Rap – Una storia italiana

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«L’ETÀ DELL’INNOCENZA»

She tried to tell me that the world is mine I know that ain’t true And even though I want it all I’m young, man, and I got everything to lose. A$AP Ferg ft. Big Sean, World Is Mine, «Always Strive And Prosper», 2016

Negli anni Settanta scoprire e ascoltare musica nuova era considerato di per sé un atto quasi rivoluzionario. Già il semplice fatto di trovarla diceva che la ricerca non era stata facile, perché raggiungere «cose nuove» non era scontato. Era tutto molto lento e si muoveva attraverso i soliti quattro canali: c’era la radio, praticamente come fosse una soltanto (ad esempio Radio Milano International, una delle primissime radio private, nasce solo nel 1975), c’era la Tv (che a metà anni Settanta neanche aveva ancora il colore) e… basta. Per la musica c’erano poi i negozi di dischi che fungevano da blog e da aggregatori nonché i locali della musica dal vivo, i concerti. Soprattutto le discoteche. Se e quando le vere novità riuscivano ad arrivare in Italia però te ne accorgevi eccome. Le cose che si trovavano e che crescevano con il consenso popolare definivano il loro tempo. E negli anni Settanta-Ottanta tutto, anche in Italia, sarebbe cambiato radicalmente.


Paola Zukar

La scoperta del rap I said a hip hop the hippie the hippie To the hip hip hop and you don’t stop The rock it to the bang bang boogie Say up jump the boogie to the rhythm of the boogie, the beat. Wonder Mike, Rapper’s Delight, 1977

Darei per scontato che le cose belle nella vita sono senz’altro molto più rare di quelle brutte o perlomeno di quelle noiose. Per me, una delle cose più belle in assoluto è proprio il rap: credo di aver cominciato ad ascoltare il rap perché me l’hanno ordinato gli alieni o così sembrerebbe. Un po’ come quando in 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, le scimmie primitive si azzuffano tra loro per la supremazia dello stagno e poi si ritrovano davanti il monolito, quella struttura perfetta e misteriosa venuta da chissà dove. Ecco, la metafora è un po’ questa. Come sia piovuto il rap a Genova alla fine degli anni Settanta è sorprendente quanto misterioso. Un pomeriggio indefinibile dell’estate del 1980, ho suonato alla porta del mio amico Riccardo Corsi. Avevo 12 anni e mezzo circa. Eravamo vicini di casa e molto amici, quel tipo di amicizia inscindibile che crei quando ti piacciono gli stessi fumetti della Marvel. A lui piaceva Thor, a me Silver Surfer e discutevamo per ore su chi fosse «meglio». La sua porta di casa era ad angolo con la mia, a venti centimetri di distanza e c’erano cinque appartamenti per pianerottolo, su sette piani d’altezza. Entriamo in camera sua: era piccolina, ma aveva la televisione, una vera anomalia per quegli anni perché praticamente nessuno aveva la propria Tv in cameretta


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(e ovviamente nemmeno un pc!). Uno scatolone di legno con un tubo catodico ingombrantissimo. In quel momento era accesa su uno dei tre o quattro canali che si prendevano all’epoca ed ecco che gli alieni hanno voluto trasmettere proprio lì, a me e in quel momento, il loro messaggio futuristico: era Rapper’s Delight degli Sugarhill Gang, un video a colori sbiaditi, dove tre ragazzoni e un gruppo di ballerini da sabato sera, in una finta discoteca, stavano sopra al beat funky di Good Times degli Chic, rivisitato con le parole. Non stavano cantando, non stavano parlando, stavano rimbalzando con le sillabe sulla strumentale che avevo già sentito in qualche classifica in radio. Non perdevano un colpo. Rotolavano sulla linea di basso con una naturalezza e con un tale savoir faire che ne rimasi completamente rapita. Ma che cosa stavo guardando/ ascoltando? A bocca aperta, mi sono guardata tutto il lunghissimo video di sei minuti, o forse l’avranno tagliato a poco meno. Non mi ricordo. Non esisteva un ritornello, ma all’epoca io non sapevo nemmeno cosa fosse davvero un ritornello: i tre ragazzi si alternavano uno dopo l’altro e dicevano delle cose bellissime ma totalmente incomprensibili e mentre procedevano, nella mia testa i cerchi si chiudevano magicamente uno dopo l’altro, rima dopo rima, strofa dopo strofa e mi lasciavo trasportare dal fluire della musica e dal suono di quelle parole. Cerchi perfetti. Ero stata rapita dagli alieni. Quella cosa era così nuova che sembrava davvero un manufatto alieno caduto dal cielo. Quando il video finì, Riccardo e io riprendemmo a discutere se fosse più forte Thor o Silver Surfer. Non risolvemmo mai la questione perché non potevamo provare nessuna delle nostre teorie, ma nel frattempo gli alieni avevano messo a segno il loro piano diabolico. La mia mente


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voleva risentire quei cerchi perfetti che si aprivano e si chiudevano magicamente: rime sul beat. In quegli anni non avevamo modo di rivedere quella cosa in nessun modo: così come era apparsa, era scomparsa dopo pochi minuti. Non esistevano videoregistratori né tantomeno YouTube e quindi non si poteva assolutamente riprodurre a piacimento quel video. Se n’era andato, ma avevo colto l’attimo. La vita continuava con le sue cose belle e le sue cose noiose, talvolta brutte. Sembra di parlare della preistoria, sono passati trentacinque anni, praticamente un’era…

La nascita dell’hip hop This high-powered music is truly unique As The Glove cuts the rhythm to the hip-hop beat. Ice-T, Reckless, «Breakin’», 1984

Quattro anni dopo, nel 1984, sempre nell’età dell’innocenza quando avevo appena sedici anni, il rap mi si ripresentò davanti ancora una volta, sotto forma cinematografica. Perfino a Genova, in qualche sala, stavano proiettando Breakin’, un film per teenager con una trama fantascientifica (grazie a una festa da ballo, i protagonisti avrebbero potuto raccogliere i fondi necessari a salvare il loro centro d’aggregazione dalla demolizione, continuando così a coltivare il loro amore per la musica e la danza). Il film era davvero semplicissimo e naïf a livello di sceneggiatura e recitazione, ma le immagini, il ballo e soprattutto la musica colmavano ampiamente


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quei vuoti sperimentali. Uscita dal cinema mi fiondai nel mio negozio di dischi preferito (Discoclub, in via San Vincenzo 20R che ancora resiste!) e trovai il vinile della colonna sonora originale di Breakin’ e già che c’ero comprai anche quello di Beat Street in doppio vinile, con copertina rosa e copertina gialla, usciti nello stesso periodo. Saranno pure stati teen-movie, ma nelle colonne sonore ci sono Ice-T, Rufus con Chaka Khan, Grandmaster Melle Mel, Afrika Bambaataa e altri ancora. E quando vedi per la prima volta tre ragazzi che ballano coordinati con un wind-breaker della Nike dai colori sgargianti, con Ice-T che rappa e porta degli occhiali da sci attorno al collo, mentre il dj scratcha in un locale con le pareti dipinte da scritte giganti, sai di avere scoperto davvero qualcosa.

In Italia Le strade di Genova, nel 1984, erano molto lontane dalle strade di Los Angeles o di New York, ieri come oggi, ieri più di oggi. Non esisteva quell’immaginario, non esistevano quei colori, quella musica, quegli atteggiamenti, quelle mosse, quelle novità, tutte assieme. Non esisteva niente di tutto ciò, ma io volevo a tutti i costi farne parte, razionalmente non saprei perché, ma avendo sedici anni, quell’avverbio non significava davvero niente per me, mentre tutto quel mondo sì. E non solo avrei voluto farne parte, ma avrei anche voluto farlo conoscere a più gente possibile, per far diventare anche Priaruggia, il mio quartiere, come il film Breakin’, anche Genova, anche l’Italia. Ma si sa… i sogni sono sogni, soprattutto a sedici anni e la realtà è


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un’altra. La realtà è quella cosa che, quando esci di casa e la incontri, portando con te l’idea meravigliosa che hai coltivato in camera tua, ti fa capire immediatamente le tue potenzialità e le tue probabilità di riuscita. Non c’erano grandi opportunità di vivere con il rap allora… Il 99,9% della popolazione che incontravi non ne conosceva nemmeno l’esistenza e quando trovavi qualcun altro che era stato contagiato dagli alieni come te, avevi trovato un tesoro. Si era anche disposti a fare centinaia di chilometri per incontrare e parlare con qualcuno che condividesse la tua stessa passione. Praticamente nemmeno in America vivevi di rap in quel periodo. In quegli anni stava nascendo una nuova cultura musicale e artistica che avrebbe contribuito da lì a poco a cambiare il mondo.

I limiti del rap italiano Oggi, qui in Italia, il paradosso del fenomeno rap è che siamo in un Paese che ha accettato il rap suo malgrado, forse per noia o per mancanza di altre novità, ma che in fondo non lo vuole per come è o per come dovrebbe essere, proprio per una ragione di natura strutturale, storica, genetica. Non lo voleva per com’era e ancora non lo vuole per come dovrebbe essere. Ribelle e «fastidioso», controverso e parallelo ai canoni della cultura dominante, su una strada tutta sua. Il peggiore difetto dell’Italia, per me, è essere un Paese fortemente ipocrita e falso, dove l’apparenza è tutto e la verità è un’altra. E a nessuno conviene veramente dirla, spiegarla o raccontarla, perché non ci guadagni niente, anzi… L’algoritmo è tutto qui. Ecco perché il rap è arrivato nei Novanta tutto baldan-


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zoso e «contro» per poi venire brutalmente rigettato dalla cultura dominante e anche, paradossalmente, dall’underground. Anche per questo motivo, da noi, il percorso della localizzazione del rap, la sua italianizzazione, è stato molto più lento e tortuoso rispetto ad altri Paesi europei, direi quasi sofferto, al di là di alcune oggettive difficoltà di «traduzione» e di suono delle parole. L’Italia, quella vera, vuole il rap ma solo nelle sue forme più digeribili, più assimilabili e presentabili, più innocenti e amichevoli, quando invece la sua natura è quella di essere scomodo, discusso e sempre nuovo, originale, tecnicamente irreprensibile. L’Italia «vera», quella che esiste nei bar, nella provincia, nelle parrocchie, fa davvero molta fatica a decodificare, a interpretare, a tradurre, ad andare oltre la prima impressione delle cose, della storia, dell’arte, della realtà. È un Paese di pance, più che di teste. Quindi come ha potuto crescere ed espandersi il rap pur mantenendo in qualche modo una propria identità, al di là degli scivoloni verso le lusinghe della cultura musicale italiana? Lentamente e con grandi difficoltà nonché attraverso mutazioni genetiche, non sempre piacevoli.

L’Italia è l’Italia Italia fa qualcosa, non restare catatonica. Marracash, Catatonica, «Status», 2016

Esistono delle ragioni per questa storica e innata diffidenza: l’Italia, oggettivamente, è un Paese tradizionalista, non moderno, basta guardare cosa la differenzia oggi da altri Paesi europei e mondiali.


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L’hip hop di per sé è nuovo, mai uguale a se stesso anno dopo anno, difficile da catalogare o assimilare, sempre pronto a rimettersi in discussione e reinventarsi. Esattamente il contrario dell’Italia e degli italiani veraci, quelli che sembrano nascosti ma sono invece una maggioranza ben determinata a lasciare le cose come stanno, come stavano. Sono quei milioni di persone che guardano il Festival di Sanremo ogni anno. Vecchi anche quando sono giovani, provinciali anche quando stanno in città. Anche in Italia però è filtrata lenta ma inesorabile la contemporaneità, che lo si volesse o meno: arriva Internet, arrivano i voli low-cost, arrivano pesantemente le multinazionali, l’IKEA, i brand stranieri, i social network, arrivano le droghe sintetiche e tutti quegli elementi che cambiano una realtà sociale, mentre nel frattempo in questa stessa realtà c’è la decadenza dei Novanta che degrada nella crisi economica degli anni Zero, c’è la noia, c’è una musica pop italiana piuttosto inerte e stantia, c’è un’identità culturale tutta frastagliata e sospesa nel vuoto di questi vent’anni che passano da un Drive In a una Domenica In. Con questi fattori in gioco, alla fine qualcosa nella barriera deve cedere. Se non ci fosse stato Internet, questa nuova ondata del rap italiano nel mainstream non ci sarebbe stata. Ieri come oggi, stesso discorso con la trap. Un album come «Mr. Simpatia» (2004) di Fabri Fibra ha spinto sull’acceleratore e ha funzionato da catalizzatore per quello, perché a quell’epoca Internet era un contenitore in cui si potevano davvero trovare proposte alternative a quelle del circuito musicale standard. E infatti «Mr. Simpatia» era ed è tuttora un’anomalia nella macchina della musica italiana. Un nuovo canale di distribuzione, per un progetto così, era indispensabile.


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Ma in dieci anni sono già cambiate molte cose: ormai anche la musica in Rete strizza pesantemente l’occhio alla musica del circuito tradizionale, la imita, sia nel rap che in altri generi… Non è più così coraggiosa perché su Internet ci sono arrivati praticamente tutti quelli che una volta ne erano fuori. Ed è questa maggioranza lenta e grassa come un blob che decide ancora una volta con il telecomando in mano, come se anche Internet fosse schiava dell’Auditel, dei grandi numeri. Anche in Rete sono arrivati i soldi e quindi le leggi del marketing si applicano anche qui, come in altri circuiti mediatici tradizionali italiani. La differenza di Internet sta però nel fatto che lì non ci sono i vecchi editori italiani a scegliere cosa dobbiamo fruire. Semmai questi selezionano ancora a monte, nei media tradizionali, e poi a valle, su Internet, la gente ricade sulle scelte di cui sopra. Ma non sempre la direzione è in questo senso: alle volte il senso si inverte e qualcosa parte dal basso. Tutti i media outlet sul web sono di multinazionali estere localizzate sul nostro territorio: Twitter, YouTube, Apple Music, Spotify ecc. La rappresentanza italiana non decide, non sceglie: segue. Oggi è difficile inventare qualcosa di veramente nuovo perché siamo saturi e perché l’Italia tenta sempre di inglobarti con le sue regole e i suoi meccanismi. La frase cardine di 1992, la serie di Sky, era: «Illusione, delusione, collusione». Una dinamica che si applica ovunque qui da noi. Dopo aver creduto di poter cambiare il mondo, ti rendi conto che stai combattendo una guerra troppo grande e finisci per cedere, unendoti al nemico. L’Italia, con la sua mentalità tradizionalista, è decisamente un osso duro. Si capisce presto quello che rende e quello che non rende: rende essere addomesticati, non


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rende essere coraggiosi e solitari perché magari, se conviene, ti lasciano entrare anche a te nel pollaio e ci puoi stare comodo anche tu. Difficile lasciare crescere qualcosa per quello che è, accettarlo, lasciarlo esprimere. La cultura dominante italiana mangia la sottocultura e non lascia niente, se ne appropria come se fosse sempre stata sua, se le interessa. E la nostra cultura dominante ha anche un forte lato oscuro, mai davvero risolto: quello che rispetta e teme di più «i veri cattivi» (i villains) mentre punisce gli «anti-eroi» (gli underdog), quando nella cultura anglosassone accade l’esatto opposto: la cultura dominante inglese e americana prende in prestito dei pezzi di sottocultura e ne rende merito, lasciando crescere quelle nicchie come bacini dai quali attingere nei momenti di bisogno. E l’anti-eroe è amatissimo perché incarna, talvolta meglio dell’eroe, il sogno americano. In Italia non esistono delle nicchie in grado di autoalimentarsi e di sopravvivere, le sottoculture spariscono perché il raggio d’azione è troppo piccolo e finiscono per farsi comprare dalla cultura dominante o per soffocare per asfissia. Il mercato è uno solo, piccolo, asfittico, il resto è mancia.

Il messaggio nella musica It’s like a jungle sometimes It makes me wonder how I keep from going under. Grandmaster Flash and The Furious Five, The Message, «The Message», 1982

Quando Grandmaster Melle Mel con Flash e i Furious Five hanno pubblicato The Message, il rap americano è arrivato a possedere


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una sua identità, il processo di formazione e maturazione era già completo. The Message è per forma e contenuto LA canzone rap per eccellenza ed è ancora oggi uno standard a cui guardare. Il testo racconta la periferia nella maniera più cruda e diretta possibile e l’anno è il 1982. L’America ha abbracciato quel testo e quell’impietosa descrizione in musica della quotidianità del ghetto senza riserve, come una catarsi, per quanto diretto e scomodo fosse. Il ritornello dice: «Non mi spingere oltre perché sono vicino al limite, sto cercando di non perdere la testa» e la canzone inizia così: «Vetri rotti ovunque, la gente piscia sui gradini, non gliene frega niente. Non sopporto più l’odore, non sopporto più il rumore, non ho soldi per andarmene, non ho altra scelta». Così erano molti quartieri prevalentemente afroamericani e ispanici agli inizi degli anni Ottanta. Violenza, degrado, povertà e rassegnazione. E con The Message la comunità afroamericana ha cominciato a confrontarsi e a ribellarsi a una situazione divenuta inaccettabile. Nessun membro di quella comunità però si è sentito sminuito da quel testo, da quella canzone, nessuno si è sentito offeso da quel ritratto impietoso della propria vita quotidiana. La situazione era proprio quella e nessuno ha imposto a Melle Mel di raccontare anche le belle storie di solidarietà e di rispetto del quartiere che senz’altro convivevano con quel degrado. Era il momento della ribellione e il rap raccontava proprio quella. Come poi avrebbero fatto i Public Enemy con Don’t Believe The Hype o Fight The Power o gli NWA con Fuck The Police o ancora KRS-One con The Sound Of Da Police e molti altri ancora. La comunità afroamericana ha abbracciato con orgoglio quella dichiarazione di guerra che partiva dalla descrizione e accettazione di una loro condizione grave,


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d’inferiorità, iniziando così a riconoscere un problema che non poteva più essere ignorato. In Italia siamo tendenzialmente programmati per fare l’esatto opposto: la negatività, l’inadeguatezza, l’inferiorità va nascosta, mistificata, le storie da raccontare devono essere altre, l’amore farà andare tutto bene, vogliamo credere nel sogno e ignorare la realtà, sperando che qualcuno magicamente la trasformi, anche senza la nostra consapevolezza o partecipazione. Sognare, sognare e sognare ancora, con ogni mezzo necessario. Ancora non mi spiego il modo in cui la Gomorra di Roberto Saviano sia stata osteggiata da una parte di persone. Ma se non riconosci un problema come tale, come potrai risolverlo? Dargli un nome, un’immagine, un suono, parlarne, sentirlo, raccontarlo è già parte di una soluzione. Non certo solo nella musica. L’attore della serie Tv Gomorra Fabio De Caro ha recitato in una scena particolarmente cruenta in cui trucidava una bimba, mostrando così in video, seppur in una finzione, un lato terribile e indicibile del crimine organizzato e per questo motivo è stato subissato di insulti sulla sua pagina Facebook e per strada… Qualcuno non ha capito che recitava una parte? Qualcuno non avrebbe voluto che lui incarnasse sullo schermo questo personaggio che nella realtà da qualche parte esiste, ma non si vede in Tv? Meglio non vedere, ignorare, aggredire un’immagine piuttosto che affrontare il problema anche se sotto forma di finzione televisiva. L’arte e il potere della sublimazione, della metafora. Dalla psicanalisi alla sociologia, dal particolare al generale: ignorare i problemi o silenziarli significa lasciarli prosperare e in qualche modo approvarli e condividerli. Non è il contrario. Saviano


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ha dato la sua risposta in un’intervista al Testimone di Pif su MTV: già Leopardi riconobbe che agli italiani il male piace farlo ma non raccontarlo. Peccato che il rap al suo meglio faccia spesso proprio questo: rende commestibile ciò che in altre forme non lo è, celebra la realtà per poterla sublimare, accettare e decodificare. The Message è stata pubblicata dalla Sugar Hill Records nel 1982 da Grandmaster Flash & The Furious Five: Melle Mel rappa il testo dai contenuti fortemente sociali scritto da Ed «Duke Bootee» Fletcher. In un’intervista con NPR Music, Melle Mel confessa che il gruppo non avrebbe nemmeno voluto registrare quel brano perché, a quel tempo, tutte i pezzi rap erano pensati per i party e il frasario degli mc la maggior parte delle volte si limitava a ripetere delle frasi da intrattenimento con un pesante eco, in modo da enfatizzare la musica su cui si ballava. «Andavamo sempre in un club che si chiamava Disco Fever nel Bronx e la casa discografica decise di testare il singolo con la gente sulla pista da ballo: suonarono The Message subito dopo Planet Rock di Bambaataa che all’epoca era già un successo incredibile e io avevo paura che la pista si svuotasse. Il pubblico impazzì. Lo testarono anche in un negozio di dischi molto noto di allora e accadde la stessa cosa. È così che abbiamo deciso tutti di pubblicare The Message». Funzionava in questo modo a quei tempi ed è stata la gente a volere e a glorificare The Message. La gente voleva rivedersi in quel testo, in quelle parole, voleva essere rappresentata anche così. Ne aveva il coraggio. Ma The Message è passato alla storia per un altro motivo ancora: molti critici la riconoscono come la canzone che ha polarizzato l’at-


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tenzione del pubblico dal dj all’mc, portando quest’ultimo in primo piano rispetto al mix e allo scratch di chi stava dietro ai piatti. Le parole e i pensieri del rapper da qui diventavano centrali rispetto alla musica che li supportava. La gente pretendeva quindi qualcosa di piÚ dalla musica, non voleva soltanto ballare, voleva anche pensare, cantare, avere delle rime e degli slogan da portare in alto. E per questo, il rap sarebbe stato da qui a oggi, il genere perfetto.


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