Le figlie del nord

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Archivio del sistema carcerario dell’Autorità inglese Documento n. 498. Trascrizione recuperata nel centro di detenzione di Lancaster Dichiarazione di prigioniero di sesso femminile detenuto ai sensi del Comma 4(b) della Legge speciale per la prevenzione delle insurrezioni


Mi chiamo Sorella. È il nome che mi è stato assegnato tre anni fa. Gli altri mi chiamavano così. Io stessa lo uso. Quello che avevo precedentemente, è irrilevante: non ricordo che venisse usato e se mi chiameranno così non risponderò, né lo pronuncerò ad alta voce. Non darò segno di riconoscerlo. Non esiste più. D’ora in poi chiamatemi Sorella. Sono stata l’ultima donna ad andare alla ricerca di Carhullan. Era un ottobre fradicio quando partii. In città iniziavano a cadere le foglie e il terreno era ricoperto di una poltiglia giallastra. Sulle regioni del Nord si abbattevano gli ultimi temporali e acquazzoni. L’estate era ormai alla fine, e pareva che nell’atmosfera si stesse aprendo una breccia, da cui alla notte e al mattino filtrava aria un po’ più fresca. Era un sollievo non svegliarsi più sudati sotto le lenzuola della nostra stanza all’interno degli alloggi comuni, non uscire più da un incubo rovente con un velo umido e lattiginoso sul petto. Ho sempre dormito meglio d’inverno, mi sembra che il mio battito vada più lento. Era come se il fresco purificasse anche la città. La sera, quando le nuvole si diradavano e il caldo si attenuava, la puzza di fermentazione che proveniva dalla raffineria e dagli impianti per la produzione di combustibile tendeva a


disperdersi. Dalla Riorganizzazione Sociale in poi, l’umidità estiva durava sempre di più e la stagione fredda era confinata in un periodo sempre più ridotto dell’anno. Pressati l’uno sull’altro come pesci in un affumicatore, eravamo costantemente immersi nei fumi della combustione della colza e delle sabbie bituminose. L’abbassamento della temperatura mi aveva dato una sensazione di frenesia, una lucidità superiore all’ansia e alla consapevolezza dei rischi che avrei corso. Era tonificante. Il freddo mi faceva tornare in mente la mia infanzia. All’epoca il clima era più definito, differenziato. Alcuni anziani alla fabbrica in cui lavoravo ripetevano che di tutte le tradizioni britanniche che erano andate perdute quella del tempo era la più triste. Come se fossimo stati noi a scegliere quel clima subtropicale con una specie di referendum. Ricordo ancora il picchiettio ghiacciato della grandine sulla faccia, in marzo, mentre aspettavo l’autobus che mi portava a scuola; e le bufere autunnali, che facevano sbattere e ondeggiare qualunque cosa. Il gelo di gennaio che ti entrava nelle ossa, le mani e i piedi intorpiditi sotto strati di lana. Da ragazzi non si ha paura del possibile, non si immagina che il mondo possa andare in pezzi o che nell’arco della propria vita accadrà qualcosa di terribile. Persino la pioggia è diversa, adesso: è imprevedibile e violenta, non è la pioggerellina grigia delle vecchie cartoline, delle barzellette, dei servizi del telegiornale. È una pioggia ferita. Sulle alture la neve cade di rado, anche se la gente in città ha ancora l’abitudine di cercarla con lo sguardo. Ero diretta in un luogo lontano, a una quota elevata, e una parte di me sperava che, se vi fossi rimasta a lungo, avrei rivisto i cumuli bianchi. Partii all’alba per uscire da Rith senza che nessuno se ne


accorgesse. Con me avevo uno zaino abbastanza leggero per affrontare una lunga distanza e salire sui monti. Con me non avevo molto: vestiti, scarponi, del cibo in scatola, fette biscottate, una borraccia e un kit di pronto soccorso nel caso fosse possibile togliermi il regolatore, anche se non avevo la minima idea di come si potesse fare. Avevo anche un vecchio fucile della Seconda guerra mondiale, infilato tra i maglioni e gli abiti impermeabili; la sua canna mozza sfregava contro il lembo di tessuto che chiudeva lo zaino. L’idea era di usarlo come merce di scambio una volta arrivata a Carhullan. La notte prima della partenza avevo nascosto lo zaino in un vicolo dietro al nostro palazzo, per poter scendere le scale senza impedimenti e senza urtare o sfregare contro le pareti. Lo avevo sistemato in un punto buio e asciutto, una nicchia dietro la camera principale del serbatoio dell’acqua piovana, mentre le famiglie negli altri alloggi erano a cena – e prima che mio marito tornasse dal suo turno – assicurandomi con un bastone che non ci fossero tane di topo. Di primo mattino scivolai fuori dal letto senza svegliare Andrew e mi vestii nel bagno comune, cercando di non fare rumore. Nella tasca dei pantaloni avevo infilato un sacchetto di plastica dove mettere tutto ciò che poteva servirmi. Sulla mensola della famiglia della stanza accanto alla mia c’era una saponetta ancora da scartare. La feci cadere nel sacchetto insieme al dentifricio, al deodorante, a un rasoio e a qualche lametta. Esitai un istante davanti all’armadietto delle medicine dei miei vicini, poi lo aprii. C’erano delle aspirine, una confezione di assorbenti e una bustina di un medicinale in polvere contro la cistite scaduto da un bel po’. Li raccolsi. Poi mi incamminai lungo il orridoio e giù per le scale.


Mi fermai un paio di minuti fuori dal palazzo per essere certa che Andrew non mi avesse sentito. Cercai di mantenere la calma; il cuore pompava fortissimo il sangue nel petto. Avvertivo il battito fin nella punta delle dita. Mi dissi che sarebbe filato tutto liscio. Era un mese che mi allenavo a svegliarmi presto e provavo la partenza. Ero sempre riuscita a sgattaiolare via in silenzio e senza correre rischi: giravo per la città buia, stando attenta a evitare le zone in cui vagavano i cani randagi, poi tornavo a casa. Ma stavolta non era un giro a vuoto. Inspirai a fondo, buttai fuori l’aria e aspettai ancora. Ci mancava solo che Andrew mi scoprisse, si mettesse a discutere e mi desse della pazza svegliando tutti. Ormai eravamo ai ferri corti, pieni di risentimento l’uno verso l’altra, e a malapena ci rivolgevamo la parola, ma non mi avrebbe mai permesso di allontanarmi dalle zone ufficiali con uno zaino in spalla. Ero obbligata a stare in quella casa, lo sapeva lui e lo sapevo io. Non erano contemplate altre opzioni. Se Andrew mi avesse scoperto, mi avrebbe trascinato di sopra, oppure mi avrebbe bloccato in mezzo alla strada e io avrei cercato di liberarmi. All’arrivo di un sorvegliante dell’Autorità, si sarebbe forse inventato una scusa per il mio comportamento, per esempio che ero sballata o che avevo avuto un incubo. Mi avrebbe detto di portare pazienza, che ora le cose andavano male ma ce l’avremmo fatta, e che ci saremmo potuti separare non appena la situazione fosse stata meno tesa e pericolosa. Mi appoggiai al muro del palazzo e mi misi in ascolto, aspettandomi di sentire i suoi passi un’ultima volta. L’unico rumore che proveniva dall’alto era il ronzio bizzoso del contatore elettrico in standby. Sollevai lo sguardo. Il cielo era di un marrone grigiastro bituminoso, simile al colore dell’olio


di scisto che si rivoltava nelle vasche della raffineria in cui lavorava Andrew. C’era una chiazza bianca di luna, un’ulcera frastagliata e opaca nel tessuto delle nuvole. A Rith le luci erano ancora tutte spente, e non si sarebbero accese fino alle sei, quando veniva distribuita l’elettricità e si potevano scaldare l’acqua e il cibo, guardare le ultime notizie con i bollettini dai fronti di guerra e seguire le estrazioni della lotteria. Secondo i miei piani, a quel punto sarei già stata lontana. Dopo qualche minuto andai nel vicolo a recuperare lo zaino. Dovevo sbrigarmi, senza pensare troppo. Di solito a quell’ora la cittadina era morta, ma era comunque possibile imbattersi in un’autopattuglia dell’Autorità. Il solo pensiero mi faceva star male: non avrei avuto alcuna spiegazione plausibile da dare. Non volevo riflettere su ciò che stavo facendo, con il rischio di vacillare. Anche se ero sicura che non sarebbe successo, non dopo le ultime settimane. Attraversai la città tenendomi lontana dagli alloggi comuni; passai davanti al vecchio centro commerciale con le finestre sbarrate da assi di legno e al capannone delle turbine in cui da anni erano accatastati gli involucri metallici in attesa di essere spediti. Le strade erano deserte, tutto era silenzioso. Solo la superficie dei vecchi mattoni rossi delle case, i tetti di ardesia e l’asfalto riflettevano un po’ di luce, restituendo una versione spettrale e antiquata della città. Era difficile immaginare la quantità di persone dietro a quei muri, costrette a stare in due o tre per stanza; alcune dormivano, altre erano sveglie e parlavano a bassa voce per non disturbare le altre famiglie. Alcuni piangevano e venivano consolati o ignorati; altri, incuranti che qualcuno potesse sentirli attraverso le pareti, respingevano il loro corpo dolente a mano a mano che gli effetti dell’efedrina da quattro soldi iniziavano a svanire. Tutte le volte che mi


ero esercitata per la partenza su quelle albe mi era sembrato aleggiasse un’atmosfera di sottrazione, come se vi fosse stato un abbattimento selettivo e non un’aggregazione della popolazione. In fondo a ogni fila di alloggi si intravedevano le sagome dei contatori, piccole cisti ronzanti progettate per segnare il flusso di energia delle cellule fotovoltaiche ma che ora venivano utilizzate per regolare i consumi della vecchia rete elettrica. Dopo la Riorganizzazione c’erano stati pochi miglioramenti. Il piano decennale di ripresa si stava trasformando in un mito privo di speranza. Era difficile non guardarmi alle spalle, lungo la via percorsa, per controllare se qualcuno mi stesse seguendo, o anche solo osservando. Mi costrinsi a non girarmi. Mi dissi che, se volevo proseguire, il mio sguardo doveva avere un’unica direzione: in avanti. Si sentì un lieve crepitio in cielo e a ovest il fragore di un tuono. Di lì a poco sarebbe piovuto e mi sarei dovuta fermare per indossare gli abiti impermeabili, ma finché ero ancora dentro il perimetro della città non potevo permettermi una sosta. Magari più tardi, una volta lontana dal centro abitato, accaldata per la camminata, mi sarei spogliata: tanto mi sarei asciugata più in fretta che non i vestiti. Erano anni che non uscivo da Rith. Nessun civile l’aveva più lasciata, se non per essere condotto in un centro di detenzione. Non era permesso passare da una zona all’altra, il registro obbligava le persone a restare nelle aree in cui si trovavano all’epoca del collasso. Solo gli agenti governativi e l’Autorità avevano la necessità e i mezzi per viaggiare, e di solito si spostavano in treno. Ero nata lì, e i dintorni mi erano familiari: le stradine scoscese e i tetti ammassati, Beacon Hill e, di fronte, su


due collinette gemelle, il castello. Proseguii lungo il vecchio cavalcavia dell’autostrada; sotto c’erano cumuli di rottami e spazzatura, e si sentiva il fruscio degli animali. Oltre il confine dell’abitato, più in basso, le strade erano andate in malora. Erano molto peggio di quanto avessi immaginato. Dopo anni di abbandono erano sprofondate e piene di buche; tratti interi erano stati spazzati via dalle inondazioni. Erano cedevoli come ghiaia e in certi punti c’erano piccoli crateri pieni di acqua piovana: in uno inciampai, inzuppandomi i pantaloni fino alle ginocchia. La gente in fabbrica e alle riunioni negli alloggi aveva ragione: niente veniva più riparato, a eccezione delle arterie principali di cui si serviva l’Autorità. Dove riuscivo correvo, stando bene attenta a non cadere e a non slogarmi una caviglia, cercando l’andatura giusta per una giornata che si prospettava lunga e difficile. Dopo mezz’ora raggiunsi il pendio su cui si trovava il casello bianco. Le finestre erano tutte rotte e il tetto spiovente aveva ceduto da un lato. Durante una lezione di storia locale avevo imparato che era stato incendiato due volte dagli Scozzesi, e poi ricostruito. Adesso era di nuovo in rovina. I proprietari dovevano essersi trasferiti a Rith da un bel pezzo, insieme a tutti coloro che risiedevano fuori dal confine. Poco più avanti, giù dalla collina, c’era il vecchio ponte stradale di Yanwath, ancora intatto. Prima del divieto di spostarsi, lo avevo attraversato parecchie volte in macchina. Il semaforo che un tempo ne regolava il traffico era rotto; le luci erano nere di sporcizia e il palo si era piegato sulla base di cemento. Nel punto in cui la strada aveva ceduto, subito prima di risalire verso la spalla del ponte, si erano formate pozze d’acqua e mulinelli dentro cui galleggiavano detriti indistinguibili, forse pezzi di intonaco delle case situate a


monte. Guadai le pozze, mi fermai al centro del ponte e mi sporsi dal parapetto. Il fiume Eden, gonfio e marrone, scorreva a una velocità spaventosa. Nella semioscurità riuscii a intravederne il movimento impetuoso lungo le rive, il risucchio biancastro delle creste spumose e dei vortici. Con le piogge aveva rotto gli argini e si era riversato nei fossi e nei giardini su entrambe le sponde. Sentivo lo scricchiolio dei rami più bassi degli alberi che venivano spogliati delle loro foglie. L’acqua arrivava fino alle finestre dei cottage vicini al ponte. Si sentiva un forte odore di limo, di malta e di stoffa bagnata: il tipico odore delle case inondate. Il fiume che ricopre di fanghiglia le pareti, che fa marcire tende e tappeti. Lo stesso odore con cui mi ero svegliata più di dieci anni fa, quando scendendo le scale avevo trovato la casa piena di rifiuti e liquami. La strada proseguiva attraverso un paesino, ormai disabitato, e si inoltrava nelle terre selvagge e abbandonate di quello che un tempo era un parco nazionale, il luogo che la generazione di mio padre chiamava Lake District. Il veicolo comparve verso mezzogiorno. Stava diluviando. Sulle prime pensai che fosse solo il rumore della pioggia scrosciante o l’acqua che scorreva nei canali sotto la strada, poi sentii cambiare le marce. Mi spostai sul bordo della carreggiata e mi girai, pronta ad acquattarmi dietro un muretto, aspettandomi di vedere la sagoma blu scuro di un’autopattuglia. Invece, sull’asfalto dissestato, si stava avvicinando lentamente un furgoncino bianco, civile. Le sospensioni facevano un gran rumore, come se fossero allentate, e sembrava che la carrozzeria fosse rialzata rispetto al telaio. Il veicolo ondeggiava con indolenza sui dossi e sul-


le buche, i finestrini erano neri di polvere e pieni di baccelli di piante e foglie cadute durante l’ultimo acquazzone. Dal tubo di scappamento si alzava uno sbuffo di fumo grasso e marrone. Il furgone mi superò, rallentò e si fermò. Mi avvicinai nervosa alla portiera dalla parte del guidatore; il vetro si abbassò cigolando. «Dove sei diretta, ragazza?» L’uomo aveva il volto arrossato, simile a un pezzo di vetro molle appena estratto da una fornace. Mi squadrò con i suoi occhi chiari. Ero in condizioni pietose: avevo i capelli fradici e la vecchia canottiera bianca che indossavo era zuppa e mi stava appiccicata alla pelle. Incurvai le spalle in avanti e mi coprii il seno con le braccia. L’uomo scoppiò a ridere. Aveva i denti marci, segnati lungo il bordo da una patina giallastra, e da una riga color argento intorno alle gengive, molto rivelatrice. «Gran bel posto per un’escursione. Sei l’ultima delle guide Wainwright, eh? O vuoi essere la prima a ritornare sulle cime per piantarci una bandiera? Allora in città le cose devono essere migliorate. Forza, sali, che è meglio.» Esitai. Mi ero ripromessa di evitare ogni contatto lungo la strada e sapevo che le domande potevano portare guai, ma mi facevano male le spalle e i piedi ed era tanto che non mi fermavo a riposare. Girai attorno al furgone da dietro per salire dal lato del passeggero e intanto strizzai la canottiera bagnata. L’uomo si piegò e mi aprì la portiera, come faceva sempre mio padre quando mi portava a scuola. Aveva posato uno straccio lurido sul sedile per tenerlo asciutto. Posai lo zaino sul fondo dell’abitacolo e salii. «Brava ragazza», disse. «Sono passato al momento giusto, eh?» Inserì la marcia e ripartì. Che sensazione strana. Erano anni che non salivo su un’automobile. Avevo consegnato chiavi e documenti, come tutti gli altri, e mi ero dimenti-


cata di come ci si sente al volante, di com’è essere chiusi in uno spazio ristretto eppure liberi di andare ovunque. Guardare l’uomo che abbassava la frizione e azionava il tergicristallo mi sembrava un sogno, un ricordo perduto. All’interno dell’abitacolo c’era un odore forte, acre, di abiti vecchi, di aceto misto a urina; o forse era il tizio a puzzare. Ma non mi lamentai, né provai ad abbassare il finestrino: mi bastava non essere più sotto la pioggia. Sentivo già la pianta dei piedi raggrinzita, nonostante portassi due paia di calze pesanti. Avvertivo un formicolio alle dita, le piegai e le distesi. Non mi sarei mai aspettata di trovare un passaggio. Mi ero allenata per mesi a camminare, quando non ero di turno; le prime volte senza meta, tanto per passare il tempo, e poi con un obiettivo: giravo attorno alla periferia di Rith, salivo fino a Beacon Hill e poi tornavo. Non era vietato passeggiare, sebbene Andrew ritenesse che fosse stupido correre il rischio di imbattersi nei cani randagi che vagavano per le discariche in cerca di cibo. Erano sporchi e malati, diceva; era come invitarli a mordermi. Di tanto in tanto aggredivano qualche passante, ma non avevano mai ammazzato nessuno. Non ero mai riuscita a esercitarmi con lo zaino, sarebbe stato troppo sospetto, e ora il suo peso era un supplizio. Nell’ultima settimana avevo fatto in modo di nutrirmi a dovere: due porzioni di riso invece di una e sardine a colazione, anche se avevo vuotato la dispensa e Andrew ne avrebbe risentito per il resto del mese. Ero in salute e in forma come meglio non avrei potuto. Ma un conto era girare intorno alla città nella luce tenue del mattino e mangiare qualche scatoletta di pesce in più; tutt’altra storia era spingersi fin lì trascinandomi tutto quello che possedevo sulla schiena. Avevo percorso poco più di quindici chilometri ed


ero stremata. Lo zaino era pesantissimo e mi schiacciava la colonna vertebrale. Gli acquazzoni si erano susseguiti per ore, gli orli dei vestiti erano tutti umidi e l’attrito mi irritava la pelle. A ogni passo mi allontanavo sempre di più dalla città, sfidando i miei limiti. Era improbabile che comparisse un veicolo, anzi, era quasi un miracolo, ed ero felice che fosse successo. Il furgone si inclinava e sbandava nelle curve. Il tizio le prendeva larghe per evitare gli ostacoli, le buche e le sterpaglie che invadevano la carreggiata. Mi puntai con entrambe le mani sul sedile per sorreggermi e rimasi in silenzio. Non volevo fare conversazione ed essere costretta a destreggiarmi tra le sue domande, rischiando che riferisse le mie parole a qualcun altro. Di tanto in tanto l’uomo mi guardava e tirava su col naso: ne dedussi che aveva comunque più voglia di parlare che di ascoltare. Aveva l’aria di uno irrequieto, tagliato fuori dal mondo. Forse lavorava lontano dalla zona ufficiale, pensai. «Allora, hanno tolto le restrizioni?» chiese dopo un po’. «Sei la prima persona che vedo da… Dio, non so neanche da quanto. Quando ti ho visto mi è preso un colpo. Ho pensato che questo vinaccio del cazzo mi facesse venire le allucinazioni.» Mi indicò una fiaschetta color argento in uno degli scomparti del cruscotto, e me ne offrì un sorso. Scossi la testa e appoggiai i piedi sullo zaino per evitare che rotolasse di qua e di là mentre il furgone arrancava tra le acque basse di un torrente. Il telaio grattò fortissimo sul fondo sassoso: dal rumore era come se stessimo spalando badilate di ciottoli. L’uomo pestò sulla frizione, scalò le marce e mandò su di giri il motore. Sembravano essere spuntati ovunque nuovi corsi d’acqua montana: fuoriuscivano dai muretti e dai campi. Quando


le gomme ripresero trazione, l’uomo rallentò e mi ripeté la domanda. «Sì, le hanno tolte per me», risposi. Cercai di non destare sospetti e di non dare l’impressione di essere in ansia. Lo squadrai e pensai che, nonostante tutte le sue chiacchiere sulle escursioni, con ogni probabilità doveva aver intuito che qualcosa non quadrava: una donna che vagava da sola, per strada, lontana dalla città, apparentemente senza un modo per tornare indietro. Mi aspettavo che mi mettesse alla prova. Indicò lo zaino. «Hai una tenda lì dentro? Perché non potrai tornare indietro per un po’. Sto andando a Rosgill, poi mi sposto a Blackrigg. Se conosci qualcuno da quelle parti, sei a posto. Magari lo conosco anch’io, io conosco tutti quelli che sono rimasti. Certo, sono solo quattro gatti. Li hanno cacciati quasi tutti quei poveri bastardi, ma non me. Io lavoro al bacino idrico, alla torre dell’acquedotto. Non c’è granché da fare, a parte azionare le chiuse. Ho l’autorizzazione a guidare e una quota prioritaria sul furgone; cioè, è tutto in regola. Faccio la mia parte per la ripresa. Nessuno va molto in giro di questi tempi, solo io quando vado a fare provviste o a prendere qualche tecnico. Uscirò di nuovo fra tre settimane, forse anche di più. Sei stata fortunata che sono passato proprio adesso.» È vero, ero stata fortunata. Se mi avesse accompagnato fino a Rosgill, mi sarei risparmiata quasi venti chilometri di vesciche ai piedi. L’uomo elencò in fretta i nomi di gente del posto che era stata abbastanza testarda da restare, come se potessi offrirmi spontaneamente di conoscerli, poi cominciò a lagnarsi del razionamento di carburante, sempre più rigido, e della mancanza di prodotti freschi. «Il latte a lunga conservazione mi fa schifo», disse. «Sa di sciacquatura


di cazzo, vero? Scusa il linguaggio. Comunque, è quel che ci tocca per aver fregato gli allevatori con tutte quelle sciocchezze sulla centralizzazione della produzione. Adesso che ci servono, sono stati tutti costretti a chiudere.» Lo lasciai parlare, e intanto cercavo di tenere la mente sgombra e di restare lucida. In origine, il mio piano consisteva nel partire da Rith il più presto possibile e fare tutta la strada a piedi. Se avessi mantenuto una buona andatura e non mi fossi fermata troppo a lungo a riposare, entro il tramonto sarei stata abbastanza vicina alla meta. Avevo consultato una vecchia cartina dell’Ordnance Survey, che Andrew teneva in una delle scatole sotto al letto, e mi era sembrato che si potesse fare in un giorno, al massimo un giorno e mezzo, nonostante le curve di livello indicassero che nell’ultimo tratto il terreno era piuttosto scosceso Arrivare alla fattoria sarebbe stata una sofferenza, ma ne sarebbe valsa la pena. Una volta lì sarebbe andato tutto bene, ci avrebbero pensato le donne. In tutte quelle settimane passate a pianificare non avevo nemmeno contemplato la possibilità che non ci fossero più. O, peggio, che potessero cacciarmi. Avevo evitato pensieri simili, nel timore che potessero portarmi fuoristrada. Giorno dopo giorno era la speranza a nutrirmi, come mai avrebbe potuto fare il cibo in scatola importato. Ma la verità era che non potevo essere per niente sicura dell’accoglienza che mi sarebbe stata riservata a Carhullan, né di cosa o di chi vi avrei trovato. Tuttavia non ero disposta a credere che lì non ci fosse più nessuno, che avessero rinunciato. Se mi fossi lasciata andare a pensieri simili, non sarei mai partita. Erano almeno cinque anni che non venivano diffusi rapporti sullo stato dell’agricoltura. L’Autorità non aveva alcun interesse a pubblicarli. Le loro circolari non menzionavano


mai quell’altra metà del paesaggio, l’altra metà della Gran Bretagna. Ogni tanto alla periferia di Rith faceva la sua comparsa qualche irriducibile a cavallo di un pony, su una moto customizzata o a piedi, ma solo per vedere quali progressi ci fossero stati, a contemplare le fabbriche di Nuovo Carburante, la raffineria di petrolio Uncon, o a elemosinare antibiotici. A volte facevano scambi al mercato nero; e capitava che venissero a riferire di una morte, di una sepoltura. Per chi stava al comando non erano una grossa preoccupazione: chiunque non avesse partecipato al censimento non era stato segnato nei registri. Chiunque vivesse al di fuori dei settori designati veniva considerato autonomo, uno straniero, e non era più tenuto in considerazione. Aveva scelto di non partecipare alla ripresa, e dunque non faceva più parte della nazione. L’Autorità definiva queste persone, semplicemente, Non Ufficiali. «Non fraintendermi, io non li sopportavo quei turisti», riprese l’uomo, «ma adesso è tutto morto. Avevamo un forte senso di comunità e adesso non c’è più niente. Non c’è vita, ci sono solo conigli e quei cervi del cavolo. Io sono uno che sta bene in mezzo alla gente.» Mi squadrò di nuovo. Mi chinai in avanti e aprii lo zaino, da cui tirai fuori con cautela una maglia. La infilai sopra la canottiera bagnata, anche se avrei preferito toglierla prima. «Oh, perché non mi hai detto che avevi freddo? Il riscaldamento funziona.» Azionò la ventola sul cruscotto e subito avvertii un’ondata di calore stantio sulla faccia e sugli stinchi. «Non che vorrei vivere in città», riprese lui. «Non la reggo, soprattutto adesso che è diventata una specie di ghetto del cazzo. Tutte quelle regole… E poi i parassiti. È una presa in giro. Chi l’avrebbe mai detto che saremmo finiti come un Paese del terzo mondo? Sono contento del mio lavoro


qua. Ho un sacco di spazio e aria pulita. Sono padrone di me stesso.» Annuii, e lui mi scrutò di nuovo. «Senti, non fare stupidaggini quando arriviamo», aggiunse, «altrimenti sarò costretto a scaricarti. Anzi, dammi il tuo numero di identificazione, non si sa mai. Scrivimelo, magari.» Annuii di nuovo ma non dissi nulla, e guardai fuori dal finestrino. Riprese a parlare per colmare il mio silenzio. «È bello rivedere un turista. Le cose devono andare decisamente meglio. Qua non c’è mai anima viva, specialmente ora che i pub hanno chiuso. Io poi non sopporto i telegiornali, raccontano solo balle. Loro pensano che non abbiamo capito, che non ci rendiamo conto del casino che c’è. Sia chiaro, io sostengo i nostri soldati al cento per cento, e penso che il Re abbia due palle grosse così, ma insomma, che senso ha?» Fece un sospiro. «Sai, ci si dimentica di com’è parlare normalmente con le persone. Ci si dimentica di un sacco di cose.» L’aria all’interno dell’abitacolo si fece soffocante. Un rivolo di sudore mi correva lungo la schiena, o forse era pioggia. Ogni volta che il tizio alzava i gomiti e si chinava sul volante sentivo puzza di carne frolla. Aprì appena il finestrino dalla sua parte. «Non mi hai detto dove vuoi che ti lasci. Ascolta, se ti va puoi restare un po’ con me prima di proseguire per i monti; mangi qualcosa, ti riposi un po’… Ho appena preso della lonza essiccata.» Imitando un accento americano disse: «Viene dai nostri amichetti cristiani degli States». Scoppiò in una risata beffarda e scosse la testa. Avvertivo il suo sguardo sulle gambe, sulle cosce bagnate. «Ehi, senti un po’, ti dispiace se ti faccio una domanda? Stanno ancora… insomma… sorteggiando le donne per evitare la sovrappopolazione?» Rise di nuovo, illuminandosi in viso. «È l’unica cosa buona di tutta questa faccenda. Siamo tornati all’epoca dell’amore libero. Eh, sì.» Strinse forte il volante.


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