Storia delle idee del calcio

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IL GRANDE CALCIO DI LÀ DAL MARE: IL BRASILE

La fine del Grande Torino fu anche la fine di un’epoca. Arrivarono gli anni Cinquanta. Cominciò un altro calcio, si tornò a sperimentare, si mescolarono soluzioni. Era cambiato il mondo, niente era più la stessa cosa rispetto a pochi anni prima. Non poteva non cambiare anche il calcio. In Italia le novità furono soprattutto due: la nascita del Milan come grande squadra e l’irresistibile ascesa del difensivismo, quel modo di disporsi in campo e interpretare la partita che diventerà per cinquant’anni il nostro modo di essere calcio. Prima di parlare di noi è però importante conoscere e capire la vera scoperta del tempo. Veniva da un altro continente, era immensa e povera, portava fantasia e schemi praticamente rivoluzionari: si chiamava Brasile. Come abbiamo già visto, il calcio fu portato in Brasile dai marinai inglesi verso la fine del secolo. In quel tempo l’influenza degli Stati Uniti sul Brasile non era ancora forte come lo sarà dopo la prima guerra mondiale. Il punto di riferimento politico, economico e culturale era l’Inghilterra. Fosse stata anticipata di una ventina d’anni la marcia americana sul continente latino, il Brasile sarebbe diventato forse un Paese diviso tra il calcio e il baseball. O forse semplicemente meno pazzo del calcio, come invece è sempre stato. D’altra parte i Caraibi sono davanti al Brasile e nei Ca84


raibi la cultura americana è riuscita a imporre il baseball. Perfino Cuba, che ufficialmente detesta gli americani, ha come sport nazionale il baseball. E poco a nord del Brasile c’è una nazione, il Venezuela, che se ne frega amabilmente delle usanze calcistiche di tutto il resto del continente e non lascia il baseball nonostante i molti investimenti fatti dalla Fifa. La forza e la continuità con cui gli inglesi prima e gli altri europei con loro spinsero il calcio in Brasile, rese impossibile un cambio di sentimenti quando vent’anni dopo arrivò l’egemonia americana. La prima partita della nazionale brasiliana si giocò nel 1914. Fu, come usava spesso all’epoca, contro una squadra inglese in tournée, l’Exeter City. Vinse il Brasile 2 a 0, ma è difficile pensare avesse già un valore tecnico. Per molti anni il calcio ha subìto i problemi del Paese. Era diviso su tutto. Sul professionismo e sulla geografia del pallone. Dove andavano i giocatori della Federazione di Rio non andavano quelli della Federazione di San Paolo. E viceversa. Ai mondiali prima della guerra andò sempre mezzo Brasile. Erano fortissime le rivalità fra i grandi club. Le prime due società furono il Botafogo e il Fluminense. Fu sulla spiaggia di Botafogo che i primi marinai inglesi montarono due porte e giocarono la prima partita. È arrivato poi il Flamengo, altra squadra di Rio, che è un po’ la Juve del Brasile. Il Vasco de Gama nacque subito dopo per soddisfare i sentimenti della grande comunità portoghese; quindi con un grave peccato originale per i brasiliani che cominciavano in quel momento ad afferrare la loro ricchezza e il loro bisogno d’indipendenza. Fatto sta che intorno al 1940 il Brasile era già il Paese ad avere più persone che giocavano a calcio. Bambini, ragazzi, 85


studenti, persone qualunque e grandi professionisti, un centinaio di milioni in tutto, un esercito sconfinato che cucì tutta la popolazione intorno a uno stesso orgoglio. Non c’è brasiliano che non ritenga un preciso dovere nazionale la superiorità del calcio brasiliano su quello del resto del mondo. Esattamente come gli americano nel basket. I brasiliani erano i più forti probabilmente già ai mondiali di Parigi, nel ’38, i secondi vinti dall’Italia. Avevano un giocatore straordinario, Leonidas, il primo ad aver segnato quattro reti in un mondiale. Lo tennero a riposo nella semifinale con l’Italia per averlo fresco nella finale. Erano così sicuri di vincere che avevano già fatto prenotazioni e biglietti per il trasferimento a Parigi. Erano seguiti da migliaia di tifosi arrivati dall’altra parte dell’Oceano. Si muovevano come una grande carovana felice, tifosi e squadra erano un tutt’uno e sembravano invincibili. Invece furono arrestati e duramente battuti dall’Italia di Pozzo. Qualcosa di infinitamente più importante accadde nel 1950, i primi mondiali del dopoguerra si giocarono appunto in Brasile. Furono mondiali particolari. Solo tredici le squadre partecipanti. La Fifa aveva imposto l’esclusione della Germania per motivi legati alla guerra da poco conclusa. La povertà di molti Paesi aveva fatto il resto. Non andò in Brasile soprattutto l’Ungheria, forse la squadra migliore in quel momento. Due anni dopo avrebbe vinto le olimpiadi a Helsinki e nel ’54 arrivò seconda ai mondiali svizzeri, battuta da una Germania che si è sempre sospettato fosse dopata. Fu vietato partecipare anche all’India perché i suoi giocatori avevano chiesto di poter continuare a giocare scalzi come avevano fatto nel torneo di qualificazione. Furono i primi mondiali a cui partecipò l’Inghilterra, fi86


no a quel momento volutamente fuori da tutte le gare ufficiali. L’arroganza inglese scelse il momento peggiore per dimenticare se stessa. La squadra fu infatti eliminata al volo e per mano di una ex colonia come gli Stati Uniti, Paese nient’affatto avido di calcio. Quelli brasiliani furono infine i mondiali che tolsero il titolo all’Italia. Gli ultimi, quelli del ’38, li avevamo vinti noi. Eravamo rimasti in carica per dodici anni, caso unico. Era rimasta in Italia anche la Coppa Jules Rimet, che per regolamento girava da vincitore a vincitore finché qualcuno non l’avesse vinta per tre volte, cosa che poi riuscì al Brasile nel 1970 proprio dopo una finale con l’Italia. La Coppa Rimet aveva passato gli inquieti anni di guerra nascosta sotto il letto di Ottorino Barassi, vicepresidente della Fifa. Barassi era talmente terrorizzato dall’idea che la Coppa (in oro massiccio) potesse essere rubata, o portata via da qualche razzia di guerra, che dovunque andasse la portava sempre con sé. Segretamente, nei modi più disparati, ma le rimaneva sempre attaccato. I mondiali in Brasile furono unici per l’Italia perché il viaggio fu fatto in nave. Eravamo a un anno dalla tragedia del Torino sulla collina di Superga. C’era ancora molta suggestione, forse perfino paura. La squadra pretese e ottenne di viaggiare per mare. Si pensò addirittura ad allestire spazi appositi sulla nave per far compiere tutti gli allenamenti dovuti a un mondiale in arrivo, ma fu una sciocchezza ancora più grave. La nave non era ancora arrivata alle Azzorre che già i palloni erano tutti finiti in mare. Imballati, divisi, annoiati e certamente non all’altezza dei campioni di Pozzo, gli italiani furono subito battuti ed eliminati. La cosa curiosa fu che per il ritorno rifiutarono una nuova crociera, vollero tutti l’aereo. La fretta era più grande della paura. 87


O’ Maracanaço Nessuno in Brasile aveva il minimo dubbio su chi potesse vincere quei mondiali. Le ipotesi erano solo su come vincere. La Federazione brasiliana aveva fatto già stampare la scritta «campioni del mondo» sulla cassa degli orologi che sarebbero stati il primo regalo ai vincitori. I giornali avevano già nel cassetto la prima pagina con il titolo fatto. Non era una competizione sportiva, in Brasile sentivano profondamente quel mondiale come un destino che si compiva. Il buongiorno di un nuovo grande Paese al mondo. Quando arrivò il momento, nel nuovissimo stadio Maracanà erano presenti 176 mila spettatori ufficiali. In realtà erano più di duecentomila. La partita fu BrasileUruguay, non una vera finale, ma l’ultima partita di un girone a quattro. Il Brasile guidava quel girone con un punto più dell’Uruguay. Gli bastava in sostanza un pareggio per chiudere in testa. Nessuno dubitava sarebbe arrivata comunque una grande vittoria. Proprio nessuno. L’Uruguay era l’espressione di un Paese infinitamente più piccolo, con metà popolazione di origine italiana. Giocava con attenzione e nessuna presunzione. Aveva qualche giocatore che assomigliava ai fuoriclasse brasiliani, qualcuno anzi, come Schiaffino e Ghiggia, fuoriclasse lo era davvero, ma cosa poteva contare contro lo slancio della storia? Assolutamente niente. Tutto sembrò infatti andare come previsto. Il Brasile andò subito in vantaggio. La partita si trasformò in una festa, i giocatori non pensarono minimamente che sul campo, a quel punto, si potesse cominciare a gestire il risultato. Continuarono a ballare calcio, si eccitarono sempre più al ritmo della loro gente finché Schiaffino e Ghiggia in88


ventarono due contropiedi e capovolsero la partita. L’Uruguay diventò per la seconda volta campione del mondo. Oltre cento brasiliani si suicidarono. Il Paese si fermò di colpo, cessò qualunque attività, qualunque produzione, per giorni e giorni. La partita diventò per tutto il Sudamerica O’ Maracanaço, cioè «Il disastro del Maracanà». Per rimuovere la sconfitta si divise la storia del calcio in due. O’ Maracanaço era il passato, tutto il resto il futuro, cioè il vero presente. E per dare forza all’idea si arrivò a cambiare i colori della maglia nazionale. Via la vecchia divisa bianca e dentro la nuova con i colori della bandiera del Paese. Nasce così la leggendaria maglia verde-oro del Brasile. Il portiere di quella partita si chiamava Barbosa ed era nero. Per cinquant’anni il Brasile non ha più convocato un portiere di colore. Il primo è stato Dida del Milan. Il disastro del Maracanà, per la sua stessa grandezza, aveva detto al mondo che il calcio non sarebbe più stato come prima della guerra. Il Brasile era una realtà diversa e inevitabile, spontaneamente più forte di tutti gli altri Paesi che avevano contribuito a fondare il calcio. Era giovane e arrogante, rinnegava qualunque serietà professionale, seguiva solo il talento, aveva un’organizzazione zoppa ma aveva uomini e classe, una differenza di qualità ed entusiasmo che era difficilmente rimarginabile. Era soprattutto impressionante la facilità con cui i brasiliani continuavano a sovrapporre generazioni. Non ce n’era mai una sola, ogni generazione aveva il suo doppio, il suo triplo. Stava affermandosi la prima differenza, la più banale ma anche la più sostanziosa: la quantità. Il Brasile nel 1950 aveva gli abitanti di Italia-Francia-Spagna-Inghilterra messi insieme. Non c’era nazione al mondo che giocasse seriamente al calcio e avesse più abitanti. 89


Presto si affermerà anche la seconda fondamentale differenza: la possibilità di attingere a giocatori di tutte le razze. Il primo Brasile a vincere un mondiale avrà Djalma Santos e Nilton Santos terzini, due signori che per cognome sembrano quasi parenti. In realtà rappresentavano la vastità dei confini etnici, geografici e culturali del Brasile. Djalma Santos è un amazzonico puro, un nero dal fisico scolpito. Nilton Santos ha il baffetto leggero sopra il labbro, pettinatura ad onda, porta foulard rosa shocking, è il classico playboy latino del primo dopoguerra. Nei mondiali del ’54 in Svizzera, il disastro fu perfino più grande di quello del Maracanà, ma ha un vantaggio, la gente non lo vede. Il Brasile ha tenuto quasi tutti i suoi problemi, Djalma e Nilton Santos stupiscono gli europei per la qualità con cui due terzini giocano il pallone, ma non proteggono mai la difesa. Nei quarti trovano la squadra più forte del tempo, l’Ungheria di Puskás e Kocsis, grande tecnica e la freddezza di un popolo abituato ad aspettare. Vincono gli ungheresi 4 a 2, ma farà meno male perché sarà la rissa finale a fare notizia, spingendo a non parlare più di calcio. La stampa brasiliana griderà al furto e la gente correrà a frotte intorno all’ultima verità costituita. L’Ungheria in realtà ha vinto legittimamente la partita. In Europa nessuno ha dato nemmeno troppa importanza all’eliminazione del Brasile, ancora troppo melodrammatico per essere credibile in un continente che cerca di uscire da un momento molto più serio e reale, il dopoguerra. C’è però in quella sconfitta la prima scintilla del Brasile moderno.

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