocini o precariato mobile a vita. Di solito si usa identificare la figura di questo antieroe nel settore della stampa, dove i free lance costituiscono l’ingranaggio più ricorrente nel motore dell’informazione. Per regola generale in Italia, soprattutto quando si parla della “grande” stampa nazionale, non si accede come giornalisti a tempo indeterminato nelle file di una testata senza una raccomandazione di un amico dell’editore o almeno del 36


caporedattore. E nei giornali minori fa testo soprattutto la fede politica e l’appartenenza comprovata a questo o quello schieramento. Se sei un fotografo senza almeno avere alle spalle una solida agenzia farai la muffa aspettando di piazzare uno scatto, dopo aver fatto i salti mortali e rischiato magari la cotenna per un’istantanea che si discosti dall’archivio, senza fine di immagini a tema che oggi internet può offrire, oltre al patrimonio personale di agenzie come l’ANSA e similari, o anche l’occasionale click di un I-Phone che lo spettatore di turno avrà fatto circolare in rete senza alcuna protezione. E se ti dice bene di aver catturato nell’obiettivo qualcosa di sensazionale, dovrai comunque fidarti del redattore in carica a cui avrai spedito il tuo “gioiello” online per arrivare prima della concorrenza. Infatti, a prescindere dalla validità del tuo scatto, tu non sei nella posizione di negoziare un compenso proporzionato alla tua fatica, né tantomeno avrai assicurata la pubblicazione del nome e comunque la didascalia allegata che apparirà nell’articolo correlato dipenderà esclusivamente dall’orientamento politico o “etico” del giornale in questione. Andava meglio una volta, quando l’analogico era l’unica soluzione tecnica. Infatti fino alla seconda metà degli anni ‘90 ti piazzavi sul divanone di pelle umana nell’anticamera del giornalone armato del tuo bravo plasticone di diapositive ( i settimanali a colori pagavano meglio, ma non gradivano le stampe) e aspettavi armato di sigarette (nessun divieto allora, per i nicotinofili) e caffè nel termos il tuo turno. Se avevi scatti che riguardavano Paesi del Terzo Mondo che non fossero teatro di guerre marchio USA sapevi che prima di te c’erano i “ministeriali” delle agenzie, cioè tutte le foto scattate nel Parlamento Andreottiano, Craxista e Berlusconiano dell’ultimo Ventennio. Loro erano i privilegiati, godevano di maggior tempo nel colloquio con il responsabile grafico e spalleggiati dai loro datori di lavoro, piazzavano la maggior parte della merce. Allora il gossip non era ancora tale, e lo spazio del pettegolezzo politichese era inglobato nello stesso settore. Quando arrivava il tuo turno (tempi medi di attesa dalle 3 alle 5 ore), se le foto erano interessanti e il plasticone disposto bene, piazzavi quasi sempre minimo tre o quattro diapositive al settimanale, oppure una manciata di stampe B/N al quotidiano. Nel primo caso ne uscivi con un malloppo che poteva oscillare dalle 250 alle 500.000 delle nostre vecchie care lirette, nel secondo almeno una piotta (£ 100.000 alla romana) la rimediavi. Ieri come oggi, lo spazio di quotidiani e settimanali è comunque suddiviso così : 1) Dalla pag. 2 alla pag. 12/13: politica parlamentare, riflessi sulla società italiota, inframmezzati dai severi editoriali dei Soloni della testata. 2) Politica estera, soprattutto Made for USA, con riflessi su conflitti e guerre varie, che coinvolgano soprattutto gli Stati Uniti o Israele, un tempo era il Vietnam, ieri l’Iraq, oggi l’Afghanistan, domani Iran o Corea del Nord, sempre e comunque la povera Palestina. Ogni tanto un servizio patetico-truculento sulle disgrazie del Continente Africano. 3) Cronaca locale 4) Calcio 5) Gossip 6) last but not least ultimo ma non di meno, il nuovo “acquisto” del giornalismo 37


cosiddetto d’informazione, cartaceo o televisivo, frutto marcio caduto dall’albero dei reality e delle cronache rosa: che sia la saga di Lady D. o il duo Belen – Corona o di nuovo i Reali d’Albione William & Kate, la parola d’ordine è rincretinire il lettore/ teleutente. Il resto, se rimane qualcosa, sono briciole che avanzano dalla Grande Abbuffata Mediale. In questo contesto il nostro oscuro FL cerca di ritagliarsi uno spazio che spesso risulta essere l’unico possibile contributo alla ricerca della Verità, tentativo utopistico in un quadro d’informazione sempre più conformista, circondato dalle trincee invalicabili che l’Editore impone ai suoi stipendiati. L’ultima Guerricciola, quella Libica, è stata forse l’esempio più eclatante di questa totale assenza di Verità. Qui il giornalismo schierato da una parte o dall’altra ha reso impossibile capire quale sia stato il motore vero della caduta di Gheddafi, in un fiume di immagini ripetitive e commenti partigiani pro o contro il Colonnello (per lo più contro nella fase finale del conflitto) o pro/contro l’interessata alleanza Sarkozy/Nato. Per ore ed ore si sono susseguiti foto e filmati tutti uguali, i ribelli che sventolavano i fucili e le dita a “V” Vittoria di Churchilliana memoria, alternata magari a qualche flash di “gossip beduino” in riferimento soprattutto alla figlia del Colonnello, o al passato calcistico di uno dei figli minori. Ma nessuno ha veramente capito chi sono i ribelli, la vera portata delle stragi consumate da entrambi le fazioni e soprattutto chi si spartirà ora petrolio e introiti della ricostruzione, visto che il circo mediatico ha già tagliato la corda da un pezzo. In questi conflitti tanti anonimi FL ci rimettono le penne e i loro nomi, spesso non vengono neanche citati. Il povero Arrigoni, operatore umanitario senza simboli, trucidato da una fantomatica cellula di Al Queda, la sigla buona per tutte le stagioni, era così poco importante per i media, che nessuno si è preso la briga di scavare per capire chi ci fosse dietro a questa evidente montatura, magari il Mossad israeliano che aveva nel mirino l’italiano da un pezzo, a nessuno è fregato nulla di frugare i retroscena. In realtà il conflitto del Vietnam, perduto dagli Americani, anche per l’ingerenza dei media poco rispettosi delle “regole”, ha decretato la fine dell’informazione “al di sopra delle parti”. Da allora la Censura bellica ha imperato e con la fine dei grandi reporter della Magnum, da Robert Capa a Cartier-Bresson, il controllo ferrato sui reporter di guerra da parte degli alti vertici militari ha contagiato tutti gli apparati di controllo mediatico degli Stati “democratici” e non. Già dalla I Guerra del Golfo (1990-91) si è venuta a creare una nuova figura di giornalista, definita da un termine azzeccato, “Embedded”, che rende bene l’idea del cronista “piegato” ai dettami dell’autorità militare in carica. Se un giornalista FL oggi riuscisse a penetrare il muro di gomma di questo nuovo tipo di censura preventiva, oltre ai rischi che correrebbe, dovrà valutare bene poi a chi indirizzare i suoi scritti; spesso la testata politicamente meno “corretta”, che difficilmente è la più diffusa, sarà per esclusione quella possibile. Ho sperimentato personalmente, riguardo la vicenda dei nostri connazionali condannati a Cuba a pene pesantissime senza uno straccio di prova, quanto siano 38


spesse le pareti di questo muro, come quelle imbottite dei vecchi manicomi. Malgrado fossi riuscito a pervenire a testimonianze cruciali di familiari e ai referti delle perizie ed i primi fossero disposti a parlare con i media, la “grande stampa” nazionale, cartacea e online, dopo aver promesso per mesi di pubblicare i fatti riportati, ha preferito alla fine rimangiarsi tutto pur di non rischiare di avere grane legali e soprattutto di giocarsi i visti di entrata nell’“isla bonita” che tanto bonita poi non è. Meno male che c’è Caffè News che ha dato spazio a queste storie. Un giornalista esterno alle redazioni oggi è pagato cifre ridicole per un pezzo anche di reportage estero, 50/100 euro è la tariffa media, con crolli fino a 20 euro e meno per i magazine online. Scrivere liberamente oggi è una passione che resiste solo se il “libero professionista” ha la pancia piena e non deve pagarsi il mutuo con i suoi pezzi. Ed anche allora dovrà fare i conti con la diffidenza che la propria figura di Milite Ignoto susciterà nel suo interlocutore, soprattutto nel caso che i suoi scritti si discostino dal solito magma quotidiano e che non sia raccomandato dall’amico del redattore. Ma questo non è un buon motivo per non provarci sempre e comunque… a volte anche la gomma si scioglie! Flavio Bacchetta

Cesare Basile Quando Martina Castigliani, vicedirettrice di Caffè News, mi ha chiesto di dedicare un articolo al personaggio che, secondo il mio personalissimo punto di vista, avesse rappresentato più di tutti “gli anonimi del Belpaese”, non ho impiegato poi molto per trovare il cosiddetto bandolo della matassa. Le “regole” erano chiare: non puntare i riflettori su gente troppo nota; meglio un outsider del nostro Paese, una di quelle persone alle quali i media non sono soliti dedicare eccessiva attenzione. In poche parole: un anonimo. Occupandomi di cultura, ho immediatamente pensato ad un cantautore che stimo da anni e che, di volta in volta, continua a sorprendermi non solo per quel che riguarda l’aspetto artistico ma, in particolar modo, per quello umano: Cesare Basile. No, non siamo imparentati (anche se molti lo pensano). Lo seguo da tempo anche se sono definitivamente entrato nel suo universo nella primavera del 2008, periodo in cui venne pubblicato Storia Di Caino, un album pazzesco. Da lì in poi ho iniziato a contemplare con maggior attenzione il percorso musicale che l’aveva portato a confezionare un lavoro del genere. Ho avuto modo di analizzare la sua evoluzione e il passaggio dal rock graffiante degli esordi – preponderante ne La Pelle e nel successivo Stereoscope – alla canzone d’autore. Un approdo, il suo, avvenuto tramite una ricerca sonora filtrata da due correnti musicali in particolare: il folk e il blues. E’ attraverso questi due generi che Cesare, da Closet 39


Meraviglia in poi, ha cominciato ad addentrarsi in un nuovo mondo nel quale, a mio avviso, si trova ancor più a suo agio. Non che la partenza ruvida ed elettrica sia da ignorare, anzi; tuttavia la “svolta” cantautorale si è rivelata sensazionale perché avvenuta in maniera del tutto sincera. Con l’avvicinamento progressivo alla forma canzone egli è riuscito a valorizzare nel migliore dei modi il suo linguaggio così unico ed originale, capace di risultare poetico e tagliente allo stesso tempo. Pochi in Italia sanno scrivere come lui. Assieme a Bobo Rondelli, Marco Parente e Pino Marino, Cesare è forse uno degli autori più talentuosi in circolazione (almeno per quanto concerne la scena pop rock nostrana). Certo, ci sono anche altre personalità di spicco, basti pensare a Paolo Benvegnù (piuttosto che Roberto Angelini, Massimo Giangrande e Dente), ma i quattro artisti citati nel periodo precedente hanno un qualcosa in più. Classe? Eleganza? Non so. E’ difficile stabilire quale sia la dote che, nel caso loro, finisce per fare la differenza. Forse ce n’è più di una. Fatto sta che per Cesare il 2011 è stato un anno intenso. Un anno di cambiamenti, di soddisfazioni, di rivincite e di nuove sfide. Dopo ben sette anni passati a Milano, luogo nevralgico per quanto concerne la nostra musica leggera, Cesare è tornato nella sua Catania, città dove è nato e cresciuto. Un posto dal quale si è dovuto allontanare ben presto per questioni prettamente lavorative. In pochi, ad esempio, sanno della breve parentesi romana, tantomeno dei lunghi trascorsi berlinesi. E sono in pochi quelli che al giorno d’oggi scelgono di tornare in Sicilia, un posto dal quale si è soliti fuggire per scovare altrove quella sicurezza che una regione di questo tipo non sempre garantisce per via dell’arcinota corruzione che l’attanaglia. Parallelamente al ritorno nella terra d’origine, Cesare ha trovato anche il tempo per chiudere il suo nuovo album, il settimo dopo il debutto avvenuto nel 1994. E che album! Sette Pietre Per Tenere Il Diavolo A Bada è senza ombra di dubbio una delle migliori produzioni dell’anno. Uscito nel marzo scorso per la Urtovox, questo lavoro è stato frutto di circa un biennio di scrittura e composizione. E’ un album viscerale, istintivo. Ma non solo: è cupo, quasi crepuscolare. Eppure riesce a trasmettere tutto l’ardore del sud e tutta la passione con cui l’autore l’ha concepito. Dopo aver terminato la pre-produzione, Cesare ha cominciato a registrare le nuove canzoni in diversi studi, avvalendosi di collaborazioni tanto importanti quanto inconsuete. Su tutte spicca la presenza dell’Orchestra della Radio Nazionale Macedone, diretta da Saso Tatarcevski, presente nella splendida Elon lan ler. Numerosi quindi gli amici e i colleghi che si sono alternati durante le recording sessions: da Vera Di Lecce ad Alessandro Fiori, fino ad arrivare a Roberto Dell’Era e Lorenzo Corti. Musicisti eccezionali per un disco di rara bellezza, intriso di rabbia ed amore. Sette Pietre Per Tenere Il Diavolo A Bada ha segnato un cambio di rotta evidente per quanto concerne lo stile e le atmosfere. Il 40


blues e il delta, imprescindibili nelle due precedenti raccolte d’inediti, sono stati messi da parte per lasciare maggior spazio agli echi popolari e, nello specifico, meridionali. Lo testimonia l’uso del dialetto e la scelta di riproporre, in una nuova veste, un pezzo storico di Rosa Balistreri come La Sicilia havi un patruni. E’davvero un peccato che un LP di questo tipo non abbia avuto l’attenzione che gli sarebbe spettata. Sono piovute recensioni entusiasmanti da parte delle riviste specializzate, questo è certo. Ma è comunque inaccettabile che la stragrande maggioranza della nostra popolazione non abbia mai sentito parlare di Cesare e della sua musica. Assurdo pensare che le sue meravigliose canzoni continuino ad arrivare solo ad una cerchia ristretta di appassionati. Del resto stiamo parlando di un uomo che è in pista da più di vent’anni; uno che ha collaborato con Manuel Agnelli, Hugo Race, John Parish e tanti altri personaggi di spicco nel panorama alternativo non solo europeo, bensì mondiale. Ma, d’altronde, abbiamo sottolineato più volte quante contraddizioni siano presenti nell’ambiente artistico nazionale. Evitando quindi di perdersi in eccessive divagazioni su tematiche già affrontate, è opportuno invece ricordare un altro aspetto interessante di Cesare che ha condizionato la scelta di decretarlo anonimo dell’anno 2011 (anche se poi “anonimo”, nel suo caso, è decisamente riduttivo). Al rientro alla base è coincisa anche la piena adesione all’Arsenale, una realtà incredibile ed affascinante capace di tenere testa alle difficoltà quotidiane che una terra cinica come la Sicilia è solita riservare. A questo punto il lettore si chiederà: cos’è l’Arsenale? Difficile descriverlo in un guscio di noce. In ogni caso si può parlare di una federazione che raccoglie singoli, associazioni ed imprese, allo scopo di promuovere e tutelare le professionalità in ambito musicale ed artistico. Favorendo la comunicazione fra le realtà preesistenti sull’Isola, l’Arsenale vuole promuovere una cultura del fare, dello scambio e dell’incontro, negli ambiti artistici e culturali, della condivisione delle valenze e delle storie culturali. Un progetto talmente forte da far venire i brividi. Lo scorso 12 dicembre, Cesare e gli altri membri della Federazione hanno occupato il “Teatro Coppola” di Catania, una struttura a dir poco storica per la città. Nato nel 1821 come primo teatro comunale del capoluogo di provincia siciliano, dopo i bombardamenti del 1943 il “Coppola” non è stato mai ricostruito del tutto al punto tale da risultare perennemente inutilizzabile per quasi settant’anni. Con l’obiettivo di dargli una seconda vita, artisti di ogni tipo si sono raccolti intorno alla struttura ed hanno iniziato a metterla a posto, improvvisandosi muratori e operai. Tutto ciò fa comprendere quanta determinazione e solidarietà ci sia in una regione incoerente come quella siciliana. Terra di meraviglie 41


e d’ingiustizie, serva di politici e mafiosi. Terra con la quale Cesare Basile si è finalmente riconciliato e nella quale è pronto a mettersi nuovamente in gioco con tutto se stesso. Oggi più che mai. Alessandro Basile

Quelli che come Martina danno entusiasmo Oggi voglio parlare dell’entusiasmo e spero di farlo con entusiasmo e di essere letto con entusiasmo! All’inizio sarò un po’ pedante, come si deve ad un professore come me, poi spero un po’ più coinvolgente. La parola ha un etimo bellissimo: dal greco entheos stava a significare pieno di un dio, cioè con un’ispirazione divina. Gli uomini entusiasti, per il semplice fatto di esserlo, perdevano la loro umanità limitata per sentirsi potenti come gli dei. Perdere l’entusiasmo significava ritornare alla mediocrità dell’esistere: la morte di una divinità. Si scoprì poi che addirittura l’entusiasmo poteva essere contagioso, ma di un contagio benefico, di quelle malattie che ti auguri di avere e che danno accesso a quei sogni che non sono sogni da interpretare ma da realizzare. Si sono sognate rivoluzioni, liberazioni da dittature o più semplicemente da pregiudizi e talvolta l’entusiasmo è sopravvissuto agli ideatori con la loro voce o con quello che hanno scritto, i loro discorsi e i loro pensieri. D’altra parte c’è anche l’entusiasmo cattivo come il colesterolo o lo stress cattivo. Ed è quello del disfattista, di chi dice chi te lo fa fare, e lo dice purtroppo con lo stessa forza di penetrazione e di coinvolgimento dell’entusiasta buono. L’entusiasmo, specie quello buono, ha bisogno come le piante di essere innaffiato ogni giorno di gratificazione, altrimenti inaridisce e diventa luogo comune da animatore di feste. Per me L’Anonimo del’Anno 2011 non è necessariamente un invasato, tipo colleghi di fantozziana memoria che trascinano i pigri a performances che danno una botta di gioventù, ma può bastare anche chi, pur non condividendo probabilmente quello che fai, ti dà come Martina e per fortuna tanti altri come lei una simbolica pacca sulla spalla invitandoti a proseguire, a non arrenderti. Lo colgo nella stretta di mano di un passante che mi dice di continuare quello che stiamo facendo con i ragazzi del mio Liceo per cambiare piccole cose della nostra città, lo colgo nell’ammiccamento del barista che mi dice vi seguo sui giornali, negli sguardi soddisfatti degli alunni impegnati che sanno di aver dato il loro contributo a cambiare il mondo. E sono questi i momenti in cui il mondo cambia davvero, perché senti che non sei il solo a sognare e a realizzare e che un buon anno non è solo un saluto di routine, ma un vero augurio. Fortunato Allegro 42


Le merende culturali, Carmen Motolese e i ragazzi del rione Tamburi di Taranto Alla periferia di Taranto, nel rione Tamburi, il colore predominante è il rosso. Quello di una polvere granulosa soffiata nell’aria dagli sbuffi degli altoforni dell’Ilva, che si posa ovunque su guardrail, balconi, abiti stesi ad asciugare in quest’area a nord del ponte di pietra. Luccica al sole e, quando piove, tinge e trasforma le pozzanghere in sangue vivo e denso. Entra nei polmoni senza farsi sentire, e li devasta. I palazzi sono cresciuti un po’ a caso, come pedine sparpagliate su una scacchiera in saliscendi e molti meriterebbero almeno una ripassata di vernice. Non ci sono parchi e giardini, in parte perché la cultura dell’area verde nella città tra i due mari non c’è; e in parte perché le piante resisterebbero poco all’assalto dei fumi nocivi, come dimostrano impietosamente i campi di sterpaglie che circondano il quartiere. Carmen abita in una zona residenziale vicina al mare, 13 chilometri ad est da qui. Per ventidue anni ha attraversato la città ogni giorno per insegnare arte in una scuola del rione: ne conosce bene il tessuto e le dinamiche e la sua cattedra è un luogo d’ascolto da cui intercettare disagi e necessità. Lei svela il bagliore di Monet, i suoi allievi raccontano la luce fioca dei lampioni sull’asfalto e le fiamme che si levano di notte dalle ciminiere. Questi ragazzi non hanno posti in cui incontrarsi che non siano le strade. Non ne hanno avuti neppure da piccoli, ché le aree giochi per i bambini, negli anni, sono state costruite e poi distrutte sistematicamente dai vandali. L’ultima è stata finanziata interamente da alcuni commercianti di zona, perché il Comune non ha i fondi necessari per un’operazione del genere. Quando a Carmen venne l’idea di creare un centro di aggregazione ai Tamburi è il 2002; un giorno dopo l’altro busserà alla porta di istituzioni pubbliche, enti locali, professionisti privati, famiglie. Per sette anni, fino a raccogliere 14.000 volumi e ad ottenere dalla Caritas l’uso di alcuni locali del centro polivalente ‘Giovanni Paolo II’: diventeranno la biblioteca “Marco Motolese”, dedicata al figlio strappato via da un’auto in corsa quindici estati prima. L’associazione culturale che oggi porta il suo nome promuove dal 1998 il libro e la lettura, la solidarietà e la beneficenza: ogni anno organizza il convegno “I Giovani ed il Libro”, elargisce due borse di studio per gli studenti più meritevoli e ha destinato 43


altri 500 libri al reparto di Pediatria dell’Ospedale SS. Annunziata, nel centro storico di Taranto. Settimana dopo settimana Carmen continua a ritornare nel rione Tamburi per organizzare le sue ‘merende culturali’, pomeriggi in cui i ragazzi del quartiere si riuniscono in biblioteca per mangiare qualcosa di buono e leggere e commentare assieme a lei i libri di volta in volta scelti. Non è un’impresa facile, richiede grande pazienza con gli allievi e la capacità di comunicare con le famiglie, nel tentativo – non sempre riuscito – di coinvolgerle il più possibile nel progetto educativo. L’ennesima scommessa lanciata da una donna che ha dimostrato di non aver paura. Secondo voi chi la vincerà? Astrid D’Eredità

Josè Josè oggi ha cinquantatrè anni e ieri un tipo gli voleva sfondare il cranio con un martello da carpentiere. Stringeva al petto, Josè, il computer portatile grazie al quale comunica con la moglie che sta parecchio lontano e col figliolo di anni otto. Josè ha un debito di duecento franchi col tipo, ma il suo cruccio è la figlia di ventiquattro anni che non vede da un sacco di tempo e con la quale temo non abbia un buon rapporto. A Josè mancano parecchi denti e quando era un giovanotto, con la barca di un amico, salpava dal sud del Portogallo verso il Marocco e tornava con vari chili di marjuana e hascish. Ci ha fatto parecchi soldi e non è mai stato pizzicato. Avvolgeva anche l’hascisch nella pellicola e lo inghiottiva ed era un commercio assai fiorente anche se a volte sul fumo rimaneva un vago aroma di merda. Il padre di Josè lavorava nelle pompe funebri e andava la domenica a caccia, ora però non riesce neppure a riconoscere suo figlio. Quando Josè fu chiamato dall’ostetrica che gli diede in mano la figlioletta, lui si perse in quella piccola faccia rossa e rugosa in cui brillavano due biglie di pece e ancora oggi ritiene quel momento come il più importante della sua vita. La sera stessa festeggiò con due bottiglie di Chivas e fu ricoverato nello stesso ospedale dove la moglie aveva partorito. Della sua terra ricorda soprattutto il sole e quei fichi dall’elevato grado zuccherino che mangiava dalla pianta dietro casa sua. Il secondo figlio è un gran chiacchierone ed è molto maturo per la sua età – dice il padre. Appena avrà finito la stagione qui in Svizzera, Josè tornerà da suo figlio e gli comprerà un regalo a sua scelta, qualsiasi cosa, dovesse anche costare tutta la rendita della stagione. Ha molti amici suo figlio perché Josè gli ha regalato la playstation, il computer, la mini moto e un sacco di cose che gli altri bambini non hanno. Perciò suo figlio è un bambino felice. Josè invece da piccolo viveva in una casa di fango che si era costruito da solo in faccia all’oceano e anche se non ci viveva per davvero Josè ricorda quella capanna 44


come la sua vera casa. Quando aveva quindici anni è caduto dal primo piano di una casa in cantiere e da allora non ha più voluto fare il manovale e suo padre, il padre di Josè, che ora non lo riconosce più, non ha mai visto il figlio diventare un buon muratore, come avrebbe voluto. Porta ancora i segni di quel brutto infortunio e cammina come se avesse una gamba più lunga dell’altra, Josè. Quando non lavora si veste molto bene, con stivali da cowboy, giubbotto di belle e rayban e passerebbe quasi per un turista se non fosse per quell’aria affaticata che si porta appresso. Lavora con dedizione, ma ogni tanto fa finta di stare male per non venire a lavorare, anche se questo accade non più di una o due volte al mese. Un giorno mi ha confessato il suo dolore per le condizioni del padre, che se non altro è seguito dalla moglie ancora molto in gamba, la mamma di Josè, che è una cuoca fantastica anche se non ha ancora capito che a Josè la passata di pomodoro piace filtrata, ovvero senza i semini, ma pazienza perché ormai Josè mangia volentieri solo zuppa e così vogliamo andare alla festa della zuppa che fanno a Corticella ogni 25 aprile. Vorrebbe tanto che venisse anche la figlia, che ha la mia stessa età, ma ha paura di romperle le scatole e mette in conto, Josè, la possibilità che lei lo consideri un vecchio rimbambito scassacoglioni. L’anno scorso si è comprato un mercedes kompressor che però non usa mai perché l’ha messa in un garage in Portogallo e lui lavora in Svizzera undici mesi all’anno e la moglie, che sta giù, non ha la patente. Ancora oggi non si nega qualche piccolo buonaffare, ma ha abbandonato la ganja per dedicarsi alla roba e alla bamba, che sono più redditizie e in un certo senso anche meno rischiose perché con l’erba va sempre a finire che vai a raccogliere le paghette dei ragazzini, che sono perlopiù scemi e rischiano di metterti nei pasticci. Invece la roba e la bamba rendono bene e poi Josè non si mette coi tossiconi che marciscono nei vicoli, ma con la gente perbene incravattata che paga in fretta e senza storie per levarselo di torno il prima possibile. Ha un aspetto patito e non gli daresti un mese di vita, per questo a lavoro lo chiamiamo “il morto”, anche se in realtà ci condiziona l’espressione da cane bastonato che mette su quando vuole evitare le mansioni pesanti. Il tipo con il martello da carpentiere che lo ha minacciato ieri si chiama Sergio e quasi ci sfondava la porta a calci finché, per preservare la porta che avremmo dovuto pagare noi, ho aperto e lui è entrato nell’angusto intercapedine che c’è fra le scale del palazzo e le nostre due camere singole, per le quali sborsiamo trecentocinquanta franchi al mese, già detratti in busta paga. Il tipo era fatto come una pigna, ma in fondo anche lui è un buon diavolo, è partito oggi per l’Olanda. Josè sta già dormendo adesso, ha appena compiuto cinquantatré anni nello stesso giorno in cui la figlia lontana ne ha compiuti ventiquattro. Lo sento russare, si è dimenticato la radio accesa a basso volume, ci incroceremo a notte fonda per pisciare. Mirko Roglia Pubblicato anche su Mumble, mensile freepress distribuito in Emilia Romagna Illustrazione di Antonio Vecchio – http://antoniovecchio.blogspot.com/ 45


Postfazione L’Anonimo del Belpaese è… Alla nostra sfida alla ricerca di anonimi del Belpaese voi, caffeniussini e non, avete risposto in ventisette. 27 anonimi con le loro storie e i loro volti, un po’ sfumati, a volte scuri, a volte chiari, ma sempre con un gran profumo di quotidianità. Quotidianità, passante del giorno qualunque, lavoratore all’angolo, volontario, studente, ragazzo, insegnante, prete. Sono gli anonimi a cui avete regalate un volto e per questo, noi vi ringraziamo di cuore. Forse, lettori e scrittori, a volte ve lo dimenticate ma www.caffenews.it, siete voi e non certo noi tre gatti della redazione. Siete voi, con le vostre penne e le vostra inchieste, voi che nei pomeriggi liberi decidete di scrivere un post, un articolo o una riflessione. Voi date vita a questo progetto folle che è Caffè News, nato da zero soldi e che procede con zero soldi, con solo una grande voglia: raccontare quello che gli altri non raccontano e farlo con semplcità e onestà. Quindi grazie per aver gridato “ci sono anch’io”: partecipando all’Anonimo dell’Anno, avete dato voce a 27 anonimi che vanno ad aggiungersi a tutti gli anonimi a cui date voce durante l’anno e ci avete ricordato perché ancora crediamo in Caffè News. Un vincitore? Volete davvero un vincitore? La copertina dell’Anonimo del Belpaese per Caffè News se l’aggiudica l’Anonimo, quel personaggio il cui nome non lo dice la televisione ma che sappiamo bene che esiste. A vincere così, è ognuno dei vostri racconti, perché sono l’Italia vera e a noi andava di premiarla tutta quanta. Ecco l’elenco completo: - Laura Boccia: Dedè che ha affrontato il 2011 con un sorriso; - Martina Zadra: Goraždevac, la strada che unisce serbi e albanesi del Kosovo; - Gaetano Benedetto: Valentina, studentessa all’estero che a volte cede allo sconforto e per questo è più vera; - Rossella Nocca: Padre Ezio Miceli e il Centro d’Ascolto; - Giulia Zaniboni: il teatro sociale di Gualtieri; - Maria Lucia Caniato: Monika 56 anni erasmus; 46


- Daniela Vitolo: Bassam Elsaid, un ragazzo di seconda generazione; - Martina Castigliani: l’insegnante d’italiano per gli immigrati; - Chiara Zappalà: Italia ancora a carbone; - Massimiliano Maccaus: Bazzani volontario ucciso in Burundi; - Dora Marianna Spinello: Arianna Ciccone e Ferdinando Miranda che lotta per salvare Terzigno; - Andrea Lorenzoni: Enzo Orlando un educatore e poeta; - Francesca Papais: Matteo Allegretti, dottorando a Francoforte e le occasioni solo se “smucini” bene; - Aurora Fragonara: “Liberazione e Speranza” a Novara contro la tratta delle prostitute - Leyla Khalil: Hala, mangia prega e balla; - Maria Mercone: Bartleby che resiste; - Paolo Esposito: CleaNap; - Michele Cascioli: la ragazza del portafoglio..; - Enrico Geretto: Kaos Kalmo la porta che si apre al contrario; - Silvia Amadori: l’armata Dimonios; - Luca Scialò: Luca Mongelli nonostante tutto; - Claudio Esposito: il teatro a 99 posti, un gioiello in Umbria; - Flavio Bacchetta: il free lance; - Alessandro Basile: Cesare Basile il musicista; - Fortunato Allegro: chi dona entusiasmo; - Astrid d’Eredità: Carmen Motolese; - Mirko Roglia; Josè.

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Indice pag. 3 pag. 4 pag. 5 pag. 6 pag. 7 pag. 9 pag. 10 pag. 11 pag. 12 pag. 13 pag. 15 pag. 17 pag. 18 pag. 23 pag. 24 pag. 25 pag. 28 pag. 29 pag. 30 pag. 31 pag. 32 pag. 34 pag. 35 pag. 36 pag. 39 pag. 42 pag. 43 pag. 44 pag. 46 pag. 48 pag. 49

Introduzione di Martina Castigliani Dedè e il valore di un sorriso di Laura Boccia La strada lunga che non sai dove finisce di Martina Zadra Valentina e il mondo lontano da casa di Gaetano Benedetto Don Ezio e l’esercito della speranza di Rossella Nocca Il teatro sociale di Gualtieri di Giulia Zaniboni Monika e un 2012 con buoni presupposti di Maria Lucia Caniato Bassam Elsaid, un ragazzo di seconda generazione di Daniela Vitolo L’insegnante di italiano per stranieri di Martina Castigliani L’Italia che va ancora a carbone di Chiara Zappalà Francesco Bazzani e l’opera in Burundi di Massimiliano Maccaus Arianna e Ferdinando di Dora Marianna Spinello Enzo Orlando, un collega di lavoro di Andrea Lorenzoni Matteo, dottorando e contento di Francesca Papais Liberazione e Speranza di Aurora Fragonara Hala, mangia, prega, balla di Leyla Khalil Bartleby che resiste di Maria Mercone I mitici ragazzi di Cleanap di Paolo Esposito Sei tu, giovane ragazza che... di Michele Cascioli Kaos Kalmo di Enrico Geretto Un Dimonios per la pace di Silvia Amadori Luca Mongelli e la sua vitalità, nonostante tutto di Luca Scialò Il teatro più piccolo del mondo di Claudio Esposito Free Lance, milite ignoto di Flavio Bacchetta Cesare Basile di Alessandro Basile Quelli che come Martina danno entusiasmo di Fortunato Allegro Le merende culturali di Astrid D’Eredità Josè di Mirko Roglia Postfazione di Martina Castigliani Indice Crediti

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Crediti

Revisione a cura di Enrico Geretto Disegno di copertina di Valerio Pagliuca

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