La terza esistenza di Joseph Kerkhoven

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1. Quando, in un tragico giorno dell’autunno 1929, Joseph Kerkhoven ebbe toccato il fondo della disperazione per aver scoperto che la sua diletta moglie lo aveva tradito col suo giovane allievo ed amico Etzel Andergast, nel quale egli riponeva la più assoluta fiducia, al primo momento non gli parve possibile di poter continuare la sua abituale esistenza. La scossa era stata tanto più crudele perché, da parecchi anni, egli si credeva al riparo dai colpi del destino. Oppresso quotidianamente dall’infinita miseria umana, a poco a poco aveva dimenticato se stesso. Nel suo programma, non aveva preveduto che la sventura potesse un giorno colpirlo ed abbatterlo. La sorte era divenuta per lui una nozione astratta, e questa idea gli aveva ispirato un’incrollabile fermezza, incrollabile e illusoria, se n’era poi accorto; come se la privata disgrazia, le sofferenze personali, il dolore individuale per lui non fossero più esistiti. Dedicandosi corpo e anima ai suoi malati, Kerkhoven si era estraniato da se stesso al punto di non essere più mosso se non da impulsi esteriori. Aveva guidato così a lungo il destino degli altri, da non sapere più che cosa si prova quando si cade sotto le ruote. Ed ecco che aveva l’occasione di riflettere sulla differenza che c’è tra una ferita che si cura come medico e una piaga in cui scorre tutto il sangue del proprio cuore.


2. Nel momento stesso della catastrofe, Kerkhoven si accorse che i legami che lo univano a Marie toccavano le radici del proprio essere, come se il suo amore per lei rimontasse a un’esistenza anteriore e fino allora egli non se ne fosse accorto. Ma non è forse un oblio tra i più frequenti, questo, di cui gli uomini si rendono colpevoli? Bisognava, per ciò solo, credersi un delinquente? Occorre adattarsi alle circostanze e considerare i fatti della vita come tante conseguenze del nostro proprio carattere. Pur tuttavia, se durante i primi giorni che seguirono al terribile colpo egli si fosse trovato solo, forse tutto sarebbe terminato in modo tragico. Certo, egli non avrebbe attentato alla sua vita: troppo fermi erano il suo istinto di conservazione e il suo giudizio; ma certamente sarebbe caduto in preda a una irrimediabile depressione morale. C’era però un seguito di domande che lo riportavano subito col pensiero a Marie: come continuare a vivere? come sopravvivere a una disgrazia simile, a un tradimento simile, a un simile crollo della fiducia? Egli era come un uomo che durante una corsa ha perduto il compagno e torna spaventato sui propri passi per cercarlo, pur sapendo che l’altro l’ha attirato in un agguato. Per di più, egli era medico: doveva offrire il suo soccorso dimenticando se stesso, poiché l’immagine che gli offriva Marie era quella d’una immensa confusione.

3. Non intendeva giudicare: voleva sapere. In un primo tempo fu torturato dal desiderio di sapere in che modo e in qual momento ella si era smarrita. Questo desiderio, preludio d’un funesto conflitto interiore, dimostra fino a che punto Kerkhoven fosse


sconcertato, e getta una viva luce sullo stato morale di quest’uomo che, in altre circostanze, avrebbe pensato a irrigidirsi moralmente. E Marie, dapprima sconvolta fino in fondo al cuore, si sentì sollevata, fors’anche riscattata dalla confessione che aveva dovuto fare a suo marito. Doveva liberarsi del suo fardello per non morir di vergogna, d’amarezza, di rimorsi laceranti e di disperazione, e, cosa terribile, di una nostalgica aspirazione verso colui che l’aveva lasciata ed era fuggito chi sa dove. Ella non si confessa al marito con la crudeltà d’una donna che vuol castigarsi da sé, ma all’amico, al solo uomo capace di comprendere quanto è avvenuto. Con l’ingenuità propria di tutte le anime malate, gli chiede di non giudicarla, di astrarre da se stesso e dal proprio dolore, perché ella possa guardarlo in faccia e, con una franca confessione, liberare il suo cuore di ciò che lo tormenta e l’opprime. È colpevole, infinitamente colpevole; ma perché possa riconoscere il proprio fallo, è necessario che egli non la condanni. Non è più la Marie che egli conosceva o che aveva creduto di conoscere: è una donna che ha vissuto nella propria carne e nel proprio sangue un’esperienza indimenticabile, ma che non intende assolutamente comunicare. Ella è staccata dalla propria persona. Tu puoi agire con me come vuoi, sembra che dica, puoi scacciarmi, togliermi i figli, chiamarmi bugiarda e sciagurata: sì, sì, lo puoi liberamente, ma in compenso quello che ho sentito nella mia carne non lo rivelerò mai. Kerkhoven si trova di fronte a un enigma. Egli crede di avere una certa conoscenza delle regioni tenebrose dell’anima frequentate dai demoni, ma non può spiegare a se stesso ciò che avviene in Marie. Quello che lo rende così disperato è appunto l’amorosa sommessione di lei, l’invisibile cordone ombelicale che li lega l’uno all’altro. «Marie è caduta troppo in basso», egli pensa, «ed io non posso discendere fino a lei». A un tratto egli non è più cosciente della propria caduta, perché il potersi chinare su Marie


è per lui una consolazione. Ed ella si presta a quel gioco sottile, e a mani giunte lo supplica di rialzarla. Ma Kerkhoven non ne ha la forza, per lo meno non l’ha ancora. Vuol sapere, ha bisogno di saper tutto. Nella conoscenza, risiede una complicità redentrice.

4. Ora Marie si astiene dal pronunciare la minima parola che sia di natura tale da dare a Kerkhoven l’impressione di una confessione. Non si è dunque accorto che nel matrimonio lei era isolata fino al punto di aver dimenticato che aveva un compagno? Non ha veduto ch’ella lo seguiva dappertutto come l’ombra sua stessa, sperando ch’egli si sarebbe di nuovo interessato di lei? Non ha notato ch’ella ha pazientato da un mese all’altro, da un anno all’altro, e che quel bisogno insoddisfatto ha finito per sconvolgerle l’anima? Non ha veramente nulla presentito? Ma dov’era egli dunque, mio Dio? Mille volte Marie si è fatta questa domanda; poi ha rimproverato a se stessa le sue esigenze e il suo egoismo, ricordando la grande missione di Kerkhoven, la sua professione fatta tutta di abnegazione, in modo che di lui restava solo un nome e una funzione, in modo che nella sua casa egli non era nulla più di un ospite, di cui si dovevano preparare i pasti, rifare il letto, e che, sempre pronto a prestar le sue cure ad ogni nuovo arrivato, anche all’essere più indegno, non s’accorgeva che qualcuno si consumava accanto a lui. Com’era possibile, questo? Kerkhoven non può negare che le cose siano andate così. Era tanto sicuro di Marie da considerarla un mobile che resta invariabilmente al proprio posto e del quale non ci si deve occupare. Il rimprovero che gli fa Marie è dunque perfettamente giusto. Egli si rende conto che, in ogni associazione umana, è un imperdonabile errore credere che gli altri non possano cambiare. Ma


egli credeva avere il diritto di chiedere le circostanze attenuanti. La sua vita, austera, dedicata interamente agli ammalati, e anche le forze delle cose, lo avevano costretto a fissare un limite ai suoi doveri di sposo e di padre. Deplorevole illusione, essersi immaginato di avere l’assentimento e l’appoggio di Marie, aver creduto ch’ella fosse disposta a rinunciare alla sua vita privata e alla sua felicità personale!

5. Per quanto si sia sforzato di attenuare la sua accusa contro Marie, Kerkhoven non ha potuto celarne completamente l’amarezza. A che i riguardi, se ogni parola significa: «Tu mi hai tradito»?… Da questo muto rimprovero Marie si sente schiacciata. E se il rimprovero fosse fondato, ella non potrebbe mai più espiare. Ma lei ha lottato fino all’ultimo momento contro quella passione. «Tradimento, Joseph? Ah, se tu sapessi!» «Ebbene, se sapessi?» «Tu non ci sei entrato, e io neppure: il mio amore per te è rimasto qual era.» «È una tua idea. Oggi la cosa ti sembra tale.» «No! Tu eri il nostro genio tutelare, il mio come il suo, e questo fin dal principio, in ogni momento.» «So, so. Ha trovato comodo far di me un’icona per sottrarsi ai suoi doveri umani. Vi sono certi ladri che fanno una preghiera, prima di forzar le serrature. Ma tu, Marie, tu!» Nel primo momento ella non può rispondere. Quello che dice suo marito le pare così assurdo, così contrario al suo solito modo di pensare, che ella lo guarda stupita. Poi, timidamente, gli ricorda la sua lunga attesa. Ella si sforzava di aprirgli gli occhi, ma egli non ha visto nulla. L’ha chiamato in suo aiuto, ma egli è rimasto sordo, e anche le ha mandato Etzel, invece di accorrere in persona: «Hai dimenticato?» Ha dimenticato la lettera in cui ella gli diceva di


non poter più sopportare la solitudine, di volere acanto a sé l’uomo che la sorte le aveva destinato? Non il medico, né i suoi lavori, né la sua celebrità, né l’elemosina di pochi e rari momenti, né la sua fronte preoccupata, né il suo sguardo assente… No, ella lo voleva tutto intero, corpo ed anima. «Joseph, Joseph, hai dunque dimenticato? Non mi sono espressa abbastanza chiaramente? “Vi è qualche cosa in me che mi consuma… Le mie braccia stringono il vuoto, io ardo e le mie labbra si disseccano…” Perdonami se ti ricordo le mie parole: forse esse sembrano enfatiche, ma dicono quello che ho sentito… Era una crisi. E tu, che hai fatto? Tu non ti sei mosso. E in seguito, quando il tuo inviato è venuto… il tuo allievo per… sì, di quale missione l’avevi tu incaricato? Certo, di cambiarmi le idee… Non avevo io il diritto di credere, Joseph, che non volessi essere importunato da me e dal mio amore? Non mi hai spinto tu verso…? Era un delitto credere che tu desiderassi quello che né lui né io avevamo osato immaginare?» Ella freme tutta, da capo a piedi. La sua volubilità ha un carattere chiaramente morboso. Ella lotta per suo marito e per sé. Col viso tra le mani, lo guarda, turbata. Kerkhoven cerca di scostare le dita che si aggrappano alle gote. «Tu avevi i bambini», le dice con sforzo. «Ti credevo una buona madre…» Ella singhiozza così violentemente che il marito ne è spaventato. «La qualità di madre non tiene luogo di tutto il resto», risponde con un breve riso di disperazione. «Tu sai bene quanto me che la maternità è un carcere in cui vien chiusa la donna perché sia al riparo dalle tentazioni. Madre, padrona di casa, massaia, tutto quello che vuoi, ma non si può vivere come una vedova, a trentasette anni e con un uomo di carne e di sangue. E pure dovresti comprenderlo!» Egli comprende fin troppo bene, pur non aspettandosi da lei una franchezza così sprovvista d’ogni artifizio. È come se avesse ricevuto un colpo di mazza sulla testa. A che sarebbe servito dirle: «Fra te e me s’interpongono un centinaio di malati: i loro gridi


di dolore nelle mie orecchie hanno soffocato la tua voce…»? Anche a esserci milioni di malati, davanti a lui giaceva annientato un essere umano che lo aveva inutilmente chiamato e che d’un subito, sulla bilancia del destino, pesava più di un mondo intero.

6. Prima di tutto Kerkhoven deve inculcare in Marie la convinzione che egli ha tempo disponibile per lei, molto tempo, un tempo illimitato. Sospende i consulti, fa dire che è malato, lascia incompleti i suoi lavori, risponde con malagrazia ai telegrammi e alle chiamate telefoniche: in una parola, quello che solo pochi giorni prima gli sembrava irrealizzabile, oggi è un fatto compiuto. Nulla e nessuno lo interessa più di Marie: se, in un caso urgente, s’induce a dar seguito a una chiamata e partire per Berlino, dopo due ore è già di ritorno. Le resta vicino dalla mattina fino a notte avanzata. Se ella lo vede uscire dalla camera, è presa da un gran malessere, con brividi e vertigini, al punto che i denti le battono come sassolini in una scatola e le viscere si contorcono come vermi. A ogni costo ella non deve restar sola. «Ti prego, non lasciarmi!» lo supplica a mani giunte, e lo segue nella camera da letto, nella biblioteca, nel giardino, benché la testa le giri ad ogni passo. Quando Kerkhoven la scongiura di mettersi a letto, ella gli obbedisce solo se le promette di starle vicino. Neppur la notte vuole restar sola. Fa preparare il letto del marito vicino al suo. E non lo lascia con gli occhi. Sente di non doverlo perdere di vista neppure un secondo. Crede che, fin quando ella lo guarda, egli non possa né fare, né pensare, né provare qualche cosa di natura tale da allontanarlo da lei. Teme soprattutto i suoi pensieri segreti. Ella non può più dormire senza sonnifero. Il momento più


atroce è quello del risveglio, ogni mattina. Il risveglio reca con sé l’angoscia, e l’angoscia è una parola che si pronuncia facilmente, ma che pochi veramente conoscono. Per dipingerla, occorre dar mano ai colori violenti. Sul capo strisciano tante zampe di rospo; dalla pelle gocciano filamenti vischiosi che si attorcigliano nel cervello; il cuore è una bestia furiosa; lo stomaco un corpo estraneo che fa soffrire, la testa una massa gelatinosa agitata da movimenti spasmodici; la luce un flagello; odorare e saggiare il cibo rivolta lo stomaco; il cinguettio carezzevole dei bimbi mette alla tortura, e se qualcuno urtasse col piede la spalliera del letto, il paziente potrebbe urlare di dolore. Kerkhoven conosce bene le varie manifestazioni di questa nevrosi, che è stata il suo studio prediletto e di cui ha indicato le diverse fasi con termini nuovi; ma l’esperienza acquisita non gli giova punto, anzi lo paralizza. Pur tuttavia, gli permette di prender conoscenza, a malincuore, di uno scatenamento sessuale rivelato dai nervi esauriti, poiché i nervi hanno memoria, come il cuore che si fa battere artificialmente su un tavolo anatomico serba il ricordo della vita da cui era prima animato. È l’oscillazione del pendolo in altra direzione, le palpitazioni della fiamma che si ripercuotono nel freddo, la volontà che si muta in terrore. La sua chiaroveggenza medica diviene per lui un flagello. Non può impedire a se stesso di evocare una serie d’immagini che suscitano in lui un folle desiderio di uccidere, di affondare un coltello nel cuore di colui che ora non può più figurarsi se non nell’atto di abbracciare Marie. Soltanto quel gesto potrebbe liberarlo e rendergli il riposo morale. Velleità bestiale, impulso spregevole. Ma che potrebbe fare per vincerlo? È una sensazione simile a quella della fame: non può dominarla; è colpito nella ragione, diviene una miserabile creatura. Marie è pronta in ogni momento a rispondere a tutte le sue domande. È il mezzo infallibile di conservarla. Fin che Kerkhoven


è presso di lei, ella può dominare la sua paura. Accetta la sofferenza che le procura quella inquisizione incessante; vi trova anzi una misteriosa dilettazione. Istintivamente indovina che egli non vuol essere risparmiato, e si mostra implacabile: quando ha flagellato abbastanza Kerkhoven con le parole, risuscita col suo desiderio nostalgico le radiose immagini della passata felicità, e ne descrive la seduzione con gli accenti di una ebrezza euforica. Le sue parole interrotte hanno l’incoerenza della febbre. Ora descrive le sofferenze morali e fisiche che le procuravano, da una parte l’obbligo di mentire e di nascondere al marito, e dall’altra le esigenze dispotiche dell’amante; ora non vuol riconoscersi colpevole e si trincera ostinatamente dietro i pretesi diritti della personalità. Non ha appena espresso il suo odio contro l’uomo a cui s’è data con spontaneo slancio, lacerando così più profondamente il cuore di Kerkhoven, che si mette a parlar di lui con selvaggia tenerezza, come di un morto divinizzato. Kerkhoven non riconosce la sua Marie. Non è più la donna che gli ha dato due figliuoli e l’ha seguito nel suo faticoso cammino. Ora ricorda d’improvviso un fatto simile avvenuto sedici anni prima, quando ella si era concessa a un avventuriero senza coscienza. Allora egli aveva capito, poiché aveva precisamente cominciato a capire se stesso. Ma ora ha dinanzi a sé un essere oppresso da un segreto inaccessibile, nascosto dal nero velario della paura. E pur bruciando dal desiderio di scoprire quel segreto, egli deve a ogni costo impedire che il velario si alzi. Situazione impossibile! Egli non è né un medico né un confessore. Invece di guarire, invelenisce le ferite. In lui il sesso è offeso, il maschio umiliato, la bestia scatenata. A quel grado di avvilimento, si sente diminuito nella sua dignità di uomo ed anche nel suo aspetto fisico. Non è quindi da sorprendere se egli si precipita con Marie in quel gorgo d’abiezione.


7. Chi dei due aveva sedotto l’altro? Marie o Etzel? Kerkhoven pensa di dover prima di tutto risolvere tale questione. Ma Marie non vuole aiutarlo. Quel distinguo non ha alcun significato per lei: è stato il maestro, lui stesso, a spingerli l’uno verso l’altro! Il maestro lo sa, il maestro approva: era questa la parola d’ordine e la scusa. Kerkhoven, che non ha l’abitudine di andare in collera, inghiotte il suo furore. Bel maestro, che in fondo non è che uno zimbello! Bella magnanimità, quella che consiste nel lasciarsi cornificare! Marie è spaventata. Che parola grossolana, che idea bassa! L’indipendenza intellettuale e la comprensione medica non sono, dunque, altro che una maschera? Non dimenticare quello che sei, Joseph! Sedotta o no, Marie vorrebbe ch’egli comprendesse com’ella sia stata trascinata, fino a perdere ogni freno morale, dalla dedizione più tenera e più cavalleresca, della quale così poco sospettava il potere seduttorio, da averne avuto coscienza solo dopo la sua caduta. Con la febbrile eccitazione da cui è dominata ogni volta che parla di Andergast, si estende a lungo sulla natura di quel sentimento. E Kerkhoven prova un’impressione analoga a quella che proverebbe un uomo dietro cui passasse qualche cosa d’irreale. Ora Kerkhoven è sempre presente, ha sempre tempo disponibile, non dorme più, nessuno sforzo gli riesce pesante, cerca senza tregua d’indovinare certi stati d’animo, certi desiderii, certe idee… Per colmo di sventura, sente che Marie è ancora incantata di essere stata l’iniziatrice. Kerkhoven approva con la testa. Tutto ciò egli potrebbe comprenderlo di primo acchito; ma gli sembra poi contraddetto da quello ch’essa dice della durezza, della mancanza di riguardi, dell’orgogliosa tirannia del giovane. A quale di queste confessioni egli deve prestar fede? Qual è il vero volto di Marie? Ella


risponde precipitosamente. La follia di Andergast era venuta in seguito, quando già il destino aveva commiste le loro esistenze: tormentato dai rimorsi, e come stregato da una gelosia morbosa, quasi incomprensibile, contro il suo maestro, egli aveva tentato persuaderla di fuggire e di sposarlo. Tale idea era parsa subito assurda a Marie, che si era burlata di lui; ma allora egli l’aveva martirizzata cercando di renderla gelosa con la più sottile perversità, maltrattandola, prima a parole, poi alla lettera. E Marie aveva finito col mettersi in ginocchio, com’ella diceva, per arrendersi a discrezione. Ma in quel momento il ritorno di Kerkhoven mise fine al loro legame. «Che intendi per resa a discrezione?» domanda Kerkhoven stupefatto. «Volevo fare la sua volontà… fuggire con lui. Volevo veramente sposarlo. Ero pazza anch’io.»

8. Marie, la fiera Marie mettersi in ginocchio davanti a un adolescente! Kerkhoven non può scacciare da sé questa visione che l’ossessiona e gli si affonda nel cervello come qualcosa di acuminato. Come è stato possibile? Quale malia è stata messa in atto? È necessario saperlo: ella deve rispondere alle sue domande. Già, durante quel colloquio, egli l’interroga. È tardi, e tutti, tranne loro, dormono nella casa. Marie è seduta in una poltrona del salotto; Kerkhoven, rannicchiato su uno sgabello davanti a lei, ne tiene nella sua la mano ghiacciata. Lei, muta, lo fissa a lungo in volto; poi la spaventosa ebrezza euforica l’invade a un tratto, quella ebrezza che sconvolge tanto i suoi lineamenti da far credere ch’ella reciti una parte. «Non comprendi?» dice. «La forza… la purezza, la grazia in tutto… Non si può descrivere… Sopra tutto la grazia… Si trova così di rado nell’amore… in un uomo… Capisci dunque… quando uno è… così intatto…»


È difficile spiegare perché appunto l’espressione «intatto» l’offenda e lo spaventi tanto. Bisogna però dire che qualsiasi altro termine avrebbe prodotto su di lui lo stesso effetto. Noi abbiamo sulla natura umana concezioni bell’e fatte, sicché certe dichiarazioni inaspettate possono aprire all’improvviso finestre dalle quali una luce accecante piomba su oggetti che nel corso della nostra vita non abbiamo mai scorti. A un tratto vediamo cose di cui avevamo prima soltanto una coscienza vaga. L’uomo che proclama il potere costruttivo dell’immaginazione e che si è sempre sforzato di farne la base del suo metodo curativo, deve ora provare a proprie spese quanto quella facoltà sia indocile e capricciosa, poiché gli dipinge scene che lo feriscono come un inesauribile fiotto d’ingiurie. Deve vedere, e vedere ancora, e veder sempre, e non gli è minimamente possibile sfuggire alle immagini del suo occhio interiore e dimenticare. Egli li vede precipitarsi nelle braccia l’uno dell’altro; li vede guardarsi con occhio avido; li vede colmarsi di carezze che li lasciano insaziati; li vede recarsi agli appuntamenti segreti. Tutte queste visioni, da sole o insieme, lo assediano, lo dileggiano, lo avvelenano, lo soffocano; l’anima sua, il suo cuore, tutto quanto in lui vive s’impregna d’una gelosia furiosa, che si alimenta del passato, che lo rende agitato come un pazzo e avvolge di tenebre il suo spirito.

9. Alla donna non sfugge la gravità della situazione. Ella indovina quello che avviene nel cuore di suo marito: lo conosce più di quanto egli si conosca da se stesso, ne sa interpretare i sentimenti più ascosi, spesso con una sicurezza di visionaria. Potersi appoggiare a lui era stata l’unica speranza nella sua angoscia infinita. La forza di carattere di Kerkhoven, incrollabile come una roccia, da lui così


di frequente dimostrata anche nelle circostanze più critiche, aveva ispirato a Marie una fiducia mistica. Ed ora, a vederlo oscillare e correre dietro ai fantasmi, e cercar di appoggiarsi alle sue fragili spalle, già pieganti sotto la propria croce, il suo turbamento e la sua delusione non avevan limite. Invece di ottenere un aiuto, ella doveva darlo. E quale aiuto? Naturalmente, quello che poteva soffocare il dolore alla sua stessa origine. Ella sentiva che cosa egli desiderasse. L’istinto femminile era in lei tanto sviluppato che, nonostante l’esaurimento dei sensi e il silenzio mortale di qualsiasi desiderio erotico, ella sentiva il ritmo disordinato che agitava il cuore del marito, quel desiderio ardente di affermarsi come maschio: desiderio che, quando non è calmato, porta a un indebolimento della coscienza di sé e attacca alla radice l’essere sessuale. In Marie non si trattava di amore fisico; il suo sangue era calmo come l’acqua di un pozzo. Ma poteva darsi soltanto all’amico, al compagno con cui si può tutto dividere, e guarirlo della sua funesta tensione a forza d’ingegnosa abnegazione. La simulazione, che a questo scopo doveva mettere in atto, non le costava grandi sforzi: come donna, ella non aveva l’uguale in tal gioco, al quale pochi uomini non si lasciano prendere. Ma quell’eroica risoluzione non fu soltanto vana; anzi essa aggravò il male. Avvenne ciò che avviene sempre a una volontà cieca, se essa fida in una facoltà che il corpo le nega. Lo scopo paralizzò la funzione. Ne risultò una disfatta sull’altra. Ora Kerkhoven, come marito, era definitivamente vinto, pur non volendone convenire, e nella sua impotenza intravvide un’uscita: la morte. Somigliava a un lottatore che, preparandosi a una partita mentre ha un forte attacco d’influenza, vedesse nella febbre da cui è preso una particolare attestazione di essere invincibile. Cosa atroce: egli non poteva disfarsi dell’idea di doversi misurare con un avversario da cui si credeva spiato e della cui forza, nell’estrema irritazione che


gli producevano le allusioni di Marie, si formava un’idea fantastica. Lui, un anziano di quarantanove anni, voleva provocare un giovane di ventidue e dimostrarsi moralmente superiore a quel rivale che era vilmente fuggito senza lasciar traccia di sé, poiché così egli lo vedeva, così lo giudicava. Ma per quanto si sforzasse di abbassare e sfigurare il carattere del suo antico allievo, non poteva arrivare a dominarsi, né a cancellarne l’impronta nella memoria e nei sensi di Marie. Era la sua idea fissa, come se Marie non potesse accorgersi della sostituzione, come se l’esperimento passionale della carne di lei potesse proseguire senz’altro con lui, il marito, allo stesso modo che si prosegue una partita a carte con un nuovo compagno, e come se Marie, non solo vi si fosse prestata, ma non avesse desiderato nulla di meglio. Errore ancor più pietoso del precedente. Per Marie fu una tortura indicibile. Pure, ella la sopportò. Cercando di recitare la parte d’una tenera amante, ella non era che un’infermiera. Poiché tutta l’arte delle sue carezze era stata inefficace, ella cercava di consolarlo. Lo stupore e il turbamento di Kerkhoven le laceravano il cuore, il suo polso precipitoso la riempiva d’angoscia: lo abbracciava bisbigliando: «Non essere nervoso, resta tranquillo, sii paziente, il tuo corpo è più savio di te…» Teneva nelle braccia un ragazzetto, un figlio infelice, un fanciullo impazzito, vergognoso, singhiozzante. Impossibile cadere più in basso. Più nulla restava a Kerkhoven delle sue interiori ricchezze, della sua persona e della sua dignità, della sua scienza, della sua attività, della stima del mondo. Svuotato, rovinato, spogliato di tutto. Una sera, nel laboratorio municipale, prese da un recipiente un tubo contenente un veleno fulminante e se lo mise nel taschino. Ma, di ritorno a Lindow, trovò un telegramma del ministero olandese delle Colonie: gli si domandava se poteva recarsi per sei mesi a Giava, a studiarvi una malattia cerebrale endemica che infieriva tra gli indigeni.


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