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CAPRICORNO

Sono nato a Stoke-on-Trent, nelle Midlands Occidentali, in Inghilterra. Stoke è il risultato di circa sei cittadine raggruppatesi nel tempo. Burslem era la peggiore, quindi non potevo che nascere lì. La zona era soprannominata The Potteries1 e la campagna era annerita a causa delle scorie di carbone delle fornaci, che producevano qualsiasi tipo di ceramica, comprese le famose Wedgwood. C’erano orrendi cumuli di scorie lungo tutto il paesaggio a perdita d’occhio e l’aria era impregnata del fumo delle ciminiere. All’epoca in cui il mio capriccioso padre se ne andò, ci eravamo trasferiti a Newcastle, mia madre, mia nonna e io – o meglio, a Newcastle-under-Lyme, che non è troppo lontano da Stoke. Vivemmo lì fino ai miei sei mesi, poi ci spostammo a Madeley, un villaggio davvero carino nei dintorni. Abitavamo proprio di fronte a uno stagno – quasi un laghetto – dove c’erano dei cigni. Era bello, ma decisamente in mezzo ai contadini. Mia madre se la passava male, cercando di mantenerci da sola. Il suo primo lavoro fu di assistente ai tubercolotici, che era un cazzo 1. Soprannome ufficiale di quel distretto dello Staffordshire, famoso per le ceramiche. Da pottery = ceramica, terracotta. [N.d.T.]


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di lavoro di merda perché allora era come lavorare con i malati terminali di cancro, quindi si trattava quasi sempre di assistere pazienti che se ne andavano. C’erano anche bambini nati con la TBC – e pare che abbia visto degli autentici orrori. La TBC fa qualcosa di strano ai cromosomi: mia madre vide neonati con addosso piume rudimentali e uno addirittura con le scaglie. Alla fine lasciò quel lavoro e per un certo periodo fece la bibliotecaria, poi smise di lavorare per un po’. Allora non capivo esattamente a che pressione fosse sottoposta e pensavo che tutto sarebbe sempre andato bene. In seguito fece la barista, ma quello fu dopo che ebbe sposato il mio patrigno. La scuola fu un problema fin dall’inizio. Gli insegnanti e io non la vedevamo allo stesso modo: loro volevano che io imparassi, io non ci pensavo nemmeno. Ero sempre una specie di fottuto buco nero per quanto riguardava la matematica. Cercare di insegnarmi l’algebra era come parlarmi in swahili, così lasciai perdere presto. Pensai che comunque non avrei fatto il matematico, quindi tanto valeva mandare tutto affanculo. Cominciai a marinare la scuola con costanza, e sin dal primo giorno. Il primo episodio che ricordo bene della mia difficile educazione scolastica risale alle elementari. C’era una stupida maestra che voleva insegnare il lavoro a maglia a noi maschietti; probabilmente una femminista, giusto? Avrò avuto circa sette anni, quindi la cosa era davvero senza senso. E questa tizia era pure una vera carogna: si divertiva parecchio a picchiare i bambini. Io non volevo lavorare a maglia perché era roba da checche. A quei tempi c’erano ancora le checche, sapete. Non erano alla guida del Paese, come oggi. Le dissi che non potevo farlo e lei mi colpì. Io dissi ancora che non potevo e dopo un po’ la smise di picchiarmi.


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A essere onesti, però, credo che picchiare un bambino sia una cosa che gli fa bene se lui si comporta male – non se viene picchiato indiscriminatamente, ma solo quando fa qualcosa di sbagliato. La smetterà di comportarsi male se avrà una paura fottuta di un insegnante. Io le prendevo regolarmente: avevamo la punizione della T, cioè la riga a T appesa vicino alla lavagna. L’insegnante si metteva alle nostre spalle e la usava per colpirci alla nuca. In seguito, l’insegnante di fisica cominciò a colpirci con il collo di un alambicco. Quella era una punizione tosta ma io non la provai mai sulla mia pelle perché andavo piuttosto bene in fisica. Voglio dire, fino a quando non lasciai la scuola, per decisione reciproca. Se ti becchi una bella botta dietro a un orecchio che te lo fa fischiare per una mezz’ora, ci pensi prima di fare ancora casino in classe; farai quello che ti dicono. Allora funzionava così, ma adesso non si usa più. Per me e per la mia generazione ha funzionato piuttosto bene perché, a mio modo di vedere, noi eravamo parecchio più svegli di quanto sembrino esserlo le nuove generazioni. A ogni modo, mia mamma si risposò quando avevo dieci anni. Il tizio si chiamava George Willis e lei lo aveva conosciuto tramite mio zio Colin, che era il suo unico fratello. Credo che i due fossero amici sotto le armi (Colin e George, ovviamente…) George aveva giocato a calcio da professionista nei Bolton Wanderers e, come diceva lui, era uno che si era fatto da sé, con una ditta tutta sua che fabbricava scaffali di plastica per le vetrine dei negozi. La ditta andò in rovina circa tre mesi dopo il matrimonio con mia madre. Lui era un fenomeno. Ti faceva spaccare dalle risate: continuavano a beccarlo perché vendeva lavatrici e frigoriferi fregati ai camionisti, ma lui non ci raccontava mai la verità. Diceva di dover


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partire per un viaggio d’affari; una cosa del tipo: «Starò via per un mesetto, cara», e si faceva trenta giorni di galera. Scoprimmo tutto solo un bel po’ di tempo dopo, ma in fin dei conti si dimostrò un tipo a posto. Insieme a lui, naturalmente, arrivarono i due bambini che aveva avuto da un precedente matrimonio: Patricia e Tony. Io ero il più giovane dei tre e venivo costantemente messo sotto da questi grossi, nuovi parenti acquisiti. Anche i miei rapporti con il mio patrigno erano parecchio tesi, perché per mia madre era come se io fossi un figlio unico. Lei diventava una tigre per difendermi e in quei casi per lui la vita diventava dura. La grande ambizione di Patricia, fra tutte quelle possibili, era di lavorare al Tesoro, e alla fine tutti i suoi sogni si avverarono. Tony oggi vive a Melbourne, in Australia, ed è a capo di qualche divisione nel campo della plastica (non sapevo che la plastica fosse ereditaria!) Se ne andò nella Marina Mercantile per circa dieci anni e non scrisse a casa per quasi venti. Il mio patrigno pensava che fosse morto. Quando mia madre e il mio patrigno si sposarono, ci trasferimmo nella sua casa di Benllech, una località balneare sulla costa di Anglesey. Fu più o meno in quel periodo che cominciarono a chiamarmi Lemmy2 – credo fosse un modo di dire gallese. Andavo veramente nella scuola sbagliata, l’unico ragazzino inglese in mezzo a settecento gallesi – quel nomignolo era una presa in giro, uno scherno, capite? Così sono diventato Lemmy da quando avevo circa dieci anni. Non ho sempre avuto i baffoni però… quelli li ho avuti solo dagli undici anni in poi. 2. Da lemming = pecorone o caprone. [N.d.T.]


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In ogni caso, mi diedi parecchio da fare per riuscire a divertirmi. Ad esempio rubando dell’esplosivo al plastico e ridisegnando la linea costiera di Anglesey. C’era questa impresa di costruzioni che stava ristrutturando le fogne del villaggio. Potevano lavorare solo d’estate perché poi il clima diventava troppo rigido. Così, in settembre od ottobre, quelli fecero le valigie e ammassarono tutto il materiale di scorta in questi gabbiotti prefabbricati. E verso la fine di ottobre, inizio di novembre, io e alcuni amici li scassinammo. Voglio dire, Gesù Cristo, per un ragazzino di dieci o undici anni è come trovare un tesoro nascosto! Trovammo cappelli e tute, nitroglicerina, detonatori e micce, merda meravigliosa di ogni tipo. Collegammo il detonatore alla miccia e li ficcammo nella gelatina esplosiva. Poi scavammo una grossa buca nella sabbia della spiaggia, ci mettemmo dentro il nostro marchingegno, tirammo fuori la miccia e ricoprimmo il tutto. Per finire, ci mettemmo una grossa pietra in cima, accendemmo la miccia e corremmo come razzi. E BUM! la pietra fece un volo di trenta metri. Grande! Più tardi scoprii una folla di gente che se ne stava lì sotto la pioggia a osservare i danni mormorando: «Tu che ne pensi?» «Non saprei: alieni?» Non riesco a immaginare cosa possa aver pensato lo sbirro del paese, perché sentì solo quelle terrificanti esplosioni e, quando arrivò sulla spiaggia, mezza collina era finita in mare. Circa tre chilometri di costa erano cambiate dopo il nostro lavoretto. Un divertimento innocente, non trovate? I ragazzini fanno cose di ogni tipo e, dopotutto, perché no? È il loro lavoro, no? far incazzare i grandi e dar loro una croce da portare; altrimenti a che cosa servirebbero? Naturalmente, questi erano semplici diversivi rispetto al mio


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crescente interesse nei confronti dell’altro sesso. Dovete capire che a quei tempi, negli anni Cinquanta, non esistevano «Playboy» o «Penthouse». Il massimo allora erano le riviste che mostravano cose tipo dei nudisti che giocavano a tennis: «Salute ed Efficienza» e merda simile. Questo vi dà un’idea di che mondo spaventoso fossero gli anni Cinquanta. E c’è chi la definisce l’età dell’innocenza. Fanculo – provate a viverci! La mia educazione sessuale iniziò a un’età molto acerba. Mia madre portò a casa tre zii prima che decidessimo che uno diventasse il Papà. Ma per me quello non fu mai un problema; pensavo che si sentisse sola e vedevo che lavorava tutto il giorno per mantenere me e mia nonna, quindi non mi dava fastidio andarmene a letto un po’ presto. E poi, crescendo in una zona rurale, era facile incappare in gente che lo faceva nei campi. In più c’erano sempre le auto, ovviamente, con i vetri appannati – ma si riusciva sempre a dare un’occhiata a una gamba o una tetta nuda mentre la coppia scivolava dal sedile davanti a quello didietro. A quei tempi andavano di moda quelle gonne con una doppia sottoveste al di sotto, che si riusciva a far sollevare ballando il jive – quindi io danzavo parecchio. Lasciai il ballo quando arrivò il twist perché lo trovavo offensivo: non potevi più toccare la tua compagna! Come puoi apprezzare un ballo simile quando hai appena scoperto le voglie adolescenziali? Avevo bisogno di vicinanza e di calore; di toccare, palpare, dare e ricevere e abbracciare, cose così, capite. Ma fu solo a quattordici anni, quando lavoravo nella scuola di equitazione, che scoprii la mia bramosia e il desiderio per le donne di qualsiasi forma, taglia, età, colore e credo religioso. E idee politiche. Tutta Manchester e tutta Liverpool arrivavano nella nostra


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piccola località balneare ogni estate. Studentesse di college in vacanza venivano a prendere lezioni alla nostra scuola. E ogni anno arrivavano in massa le Girl Guides3 – un’intera squadra, con tende e divise. E in tutto c’erano solamente due Guide istruttrici a sorvegliarle… Ah! Chi volevano prendere in giro? Saremmo arrivati a quelle fighette a costo di dover indossare le mute da sub! E le ragazze ovviamente la pensavano allo stesso modo. Erano ansiose di imparare tanto quanto noi, e insieme imparammo gli uni dalle altre. Credetemi, imparammo fino all’ultima riga. Trovai lavoro alla scuola di equitazione perché mi piacevano i cavalli. Li amo tutt’ora. Era molto divertente perché andare a cavallo eccita le donne. C’è della potenza sessuale nell’andare a cavallo. Le donne preferirebbero cavalcare senza sella, e non per il motivo che sembrerebbe più ovvio. Credo che sia per il piacere di sentire il corpo dell’animale a contatto con la pelle. Tramite la sella non ci riesci, specialmente con una sellatura all’inglese. E poi c’è il fatto che sono animali terribilmente forti. Un cavallo potrebbe fare ciò che vuole di un essere umano, davvero, ma non lo fa perché, a parte una piccola minoranza, non sono animali dal carattere bellicoso. Si arrendono a te. Credo che sia questo dei cavalli che piace alle donne: un essere così forte che si arrende senza combattere, o perlomeno senza cercare di affermare i propri diritti. Non laverà i piatti, ma questo è un piccolo prezzo da pagare. Io ero innamorato di Ann. Era di cinque anni più grande di me, che a quell’età è un solco impossibile da superare. Ricordo ancora il suo aspetto: molto alta, tutta gambe, con un naso un 3. Equivalente femminile inglese dei boy-scout. [N.d.T.]


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po’ strano, ma nel complesso molto attraente. Purtroppo usciva con un tizio veramente bruttissimo. Il che per me era incomprensibile. Una volta li beccai che scopavano in un fienile e me ne andai in punta di piedi bisbigliando: «Gesù Cristo». Ma la storia più divertente su quelle Girl Guides riguardava un mio amico di nome Tommy Lee. Tommy aveva un braccio solo – era un elettricista e una volta aveva messo il dito nel cavo sbagliato e la scossa gli aveva letteralmente bruciato via un braccio all’altezza del bicipite. Avevano dovuto amputarne il resto e suturare all’altezza della spalla. Non fu più lo stesso dopo quell’episodio: stava spesso ad ascoltare voci che sentiva solo lui. Comunque, Tommy aveva un braccio finto che terminava in un guanto nero che lui agganciava alla cintura o si metteva in tasca. Così una sera noi due andammo di soppiatto dalle Girl Guides. Strisciammo sotto alle recinzioni e attraverso i cespugli… ma quando hai quattordici anni non ci fai caso, no? Faresti qualsiasi cosa per un po’ di figa. Finalmente arrivammo a destinazione e io mi infilai in una tenda con la mia tipa, mentre Tommy andava in un’altra con la sua. Poi calò il silenzio, rotto soltanto dal rumore delle molle del lettino. Più tardi mi appisolai un pochino, come fanno tutti, perché ti senti sempre così bene (è per questo che lo faccio spesso!) Ma venni svegliato all’improvviso. «[Whack] Ohi! [Whack] Ohi! [Whack] Ohi! [Whack] Ohi!» Allora sbirciai da sotto la tenda e vidi Tommy, nudo come un verme con i vestiti sotto il suo unico braccio, che correva come un pazzo. Alle calcagna aveva un’istruttrice furiosa che lo picchiava sulla testa con il suo stesso braccio finto! Risi così forte che scoprirono anche me! Non riuscivo a muovermi, tantomeno a scappare,


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ero paralizzato dalle risate. Quella fu una delle scene più comiche che abbia mai visto in tutta la mia vita. La mia iniziale scoperta del sesso fu anteriore a quella del rock ’n’ roll, poiché dovete capire che ai tempi dei primi dieci anni della mia vita il rock ’n’ roll non esisteva neppure. Era tutto Frank Sinatra e Rosemary Clooney e «How Much Is That Doggie in the Window?» – quella rimase in testa alle classifiche per mesi! Vissi in prima persona la nascita del rock ’n’ roll. Per primo sentii Bill Haley: «Razzle Dazze», credo che fosse. Poi arrivarono «Rock Around the Clock» e «See You Later Alligator». I Comets erano una band veramente scarsa, a dire il vero, ma allora erano gli unici. In più, era dura lassù nel Galles – si riusciva a prendere Radio Lussemburgo, ma solo a sprazzi. Andava e veniva e dovevi continuamente girare la manopola per restare sintonizzato. Poi non scoprivi mai cosa stavano suonando perché lo annunciavano solo una volta, all’inizio, e se arrivavi anche solo cinque o sei note dopo l’attacco della canzone non ripetevano mai il nome del tizio che cantava. Mi ci vollero dei mesi per scoprire il titolo di «What Do You Want to Make Those Eyes at Me For?» di Emile Ford and the Checkmates. (Ecco uno che è semplicemente svanito nel nulla. Emile Ford and the Checkmates piazzarono cinque hit in Inghilterra. Erano diventati famosi ma poi ci fu uno scandalo: Ford fu beccato che si faceva pagare da un ragazzino per un autografo e la cosa gli stroncò la carriera. I Checkmates proseguirono da soli per un po’, ma senza fortuna.) Inoltre, se volevate un disco, dovevate ordinarlo e aspettare per un mese perché arrivasse. Il primo 78 giri che mi comprai era di Tommy Steele, la risposta inglese a Elvis Presley, poi presi «Peggy


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Sue» di Buddy Holly. Il primo album intero fu The Buddy Holly Story, che presi subito dopo la sua morte. In verità, riuscii anche a vederlo cantare alla New Brighton Tower. Vedete, queste cose svelano la mia cazzo di età – ho visto Buddy Holly dal vivo! Devo dire che, nonostante ciò, la mia reputazione da strada resta impeccabile! Passò parecchio tempo prima che mi decidessi a comprare un disco di Elvis Presley – il primo che mi comprai fu «Don’t Be Cruel», credo. Il suo stile, il suo look erano grandi, era davvero un tipo unico, ma lo giudicavo inferiore a Buddy Holly e Little Richard. Il problema era che aveva delle B-side davvero merdose. Vedete, gli album a quei tempi erano diversi da oggi: un album poteva essere la raccolta degli ultimi sei singoli più le B-side. Quindi metà degli album di Elvis era spazzatura. Cominciò a fare delle B-side decenti solo con «I Beg of You». Buddy Holly non incise mai un brutto pezzo, per quello che ne so. Un altro dei miei idoli era Eddie Cochran. Lavorava in uno degli studios di Hollywood e, se qualcuno terminava una sessione con un’oretta d’anticipo, lui si precipitava dentro e incideva un disco. In più, si scriveva e si produceva i pezzi da solo. Fu il primo a fare una cosa simile: era un tipo davvero creativo. Avrei dovuto incontrarlo nella seconda parte del suo tour in Gran Bretagna, ma fu proprio durante quel tour che, appena fuori Bristol, perse la vita in un incidente. Ricordo che rimasi costernato. Quella fu un’enorme tragedia per il rock ’n’ roll. Lui e Holly mi avevano fornito l’ispirazione a suonare la chitarra. Decisi di imbracciare la chitarra in parte per la musica, ma le ragazze pesarono almeno per un buon sessanta per cento sulla mia decisione di imparare a suonare. Alla fine dell’anno scolastico ave-


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vo scoperto che la chitarra è una fantastica calamita per la figa. Mi trovavo chiuso in classe per una settimana dopo gli esami senza un cazzo da fare, quando un tizio si portò dietro la chitarra. Non sapeva assolutamente suonare, eppure venne istantaneamente circondato dalle ragazze. Pensai: «Ah, questo sì che sembra divertente!» Mia madre teneva una vecchia chitarra hawaiana appesa alla parete di casa – la suonava da ragazzina mentre suo fratello suonava il banjo. La chitarra hawaiana era stata molto popolare fino a poco tempo prima: erano fatte di lamina arrotondata col manico piatto e i tasti in rilievo. La sua era molto carina, con cesellature in madreperla. Un autentico colpo di fortuna, dunque, non erano in molti ad avere una chitarra in giro per casa nel 1957. Così portai quel dannato aggeggio in classe. Neanch’io la sapevo suonare, ma state certi che venni immediatamente circondato dalle donne. Funzionò davvero, e subito! Quella rimane l’unica cosa che abbia funzionato così istantaneamente in tutta la mia vita. Da lì in poi non mi sono più voltato indietro. Alla fine capii che le ragazze si aspettavano che io la suonassi pure, allora decisi di imparare da solo, il che fu una sofferenza su quella chitarra hawaiana con le corde in rilievo. Quando avevo quindici anni andai in gita scolastica a Parigi e avevo imparato «Rock Around the Clock». La suonai per tre ore ogni sera, nonostante mi fossi quasi segato via un polpastrello con un coltello a serramanico che rifiutava di fare ciò che gli dicevo. Sanguinavo sulla chitarra e le ragazze pensarono che il tutto fosse assolutamente figo. Sapete, come una specie di guerriero Sioux che si avventura nell’erba alta e uccide un orso a mani nude, o qualcosa di simile. Sanguinavo per loro!


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A casa mia madre e il mio patrigno sapevano esattamente a che cosa mirassi. Era piuttosto ovvio – la processione costante di ragazze parlava da sé. Il garage era stato trasformato in spazio abitabile, di cui avevo preso possesso e in cui portavo le ragazze. Il mio patrigno passava spesso e mi beccava sul fatto. Lo fece così tante volte che pensai che fosse un guardone. «Lo sai che cosa stai facendo con quella ragazza?» mi gridava. «Certo che lo so che cosa sto facendo con quella ragazza!» rispondevo io. «Perché, tu come lo fai?» Poco tempo dopo la gita a Parigi venni espulso da scuola. Avevo bigiato con un paio di amici. Saltammo sul treno diretto verso l’altra parte dell’isola per il pomeriggio e rientrammo in tempo per prendere l’autobus che ci riportava a casa. Ma, come volle il caso, alcuni bastardi di un’altra classe ci videro alla stazione e vuotarono il sacco. C’è sempre qualche spione in giro, non è vero? Così mi portarono davanti al preside. Era un vero stronzo, uno scansafatiche. Credo che fosse diventato preside perché era troppo vecchio per fare il magistrato. Per due merdose settimane mi fece andare nel suo ufficio all’intervallo e alla pausa pranzo cercando di piegarmi. «Ti hanno visto due ragazzi della Holyhead al capolinea del treno.» «Non ero io, signore», insistevo. «Non sono mai stato lì.» Fu allora che imparai a mentire. Un’altra cosa che la disciplina ti insegna è mentire, perché se non dici palle sei nella merda. In ogni modo, per tagliar corta una storia troppo lunga da raccontare, decise di darmele con la bacchetta, due per ciascuna mano. Questo accadeva subito dopo il mio incidente col serramanico a


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Parigi, ricordate. Ci avevo messo una vita a cominciare a guarire. Voglio dire, penso che sappiate quanto si sanguina da un taglio del genere – ogni volta che il cuore fa un battito, splash, schizza sangue per tutta la stanza! Devo averne perso una pinta quella volta. Così chiesi al preside: «Posso prenderne quattro su una mano sola, sa, per il mio dito?» Ma no, a lui non andava bene. Se ne restò lì, impassibile, aspettando che la mia mano si alzasse e WHAP! Sangue dappertutto. Poi, come se niente fosse successo, disse: «Alza l’altra mano». «Brutto bastardo!» pensai. Così, quando la bacchetta calò sulla mia mano, la afferrai, gliela strappai e la usai per colpirlo sulla testa. «Credo che scoprirà che la sua presenza non è più gradita qui da noi», disse guardandomi in cagnesco. «Non sarei ritornato comunque», gli dissi io, e a quelle parole me ne andai. Ma aveva ragione lui, io mi tenni a distanza e nessuno venne mai a chiedere conto della mia assenza. Comunque restavano solamente altri sei mesi. Io non dissi nulla ai miei al riguardo: lasciai credere che andavo a scuola tutti i giorni e ritornavo a casa alla sera. Me ne andavo al maneggio e lavoravo lì sulla spiaggia con i cavalli e alla fine mi trovai un paio di lavoretti. Uno era come imbianchino insieme a questo tizio gay, Mister Brownsword (che razza di nome per una checca, assolutamente perfetto!) In ogni caso, non ci provò mai con me. Andava dietro a un mio amico molto carino, Colin Purvis, il che a me andava bene. Lasciavo che se la sbrigasse lui, sapete – «La aiuterà Colin a dipingere qui, signor Brownsword. Io andrò di sopra, va bene?» E Colin borbottava: «Bastardo!»


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Poi lasciammo l’isola per trasferirci in una fattoria a Conwy, lungo la costa del Galles, proprio sulle montagne. Fu allora che imparai a starmene da solo senza problemi. Me ne andavo in giro per i campi con i cani da pastore. Oggi non mi pesa davvero starmene da solo. La gente pensa che sia una cosa strana, ma io lo trovo fantastico. All’incirca in quel periodo, il mio patrigno mi fece entrare in una fabbrica che produceva lavatrici Hotpoint. Ogni operaio lavorava a un singolo pezzo. Io ero uno dei primi della catena: dovevo prendere quattro dadi di ottone e montarli su un pezzo, poi scendeva un macchinario e ci fissava un cuneo di lato. Poi prendevo i pezzi e li gettavo in un cassone. Dovevi farne 15.000 e, quando avevi finito quella partita e cominciavi a provare un senso di soddisfazione per aver portato a termine l’incarico, passava un tizio e se li portava via lasciandoti un contenitore vuoto. Una persona intelligente non può fare un lavoro così. È impossibile, roba da diventar pazzi. Non so come potesse farlo quella gente. Credo che soffocassero la propria intelligenza perché avevano delle responsabilità. Tutti quelli che conoscevo che se ne erano andati alla ricerca di qualcosa di meglio avevano finito col tornare indietro. Io avevo altri progetti per la mia vita. Così mi feci crescere i capelli fino a quando la fabbrica non mi licenziò. E io me ne tenni alla larga. Preferivo morire di fame piuttosto che tornare là dentro. Mi ritengo molto fortunato a essere riuscito a scappare.


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