Figli della Stasi

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UNO

Febbraio 1975. Primo giorno. Prenzlauer Berg. Berlino Est. Lo squillo acuto di un telefono svegliò Oberleutnant Karin Müller di soprassalto. Allungò la mano verso un lato del letto per rispondere, ma la presa andò a vuoto. Le scoppiava il cervello dal dolore. Il telefono continuava a squillare, sollevò la testa dal cuscino. La stanza le girava tutta intorno, deglutì liquido amaro e la sagoma sotto le coperte accanto a lei afferrò la cornetta dall’altra parte del letto. «Tilsner!» ringhiò il subalterno, Unterleutnant Werner Tilsner, con voce stentorea che le trapanò le orecchie. Scheisse! Che ci fa qui? Mentre Tilsner parlava al telefono, lei continuava a mettere a fuoco l’ambiente circostante, senza prestare attenzione alle parole di lui. Gli oggetti nell’appartamento non erano quelli giusti. Il letto matrimoniale su cui era distesa era diverso. Di certo le lenzuola non appartenevano a lei e suo marito, Gottfried. Tutto era più… sfarzoso, lussuoso. Sul comò, vide fotografie di Tilsner… di sua moglie Koletta… dei due figli – un adolescente e una bambina più piccola – in campeggio, tutti sorridenti di fronte alla macchina fotografica durante un’allegra vacanza estiva di famiglia. Oddio! Dov’era sua moglie? Sarebbe potuta tornare da un momento all’altro. Poi cominciò a ricordare: Tilsner aveva detto che Koletta aveva portato i bambini dalla nonna per il fine settimana. Lo stesso Tilsner


che proprio in quel momento stava imbastendo una storia con chiunque fosse all’altro capo del telefono. «Non so dove sia. L’ultima volta che l’ho vista è stato ieri sera in ufficio.» La calma con cui aveva detto quella bugia era del tutto sconosciuta a Müller. «Proverò a rintracciarla e poi ci precipiteremo sul luogo quanto prima, Compagno Oberst. Cimitero di St. Elisabeth, sulla Ackerstrasse? Sì, tutto chiaro.» Müller si strinse le mani attorno alla fronte dolorante e cercò di evitare lo sguardo di Tilsner che stava riagganciando il ricevitore e si apprestava a uscire dal letto per andare in bagno. Lei si contorse sotto le coperte. Era stata una notte fredda. Gelida. Aveva dormito con i vestiti addosso e ora la biancheria intima le sfregava sulla pelle sotto la gonna attillata. Prima, c’era stata la vodka Blue Strangler. Troppa. Lei e Tilsner avevano fatto a gara a chi beveva di più in un bar sulla Dircksenstrasse; uno stupido gioco che li aveva poi condotti sul talamo di Tilsner. Sentiva ancora il retrogusto di alcol in bocca. Non ricordava con esattezza cosa fosse successo dopo, ma sapeva che il solo fatto di aver trascorso la notte da Tilsner era qualcosa che non avrebbe mai potuto permettere che Gottfried scoprisse. Tilsner tornò offrendole un bicchier d’acqua con dentro una compressa effervescente. «Bevi.» Müller piegò la testa leggermente all’indietro e storse il naso di fronte a quel miscuglio che sibilava come un serpente. «È solo un’aspirina. Faccio il caffè intanto che ti dai una sistemata.» Dal sorrisetto su quel viso non rasato con la mascella squadrata traspariva insolenza, impertinenza – ma poteva solo prendersela con se stessa per essersi cacciata in quella situazione. Era l’unica donna in tutto il Paese a dirigere una squadra omicidi. Non poteva permettersi di avere la reputazione di una di facili costumi. «Non sarebbe meglio andare subito?» gridò verso la cu-


cina. «Sembrava urgente.» Le parole le esplosero in testa, ognuna una martellata. «Lo è», le rispose ad alta voce. «Il corpo di una ragazza. In un cimitero. Vicino al muro.» Müller trangugiò aspirina e acqua in un unico sorso, sforzandosi di non farsi venire il vomito. «Allora diamoci una mossa», gridò lei, e la voce riecheggiò tra gli alti soffitti del vecchio appartamento. «Abbiamo tempo per un caffè», rispose Tilsner dalla cucina, sbatacchiando tazze e pentole come se fosse un ambiente estraneo. E forse lo era, tranne per la Giornata Internazionale della Donna. «Dopotutto, ho detto a Oberst Reiniger che non so dove sei. E poi quelli della Stasi sono già lì.» «La Stasi?» domandò Müller. Si era trascinata in bagno e ora stava esaminando la sua immagine inorridita. Il rimmel era sbavato attorno agli occhi blu iniettati di sangue. Picchiettandosi le guance con le dita, cercò di eliminare il gonfiore, poi si sistemò i capelli biondi che le arrivavano alle spalle. L’unica donna a dirigere una squadra omicidi in tutta la Repubblica e non aveva ancora trent’anni. Quel giorno non aveva proprio il viso da bambina. Fece un respiro profondo, sperando che l’aria fresca mattutina dell’appartamento le placasse il senso di nausea. Müller sapeva che doveva svuotarsi la mente. Prendere in mano la situazione. «Se il corpo è accanto alla Barriera antifascista, non è di competenza delle guardie di frontiera?» Nonostante le rimbombasse il cervello, scandiva le parole ad alta voce in modo che Tilsner potesse sentirla in fondo al corridoio. «Come mai hanno coinvolto la Stasi? E perché noi…» La voce sfumò quando alzò lo sguardo sullo specchio e vide il riflesso di Tilsner, in piedi dietro di lei con in mano due tazze di caffè fumante. Lui si strinse nelle spalle e alzò le sopracciglia. «È un quiz? Tutto quel che so è che Reiniger vuole che ci presentiamo al superiore della Stasi sul luogo.»


Notò che la studiava mentre si passava la spazzola di Koletta tra i riccioli annodati. «Sarà meglio che dia una pulita a quella spazzola quando hai finito di usarla», disse. Müller lo guardò negli occhi: erano blu come i suoi, però quelli di Tilsner sembravano sorprendentemente luminosi per uno che si era scolato così tanta vodka la sera prima. Lui aveva ancora quella smorfia soddisfatta sul viso. «Mia moglie è mora.» «Fuori dalle palle, Werner!» gridò Müller a Tilsner mentre cominciò a togliersi il rimmel con uno dei batuffoli di ovatta di Koletta. «Non è successo niente.» «Ne sei proprio sicura? Io ho un ricordo un po’ diverso.» «Non è successo niente. Lo sappiamo tutti e due ed è così che deve rimanere.» Tilsner aveva un’espressione quasi maliziosa e lei cercò di far luce nell’oscurità dei postumi della sbornia. Müller arrossì, ma tentò di convincersi che aveva ragione. Dopotutto, si era lasciata i vestiti addosso e la gonna era abbastanza stretta per negare un accesso indesiderato. Lei si voltò, gli strappò il caffè dalle mani e ne bevve due lunghi sorsi mentre il vapore della bevanda appannava lo specchio del bagno. Tilsner allungò una mano accanto a lei e prese il batuffolo sporco di rimmel e lo nascose in tasca. Poi afferrò la spazzola e cominciò a togliere i capelli biondi con un pettine. Müller alzò gli occhi al cielo. Era chiaro che quel bastardo aveva una certa esperienza. Scesero le scale, passarono davanti alla pittura scrostata dell’atrio e uscirono dall’edificio in quel mattino invernale senza mai guardarsi negli occhi. Müller riconobbe la loro Wartburg, l’auto civetta dall’altra parte della strada. Le ritornarono in mente ricordi della sera prima e l’insistenza di Tilsner affinché andassero a casa sua per smaltire la sbornia


con un caffè – per nulla preoccupato di guidare dopo aver bevuto. Lei si strofinò il mento ed ebbe un flash: la barba incolta di Tilsner che le graffiava il viso, proprio dove lei adesso teneva la mano, le era sembrata cartavetrata quando le loro labbra si erano unite. E poi cosa era successo esattamente? Salirono in macchina, Tilsner sul sedile del conducente. Girò la chiave, l’orologio dall’aspetto costoso luccicava in quella fioca luce del giorno. Lei aggrottò le sopracciglia, ripensando agli arredi lussuosi dell’appartamento e lanciò un’occhiata curiosa a Tilsner. Come era riuscito a permetterseli con uno stipendio da tenente subalterno? Il motore della Wartburg partì scoppiettando. Pian piano Müller stava riacquistando la memoria. Era stato solo un bacio, vero? Diede un’occhiata furtiva verso sinistra mentre Tilsner inseriva la marcia, invece lui guardava fisso davanti a sé con un’espressione cupa. Lei doveva pensare a una buona scusa da raccontare a Gottfried. Si era abituato a vederla tornare tardi dal lavoro, ma una nottata fuori senza preavviso? Le ruote dell’auto slittarono e sbandarono sulla neve accumulata da una settimana che nessuno si era preoccupato di spalare. Sopra le loro teste, il cielo plumbeo lasciava presagire un peggioramento delle condizioni del tempo. Müller sporse la mano dal finestrino e mise il lampeggiante blu sul tetto della Wartburg, attivando la sirena che assomigliava al verso di un gatto strangolato, mentre percorrevano i pochi chilometri tra Prenzlauer Berg e il cimitero di Mitte. I due detective non si erano quasi rivolti la parola prima di parcheggiare la Wartburg sulla Ackerstrasse, la strada che divideva i cimiteri limitrofi delle parrocchie di St. Elisabeth e Sophien – entrambi confinanti con la Barriera


antifascista a nord-est. Tilsner indicò con un cenno del capo l’entrata del primo cimitero e Müller lo seguì attraverso il cancello con un arco di metallo sovrastante. Il cimitero, con tetre lapidi e monumenti che spuntavano da un manto bianco, aveva una tranquillità che stonava con il resto della città. Angeli dalle ali verdi vegliavano su alcune tombe, l’antico bronzo si era ossidato dopo troppi inverni berlinesi. Camminarono verso la zona del cimitero in cui si trovava il corpo disteso. I funzionari della Stasi e le guardie di frontiera circondavano la sagoma inerme della ragazza, avvolta in un telone. Un uomo con un soprabito – inginocchiato, nascosto dalla lapide di una tomba – si alzò in tutta la sua maestosità. Sotto l’impermeabile Müller riuscì a intravedere abiti borghesi, ma dal suo portamento immaginò che fosse l’agente della Stasi menzionato nella chiamata a Tilsner e sorrise. Sarà stato sui quarantacinque anni, con basette alla moda e capelli biondo-rossiccio piuttosto lunghi. Sarebbe potuto passare per uno di quei giornalisti della Germania Ovest, che suo marito Gottfried amava così tanto guardare nonostante lei si lamentasse. Lei non lo riconobbe, ma evidentemente lui la conosceva. «Compagna Oberleutnant. Grazie per essere arrivata. Oberstleutnant Klaus Jäger. Sono contento che alla fine siamo riusciti a rintracciarla.» Le afferrò la mano coperta dal guanto e gliela strinse, prima di fare lo stesso presentandosi a Tilsner. Sembrò esserci un calore sincero in quel saluto. «Vi prego di venire con me un attimo, vi aggiornerò su alcuni dettagli.» Le sfiorò la schiena con la mano e l’accompagnò assieme a Tilsner in un gazebo di legno con il tetto innevato, dove alcune persone in lutto se ne stavano in silenziosa contemplazione dei loro cari defunti. Müller si voltò per dare una sbirciatina alla salma, ma Jäger, per il momento, non sembrava interessato a volergliela mostrare.


Jäger e i due agenti della Kripo si misero a sedere su una panca, al riparo della struttura esagonale. Müller sentiva l’odore del dopobarba: le sembrava una costosa colonia occidentale. Temeva invece che il suo profumo fosse quello della Blue Strangler pura a quaranta gradi. Sperava che lui non lo avvertisse. Jäger fece un gesto verso la zona delimitata dal nastro, dove i fotografi e gli agenti della Scientifica erano all’opera. «Che tragedia. Una ragazzina. Avrà avuto una quindicina d’anni.» «Assassinata?» domandò Müller. Jäger annuì con un movimento lento del capo. «Crediamo di sì.» «Uccisa come, Compagno Oberstleutnant?» domandò Tilsner. «E perché avete bisogno dell’aiuto del Reparto Anticrimine della Polizia del Popolo se il ministero della Sicurezza di Stato sta già svolgendo le indagini?» «Esatto, perché se ne occupa la Sicurezza di Stato?» aggiunse Müller, prima che il funzionario della Stasi avesse il tempo di rispondere al suo vice. «In effetti, Oberstleutnant Jäger, visto che il luogo è così vicino alla Barriera di protezione antifascista, sarebbe competenza della polizia di frontiera, no?» Müller lanciò un’occhiata oltre quel viavai attorno al corpo, verso il primo muro della barriera. Correvano voci che ci fosse un campo minato dall’altra parte, prima di un secondo muro – il tutto si estendeva per chilometri e chilometri attorno al settore occidentale. I fasci dei riflettori scandagliavano i cieli, a una distanza di circa cinquanta metri l’uno dall’altro, come giganteschi girasoli. Alla luce del giorno, con il cimitero ricoperto di neve in primo piano, a Müller sembrava tutto relativamente innocuo, a parte qualche sporadico latrato dei cani della squadra cinofila. Di notte, tutto assumeva un altro aspetto. Ma se quelle difese servivano a dissuadere i Republikflüchtlinge – quelli che arri-


schiavano un tentativo di fuga per raggiungere l’Occidente invece di restare e cercare di costruire una Germania più equa – allora andavano bene anche per lei. All’inizio, Jäger rimase senza parole, poi però fece un risolino. «Quante domande! Non posso rispondere a tutte. Quel che posso dirvi è che vi è stato dato l’incarico dal vostro superiore, Oberst Reiniger, di assistermi, dietro mia richiesta. E sebbene, ufficialmente, sarò responsabile delle operazioni, sarete voi gli effettivi agenti incaricati delle indagini. Potrebbe trattarsi di un caso difficile – forse l’avrete già intuito da soli – però il caso è vostro. Fino a un certo punto. Non voglio che si sappia troppo in giro del coinvolgimento del ministero della Sicurezza di Stato.» Jäger si tirò su leggermente entrambe le maniche del soprabito come se si stesse per mettere all’opera. «Posso dirvi il motivo per cui siamo stati chiamati. Pare che la ragazza sia stata uccisa dall’Ovest – forse dalle guardie occidentali – mentre stava fuggendo verso l’Est.» Il tenente colonnello della Stasi fece una pausa e guardò Müller dritto negli occhi. «Lo ammetto, è una situazione insolita.» Müller si era accorta che Tilsner, di fianco a lei, stava fischiettando a denti stretti a quella notizia. Era scioccato, incredulo? «Quindi è riuscita ad arrampicarsi su un muro alto quattro metri?» domandò Müller. «A superare i controlli, sfuggire ai cani e alle guardie di confine della Repubblica, poi a scalare un altro muro di quattro metri – mentre dall’Ovest le sparavano?» Sperò che il suo scetticismo non si fosse trasformato in evidente sarcasmo. «Questa è la versione ufficiale – e preliminare – secondo il ministero della Sicurezza di Stato. Ho fatto richiesta del vostro aiuto, della Kriminalpolizei, per scoprire l’identità della ragazza e per trovare prove a sostegno di questa versione.» Jäger sostenne ancora una volta lo sguardo di Müller, con


una gravità che le provocò un sussulto. «Se doveste scoprire il contrario, vi consiglio di tenervelo per voi e riferirlo a me.» Müller annuì con un lento cenno del capo. «Unterleutnant Tilsner?» domandò lui, rivolgendosi al suo vice. «Anche lei comprende quel che sto dicendo?» «Certo, Compagno Oberstleutnant. Garantiamo assoluta discrezione, stia tranquillo.» Sospirando, come se fosse già provato dal caso, Jäger si alzò in piedi e fece loro strada. «Sarà meglio che vi mostri la salma. Vi avverto: non sarà un bello spettacolo. Per ragioni che vi saranno più chiare tra poco, l’identificazione non sarà cosa facile.» Müller storse il naso mentre assieme a Tilsner cominciò a seguire l’agente della Stasi. Già non gradiva esaminare cadaveri. Ma quello di una ragazzina – dove l’identificazione si sarebbe rivelata «non facile» – sembrava particolarmente sgradevole. Il ghiaccio e la neve congelata scricchiolavano sotto le scarpe mentre ripercorrevano il sentiero del cimitero verso il punto dove si trovava il cadavere. Müller batteva forte i piedi a terra a ogni passo per cercare di far fluire più sangue e calore ai piedi. Non riusciva a stare dietro agli altri due, era assalita da un senso di inquietudine. Qualcosa non quadrava. Il drappello di ufficiali dei vari ministeri fece largo ai tre agenti. A un cenno del capo di Jäger uno degli uomini sollevò il lenzuolo. Müller guardò il corpo: una ragazza, a faccia in giù nella neve. Una gamba sembrava lacerata – dal filo spinato della barriera? – l’altra a un’angolazione improbabile rispetto al resto del corpo. Ferite sulla schiena accompagnate da macchie di sangue sulla maglietta bianca, che si intravedeva attraverso un indumento strappato di stoffa nera che, forse, in tempi migliori era stato una specie di mantello. Sembrava


che non indossasse un abbigliamento invernale. Lo schema regolare delle ferite suggeriva un’arma automatica e il corpo era di spalle rispetto alla Barriera di protezione, verso la Hauptstadt. Perlomeno questo corrispondeva alla versione ufficiale. Müller si voltò per guardare il muro, i riflettori, le torri di guardia e gli edifici dell’Ovest capitalista dall’altra parte, tappezzato con le loro pubblicità sgargianti. Da dove le avevano sparato esattamente? Come era riuscita a trascinarsi fino a lì? «Verdammt!» esclamò Tilsner all’improvviso da dietro la testa della ragazza. Müller osservò Jäger alzare le sopracciglia, ma non ci fu alcun ammonimento formale. «Sarà impossibile identificarla. La faccia è completamente irriconoscibile.» Questa volta Jäger intervenne. «La sua faccia, se non le dispiace, Unterleutnant. Non stiamo parlando di un oggetto inanimato. E qualcuno, da qualche parte, la starà cercando. Però è vero, non è un bello spettacolo. Il giardiniere del cimitero l’ha trovata all’alba, ma pare che un cane randagio sia arrivato prima.» Müller raggiunse Tilsner e vide cosa aveva provocato la sua reazione. La pelle scorticata dal mento all’orbita oculare. Al suo posto c’era carne viva, come un taglio scadente sul banco del macellaio. Un lato della bocca era aperto, ma non c’erano denti – solo gengive maciullate e piene di sangue. Un animale non avrebbe potuto farlo, vero? Non riuscì a sopportare oltre quello spettacolo. D’un tratto, a Müller vennero i conati di vomito e si nascose dietro una lapide, si chinò mentre le usciva dalla bocca ciò che rimaneva della cena e della vodka della sera prima. Per cercare di celare il suo imbarazzo, finse di tossire, scalciando della neve con lo stivale per coprire le prove. «Si sente bene, Compagna Müller?» domandò Jäger. Lei annuì, evitando lo sguardo di Tilsner. Prendendo il


coraggio a quattro mani, Müller si voltò per dare un’altra occhiata al cadavere. Fu allora che vide la mano aperta della ragazza, distesa sulla neve. Si trattava della mano di una ragazzina dalla pelle candida e priva di rughe. Ma ciò che spaventò il detective furono le unghie nere di tutte le dita. Era chiaro che doveva assomigliare a uno smalto, ma aveva un aspetto striato e opaco. Müller si inginocchiò. Da vicino, riuscì a vedere che le unghie erano state dipinte con l’inchiostro, proprio come una scolaretta avrebbe fatto con i pennarelli. Le venne subito in mente quanto fosse giovane. Fra i tredici e i quindici anni. La figlia di qualcuno. La stessa età che avrebbe avuto sua figlia, se… Interruppe quel pensiero. Le venne di nuovo un nodo in gola, le salirono le lacrime agli occhi. Incrociò lo sguardo di Jäger. Vomitare era già stato abbastanza grave, quindi non avrebbe pianto – non davanti a un alto funzionario del ministero della Sicurezza di Stato. Ci volle Jonas Schmidt, agente della Scientifica della Polizia del Popolo, per alleggerire l’atmosfera. Arrivò cercando di correre – più di così non poteva – e ansimando, con una pancia talmente prorompente da rischiare di fargli esplodere il camice bianco, con una borsa marrone a tracolla che gli sbatteva sul fianco. A Müller si rivoltò lo stomaco quando il Kriminaltechniker ingurgitò quel che restava di un panino con salsiccia, pulendosi l’unto dalla faccia con il dorso della mano. «Le chiedo scusa per il ritardo, Compagna Oberleutnant», farfugliò a bocca piena. «Ho fatto prima che ho potuto.» Non sentendosi ancora pronta per parlare dopo aver visto il corpo della ragazza, Müller si limitò ad annuire, lasciando che Jäger si presentasse. Intanto Schmidt fece uno strano inchino al funzionario della Stasi. «Spero che potremo usare i laboratori forensi del ministe-


ro se dovesse essere necessario, Compagno Oberstleutnant. Le vostre strutture sono di gran lunga migliori di quelle della Polizia del Popolo. Ci saranno degli agenti della Scientifica della Sicurezza di Stato che collaboreranno con me?» «No, Compagno Schmidt. L’indagine ora è nelle mani della polizia. Il suo referente sarà come al solito Oberleutnant Müller. Abbiamo già fotografato la salma, però ci sono altre foto che dovreste fare.» Jäger osservò il cielo sempre più cupo. «Sarà meglio che lo facciamo in fretta, prima che ricominci a nevicare. Prima di tutto, andiamo alla piattaforma.» Jäger con un cenno del capo indicò una piccola impalcatura con a fianco una scala, che era stata costruita accanto al muro – presumibilmente dalle guardie di frontiera qualche ora prima quella mattina, come iniziale supporto all’indagine. Lo seguirono verso la struttura, attenti a rimanere sul sentiero di ghiaia che attraversava come una treccia di liquirizia il candido cimitero. Müller ridacchiò tra sé e sé. Jäger poteva anche dire che si trattava di un’indagine della polizia, ma dal modo in cui si comportava, c’era una sola persona che comandava. Jäger, Müller e Tilsner salirono in cima alla piattaforma, seguiti di lì a poco da Schmidt, ancora più trafelato. «Ecco… Questo è un panorama… che non si vede spesso», affermò cercando di riprendere fiato. «Non senza correre il rischio di essere fucilati.» Müller lo fulminò con lo sguardo e Jäger reagì con un semplice sorriso. «Non preoccupatevi», disse. «Le guardie di frontiera sanno che siamo qui. Abbiamo il loro benestare. Nessuno aprirà il fuoco. Perlomeno non oggi. Ieri sera, invece…» Jäger lasciò la frase in sospeso e Müller seguì il suo sguardo verso un edificio che sembrava un magazzino fatiscente sul lato occidentale della barriera. «Lassù.» Indicò. «Quarto piano. Vedete la finestra rotta?» Müller annuì. «È quello il punto da cui, si presume, i cecchini abbiano sparato.» Lei notò la


sottile ambiguità nelle sue parole. Non ci crede neppure lui, pensò. «Le nostre guardie di frontiera ne sono testimoni?» domandò Tilsner. Jäger scosse lievemente la testa. «No, sono ipotesi dai calcoli della linea di tiro. E dalle tracce di sangue sulla neve. Guardate là.» L’ufficiale della Stasi indicò la parte tra il muro interno e quello esterno della Barriera antifascista. «Si vedono le impronte della ragazza», disse indicando tra i due muri. «Come faceva a sapere che una mina non l’avrebbe fatta saltare in aria?» domandò Müller tremando per il vento che spazzava la cima della piattaforma. «Non credo che staresti lì a pensarci troppo se stessi cercando di metterti in salvo mentre ti sparano», replicò Jäger. «In ogni caso, la striscia non è minata – sono solo supposizioni.» Nonostante il freddo, Müller si sentì avvampare in viso. «E i proiettili? O i segni delle pallottole?» domandò Schmidt. «Mi daranno il permesso di entrare tra i due muri per controllare, Compagno Oberstleutnant? È questo il motivo per cui avevate bisogno di me?» Jäger sbuffò. «No, Compagno Kriminaltechniker, non è per questo, e no, non può accedere alla zona militare.» Si voltò e fece un cenno con la mano verso il lato del sentiero del cimitero. «Il suo lavoro è qui. Ci sono delle impronte, si presume della ragazza, su questo lato del muro. E anche macchie di sangue.» Poi abbassò la voce, benché non ci fosse nessun altro sulla piattaforma e in ogni caso i funzionari vicino al cadavere erano troppo lontani per sentirlo. Müller si chiese perché. «Ci sono anche delle tracce di pneumatici. Mi raccomando, faccia delle fotografie, le confronti con quelle di tutti i veicoli che usa il giardiniere della chiesa.» Müller stava per chiedere il motivo, però poi incrociò lo


sguardo di Jäger e ricevette un’occhiata da cui capì in modo inequivocabile che la domanda non era gradita. Scesi dall’impalcatura, Schmidt cominciò a darsi da fare con una Praktica, facendo foto sia delle impronte sia delle tracce di pneumatico. Müller e Tilsner girovagarono assieme attorno alle varie tombe, come se quei morti e sepolti potessero dare informazioni sull’omicidio della ragazza. Jäger nel frattempo era tornato vicino al cadavere. «Non ho capito di che tipo di indagine si tratti», disse Tilsner. «Pare che sia già tutto risolto e noi non siamo altro che un ripensamento.» Müller si strinse nelle spalle. «Dobbiamo fare solo del nostro meglio. Tu hai l’impressione che avrebbero potuto spararle da quell’edificio?» «Quale, quello a Ovest? Forse. È plausibile… anche se è un’ipotesi un po’ azzardata.» Raccolse della neve da una lapide di granito e ne fece una palla, poi la lanciò a terra. «Però poi scalare due muri, ferita, passando inosservata? Le guardie erano tutte addormentate? Ne dubito molto.» Di lì a qualche minuto, sentirono il respiro affannoso di un uomo dietro di loro. Müller sapeva chi era senza doversi voltare. Schmidt. «Cosa c’è, Jonas?» domandò mentre si girava verso l’uomo pasciuto. «Forse… dovrebbe venire… a dare un’occhiata a questo, Compagna Oberleutnant.» Schmidt li riaccompagnò verso la Barriera di protezione per guardare delle impronte, a una ventina di metri da dov’era il cadavere. Si inginocchiò sulla neve e invitò Müller a fare lo stesso. «Ecco, Compagna Müller.» Si infilò le mani in tasca e tirò fuori una busta. «Guardi questa fotografia delle scarpe della ragazza sul cadavere.» Müller prese la fotografia dalla busta e corrugò la fronte.


«Come hai fatto a procurartela così in fretta?» Schmidt sorrise e le porse l’apparecchio che gli penzolava al collo. Era più piccolo della Praktica che aveva usato prima e sembrava meno costoso e più delicato. «È una Foton. Una macchina fotografica istantanea sovietica. Anche se non sembra, i risultati sono come quelli delle Polaroid americane. Comunque, dia un’occhiata alla foto. Nota qualcosa di strano?» Lo scatto era un primo piano delle suole delle scarpe da ginnastica della ragazza, ancora ai piedi. Müller scosse lentamente il capo. «No, Jonas, non direi.» Schmidt la allungò a Tilsner, che la sollevò più in alto per illuminarla meglio, dato il cielo plumbeo, ma anche lui scosse la testa. «Bene. Quindi avete entrambi visto la foto. Ora guardate le impronte sulla neve. Notate qualcosa di strano? I due detective si chinarono sulle impronte, perplessi. Tilsner fece un lungo sospiro. «Avanti, vuota il sacco. Non abbiamo tempo per questi giochetti.» La faccia di Müller all’improvviso si illuminò. «Gottverdammt!» Poi sussurrò: «L’hai già detto a Oberstleutnant Jäger, Jonas?» L’agente della Scientifica scosse il capo. «Be’, per il momento non farlo, se non ti dispiace.» Tilsner era ancora chinato e rifletteva sulle orme. «Non capisco. Per me sono delle normalissime impronte.» Müller indicò la foto di Schmidt. «Guarda i piedi della ragazza nella foto. Indossa le scarpe in maniera corretta. Scarpa sinistra sul piede sinistro, scarpa destra sul piede destro.» «Sì», disse Tilsner, corrugando la fronte sempre di più. «E allora?» Müller indicò le impronte sulla neve. «Dai un’occhiata a quelle. Sì, sono rivolte nella direzione giusta, come se le avessero sparato mentre correva lasciandosi il muro alle spalle. Però guarda la forma. La scarpa destra ha lasciato le impronte


della sinistra e viceversa. È tutto a rovescio.» Sollevò lo sguardo verso Schmidt, che adesso si era alzato in piedi, sfregandosi il mento tozzo. «Secondo te cosa significa, Jonas?» «Be’, non saprei, Compagna Oberleutnant.» Sorrise. «Speravo che fosse lei a illuminarmi.» «Significa», disse Tilsner, «che qualcuno ha manomesso il cadavere. Indossava le scarpe al rovescio quando è stata uccisa; forse se le è infilate in fretta mentre scappava. Ma chiunque abbia manomesso il cadavere non ha notato che, quando gliele ha rimesse, lo ha fatto nel modo corretto.» Ora fu la volta di Müller a emettere un lungo sospiro. «Questa è la spiegazione più ovvia. Ma non è l’unica.» «Cioè?» domandò Tilsner incrociando lo sguardo della detective. «Meglio non parlarne qui», sussurrò voltando la testa verso Jäger, che a quel punto aveva notato la loro attenzione per le impronte e si stava avvicinando. Quando li raggiunse si schiarì la voce e i due detective si alzarono in piedi. «Qualcosa di interessante, Compagna Oberleutnant?» «Alcuni particolari», rispose Müller. «Stavamo solo controllando la direzione delle impronte. Pare che le conclusioni preliminari siano corrette, che la ragazza stesse scappando verso l’Est, dalla Barriera di protezione.» «Sì, proprio così.» Poi abbassò la voce. «Anche se credo che converrete con me che ci sono delle cose che non quadrano, senza dubbio qualche discrepanza l’avrete notata. Non mi sembra il caso di entrare troppo nei dettagli adesso. Dovremo incontrarci domani per esaminare tutto.» Müller notò la delusione sul viso di Tilsner dopo aver capito che gli avevano rovinato il fine settimana. Si domandò cos’altro avesse pianificato per il sabato e la domenica senza moglie e bambini. «Vuole che veniamo agli uffici del ministero sulla Normannenstrasse?»


Jäger scosse il capo. «Meglio incontrarsi in un posto tranquillo.» Mentre sussurrava quelle parole, diede un’occhiata agli altri agenti riuniti attorno al cadavere che sembravano occuparsi della sua rimozione. «Vi farò sapere quanto prima. Nel frattempo, vi prego di non divulgare nessuna informazione.» Strinse la mano a tutti e tre e guadagnò l’uscita del cimitero a larghi passi. Müller lo guardò andarsene, interrogandosi sullo strano caso affidato a entrambi. Un’indagine in cui un alto funzionario della Stasi non era disposto a condividere informazioni con i suoi stessi colleghi. La detective alzò gli occhi verso il cielo e le nuvole sempre più scure, poi guardò Tilsner che non aveva più il suo sorriso sarcastico: un’aria di apprensione, quasi di paura, aveva preso il suo posto.


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