Questa squadra – La ginnastica ritmica, la mia vita

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L’ETÀ DELL’ORO

È una tiepida giornata di inizio settembre. Una giornata come tutte le altre, verrebbe da dire. Sono a Follonica, c’è il mare, il sole. Mi sono alzata presto, anche questa mattina. Ma non è una cosa strana, per me abituata a svegliarmi di buon’ora, da anni, per iniziare l’allenamento puntuale, alle otto del mattino. Oggi, però, il PalaGolfo rimarrà chiuso. Non aprirò quella porta e le ragazze non si alleneranno. Non risuonerà la musica. La mia voce e quella delle mie colleghe non rimbomberà fra le pareti della palestra. Solo silenzio. È l’8 settembre 2009. Il giorno della partenza per i Campionati del Mondo di Mie. Giappone: ci sono stata diverse volte nel Paese del Sol Levante. Coppe del Mondo, incontri internazionali, mondiali. Un viaggio lungo, faticoso sia dal punto di vista fisico che mentale. Trenta ore separano questa squadra dall’ennesima sfida. Una sfida che oggi, però, ha un sapore particolare. Da dodici anni sono la Responsabile della Squadra Nazionale italiana di ginnastica ritmica. Una squadra che, nel tempo, ha saputo conquistare tanti traguardi importanti. Soddisfazioni, gioie, vittorie e, va da sé, anche alcune delusioni. L’ultima, la più grande


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di tutte: la mancata medaglia, la medaglia «rubata», a dirla tutta, all’Olimpiade di Pechino del 2008. Chi credeva di mandare in frantumi un sogno, il nostro sogno, forse ha fatto male i conti. Le ginnaste non si sono perse d’animo. Sono vere atlete, delle sportive eccellenti. E da quella delusione, dalla beffa, hanno trovato la forza e il coraggio di ripartire più forti di prima. Una nuova sfida, l’ennesima, per loro e per me.

Verso Mie Capii subito che l’anno al Centro Tecnico di Desio, dopo Pechino, non sarebbe stato facile. Ricordo di aver passato dei mesi ovattati. Non è stato semplice gestire ginnaste deluse e arrabbiate. Da una parte avevano ritrovato, ancora una volta, l’entusiasmo di rimettersi in gioco e dall’altra la paura concreta di una nuova fregatura. Il riscatto, in realtà, non tardò ad arrivare. I riscontri positivi ci furono già nelle prime gare del 2009. Ebbi la certezza che questa squadra fosse ancora da podio, dopo la tappa italiana di Coppa del Mondo, a Pesaro, nel maggio del 2009. Tre ori. Uno nel Concorso generale e gli altri nelle finali di specialità. È lì che pensai: «Le ragazze possono ancora giocarsi una medaglia, di qualsiasi colore, ma una medaglia è alla loro portata». Anche durante la lunga e calda estate al Centro Tecnico di Follonica ci furono ulteriori conferme. Nell’ultima trasferta a Minsk salimmo sul terzo gradino del podio. Dietro alla Russia e alle padrone di casa. Insomma tutto nella norma. Volammo, alla volta del Giappone, il martedì. Sabato si sarebbe


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svolta la gara. La partenza fu particolarmente ravvicinata al giorno della competizione. All’aeroporto di Roma chiesi al check-in di assegnare dei posti comodi alle ragazze, così che potessero almeno riuscire a distendere le gambe. Avevo pensato a tutto pur di rendere meno stressante l’interminabile trasferta dall’altro capo del mondo. Bresaola e grana sottovuoto, cibi sani, insomma, per evitare eventuali disturbi legati all’alimentazione. Non volevo che la nostra preparazione potesse essere compromessa da una banale indisposizione. Partimmo da Roma. Prima tappa intermedia del nostro viaggio: Pechino. Già, manco a farlo apposta, sembrò una beffa! Alla fine, questa città tornava sempre sul nostro cammino. Ma nessun rito scaramantico. Solo l’attesa, cinque ore per l’esattezza, fu piuttosto estenuante. Ripartimmo. Nuovo volo: la nostra destinazione finale. Il Giappone. Aeroporto di Nagoya. Ci separavano ancora tre ore di viaggio in pullman dalla meta. Arrivammo – stravolte – all’hotel di Mie alle due del mattino di giovedì 10 settembre. Alle ginnaste furono destinate le stanze «occidentali» con i letti normali. Io e le mie assistenti dormimmo, invece, sui futon. Un incubo. Altro che toccasana per la schiena! Alle otto del mattino, però, eravamo già in palestra. Le ginnaste «tirarono» l’allenamento come delle vere furie, non curanti del fuso orario a cui erano state sottoposte. Io e le mie colleghe, sfinite, le guardavamo attonite. Incredule. Per loro era tutto normale, ordinaria amministrazione. Klarita Kodra (Klara per tutte noi) non riusciva, invece, a tenere gli occhi aperti. Portò a termine, faticosamente, la sua lezione di coreografia, poi crollò sotto il peso della stanchezza. Eva D’Amore e io eravamo due fantasmi. Questa


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squadra, invece, era più viva che mai, pronta a entrare in pedana per giocarsi una medaglia importante ai Campionati del Mondo. Il giorno successivo, venerdì 11 settembre, l’appuntamento era fissato alla Sun Arena di Mie, per l’ultimo allenamento prima della gara. Ancora una volta le ragazze si dimostrarono determinate e portarono a termine delle esecuzioni quasi perfette. Mancavano davvero poche ore alla competizione più importante dell’anno. Sono generalmente una persona tranquilla, non soffro d’ansia, né tantomeno sono nervosa. Ho già disputato tre Olimpiadi, diversi Campionati del Mondo, un sacco di competizioni, insomma. Però trascorsi la notte prima della gara davvero agitata. Mi svegliai presto, alle 6.15. Mi sentivo malissimo. Ero cupa e avvertivo un vago senso di oppressione che non mi faceva star tranquilla. Mi preparai in gran fretta accompagnata da una fastidiosa ansia che non mi abbandonava. Attribuii il mio stato fisico al «maledetto» futon, causa di tanti problemi anche alla mia cervicale. Non ero affatto di buonumore, era evidente, e la cosa mi scocciava parecchio. Però, di lì a poco, le ragazze sarebbero scese in pedana e focalizzai le mie poche energie su questo obiettivo.

Il Concorso generale Le condizioni per l’allenamento alla Sun Arena erano difficili: i giapponesi, noti per le loro capacità organizzative, avevano riservato uno spazio, accanto al palazzetto principale, dove poter effettuare il riscaldamento. La superficie era piccola, angusta. C’erano sei pedane, divise fra loro da alcune porte. Avevano messo a disposizione anche


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un lungo corridoio, antecedente l’ingresso alla struttura principale, stipato di tante atlete, in procinto di rifinire il riscaldamento poco prima di entrare in pedana. Mancava l’aria. C’era troppa gente. Il mio senso di oppressione aumentava. Con noi c’erano anche il medico, il fisioterapista, i capi delegazione e le ginnaste. Impossibile prepararsi e concentrarsi in maniera serena. Poi, però, trovammo una porta. Dietro, una stanza tranquilla, silenziosa, lontana dalla frenesia concitata del corridoio. Ci infilammo e ci lasciammo alle spalle la confusione. Fu la nostra oasi di pace, la stanza del silenzio prima della sfida. Ultimammo, così, la preparazione. Le ginnaste indossarono il body da gara, si truccarono. Riti solenni. Arrivò inesorabilmente il nostro turno. Fummo, nuovamente, inghiottite nel «girone dei dannati» della Sun Arena. Entrammo nella palestra per il riscaldamento. Tre minuti. Orologio alla mano, non di più. Giusto il tempo per provare una volta l’esercizio. Poi venimmo catapultate su un’altra pedana. Altri tre minuti. Niente lanci: erano stati banditi. Le curiose contraddizioni dell’organizzazione giapponese! Uno stress incredibile e deleterio, prima di una competizione. In gara, nel nostro stesso gruppo, anche le eterne rivali di sempre: la Russia e la Bielorussia. E fu proprio la squadra della Bielorussia a entrare in pedana per prima, nell’esercizio ai 5 cerchi. Come di consuetudine, la mia assistente Eva, durante le competizioni, va a osservare le esecuzioni delle nostre avversarie e mi tiene informata e aggiornata sui punteggi. Fu così anche a Mie. Alla Sun Arena bisognava percorrere un corridoio e salire due rampe di scale mobili per arrivare al campo di gara. Eva corse a vedere l’esercizio della Bielorussia, tornò da me e mi disse nell’orecchio, per evitare di far perdere la concentrazione


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alle ragazze: «27.700. Hanno fatto bene, però…» Lasciando sottintendere che la nota della giuria era stata fin troppo generosa. Noi, a questo punto, non avevamo margine d’errore. Questa squadra per ambire a una medaglia prestigiosa doveva far bene, senza commettere errori. Dopo qualche minuto scese in pedana la Russia, ai 3 nastri e 2 funi, con un team completamente rinnovato rispetto all’Olimpiade di Pechino del 2008. Commisero qualche incertezza, ma portarono a casa un onesto 26.450. A quel punto, toccava a noi. La scala mobile ci attendeva. Portava verso l’Arena. La sfida finale. Salimmo il primo gradino di quella lunghissima rampa. Io davanti, dietro di me le ragazze. La scala mobile avanzava verso l’alto. Mi voltai, un solo sguardo e dissi: «Ragazze andiamo in guerra! Pronte a combattere!» Klara, al suo primo grande appuntamento agonistico, rimase basita alla mie spalle, per quella frase che lei non ha più dimenticato. Ebbe in quel momento la consapevolezza che quella gara rappresentava, per tutte noi, qualcosa che andava oltre la mera competizione. Questa squadra è una squadra agguerrita, determinata, granitica. Le ginnaste sapevano che il riscatto dalla delusione di Pechino poteva essere dietro l’angolo, ma rimasero concentrate. Entrarono in pedana il Capitano Elisa Santoni, Elisa Blanchi, Daniela Masseroni, Anzhelika Savrayuk e Romina Laurito. L’esercizio ai 3 nastri e 2 funi era il nostro cavallo di battaglia. Le Farfalle (così sono state soprannominate le ragazze dopo aver vinto l’argento all’Olimpiade di Atene del 2004) eseguirono un esercizio pressoché impeccabile sulle note di Piccolo mondo antico di Nino Rota. Questa squadra, ancora una volta, entrò in pedana e non sbagliò. Sul tabellone centrale uscì, poco dopo, il risultato: 27.125. Il cammino verso il


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podio era appena cominciato. Dopo la prima rotazione, eravamo seconde alle spalle della Bielorussia. E sapevo perfettamente che ogni minimo errore poteva esserci fatale. Tornammo nelle palestre del riscaldamento. Le ragazze respirarono, si asciugarono il sudore. Pian piano smaltirono l’adrenalina e si concentrarono sul secondo e ultimo esercizio. Bisognava, nel frattempo, tenere d’occhio le avversarie. Cogliere ogni minimo particolare. Iniziammo a fare i primi calcoli con i punteggi che, man mano, venivano visualizzati sullo schermo centrale. Era nuovamente il turno della Bielorussia impegnata nei 3 nastri e 2 funi. Non c’era tregua. Il ritmo si faceva sempre più incalzante. Dopo qualche salvataggio, una mezza perdita e, una performance poco armonica, alla squadra di Minsk venne assegnato un deludente 26.500. Sommando i punteggi dei due esercizi, occupava provvisoriamente la prima posizione con il totale di 54.200. A darle del filo da torcere, ovviamente, c’eravamo sempre noi e la Russia. Passò qualche minuto. Nel frattempo sapevo che Eva era intenta a osservare l’esecuzione della Russia ai 5 cerchi. Tornò da me. Era basita. Occhi sbarrati. Finse disinvoltura ma era evidente che doveva riferirmi qualcosa di importante. Capii al volo la sua espressione, come sempre. Mi girai per non farmi vedere dalle ragazze e sentii pronunciare queste parole: «Manu, un disastro. La Russia ha perso un cerchio». Lì per lì non feci una piega. Tante volte le nostre rivali hanno perso l’attrezzo ma ci sono comunque passate davanti. Però Eva, nella concitazione del momento, dimenticò di raccontarmi un particolare fondamentale. In realtà la Russia, oltre ad aver perso un cerchio finito oltre la barriera degli sponsor, non aveva piazzato a bordo pedana l’attrezzo di riserva. Per questo motivo la ginnasta


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era rimasta lontana dalla squadra per circa quindici secondi, nel tentativo di recuperare il cerchio perduto. Un’eternità. Questo, però, lo venni a scoprire solo dopo la gara, rivedendo i filmati della competizione. Il punteggio della Russia lasciava, comunque, poco spazio alle interpretazioni: 24.900. La squadra Campione del Mondo in carica e medaglia d’oro all’Olimpiade di Pechino era fuori dai giochi. Con il totale di 51.350 era dietro, e non di poco, alla Bielorussia. Mancavano pochi minuti, ma il tempo tendeva a dilatarsi, nonostante la concitazione. Le ragazze non sapevano nulla di quanto accaduto alle avversarie. Meglio non agitarle. Iniziammo a fare i conti: se avessimo preso più di 27.000 avremmo vinto. Rimasi calma, so benissimo come vanno a finire queste cose. L’imprevisto è sempre dietro l’angolo. Salimmo tutte verso il campo gara. Il nostro esercizio ai 5 cerchi era estremamente dinamico, incalzante, una composizione costruita sulle note della colonna sonora di The Bourne Identity, scritta da John Powell. Entrò in squadra, al posto di Daniela Masseroni, Giulia Galtarossa, al suo primo Campionato del Mondo. Andò tutto liscio. Questa squadra, ancora una volta, non sbagliò. Alla fine dell’esercizio aspettai le ragazze al kiss&cry, la zona deputata all’attesa dei punteggi. Sorridevano, erano soddisfatte del loro lavoro. E lo ero anch’io. Sono sempre contenta quando danno vita a delle belle performance. Diedi un’occhiata al tabellone. Uscì il risultato. Era superiore a 27.000. Parlava chiaro: 27.275. Le ginnaste mi guardarono un po’ attonite. Dissi loro: «Sorridete perché anche se siamo arrivate seconde è comunque un bellissimo piazzamento». Comparì prima il numero uno di fianco al nostro punteggio totale di 54.400, poi il «2» di fianco al


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punteggio dell’esercizio ai 5 cerchi. Lì per lì, nella confusione non capii. Situazione tragicomica. Dissi tra me e me: «Prime o seconde?» A noi sembrava di essere arrivate prime, ma non riuscivamo bene a renderci conto. La Sun Arena è grande, un po’ asettica, in verità. I giapponesi, gente perbene, per carità, sono sempre molto composti e poco espansivi. Non riuscivo a intuire, quindi, dai loro gesti il valore del nostro risultato. Si limitavano ad applaudire. Nulla più. I nostri sostenitori erano troppo lontani dal kiss&cry. Vedevo che si agitano, continuando a sventolare il Tricolore, ma lo fanno sempre alla fine di ogni gara. Ci alzammo, andammo via incamminandoci verso la zona del riscaldamento. Cercammo di capire, ma dopo poco arrivò Irina Viner, storica allenatrice della Russia. La Signora della ginnastica ritmica internazionale. Si diresse verso le ragazze e, stringendo la mano a ognuna di loro, disse con un tono compiaciuto: «Congratulazioni, ce l’avete fatta!» Dagli spalti ci corse incontro Piero, il fratello di Giulia Galtarossa. Non stava nella pelle e urlava come un forsennato: «Prime, prime!» Si precipitò verso di noi anche la nostra Direttrice Tecnica Nazionale, la Professoressa Marina Piazza. Sorrideva emozionata e ci abbracciò. Era al settimo cielo. Furono attimi concitati. Tutto accadde molto velocemente, ma a me sembrò quasi un’eternità. Non c’erano più dubbi, a quel punto. Questa squadra era Campione del Mondo. Arrivò il momento della premiazione. Le ragazze volevano portare la bandiera sul podio per innalzarla durante l’Inno di Mameli. Si prepararono per la sfilata. Era un momento di gioia, c’era euforia. Ma, poco prima dell’inizio della premiazione vidi arrivare in gran fretta Marina Piazza. Una giudice spagnola le aveva appena comu-


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nicato che il regolamento della ginnastica ritmica non prevedeva di salire sul podio con la bandiera. «E ora come faccio a dirlo alle ragazze?» dissi. Erano già troppo distanti da me. Cominciammo a gesticolare. Loro, però, non capivano. Salirono sul podio e cantarono a squarciagola, con tanto di bandiera, l’Inno italiano. Devo dirla tutta: vederle sul podio a Torino, in occasione degli Europei del 2008, mi aveva fatto tutto un altro effetto. C’erano quasi diecimila persone in piedi a sventolare il Tricolore. Nella hall del palazzetto di Mie era tutto così tranquillo. I nostri tifosi c’erano sempre. Genitori, parenti, amici delle ragazze non fanno mai mancare il loro supporto. Gioivano dagli spalti, li vedevo in lontananza. Ma il nostro gruppo era comunque una piccola macchia di colore nell’immensità della Sun Arena. Già, l’arena del sole, che quel giorno splendeva su Mie per rendere omaggio allo storico risultato di questa squadra.

Le finali di specialità La sera della vittoria del titolo mondiale non festeggiammo. A cena e a letto presto. Dovevamo ancora disputare le finali di specialità fra le migliori otto squadre con entrambi gli esercizi. Bisognava rimanere concentrate. Un calo d’attenzione poteva risultare negativo e ripercuotersi sull’andamento della gara. La grande concitazione, al contrario, avrebbe potuto portare allo scarico della tensione e al conseguente venir meno dell’adrenalina. Negli anni le ginnaste hanno imparato a controllare e a contenere le emozioni. Nelle finali di specialità si ripartiva da zero. Il giorno successivo, domenica 13 settembre, tornammo sul


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campo di gara. L’ordine di lavoro segnalava che saremmo scese come seste ai 5 cerchi, e prime nella finale ai 3 nastri e 2 funi. La cosa non mi andò a genio. Tra un esercizio e l’altro non c’era molto tempo per recuperare. Era la prima volta che si verificava una situazione simile: fino all’anno precedente le finali della squadra si alternavano con quelle individuali. Così scrissi immediatamente un reclamo alla Federazione Internazionale di Ginnastica facendo presente la situazione. La risposta fu perentoria: «Perché non te ne sei accorta prima? Ora è tardi». L’unica alternativa possibile era cercare di invertire l’ordine di passaggio con qualche altra squadra presente in finale, ma nessuna si offrì. Pazienza. Le ragazze affrontarono la prova ai 5 cerchi. L’esecuzione fu praticamente impeccabile, senza sbavature evidenti. 27.275 il punteggio della giuria. Arrivammo seconde, medaglia d’argento dietro la Russia che vinse la finale con 27.700. Leggemmo il nostro punteggio al kiss&cry. Suggerii alle ginnaste di respirare e di recuperare secondi preziosi, perché saremmo dovute scendere nuovamente in pedana dopo un esercizio e una piccola pausa tra una finale e l’altra. Ero un po’ preoccupata, per la frenesia di quei minuti, lo ammetto. Sapevo che il Capitano Elisa Santoni aveva sempre bisogno di un po’ di tempo in più, rispetto alle compagne, dopo l’esercizio ai 5 cerchi perché, a livello muscolare, era una composizione massacrante. Ci allontanammo con calma dalla postazione del kiss&cry. Avevamo davvero poco tempo per cambiare il body, recuperare le energie, asciugare il sudore intriso di adrenalina. Mentre ci dirigevamo verso l’area dell’allenamento la Santoni si avvicinò e mi disse: «La Blanche non cammina più, non riesce ad appoggiare il tallone. Le fa troppo male». Già, quel


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tallone che aveva iniziato da tempo a crearle dei problemi. Non ci pensai un attimo e, mentre le ragazze si cambiavano, si asciugavano il sudore con il borotalco, corsi fra i corridoi della Sun Arena a cercare il dottore. Il medico Gianfranco Casalicchio, il nostro «doc» che segue la squadra al Centro Tecnico Federale di Desio, raggiunse la «Blanche» (il nomignolo con il quale chiamiamo Elisa Blanchi) che aveva bisogno di un’iniezione antidolorifica. Tutto si verificò nel giro di pochi minuti. E in quei pochi istanti, questa squadra si preparò per una nuova finale dei Campionati del Mondo. Fummo noi ad aprire l’ultima rotazione. Esercizio ai 3 nastri e 2 funi. Entrò in squadra Daniela Masseroni, al posto di Giulia Galtarossa. Dopo pochi secondi, Anzhelika Savrayuk sbagliò la traiettoria di un lancio. Panico. Le ragazze reagirono subito e tutto filò liscio sino alla posa finale. Ci ritrovammo, un’altra volta – l’ultima – al kiss&cry. «Angie» era preoccupata, lo si leggeva chiaramente dall’espressione scolpita sul suo volto. Pensava di aver mandato in fumo la finale e non si dava pace. Uscì il punteggio definitivo 26.650. Non un granché. Anzhelika era quasi disperata e, come se non bastasse, eravamo entrate in pedana per prime. Dovevamo aspettare ancora sette esercizi per conoscere il verdetto finale. Arrivò il turno della Bielorussia. Ci mise del suo. Sbagliò. Finì dietro di noi: 26.600. Di poco, solo cinquanta centesimi. Eravamo comunque medaglia d’argento. Ma doveva ancora scendere in pedana la Russia che aveva certamente voglia di riscatto, dopo la figuraccia storica del giorno precedente. E le nostre avversarie gareggiavano per ottave. Sbagliarono parecchio: due perdite gravi. Tutta l’esecuzione fu piuttosto fallosa. 26.300, la Russia era me-


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daglia di bronzo. Per l’Italia, un nuovo titolo iridato, nella finale di specialità ai 3 nastri e 2 funi.

Il rientro Rientrammo finalmente in Italia. All’aeroporto di Fiumicino vennero tante persone a festeggiare le nostre Campionesse. C’era anche il Presidente della Federazione Ginnastica d’Italia, il Professor Riccardo Agabio, con il Segretario Generale Michele Maffei. Ci portarono dei fiori splendidi e un dono da parte del CONI. Eravamo felici, avevamo centrato l’obiettivo. Avevamo avuto la possibilità di dimostrare, ancora una volta, la nostra forza e la nostra determinazione. La delusione di Pechino era stata, in parte, riscattata. Ora ci aspettava un periodo di sano e meritato riposo. Dopo qualche settimana ero nuovamente a Roma, per un convegno. Le due «Elise» che abitano nella Capitale mi avevano dato appuntamento alla stazione Termini per un saluto. Entrambe ventiduenni sono cresciute insieme. Vivono al Centro Tecnico, lontane da casa, da dieci anni. Hanno vinto tanto. Sono atlete forti, tenaci, determinate. Mi vennero incontro, prima della partenza del treno e mi dissero: «Manu questa vittoria ci ha gasate, ci abbiamo preso gusto. Ci piace proprio. Volevamo dirti di contare ancora su di noi. Se il fisico ci sostiene ci piacerebbe continuare fino alle Olimpiadi di Londra del 2012». Ecco, al di là del risultato, sono queste per me le emozioni più belle, le testimonianze più gratificanti dal punto di vista umano e tecnico. Mi piace pensare di aver lasciato nelle ginnaste qual-


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cosa di molto profondo. Dopo tante medaglie, perché altrimenti rimettersi in gioco ancora una volta? Perché questa squadra, al di là dei meriti e dei risultati ottenuti sul campo di gara, è una squadra vincente.


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