Ti ho dato un bacio mentre dormivi

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UNO

La notte del 16 aprile 2015, sono stato vittima di un pestaggio furibondo di cui non si sono mai trovati i responsabili. Un atto violento, e pare casuale, che mi ha ridotto in fin di vita. Ricordo poco. Ricordo bene i rumori, quelli mi svegliano ancora nel sonno. E poi dettagli, frammenti, come se la scena fosse stata strappata in mille pezzi. Guidavo, la città resa scivolosa e silenziosa da una patina di pioggia. Un semaforo, i pochi passanti che correvano ingobbiti rasentando i muri. Una pubblicità animata su un enorme tabellone luminoso, un corso d’acqua, i lampioni a specchiarcisi dentro. Un grande portone in legno, illuminato, scrostato, con la porticina intagliata per gli inquilini, e sopra un cartello: «vendesi». Il telaio di una bicicletta legato a un palo, con tutte e due le ruote sfilate. Ricordo che manovravo per parcheggiare, faticavo


a vedere bene nel retrovisore. La pioggia sembrava aspettarmi fuori dall’abitacolo, appena uscito dall’auto aumentò ancora di intensità. Una frenata brusca, sportelli d’auto che sbattono, passi che si avvicinano di corsa. E poi pugni, schiaffi, calci, la faccia contro l’asfalto, il sapore del sangue in bocca, il buio in un occhio. E una voce che si alza su tutto questo, che chiede aiuto, una voce irriconoscibile, infantile, ridicola: la mia. Poi un sibilo dietro l’orecchio destro. E poi niente. Silenzio. Morbido e nero. Io lontano da tutto. Forse uno scambio di persona, il posto e il momento sbagliato. Il destino, si dice in questi casi, quando deve dimostrare che tutto può senza logica e senso, lasciandoti a domandare: «Perché a me? Perché proprio io?» La convalescenza è stata lunga e dolorosa. Di quella notte terribile mi è rimasta una leggera zoppìa, e la palpebra sull’occhio destro resta pigra. Le altre ferite, rimarginate, rimangono sensibili, mi anticipano i temporali. Faccio fatica a ricordare. Deficit permanente della memoria procedurale, questa la diagnosi. Mi si è aperto un buco nel serbatoio della memoria, da cui è fuoriuscita buona parte del mio passato. Quello che ho imparato, i miei affetti, i miei ricordi,


sono come chiusi in un sacco nero: li vedo scalciare ma non riesco a precisarne le forme. Le sorprese per me, oggi, sono fotogrammi di attimi già vissuti quindici, venti anni fa. Ogni giorno la novità che attendo è un ricordo.


DUE

Ero incosciente, faccia a terra. Sotto la pensilina rammodernata, con la panchina e l’orario previsto di arrivo dei bus. In fondo al parcheggio, nero d’asfalto; l’acqua che cadeva scopriva i dislivelli nel manto, li riempiva. Ogni tre quattro auto un alberello, che ai primi di marzo annunciava la primavera rilasciando resina sui parabrezza. Dietro di me, grande su di me, la palazzina gialla, quella dove ero cresciuto. Nessuno mi vedeva da lì, nessuno aveva sentito niente, il temporale era violento. Sul parcheggio affacciavano le cucine, i bagni, le camere dei ragazzi. A quell’ora tutti dormivano. O forse qualcuno ancora svuotava la lavapiatti, preparava la colazione per il giorno dopo, stringeva la macchinetta del caffè e l’appoggiava sul fornello. Qualcuno scambiava messaggi fino a scaricare il cellulare, al buio, con in faccia la luce del display. Oppure sottolineava libri meccanicamente, steso sul


letto, il pigiama addosso dal mattino, con addosso un odore caldo e sudato, una fascia in testa a raccogliere i capelli sporchi, che aspetteranno fino al giorno dell’esame per uno shampoo. Qualcuno era in bagno, finalmente senza fretta, a concedersi un po’ di sciatteria, uno sbadiglio sguaiato. La palazzina gialla, alta una ventina di metri. C’ero cresciuto dentro. Avevo saltato scalini tre alla volta assieme a un amico, per la fretta di arrivare in strada. Avevo partecipato a inseguimenti, organizzato scherzi e spaventi nelle sue cantine, umide e misteriose, come ogni sviluppo di corridoi, angoli ciechi, curve a gomito. Avevo baciato una fidanzata nel portone, ed eravamo rossi in viso, e le mani cercavano il morbido dietro il duro dei jeans, protetto da cerniere e bottoni. Al rumore delle chiavi nella toppa, se qualcuno rientrava, o a quella specie di sparo che fa la porta pesante di metallo quando viene aperta dal citofono, ci ricomponevamo, ma solo un po’, senza uscire dalla penombra del sottoscala. Salutavamo sorridendo e mettendo lievemente in imbarazzo chi passava. La palazzina mi guardava, come guardava chiunque entrasse e uscisse dalla sua porta, senza poter far nulla per salvarli da quello che li aspettava.


Non vedevo niente di tutto questo. Le immagini che ho di quei minuti sono immagini di fantasia. Come se fossi stato a cavallo di un drone, che decolla incerto, e la ripresa ondeggia, e l’acqua scende a goccioloni e sporca l’obiettivo, e sbava i contorni e rende aloni le luci, e tutto sotto si allontana, e dall’alto si vede qualche campo coi canali di irrigazione, binari e ponti di ferrovia, filari di lampioni, traffico fiacco notturno, la mappa più estesa della città. E infine il buio in alto, con la sua quiete.


TRE

«Agostino, devi venire a nuotare con me! Non stare con quelli che restano fuori dalla piscina. Quando mi appoggio al bordo, tra una vasca e l’altra, li vedo. Si fermano qualche istante, incidono col palmo un oblò nel vapore depositato sui finestroni, e guardano dentro. Ascoltano l’incitamento degli istruttori, il rumore dei tuffi, la vibrazione del legno e della molla del trampolino, le sirene e gli applausi se ci sono competizioni. Tutti suoni che lungo la salita ai soffitti vengono moltiplicati dall’eco. Li vedo che vorrebbero essere lì, parte di quella cosa. Poi si allontanano, rimandano. Quando sei dentro, invece, due bracciate energiche e ti scrolli di dosso l’esitazione. Diventi un altro. L’acqua addosso è come un travestimento. Sei leggero, esperto, vai sotto e sopra, e quando sei sotto, ti giri a guardare in alto come se la superficie fosse un soffitto. È tutto così diverso che non puoi essere quello che eri sopra. Non hai peso, non senti rumori, sei nudo. Quando riesci a entrare così tanto in quello che stai facendo, e dimentichi le cose che ti aspettano, ecco, in quei momenti il tempo


resta fuori. Quando nuoti è così. Ma anche quando suoni la chitarra, quando ti concentri sui passi di un ballo, quando ridi per una smorfia, quando attraversi un profumo. Ci sono momenti così in cui sarai per sempre un ragazzo, sempre uguale. Le cose intorno continueranno a cadere ma tu sei lì, e quei secondi saranno gli stessi di quarant’anni prima.» Andrea Sella, mio padre. Portava avanti la sua guerriglia al tempo. Cercava le porticine, le uscite laterali, le «perdite» di tempo, i «fuori» tempo, i blackout, i déjà vu. Apprezzava il tentativo volenteroso dell’ora legale. Guardava con ammirazione ai campi magnetici, sabotatori capaci di far impazzire le lancette. Voleva coglierlo in difficoltà il tempo, in controtempo. Nelle sue disattenzioni e tentennamenti intravedeva un respiro, una possibilità. È sempre stato un mistero per me. Non so di mia madre. Ma di lei non mi domando, di lei non mi sono mai chiesto «Chissà come sei, veramente…» Non mi sento all’altezza di decifrare una madre. Potrei farlo di una compagna, di una moglie forse. Ma quello è ridurre una madre, esplorarne solo un versante, affrontarla su un terreno dove è raggiungibile, dove ha scadimenti, debolezze. Una madre no. Anche quando a un certo punto


dici basta, non sono più il tuo ragazzo, e la provochi, e la zittisci… A lei è sufficiente perdere le staffe, rimbrottarti, prenderti per la camicia, sistemarti capelli e colletto e dirti “Ora vai!” E tu sei ancora il ragazzino da riordinare prima di andare a scuola. Un padre mi sembra più a portata. Io sono cresciuto un po’ a compensazione di Andrea. Tanto lui è estroverso, festoso, quello che sbicchiera, che canta forte e stonato, che inventa passi di ballo scimmieschi; tanto io sono ritroso, il mezza tinta, tutto frasi spiritose dette tra i denti, per i pochi capaci di cogliere. Andrea è un’esibizione, io tutto e sempre da scoprire. Ci somigliamo fisicamente, questo sì. Lui forse più belloccio da ragazzo. Ma lui ha foto in bianco e nero della fine degli anni Settanta, l’ultimo bianco e nero, poi i primi colori sbavati. Sembravano tutti belli in quegli anni, con quei pantaloni, quei maglioncini attillatissimi, le occhiaie per le nottate e la marijuana. Una quindicina di giorni dopo l’aggressione, che ancora vedevo ombre e m’inquietava qualsiasi suono o movimento improvviso, se n’è andato. Così. Senza un biglietto. Si è sincerato che io fossi fuori pericolo, ha messo


un po’ di cose in macchina, la vecchia Volvo famigliare che continuava a riparare, l’unica macchina di famiglia che ci ha portato in vacanza, al ristorante, quella in cui abbiamo dormito una notte, soli io e lui, davanti al porto di Brindisi, aspettando un traghetto per la Grecia. L’ha caricata ed è sparito. È in Puglia, credo. Proprio pochi giorni prima della diagnosi della malattia di mia madre, Anna, lì avevano comprato un rudere da sistemare. Ci sarebbero voluti anni per renderlo confortevole, ma loro si davano sempre obiettivi distanti anni. Si erano promessi che in capo a qualche anno avrebbero organizzato la più pazza tra le feste di inaugurazione, giornate interminabili di balli e gioiosa ubriachezza.


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