L’attentatuni

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NOTA DELL’EDITORE

Il 23 maggio 1992 alle 17:58 una carica di oltre 400 kg. di esplosivo fece saltare in aria il tratto dell’autostrada Palermo-Mazzara del Vallo sul quale stavano viaggiando le auto del giudice Giovanni Falcone e della sua scorta. L’esplosione uccise Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. Erano anni che Giovanni Bianconi e Gaetano Savatteri, da cronisti investigativi, seguivano le vicende mafiose, e di fronte allo strazio dell’Italia intera decisero di andare ancora più a fondo. Studiarono gli atti processuali e le intercettazioni, tracciarono le geografie dei poteri occulti e il sistema di relazioni che le reggeva, capirono la cultura che aveva portato a quell’eccidio e persino i caratteri dei protagonisti che l’avevano pianificato. Da questo lavoro nacque L’attentatuni, pubblicato da Baldini & Castoldi nel 1998 e che ripubblichiamo oggi come uno dei libri ancora più completi sulla strage di Capaci, di cui ci restituisce un dietro le quinte straordinario, fatto di mafiosi che tramano nell’ombra e di sbirri che anche alle ombre devono saper dare la caccia, di grandi fatti storici e delle mezze parole che li hanno determinati. L’attentatuni è, insomma, uno dei primi e più efficaci esempi di faction italiana, un classico contemporaneo da rileggere per ricordare e rivivere la nostra storia nazionale. L’editore Marzo 2017


AVVERTENZA DEGLI AUTORI

Le vicende narrate in questo libro sono realmente accadute. Le abbiamo ricostruite sulla base di atti giudiziari e di testimonianze dirette, per le quali ringraziamo le persone interpellate che – con ruoli diversi e da posizioni diverse – le hanno vissute. Non tutti i procedimenti penali scaturiti da questa indagine sono conclusi, e naturalmente non è possibile conoscerne gli esiti finali; noi ci siamo attenuti a ciò che era al vaglio dell’autorità giudiziaria al momento di scrivere. Alcuni appartenenti (o ex appartenenti) a Cosa Nostra protagonisti di questa storia sono stati di recente al centro di episodi di cronaca, anche clamorosi; si tratta di fatti diversi e successivi al periodo qui trattato, che non cambiano – e anzi per certi versi confermano – la natura di quelli del 1992-93. Di alcuni investigatori è stato omesso il cognome, e il nome è stato sostituito con uno di fantasia, su loro richiesta e per ragioni di riservatezza. Siamo grati a tutti coloro che con consigli e suggerimenti ci hanno incoraggiato nel nostro lavoro. Roma, febbraio 1998 G.B. e G.S.


PROLOGO

Il telefonino squillò due minuti dopo le 17. L’uomo rispose all’istante, dall’altra parte una voce maschile: «Pronto, Mario?» «No, ha sbagliato», e la comunicazione si chiuse. Non avevano sbagliato, quel nome era il segnale che l’uomo aspettava: indicava che la Croma blindata del giudice Falcone era uscita dal garage di Palermo e aveva già imboccato l’autostrada per l’aeroporto di Punta Raisi. L’uomo lasciò il casolare dove era in attesa con altre sette persone, salì sulla sua auto – una Lancia Delta verde – e guidò lungo la strada che costeggia la Palermo-Punta Raisi. Arrivato a uno spiazzo dov’erano parcheggiate alcune roulotte, si fermò e spense il motore. Da lì poteva vedere un lungo tratto di autostrada, e ricominciò ad aspettare. Anche le altre persone che si trovavano nel casolare si mossero: due andarono all’aeroporto, altre due scesero sul ciglio dell’autostrada, sistemarono la ricevente sotto il tombino, attivarono l’interruttore e raggiunsero le ultime tre, che s’erano già appostate in cima alla collina, località Raffo Rosso, Comune di Isola delle Femmine. Passarono circa quaranta minuti prima che l’uomo sulla Lancia Delta scorgesse la Croma bianca che percorreva l’autostrada in


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direzione Palermo, in mezzo ad altre due auto blindate. Avviò il motore e partì anche lui verso la città, seguendo il corteo delle blindate dalla strada parallela alla stessa velocità, ottanta chilometri all’ora. Mentre guidava, l’uomo chiamò dal suo cellulare uno di quelli che aspettavano sulla collina. Parlarono per cinque minuti e mezzo di fila, chiacchierando del più e del meno, raccontandosi storie di tutti i giorni. Le macchine sull’autostrada procedevano più lentamente del previsto, e quei discorsi dovevano servire a far capire che bisognava rallentare i tempi; per il resto, andava tutto bene. «Tu stasera che fai?» «Niente, se sei libero possiamo andare a mangiare una pizza.» «D’accordo.» Arrivato all’altezza di un bar, il Johnny Walker, l’uomo della Lancia Delta interruppe bruscamente la conversazione: «Ci sentiamo dopo, ciao», e svoltò, imboccando l’autostrada per Partinico. Sulla collina, quell’altro capì, guardò verso il basso e vide le tre auto che correvano verso Palermo: ancora pochi metri e sarebbero arrivate all’altezza del tombino. Alle ore 17,56 minuti e 48 secondi, uno degli uomini che stavano sulla collina schiacciò il pulsante del radiocomando. I circa cinque quintali di tritolo e polvere T4 sistemati nel sottopassaggio dell’autostrada, vicino al cartello che segnalava lo svincolo per Capaci-Isola delle Femmine, saltarono in aria insieme a parecchi metri di asfalto e alle auto blindate. L’esplosione fu tremenda: gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani, tutti e tre a bordo della prima auto, morirono sul colpo. Il giudice Giovanni Falcone e sua


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moglie Francesca Morvillo, seduti sui sedili anteriori della seconda, spirarono all’Ospedale Civico di Palermo un’ora più tardi. L’autista Giuseppe Costanza, che s’era seduto dietro lasciando il magistrato alla guida, rimase ferito e riuscì a cavarsela, come i poliziotti della terza auto che chiudeva il corteo. L’uomo sulla Lancia Delta ormai era lontano. Non sentì nemmeno il rumore di quella strage, la strage di Capaci. Era il pomeriggio di un sabato quasi estivo in Sicilia, 23 maggio del 1992, l’anno di Mani Pulite e della guerra di Cosa Nostra contro lo Stato, l’anno dei primi arresti eccellenti per corruzione e dei corpi smembrati dalle bombe mafiose.


I

Dopo Falcone toccò a Paolo Borsellino, procuratore aggiunto di Palermo, l’unico magistrato in grado, secondo l’opinione di tutti, di raccogliere l’eredità dell’uomo-simbolo della lotta alla mafia trucidato da Cosa Nostra. Borsellino morì dilaniato da un’autobomba in via Mariano D’Amelio, davanti al cancello del palazzo dove viveva sua madre, insieme agli agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cusina, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli; era il 19 luglio 1992, cinquantasette giorni dopo la strage di Capaci, una domenica di sole e di mare finita nel sangue. Il questore Gianni De Gennaro – quarantaquattro anni e una carriera già brillante alle spalle, spesa in gran parte indagando sul crimine organizzato, da pochi mesi vicedirettore operativo della Dia, la neonata Direzione investigativa antimafia – quella sera si sentì un uomo perso. Con Falcone e Borsellino aveva lavorato gomito a gomito per quasi dieci anni, prima per il maxi-processo scaturito dalle dichiarazioni di Buscetta e Contorno, poi nell’attacco alla Cosa Nostra ormai piegata alla dittatura di Totò Riina. All’indomani della strage di Capaci, De Gennaro non se l’era sentita di «scendere» a Palermo. In Sicilia era volato lo Stato uffi-


Giovanni Bianconi Gaetano Savatteri

ciale, presidenti e ministri, onorevoli e prefetti, circondati da auto blindate e agenti di scorta con l’auricolare piantato nell’orecchio; lui invece era rimasto a Roma, chiuso nel suo dolore e in mille ricordi, tentando di organizzare le prime mosse di un lavoro che doveva portare a smascherare gli assassini del suo amico Giovanni. Si mise subito a studiare perquisizioni, rilievi e intercettazioni possibili, con l’esperienza e la tecnica dello sbirro specializzato nella caccia ai mafiosi. «Ci sono cose che puoi fare soltanto nelle prime ore, che lì per lì sembrano senza senso ma poi qualche frutto lo danno, se la fortuna ti accompagna», ripeteva ai pochi amici coi quali parlava in quei giorni. E aggiungeva, con la sua faccia da eterno ragazzo scanzonato e un po’ spavaldo: «Dovesse essere l’ultima cosa che faccio in vita mia, li prenderò. Lo devo a Giovanni, lo devo a me stesso, lo devo a quei cornuti che lo hanno ammazzato. Giovanni mi ha insegnato a capire che cos’è la mafia e come la si può sconfiggere; adesso vedremo che cosa ho imparato, e lo vedranno anche quelli». Ma poi, tornato in ufficio, lasciava fuori ogni emozione e ogni ricordo, organizzando il lavoro d’indagine con la freddezza e il distacco di sempre. Il 27 maggio, coi giornali sul tavolo pieni delle cronache sui funerali-shock nella cattedrale di Palermo, De Gennaro mise a punto una prima analisi sull’omicidio di Giovanni Falcone. Cercò di far capire il valore simbolico, vendicativo e intimidatorio di quella strage, collegandola all’assassinio di Salvo Lima, avvenuto due mesi prima. E avvertì: «L’azione violenta di reazione di Cosa Nostra non è destinata a fermarsi… L’ulteriore obiettivo potrebbe essere un esponente di spicco o di vertice dell’apparato repressivo


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di sicurezza… Nel novero dei possibili obiettivi può rientrare anche un collaboratore della giustizia eccellente…» L’«azione investigativa», secondo il vicecapo della Dia, andava rafforzata e doveva prefiggersi il «preciso scopo di decapitare l’attuale vertice di Cosa Nostra, affinché la strategia di attacco alle istituzioni possa avere termine». Ma per raggiungerlo bisognava decidersi a dare «un definitivo assestamento alle strutture investigative e inquirenti specializzate nel contrasto della criminalità mafiosa». Parlò a lungo con Borsellino, in quei cinquantasette giorni, il questore De Gennaro. Cominciò con lui ad analizzare la situazione, a cercare qualche crepa nel muro di Cosa Nostra. Un nuovo pentito, Gaspare Mutolo, picciotto della borgata di Pallavicino che era stato compagno di cella di Salvatore Riina, collaborava già da alcuni mesi, e proprio a Borsellino stava affidando le sue confessioni, nonostante le resistenze del procuratore di Palermo Pietro Giammanco. Ma quel 19 luglio la mafia tolse di mezzo anche l’erede di Giovanni Falcone, e De Gennaro restò solo. Aveva pochi uomini e pochi mezzi a disposizione, ma un sospetto in più, che a una settimana dalla nuova strage gli fece dire: «Si intravedono elementi tali da far sospettare che il progetto eversivo non sia di esclusiva gestione dei vertici di Cosa Nostra, ma che allo stesso possano aver contribuito o partecipato altri esponenti del potere criminale, sia a livello nazionale che internazionale». Mafia e non solo, dunque, dietro la decisione di ammazzare il giudice Borsellino. Secondo il vicecapo della Dia, gli «elementi di anomalia rispetto al tradizionale comportamento mafioso» facevano pensare a una sorta di nuova strategia della tensione che andava al


Giovanni Bianconi Gaetano Savatteri

di là degli interessi di Cosa Nostra; e bisognava guardarsi dal rischio che la spirale attentati-misure repressive-attentati potesse favorire, «involontariamente, un eventuale disegno eversivo». In ogni caso, l’organizzazione era «direttamente coinvolta in maniera manifesta nei fatti del delitto in esame». A Palermo, dopo l’eccidio di via D’Amelio, era scoppiata la rivolta dei sostituti procuratori antimafia, decisi ad abbandonare il loro posto se non fosse stato rimosso un capo, Pietro Giammanco, accusato di pavidità, astratto attaccamento alle formalità e scarsa comprensione del fenomeno mafioso. Una decina di pubblici ministeri, nel caldo torrido di fine luglio, era sfilata a Roma, davanti al Csm, per dire che si sentiva carne da macello, che così non poteva andare avanti. Il questore e il prefetto della città erano già saltati, e nel giro di poche settimane se ne andò anche il procuratore. La Sicilia viveva la sua ennesima estate dei veleni, mentre a Roma quel poliziotto schivo e testardo si sforzava di mettere a punto una strategia che gli permettesse di mantenere la promessa fatta a se stesso: «Dovesse essere l’ultima cosa che faccio…» «Gianni, c’è un detenuto a Pianosa, un certo Marchese, che mi vuole incontrare, vieni da me che ne parliamo.» Il giudice Giuseppe Di Gennaro, da pochi giorni procuratore nazionale antimafia, conosceva da tempo il questore De Gennaro, suo quasi omonimo che molta gente continuava a confondere con lui per via di quei cognomi così simili. Di Gennaro era arrivato alla guida della Superprocura ideata da Giovanni Falcone dopo le bombe di Capaci e via D’Amelio, e dopo che il ministro della Giustizia Claudio Martelli aveva negato


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il «concerto» all’altro candidato in lizza, il procuratore di Palmi Agostino Cordova. Il Csm l’aveva nominato il 10 agosto e, sull’onda dell’emergenza, Di Gennaro s’era messo subito al lavoro negli uffici ancora provvisori di via Giulia, nel cuore papalino di Roma. «Pare che questo Marchese Giuseppe mi voglia parlare, ho già chiesto tutte le informazioni su di lui», spiegò il superprocuratore al vicecapo della Dia. Ma De Gennaro non aveva bisogno di quelle informazioni. «Te lo dico io chi è Pino Marchese», disse al giudice. «Mafioso palermitano della “famiglia” di Corso dei Mille, nipote di Filippo Marchese, fratello di Nino, Gregorio e Vincenzina Marchese, la moglie di Leoluca Bagarella, cognato di Riina. Sta in carcere da dieci anni, ha un paio di ergastoli, è giovane ma già un pezzo grosso.» In pochi secondi, attraverso la catena di parentele e condanne, aveva disegnato il ritratto di un ragazzo che stava «nel cuore» di Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra. «Allora è importante, devo andare subito», commentò il giudice, ma il poliziotto frenò: «Infatti, è importante, ma bisogna prima capire bene che cosa c’è sotto. Me ne occupo e ti faccio sapere». De Gennaro tornò nel suo ufficio – all’ultimo piano dell’antico convento quattrocentesco di Santa Priscilla, un trionfo di chiostri, pozzi e giardini dalle parti di via Salaria – e telefonò al direttore di Pianosa, il penitenziario di massima sicurezza dove da poco più di un mese erano stati trasferiti molti boss mafiosi. Era stata la prima risposta del governo alle stragi: carcere duro per gli uomini d’onore, sul modello di quello applicato ai terroristi durante gli «anni di piombo», e nuove norme che


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garantivano la quasi impunità a chi decideva di pentirsi e collaborare con la giustizia. «Dottore, meno male che ha chiamato, avevo urgenza di sentirla perché Marchese ha chiesto di lei», disse il direttore. «Di me?» «Sì, mi ha mandato un biglietto tramite un brigadiere di cui si fida, c’è scritto: “Voglio parlare con il dottor Di Gennaro della Criminalpol”.» Quel mafioso lo conosceva ancora come il segugio della Criminalpol che lavorava con Falcone, della Dia non sapeva nemmeno l’esistenza. E come tanti, aveva sbagliato il cognome. Comunque ormai l’equivoco era chiarito. Pino Marchese cercava lui, e non il procuratore antimafia. L’occasione era ghiotta: se uno come Marchese decideva di collaborare, si sarebbe avuta per la prima volta una voce dall’interno del gruppo vincente, i corleonesi di Riina. Gli altri pentiti, da Buscetta a Contorno, da Marino Mannoia fino al recentissimo Mutolo, avevano parlato per vendetta o perché s’erano sentiti persi, prossimi a essere tagliati via come rami secchi; Marchese invece non aveva nulla da temere, era un parente diretto di Bagarella e in qualche modo anche di Riina, cognato di suo cognato. Ma poteva anche essere una trappola, un falso pentimento per disinnescare sul nascere la bomba dei nuovi collaboratori. Oppure, più semplicemente, un modo per attirare la prossima vittima in un tranello e farla fuori. Che potesse essere il vicedirettore della Dia il nuovo obiettivo del terrorismo mafioso, ne dubitavano in pochi; per quello che rappresentava sul piano simbolico (era l’unico ancora vivo del


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quartetto che con Falcone, Borsellino e Cassarà aveva messo in piedi il maxi-processo) e per il pericolo concreto impersonato da un investigatore con le sue conoscenze e la sua esperienza. «Voglio parlare con il dottor De Gennaro», chiedeva Marchese, uno che nel carcere dell’Ucciardone aveva ammazzato un compagno di cella a colpi di bistecchiera sulla testa: e se fosse stato un sotterfugio per uccidere il poliziotto? De Gennaro rifletté a lungo, da solo e con i suoi collaboratori, e alla fine decise: «Vado». Come unica precauzione, fece salire sull’elicottero che l’avrebbe portato a Pianosa un ex paracadutista che conosceva bene, armato di tutto punto: si sarebbe messo dietro la porta della sala colloquio, pronto a intervenire in caso di necessità. Il vicecapo della Dia sbarcò a Pianosa la mattina del 23 agosto, a tre mesi esatti dalla strage di Capaci, con in tasca l’autorizzazione del ministero della Giustizia per un colloquio investigativo – altra novità della legge antimafia varata dopo i sacrifici di Falcone e Borsellino – con il detenuto Marchese Giuseppe di Vincenzo, classe 1963. Naturalmente, in quel carcere pieno di mafiosi, nessuno doveva sapere che Pino Marchese aveva chiesto di incontrare uno sbirro; dietro le sbarre basta poco a far nascere un sospetto, e le voci circolano a velocità impressionante. Venne messo a punto un piano: tutti i detenuti del braccio dove si trovava Marchese sarebbero stati chiamati in amministrazione, uno dopo l’altro, per scattare una nuova foto segnaletica. Dunque ciascuno doveva essere prelevato dalla sua cella e riaccompagnato dopo qualche minuto.


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