Manifesto per una vecchiaia ardente

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1. QUALCHE PAROLA, PER COMINCIARE

«Vecchiaia» è sempre stata parola impopolare, e la riprova è che si fa di tutto per aggirarne l’uso, come quello dei termini affini «vecchi», «vegliardi», «vecchie». «Vegliarde» è di uso non comune, data l’eccessiva assonanza con «vieilles hardes», «stracci vecchi»*. «Vecchiume», «invecchiamento», «invec*

In una nuova traduzione del romanzo di Joyce, Ulisse, si fa ricorso alla parola «vegliarda» per tradurre l’inglese «crone», che una versione precedente rendeva con il più inoffensivo «nonna». Così, «A wandering crone» diventa «Vegliarda errante» – che, per vie contorte, potrebbe giustificare il nostro witz joyciano su «vielles hardes» o «vielle harde». In effetti, l’inglese «crone» designa la donna anziana in senso peggiorativo: una «vecchiaccia», «strega». Inoltre, «crone» deriva dal francese antico «carogne», ossia carogna – e pensiamo alla poesia di Baudelaire «Una carogna». «Carogna» viene dal latino caronia, derivante da caro, la «carne» – il cadavere! La carne della donna anziana, della «vegliarda», è come un vecchio indumento usato, stracci vecchi. Infine, anche «harde» al singolare può essere inclusa in queste associazioni poiché, designando una mandria, in genere di ani-


chiare» non godono di sorte migliore, salvo gli ultimi due, i quali si avvalgono di un’«eccezione culturale» che elogia il miglioramento con l’età di vini e formaggi. Un dizionario a suo modo «giovanile», nella sua definizione di «un vecchio», «una vecchia», aggiunge tra parentesi questa precisazione: «con valore leggermente dispregiativo e condiscendente», per poi proporre, come equivalenti «familiari», «matusa» e «vecchiotto» – il che è abbastanza oltraggioso. Andando a zonzo per la città, sia che utilizziamo i mezzi pubblici o quelli privati, quante volte assistiamo a miseri e ripetuti episodi in cui le astiose qualifiche di «vecchio» o «vecchia», emesse da un tizio dall’aria marziale o da una ragazzina, vengono sbattute in faccia alla persona anziana a mo’ d’ingiuria, d’esclusione, di cattiveria, per ferire, sminuire, avvilire. Nel clima odierno di grande slancio umanitario, così ghiotto di eufemismi, le nostre società dalla volubile «convivenza civile» si sono ingegnate a mali selvatici, fa emergere un’immagine di bestializzazione, di riduzione o ritorno della persona anziana all’animalità. (Cfr. James Joyce, Ulysse, nuova traduzione sotto la direzione di Jacques Aubert, Gallimard, Parigi 2004).


rivestire la categoria «vecchiaia» di espressioni sostitutive giudicate più gratificanti: se «anziani» e «veterani» sono sempre attuali, al giorno d’oggi si parla più spesso di «tarda età» o «terza età», di persone «di età avanzata» o «avanti negli anni», mentre, con tutto il rispetto dovuto ai «patriarchi» promossi a volte a «capostipiti», fioriscono i «senior» e il franglais «séniorité», la cui esuberante ispanità piace ai pubblicitari che puntano al mercato in piena espansione degli anziani. La bella parola «saggi», pregna di esperienze, attira ancora sostenitori ottimisti; ma pare quasi fuori luogo, monopolizzata com’è dagli ambienti politici, dove sembra votata a indicare i membri temporanei e aviti di quei «comitati» chiamati appunto «dei Saggi», cui assicura grandi onori e rendite. Solo una radicale rivoluzione culturale potrebbe cambiare le cose. Ma vale la pena di ricordare che una delle ultime rivoluzioni, quella maoista, si è tradotta nella furia della gioventù cinese, le guardie rosse sguinzagliate dal Grande Timoniere, il dittatore comunista Mao Tse-Tung, contro tutto ciò che apparteneva al passato, e in special modo contro la preda più facile da braccare, umiliare, depredare, abbattere, ossia gli «anziani», i «vecchi»; e


va ricordato inoltre che per quanto riguarda questo «balzo in avanti» nella barbarie e in simili arretratezze, storici e sociologi non hanno studiato a fondo l’entità esatta e drammatica delle vessazioni e violenze di cui le persone di età avanzata sono state vittime impotenti. Intanto parole come «vecchi», «vecchie», «vecchiaia» e «invecchiare» continueranno a trascinarsi maldestre nella nostra lingua o negli sguardi. Il loro utilizzo è così diffuso e costante che è impossibile non farvi ricorso. Ma, e questo sarà uno dei nostri principali obiettivi, con le nostre analisi cercheremo di respingere o limare le connotazioni peggiorative abituali di quei termini, per evidenziarne alcune caratteristiche essenziali che dimostrano come l’«età avanzata», attraversata dalla violenza, potrebbe essere, a dispetto di tutto, età dell’avvenire, e significare persino, per l’individuo come per la società e la cultura, nuova era. Difatti, contrariamente a quanto danno a intendere le molteplici pressioni e limiti che si accaniscono a uniformare la vecchiaia a una passiva o stagnante monotonia, l’età avanzata si presenta, ai nostri occhi, come il tempo, lo spazio, la possibilità di una resistenza nella singolarità – per la semplice ed evidente ragione che ogni individuo nel corso


della sua esistenza è chiamato a costruire-decostruire-ricostruire senza sosta la propria personalità, e ad affermare ciò che vi è in lui di unico e irriducibile, malgrado i suoi limiti più che evidenti. Tra questi, imprescindibile è senza dubbio la struttura del corpo, peraltro soggetta anch’essa a modificazioni (chirurgie estetiche, plastiche, riparatrici, protesi, lifting etc.), e inevitabile è la rigida cornice della società, ugualmente sottoposta a fluttuazioni. Ma non vi è dubbio che l’espressione corrente «la vecchiaia», con il suo articolo determinativo che suona come un’ingiunzione, sia una parola impropria, un abito ideologico alienante, inadatto a rendere l’esperienza concreta di ogni essere umano che aspira a essere, e si considera, una persona irripetibile, persino nelle sue rinunce e debolezze. Nonostante gli sforzi compiuti per limitarlo, intorno a questo nucleo di intima individualità proliferano, in ogni società, inevitabili differenze, che sfidano le verbose generalizzazioni e l’uniformità imposta. Come mettere sullo stesso piano, sotto una stessa etichetta, il ricco ottantenne che dispone di denaro, potere, famiglia, personale di servizio, rete privilegiata di alleanze e relazioni, e il povero pensionato che ha a malapena di che sopravvivere


isolato in un ambiente meschino e ostile? Come si possono chiamare allo stesso modo «vecchi», solo per la corrispondenza degli anni, l’artista rinomato o l’illustre studioso – che godono degli stimoli e del clima derivanti dall’arte o dalla scienza, e il cui prestigio, reddito e creatività crescono con l’età – e l’operaio, l’impiegato o il contadino logorati dagli interminabili decenni di lavoro ingrato, estenuante, e avviati verso un processo prematuro di spegnimento? Il numero di anni, messo compulsivamente in evidenza ovunque, può al massimo servire da «marcatore»: parametro aritmetico superficiale, ingannevole, spesso imbecille, come l’imbecillità di quei giornalisti televisivi che, nell’accogliere il cantante ultraottantenne Henri Salvador ripetevano il solito pedante ritornello sul tema: «Ma come! Alla sua età!» (ossia, passi la risata giovanile, perché la invitiamo per questo, ma «cantare alla sua età!»). Senza capire che di quella sua energica ilarità, di cui il vecchio adagio ringrazierebbe Iddio, uno come lui direbbe con una gran risata: «Purché duri il più possibile!» Esistono tante forme e stili di vecchiaia quante sono le culture e le società, e le categorie sociali, economiche e culturali, e i tipi di attività coi loro


status e percorsi formativi, e le esperienze individuali segnate dall’infinita diversità delle qualità, dei ritmi, delle lacerazioni e le suture di cui è fatta la stoffa più intima dell’anima – per farla breve, tante vecchiaie quanti sono non solo i vegliardi ma, semplicemente, gli individui in quanto esseri umani unici. Mantenendo come guida questo principio d’individuazione quale fondamento psicologico e politico della persona umana, in questo libro cercheremo di mettere in luce quanto si cela nell’età avanzata in termini di risorse, competenze e possibilità specifiche, riconoscendole ardore, valore, volontà e anche violenza. E lo faremo evidenziando, nei loro sorprendenti rilievi, le costrizioni, le contrarietà, le contraddizioni, i paradossi e le dinamiche conflittuali, l’energia agonica per dirla tutta, che rendono doloroso il lavorio degli anni – e che non sono altro, in fin dei conti, che i fattori costitutivi della condizione umana. Più che un saggio lineare che rischierebbe nel suo stesso svolgimento di favorire una fuorviante visione unificatrice dell’età avanzata, è parso più appropriato procedere per frammenti, tramite approcci insoliti e contrastati, a «salti e sgambetti», come si compiace di dire l’autore dei Saggi, il nostro «vecchio» Mon-


taigne. «Vecchio»? Lo afferma lui stesso, per aver «da tempo superato i quarant’anni» – considerazione che è uno specchio che ci dà la misura dell’epoca, e ci ricorda come all’alba di questo terzo millennio l’uomo sulla soglia della vecchiaia beneficia di un bel lasso di tempo supplementare, immaginate un po’: un buon mezzo secolo in più! La speranza di vita – questo è un elemento di civiltà notevole, fin nelle sue odiose disparità – non cessa di aumentare: con 5000 centenari nel 1995, la Francia ha toccato i 18.000 nel 2010, e ne prevede 50.000 per il 2030. Gli Stati Uniti hanno superato nel 2000 i 100.000 centenari. Ma queste schiere di centenari ostentati non sono altro che le figure di punta, la parte emersa che riteniamo degna d’ammirazione (un centenario non ha forse battuto per due volte il record del mondo sui cento metri… dei centenari!) di ciò che, da diversi poteri e istituzioni, è percepito e trattato come il pesante e invadente iceberg della vecchiaia – glaciazione economica dell’età, problema «grave», «vero» dramma, deplorano, per gli equilibri finanziari e socioculturali di un mondo moderno che perde in punti di riferimento ciò che guadagna in nonni, e che non sa assolutamente più, semmai l’ha saputo, dove si trova e dove sta andando.


In apertura di queste analisi, volgiamo una particolare attenzione a un dramma dell’estate 2003, contraddistinto da una violenza inoppugnabile, da gelare il sangue. L’episodio rivela come una certa mentalità contemporanea ampiamente condivisa percepisce e tratta la realtà dell’età avanzata. Quell’estate davvero canicolare si è tradotta in un’ecatombe di persone anziane – evento che abbiamo voluto fissare, a caldo oserei dire, e inscrivere nella memoria (niente si dimentica più in fretta dei vecchi che muoiono) in un testo di circostanza, Tomba per 15.000 morti, subito, che vuol essere manifesto di un principio di rivolta, denuncia dell’inevitabile e comune tendenza a nascondere o «fare un lifting» al volto profondamente solcato da memoria, sofferenza, gioia, richiami e speranze della vecchiaia – e cigolante apertura ai vari «climi» e sviluppi che seguiranno. Tomba per 15.000 morti, subito Agosto 2003: la canicola. I «Governanti» non hanno visto niente, sentito niente, previsto niente: sono innocenti, vestiti di candida probità e del primaverile golfino blu annodato su una bianca


camiciola (osserviamo bene le immagini televisive: non è il bianco dei muri, dei camici, delle lenzuola d’ospedale dove sono schierate le barelle traballanti cariche di vegliardi lividi, né il bianco dei sudari allineati in obitori di fortuna – no, è il bianco per riciclaggio di ricchezze e tracotanza dei politici). I Potenti, i Leader non possono sapere tutto. Non per niente i governanti e i gerarchi mantengono a caro prezzo specifici Corpi di servitori decorati – solitamente chiamati «alti funzionari» e «servitori dello Stato» – cui compete il funzionamento quotidiano degli ingranaggi della società: direttori ispettori alti commissari prefetti esperti missionari ecc. Essi hanno effettivamente trasmesso – per «via gerarchica», come attestano documenti ad hoc – informazioni adeguate sulla disgrazia in corso, ma per semplice routine, con gli occhi puntati più sui picchi del termometro che sulla caduta dei corpi vecchi, e preoccupati soprattutto di «non agitare le acque» né turbare la governativa vacanza dei Grandi Capi. Coltre letale Il Capo dei Capi, ultrasettantenne, non poteva sapere, si trovava, a quanto pare, nelle Americhe


lontane; forse alloggiava in qualche umile capanna non raggiunta dai giornali né dalle immagini. Il suo Vice, il cosiddetto Capo del governo, lui sì un giovanotto, (nato nel 1948), era non si sa dove, senza dubbio in una di quelle aree della «Francia dal basso» cui tanto tiene e dove effettua paternalistici bagni di folla per risollevare il suo potere stringendo i delicati pugni. Il Capo della Medicina, sessantenne, anche lui Vice-Capo che, in quanto ministro della Sanità, risponde al primo dei capi, si prendeva legittimamente cura della propria, di salute, ritirandosi in mezzo alla natura, a passeggiare nella fresca campagna. L’informazione, nonostante gli allarmi che arrivavano da Pronto Soccorsi, Pompieri e Pompe funebri, non riuscì, a quanto pare, a risalire l’«arduo» pendio; ristagnava, come una coltre letale, nelle corsie d’ospedale, nei salotti delle case di riposo, negli uffici amministrativi impegnati a tenere il conto. Ma, distrazione opportuna, si aggirava anche sugli schermi televisivi. La morte procedeva spedita come un treno, e la contabilità la tallonava. Si cominciò da 10 vittime, presto moltiplicatesi per diventare 100, per poi fare un balzo dai 100 ai 1000. Quando il silenzio assor-


dante della morte flirtò con i tre zeri, gli uomini del governo, con la Sanità in testa, entrarono in scena, calcolatrici in mano. Fra i 1000 e i 1500 il ministro si disse «allarmato». All’approssimarsi dei 3000, si preoccupò e tirò fuori dal cilindro un numero cosiddetto «verde»: un colore estroverso e magico che non impedì di raggiungere i 5000 morti. Si allestirono precipitosamente letti d’ospedale e in parallelo loculi d’obitorio. In calore e febbrile eccitazione, la morte continuava a mietere i «gracili» steli della vecchiaia. Di-chi-è-la-colpa? Oltrepassata la fatidica soglia dei diecimila si parlò di catastrofe, e a quel punto ci si preoccupò, nelle alte sfere, di reagire a quella che stava diventando, per così dire, una disfatta di Waterloo, e si mise a punto e in pratica la controffensiva. Cominciarono a piovere le spiegazioni, formando l’infantile ritornello del «di-chi-è-la-colpa»: delle 35 ore socialiste, che avrebbero lasciato gli ospedali a corto di personale; dei servizi e dei servitori, al di sotto di tutto per definizione; degli stessi numeri, decretati «non scientifici»; degli avversari, in cerca di «polemiche»;


e del clima, delle famiglie, dei vicini, della Natura stessa, i quali, tutti, avevano fallito. I Ministri mobilitati e i Notabili chiamati a sostegno lesinavano sulle cifre. Poi, visti (in televisione) l’ecatombe e l’orrore eclatanti, fissarono il flagello su una cifra dichiarata «scientifica»: diciamo 11.435 morti – cifra stabilita il 15 agosto, nella speranza che i vegliardi si dimostrassero collaborativi e smettessero di trapassare, con la benedizione lacrimosa di una Madonna assunta in cielo. Ma non andò così. Il tempo fece il suo corso, e presto i morti arrivarono a 15.000. «Naturalmente», venne resa nota la Compassione presidentesca, ravvivata da un caloroso appello del Capo del governo alla Solidarietà di tutti i francesi paternamente rimbrottati: s’imposero gesti come offrire un bicchiere d’acqua alla vicina ottantenne, rinsecchita nella sua minuscola dimora pregna di ricordi, quasi fosse una priorità o causa nazionale. Ciononostante, 15.000 morti sul piccolo schermo permisero, se non altro, di fronte a quell’arida verità estiva, di scorgere all’orizzonte i contorni tratteggiati di una televisione democratica, capace di resistere agli asservimenti e alle piaggerie dei giornalisti come al fascismo buffone delle facce


ilari che monopolizzano gli schermi. Nonostante i governanti, dopo la piena di morti disidratati e il silenzio canicolare, si siano avvicendati in apparizioni-apologie politico-mediatiche, l’insieme delle loro spiegazioni ridicole e giustificazioni assurde, dei loro calcoli mendaci, dello scaricabarile, e finanche delle bustarelle al personale sanitario, è andato pubblicamente in frantumi. Tutti vedevamo le loro affermazioni, i loro gesti ed espressioni cadere come foglie morte di fronte alle immagini che sfilavano ostinate, implacabili, davanti ai nostri occhi sgomenti, fissi, in quelle afose giornate d’agosto, su un piccolo schermo che vomitava corpi in agonia, barelle in attesa, e sacche da morto lasciate in giro. L’«eccezione francese» Quindicimila morti (finora, ma la morte non ha detto la sua ultima parola) rivelano l’imperizia e l’indecenza di un Potere amante dei gadget, che continua a riempirsi la bocca di parole, e soprattutto a riempirsi le tasche senza vergogna, accaparrandosi fondi necessari ai più deboli: malati, handicappati, bambini piccoli, anziani, disoccupati, esiliati. Ma chi ascolterà la voce di quegli anziani ormai silenziosi?


Quindicimila morti tingono la dubbia espressione «eccezione francese» di una nuova e sinistra sfumatura: nessun altro Paese europeo, neanche fra quelli più duramente colpiti dalla canicola, può vantarsi di aver lasciato accadere una simile ecatombe. Una società si giudica dalla maniera in cui riesce ad assicurare una vita tranquilla e gioiosa ai bambini, una vita tranquilla e una morte serena agli anziani. Il numero dei minori maltrattati è in costante aumento – con un’impunità quasi totale per i colpevoli, barricati dietro il mito della famiglia. I 15.000 morti dell’agosto 2003, come fissati in un unico blocco d’orrore, omogeneo e anonimo («i vecchi»), screditano i principi di cui si vantano le società e le organizzazioni: famiglia, previdenza, solidarietà, sicurezza, convivialità, responsabilità, «vivere insieme», onore e rispetto dei «senior» ecc. Quei 15.000 morti forse non sono altro che l’avanguardia, abbandonata alla propria sorte, dell’immensa armata degli anziani sempre più numerosi e longevi, e di fronte alla quale la società – sottomessa in ogni ambito (economico, politico, culturale, relazionale) al giogo del potere e alla voracità della finanza, oscillante fra ipocrisia e cinismo, compassione e crudeltà – si scopre smarrita e incline al sacrificio.


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