Babel#013

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APRILE2009 www.bab3l.splinder.com

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PROGETTO EDITORIALE federico res COPERTINA tommaso “gatsu” de benetti GRAFICA E IMPAGINAZIONE federico res EDITING DEI TESTI giovanni “giocattolamer” donda SITO WEB http://bab3l.splinder.com BABEL È OSPITATO DA www.qb3project.net www.issuu.com

REDAZIONE alvise “kintor” salice cristiano “amano76” ghigi emanuele “emalord” bresciani ferruccio cinquemani federico res giovanni “giocattolamer” donda gianluca “sator” belvisi gianluca “unnamed” girelli marco “il pupazzo gnawd” barbero michele “guren no kishi” zanetti michele “macca” iurlaro simone “karat45” tagliaferri tommaso “gatsu” de benetti vincenzo “vitoiuvara” aversa HA COLLABORATO Davide “LUN” Lunardelli

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STREET FIGHTER 4 CARTONI IN TV (HD)

BABEL 002

FRAME Meteore: che fine hanno fatto i film interattivi? 2a parte 008 REVIEW Resident Evil 5 013 Killzone 2 016 Persona 4 014 Street Fighter 4 018 GTA The Lost and Damned 020 UNDERRATED Killzone 021

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KILLZONE 2 GUERRILLA SANTA

DAL VANGELO SECONDO TOMMASO

Forse ho capito 004

ODIO DI GOMITO Caro cugino ti scrivo 005

ESCO DI RADO Voglio un presidente geek 006

ARS LUDICA La sessualità negata dei personaggi videoludici (parte prima) 007 LA TV CHE VIDEOGIOCA Speciale cinema 2a puntata 024

COPYLEFT 2007/2008 Babel Edizioni

Babel è rilasciato sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 3.0 Unported. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-ncnd/3.0/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA.

COVER STORY Midgets to the rescue 003

GIOCHI DI MERDA Far Cry Vengeance 012

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GTA THE LOST AND DAMNED BIKER MEN FROM MARS

TIME WAITS FOR NOBODY Episodio 4 022 NEXT MONTH Cryostasis 025


013 COVER

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STORY MIDGETS TO THE RESCUE

opo aver acquisito i diritti in esclusiva per la distribuzione nipponica ed estera dei titoli targati Sting, Atlus ha tutte le buone intenzioni di entrare nella top 5 degli sviluppatori di JRPG. Per rimanere a galla, oggi Atlus sta percorrendo due strade: da una parte continua a proporre JRPG classici, con cui avere una sorta di ritorno economico sicuro; dall’altra persegue una direzione di innovazione e originalità applicata sì a vecchie formule, ma capaci di smuovere un poco lo stato catatonico in cui i JRPG si trovano. Da lustri. Sting è quindi il partner ideale, con i suoi giochi da considerarsi alla stregua di bestie rare, appartenenti alla stessa specie di quanto prodotto da altri sviluppatori, certo, ma senza gli annunci sensazionalisti con svariati anni di anticipo, i continui rinvii, i party, le scenette da prima donna o i motori grafici a milleottantapì. Negli ultimi anni, Atlus ha creduto parecchio nella seconda direzione, sperimentandola nella serie di spin-off derivati da Megami tensei con Persona 3 e la sua espansione, FES, raccogliendo consensi da ogni dove. Giu-

sta ricompensa per l’azzardo di fondere una simulazione di vita scolastica e personale piuttosto marcata, con formule parzialmente già collaudate. Chi si sarebbe aspettato un tale successo, soprattutto in occidente? Se avessero fatto un buco nell’acqua, sarebbe stata una tragedia, invece ne è stato messo in cantiere subito un “seguito”. Le virgolette sono volute, perché Persona 3 FES poteva essere solo migliorato, non stravolto; Persona 4 risulta, quindi, un’evoluzione all’ennesima potenza e un miglioramento in ogni comparto rispetto al fratello. Nessun aspetto è stato tralasciato, dimostrando una cura così certosina “da giapponese” diremo - in un prodotto destinato ad una console morente, che è stata ormai rivoltata come un tabi appeso ad asciugare. Accantonare il boiler con TV da millemila euro, la 16/9 portatile e il parallelepipedo doppia faccia, a favore di Persona 4, del vecchio 14” CRT e del monolite claudicante, è stata come una boccata d’aria fresca. Lunga un centinaio di ore. Recensione a pagina 014. Michele Zanetti

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Tommaso De Benetti

Uno che i VG preferisce discuterli

Tommaso De Benetti è stato membro fondatore e colonna portante di Ring, la rivista più amata dai videogiocatori meno rincoglioniti. Qualche tempo fa, esasperato dall’ignavia invincibile degli ormai depressi ringhici, ha lanciato da solo il progetto RingCast (reperibile su iTunes), primo podcast italiano a tema

videoludico, a cui comunque la vecchia guardia partecipa a corrente alternata. Gatsu, secondo il nick con cui è solito firmarsi su Internet, attualmente vive e tromba ad Helsinki, tra frotte di bionde ninfomani e sferzate di gelo più o meno devastanti.

DAL VANGELO SECONDO TOMMASO Forse ho capito

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Ho visto uomini di 45-50 anni spiare all’interno dei cabinati per le foto sticker in cerca di minorenni vestite di rosa in pose ambigue. Brrrr...

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hi segue RingCast saprà che recentemente sono stato in Giappone. Chi non segue RingCast, invece, può scegliere se rotolarsi a terra afflitto dal dolore, oppure digitare velocemente http://ringcast.splinder.com e sentirsi perlomeno il reportage audio che mi sono preso la briga di registrare a beneficio delle vostre ingrate orecchie. Al di là dei dettagli sul viaggio, che potrete scoprire autonomamente (segnalo che il test del bidet giapponese sembra aver riscosso particolare successo fra gli ascoltatori), vorrei soffermarmi un attimo su ciò che riguarda Babel più da vicino, cioè (credo) i videogiochi. Ora, con mio modesto disappunto non ho trovato quel delirio di negozi che sarebbe stato lecito aspettarsi: secondo Vitoiuvara tutto ciò è accaduto perchè invece di andare a Tokio sono stato ad Osaka e Kyoto. Non per fare polemica con i diversamente abili, ma mi sembra chiaro che il mercato giapponese non sia riconducibile alla sola capitale. Tralasciando i battibecchi, vi annuncio soddisfatto che ho però trovato interi palazzi dedicati agli arcade, fra i quali un Taito Palace, un Sega Palace e altro che francamente non mi sono preoccupato di identificare con precisione. Questi palazzi sono generalmente divisi in piani tematici: se il piano terra è pieno di macchinette a premi (pupazzi, cibo, action figures...) e cabine per ragazze avide di foto sticker con i cuoricini, di solito i livelli superiori sono configurati in ottica prettamente hardcore. C’è il piano picchiaduro, il piano shooters, il piano rhythm games, il piano majong, quello per i (video)giochi di carte, infine quello per varie ed eventuali. Il pachinko, grazie a Dio, ha delle sale indipendenti, e se poteste sentire a che

volume tengono la musica capireste anche perché. I cabinati sono grandi, stranissimi e costosi. Quello di Gundam riproduce una cabina di pilotaggio, ha uno schermo avvolgente ed è grande la metà del mio appartamento. Altri hanno, di fronte allo schermo, ampi piani di gioco per combinare in maniera quantomeno esoterica carte collezionabili ed RPG strategici. Quelli di cavalli c’erano, giuro - si presentavano con una doppia fila di postazioni e uno schermo centrale grande almeno 100”. La quasi totalità di questi arcade non è mai stata esportata in occidente e mai lo sarà, visto che i pochi cabinati che arrivano da noi si stanno progressivamente ghettizzando in cinema e centri commerciali con il solo intento di riempire i tempi morti in attesa dello spettacolo successivo o delle scarpe giallo canarino a cui la vostra donna non poteva rinunciare. Dopo il viaggio, mi è venuto il fondato sospetto che capire le sale giochi giapponesi significhi capire sia il Wii che il moribondo stato dello sviluppo sollevantico. Per prima cosa, la gente ci passa le serate. Parliamo di allegri gruppi promiscui che sarebbe impensabile vedere in qualunque altro paese. In secondo luogo, una larga fetta di frequentatori appartiene alla categoria “cercami su YouTube”: in tutto il tempo speso all’interno non ho mai visto qualcuno cimentarsi in un gioco con performance meno che mostruose. Non parliamo di nerd occhialuti, ma addirittura, e questo francamente faticavo ad immaginarmelo, di shojo-bambine che potrebbero polverizzare senza problemi qualsiasi professionista dei rhythm games a cui io abbia mai stretto la mano. Infine il dettaglio più importante: nessuno dei

giochi in mostra stupiva per competenza tecnica. Mettiamoci una pietra sopra: se i giapponesi dovessero scegliere fra una periferica a forma di dito da infilare nel culo di cattivoni digitali e la grafica di Crysis, sceglierebbero la prima opzione nel 100% dei casi. E sinceramente, con quel bendiddio di arcade che si ritrovano, non mi è nemmeno difficile crederlo. Il Wii ha successo perché è carino, perché puoi muoverti come un epilettico, perché ha una grafica di merda. Il nunchaku controller è l’equivalente di un piatto di tofu gommoso: i nani gialli lo amano per le stesse ragioni per cui noi lo disprezziamo. Non si interessano di poligoni, ma di quanto un gioco sia kawai, di quanto lo si possa giocare assieme a gente vestita come Mana dei Moi Dix Mois (cercatelo su Google), di quanto il gioco permetta di mettersi in mostra. Strano quindi che sulla piattaforma Nintendo non siano poi molti i titoli che permettano una volgare dimostrazione di potenza (cit.) da parte dei giocatori-mostro che popolano le sale giochi. Forse in Giappone esce software che nemmeno ci immaginiamo, oppure la volontà giapponese di apparire “fichi” riguarda solo la sfera pubblica, come direbbe Habermas. “Forse ho capito,” ho pensato quando ho iniziato a scrivere questo pezzo. Ma dopo un minimo di riflessione, “forse no” mi sembra una conclusione più appropriata.


Giovanni Donda

Un uomo per due stagioni

Giovanni Donda, in arte Giocattolamer, è italiano di nascita e inglese d’adozione. “Scozzese, prego” aggiungerebbe lui. È entrato a far parte dell'industria dei videogiochi dalla porta di servizio, e lì è rimasto. Oggi è a capo di una piccola azienda indipendente di Quality Assurance e localizzazione, il cui nome e/o prodotti qui non verranno mai men-

zionati. Questo ci ha costretti a scriverlo lui. Va da sé che le sue opinioni siano appunto tali. Pure questo. La moglie, invece, gradirebbe che simili premure le riservasse a lei, e alla figlia, non a quella ditta del... Ma lo ama tanto. Fortuna che non capisce l'italiano e crede ancora che “Odio di Gomito” sia solo il romanzo che gli pagherà il mutuo.

odio di gomito Caro cugino ti scrivo

O

ltre che a dover mentire alla moglie, girovagare su Internet porta anche consiglio. “Sarà...” avrei risposto ieri, ma grazie all’ignaro utente melaQuit, residente in quel del TFP Forum, oggi posso finalmente parlare per esperienza personale. Ho trovato consiglio, intendo. Un suo thread, infatti, magistralmente chiamato “Caro designer ti scrivo” e inequivocabilmente sottotitolato “Ovvero quel che vorrei/non vorrei più nei videogiochi”, mi cattura l’occhio prima e mi mette la puzza all’orecchio poi. O la pulce sotto il naso, non ricordo mai come vanno i detti italiani. Fatto sta che, in questo marzo sornione passato con quaranta di febbre a bestemmiare in svedese contro Faith – è colpa sua, giuro – sono tornato a leggere con fervido interesse la voce del popolo. Un popolo strano, per dirla tutta. Quello che ancora non ha cambiato ristorante, nonostante la zuppa del giorno non sia altro che la zuppa di ieri. Quello che, alla prossima, la cameriera la ferma e gli chiede quando smonta. Un popolo di sognatori, insomma. Ho letto, dicevo, e me ne sono stato zitto. Proprio tu che ce l’hai a portata di bug tutti i giorni i designer, cosa mai vorresti scrivergli che non abbia già fatto in tutti questi anni di giochi venuti, vissuti e finiti… spesso nel dimenticatoio di un cestino delle offerte? Al di là dello scadere sul personale, non molto. Vorresti, piuttosto, invitarli nel tuo ufficio e aprirti a loro con una sentita confessione: non hai mai finito Zone of the Enders 2. I perché sono molteplici, ovvero due. Il primo è che non sei capace, li avverti. Il secondo, invece, potrebbe pure portare la discussione verso direzioni più costruttive, li tranquillizzi. Non hai mai finito ZOE2 perché ogni volta che riaccendevi la console non ti ri-

cordavi più come si pilotava quel cavolo di robot. Prima però che possano ribattere con un “Ma c’è il tutorial apposta”, hai tirato fuori un cucchiaio. E il cucchiaio esiste, è lo stesso che impugnerà per la prima volta il tuo pargolo, un giorno, con te che istintivamente gli dirai con che mano impugnarlo e come. Prima di fermarti, probabilmente, con un dubbio di troppo. È giusto imporsi? No, risponderebbe una persona ragionevole. Perché, allora, se è giusto che nessuno dica al bambino con quale mano - o come - debba impugnare il cucchiaio, voi vi sentite in dovere di dire a un nuovo giocatore che si affaccia per la prima volta al vostro gioco che comando debba usare? Per muoversi, per saltare, per sparare? Abbellisce forse l’esperienza ludica essere costretti ad usare uno specifico input per compiere una determinata azione? Mirror’s Edge sarebbe stato forse meno divertente - e più frustrante - se l’esile runner l’avessimo dovuta far correre con il grilletto destro, anziché la levetta destra? Nei limiti del buon senso, no. Del resto, senza questo tipo di sperimentazione, cambiare marcia con la levetta destra non sarebbe mai diventata la più grande invenzione che il genere dei giochi di guida abbia testimoniato dalla… beh, dall’invenzione della levetta destra. Riponi allora il cucchiaio, e tiri fuori un cubo. Solo, non è davvero un cubo, è una stanza vuota. In minitura, s’intende. Perché quello che stai suggerendo non è l’obbligatoria possibilità di assegnare i controlli a piacimento – questa non dovrebbe neanche essere in discussione. Ma molto di più. Dimenticate la console unica, fate spazio ai controlli unici. Rinchiudete il simulacro digitale del giocatore in una stanza e impartitegli dei comandi. “Cammina”, “salta”, “guar-

dati attorno”, ditegli tutto questo senza mai specificare come. Lasciatelo decidere al giocatore stesso, che siano le sue mani – chiuse intorno a una qualsivoglia forma di controller - a scegliere cosa farà cosa. A scegliere istintivamente. Un po’ come calibrare il proprio volante, solo che qui stai calibrando te stesso. Poi introduci vari oggetti nella stanza - che nel frattempo che avremo finito sarà diventata una palestra - una pistola da far sparare, un veicolo da far guidare, un pallone da far calciare. Salare quanto basta ed ecco che hai una ricetta per il futuro. Un futuro più ‘accessibile’, in cui caricherai Killzone 3 e sparerai con l’input che più si confà alle tue esigenze. Senza dover far altro che accedere al proprio profilo. Senza far altro che accendere la propria console. Ho letto, dicevo, ma me ne sono stato comunque zitto. Perché la stanza vuota non è pronta. Non lo sarà mai, probabilmente. Perché un designer non vuole essere limitato da azioni inventate e quindi già ‘calibrate’ da altri titoli. Perché puoi anche convincere con il bastone Harmonix e Neversoft a rendere compatibili i loro strumenti, ma non esiste bastone tanto grande. Ma soprattutto, la tua idilliaca stanza non può esistere, perché se al posto del cucchiaio di cui sopra, al bambino metti davanti delle bacchette cinesi, il tuo castello di carte casca con gran fracasso. Così muore la tua idea, il tuo sogno, assieme a tutti gli altri sogni che hai letto sì con interesse, ma che sai già non si avvereranno mai. Perché non siamo designer, siamo solo la voce del popolo. Un popolo strano, per dirla tutta. Un popolo di allenatori.

Non ammetterai mai che David Cage, l’idea della palestra virtuale, probabilmente ce l’aveva già avuta da anni. Poi però con Fahrenheit non ha solo tirato la catenella del cesso, ha tirato giù tutto il soffitto. Lui e la sua criminale concezione di cosa sia giusto per un videogioco. Gli consiglieresti caldamente di farsi un salto nel thread dell’utente melaQuit (http://www.tfpforum.it/index.php?topic=17279.0 ), non sia mai che sia ancora in tempo per salvare Heavy Rain. Ma questa è un’altra storia

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Vincenzo Aversa Professore Nerd

Ritenendosi da sempre uno dei cinque migliori giocatori al mondo di Tetris, il Dr. Vitoiuvara ha deciso di condividere con il mondo le sue conoscenze e abilità portando avanti su youtube quel “Corso per Videogiocatori Professionisti” che oltre a renderlo famoso, lo ha definitivamente consacrato al ruolo di pagliaccio. Vive

solo e abbandonato in compagnia del suo fidato quaranta pollici ma, come ama ripetere, risparmia un sacco sui preservativi. Nonostante attualmente passi tutto il suo tempo libero a videogiocare, è fermamente convinto che, nell’arco di massimo cinque anni, sarà fuori da questo ambiente di sfigati.

esco di rADo (ma gioco pure troppo) Voglio un presidente geek

S Questa roba che vi ho raccontato in questo pezzo è mia, solo mia, e guai se me la rubate. Se però decidete di non ascoltarmi e riuscite a farci dei soldi, brutti bastardi, datemi almeno il 10%

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eppure io lo nasconda molto bene, devo ammettere di aver frequentato un liceo qualche anno fa. Ricordo con chiarezza la mia professoressa di storia e filosofia del triennio. Per quanto fosse severa e stronza, ho sempre rispettato la sua dedizione per il lavoro che faceva. Ricordo con la stessa chiarezza la sua puzza poco nascondibile di sinistra, del tutto legittima comunque. Eppure, per non tirarsi addosso l’ira funesta di qualche genitore fascista non così, ma così (se il nuovo Babel funziona, adesso dovrebbe partire un ologramma), nascondeva la sua deviazione politica il più possibile. Facendo meno danni di un pensiero politico non dichiarato, il videogioco è esattamente come quella professoressa, un po’ meno stronzo magari. Perché un media con così tante possibilità continui a nascondere la testa sotto la sabbia è presto detto. Prima di tutto nemmeno lui vuole tirarsi addosso l’ira funesta di comunisti, destronsi, moderati o Berlusconiani (ci vorrebbe una terza mano per chiarire la sua corrente politica); poi per non rischiare un marchio a fuoco che inciderebbe sulle vendite; terzo la Lazio perde 2 a 0 con il Chievo, porca la zozza. Sarò un inguaribile sognatore, ma credo che sia dal punto di vista politico/morale che il videogioco, quello che vuole raccontare una storia ov-

viamente, possa esprimere le sue qualità migliori. Ma tanto non capite se non vi faccio qualche esempio, lo so che non siete troppo intelligenti. Scusate, non volevo essere offensivo, ma che palle quanto siete permalosi. Il primo videogioco si chiama To Be a President. Il protagonista deve vincere le elezioni con un budget limitato, quindi è costretto a guadagnarsi la fiducia della gente senza comprarsi un paio di canali televisivi. Il protagonista deve allora andare negli ospizi a promettere pensioni migliori, nelle chiese a promettere moralità, nei cantieri a promettere sicurezza, nelle scuole a promettere modernità e nelle scuole migliori a promettere erba legale. Per farlo, il giocatore deve guadagnare punti personalità giocando e vincendo dei minigiochi appositi. Quali non lo so, fate qualcosa pure con la vostra fantasia, che cavolo. Vinte le elezioni, il protagonista deve vedersela con un budget ancora limitato e con mille promesse da mantenere. E a quel punto il giocatore sceglie: meglio un morto in cantiere in meno o un vecchio con 100€ di più in tasca? Meglio la lotta alle droghe libere o Emma Bonino incatenata? Meglio risparmiare per l’istruzione dei giovani o guadagnare mille milioni di crediti per sbloccare l’achievement? Niente risposte, la Lazio ha appena preso il terzo goal.

Il secondo videogioco si intitola The Other Side. Il protagonista è un nazista, un semplice soldato nazista. Per gran parte del gioco le differenze con un Call of Duty qualsiasi sono appena percettibili. A differenza degli altri First Person Shooter, però, il giocatore acquisisce punti esperienza che rendono più facile l’uso delle armi e più precisa la mira. Poi si arriva in un paese sulle montagne, il vostro capoccia (perdonate, non ho fatto il militare) vi ordina di rinchiudere tutti i civili in un fienile, bambini compresi, e poi di ucciderli tutti. Se lo fate sbloccate un trofeo e le statistiche aumentano. Se non lo fate niente trofeo, il gioco continua con un nuovo personaggio a statistiche azzerate e qualche altro soldato li ucciderà al posto vostro. Fare la cosa giusta e morire o quella sbagliata senza rinunciare ai propri privilegi. Tutto o niente, fate il vostro gioco. Gli occhi di un nazista non sarebbero meno infuocati dal demonio se visti con questa profondità? La partita è finita, mi gira un po’ il culo. Con queste possibilità e con le milioni di idee che vi stanno scorrendo in mente proprio ora, non stiamo perdendo un po’ troppo tempo dietro a Tetris con le pistole?


Simone Tagliaferri

Si perde troppo spesso per mondi virtuali

Simone Tagliaferri nacque e sta ancora cercando di recuperare da quella faticaccia immane. Nel frattempo ha scritto articoli per molte testate, tra le quali Gameoff, Xoff, PSW, PC Games World e altre di cui non ricorda molto (sapete... la senilità). Attualmente scrive articoli su multiplayer.it, cura la sezione videogiochi

del Mediaworld Magazine e scrive assiduamente su Ars Ludica, progetto nato nel lontano 2005 che si occupa di spammare un po' di cultura videoludica in giro per il web. Tra le sue altre attività, oltre allo spaccio internazionale di pannolini usati, traduzione di guide ufficiali e di videogiochi.

ARS LUDICA

www.arsludica.org

La sessualità negata dei personaggi videoludici (parte prima)

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no degli argomenti ciclici che ogni tanto va affrontato è quello della sessualità all’interno dei videogiochi. Com’è la vita sessuale di Super Mario? Non che ci interessi particolarmente, in realtà, anche perché il discorso da fare è sicuramente più ampio. Partiamo da The Witcher in cui il sesso è presente in modo massiccio. I toni del gioco sono fantasy/dark, la trama e i dialoghi rientrano nella tradizione del genere, con perdita della memoria annessa e cattivone che vuole distruggere il mondo. La differenza, almeno per l’universo videoludico, rispetto agli altri titoli del genere è che Geralt, il protagonista, è costantemente impegnato nel cercare (e nel riuscire) a portarsi a letto i personaggi femminili di primo piano. Insomma, è una specie di mandrillo fantasy piuttosto belloccio. Moralismi a parte (li lasciamo volentieri al Moige), quello che va notato è l’incapacità completa del gioco di rappresentare coerentemente ed efficacemente il sesso, come parte della realtà dei personaggi. In un mondo decadente e piagato da una peste terribile, ogni volta che i dialoghi toccano l’argomento sesso, il gioco si trasforma in una specie di commedia all’italiana dove regnano i doppi sensi e dove le fanciulle sfoderano un repertorio linguistico degno del peggior film di Massimo Boldi e Cristian De Sica. Anche dal punto di vista visivo siamo nel regno dell’ammiccamento pruriginoso, con letti che cigolano e mulini da cui escono i gemiti di un amplesso, i quali vengono interpretati dagli abitanti di un vicino villaggio come il segno della possessione del luogo. Corollario di questa visione pecoreccia del sesso è il fatto che la pratica sessuale sia legata a una specie di

quest implicita, riassumibile in “trombale tutte”. Insomma, i toni gravi di The Witcher, epici oserei dire, vengono stemperati nella peggiore commedia possibile e diventa evidente come chi ha scritto le sequenze di seduzione e accoppiamento sia un grande cultore del cinema porno, che non riesce a concepire il sesso in un quadro di normalità, dandogli un ruolo sinceramente descrittivo nell’economia dei personaggi. Ma avviamo Mass Effect. Nel titolo della Bioware il sesso è usato in modo differente rispetto a quanto visto in The Witcher. In realtà, c’è una sola sequenza di sesso in tutto il gioco, che può riguardare un uomo e una donna (umana o aliena che sia) o una donna e una donna, non un uomo con un uomo. Già questa “limitazione” ci racconta qualcosa, ma non tergiversiamo sulle discriminazioni (magari ne parlerò in un altro numero della rubrica). Il grosso problema di questa unica scena di sesso è che sembra uscita da un filmaccio erotico di serie B pensato per il mercato dell’home video, uno di quelli che ogni tanto passano nelle ore notturne sui canali locali. Il problema è che non c’è grosso coinvolgimento dei personaggi, a cui il sesso viene fatto vivere come una parentesi esterna rispetto alla vita. Ovvero, il sesso non viene contestualizzato, non crea dramma ma è solo appoggiato al dramma principale. C’è ma non crea tensione, cioè non determina nulla se non se stesso. È una specie di easter egg da “sbloccare” e che può essere ignorato completamente. Insomma, in Mass Effect il sesso è incidentale nella vita dei personaggi, è un bonus regalato all’onanismo del videogiocatore medio che farà di tutto per vedere quella sequenza, senza riuscire a concepirla

come parte della trama. Da quell’esperienza i personaggi non ne escono arricchiti, in senso positivo o negativo. È come vedere un film in cui a un certo punto viene inserita una scena di sesso perché fa cassetta. I personaggi si ritrovano ad accoppiarsi per una forza innominabile nella diegesi che si chiama sceneggiatura, ovvero s’impegnano per dare al pubblico quello che vuole, ma non ne sono partecipi e non riescono a convincere. Della scena di sesso di Mass Effect si è parlato molto, più che altro per via delle polemiche che ne sono scaturite, guidate sapientemente dagli addetti del marketing di EA, che l’hanno cavalcata per aumentare l’interesse intorno al titolo. Quello che in generale è assente nel sesso praticato nei videogiochi è l’umanità dell’atto, costantemente stemperata in fiction. In realtà le eccezioni nobili non mancano (ne parlerò sul prossimo numero), ma sono gocce nel mare. Nella maggior parte dei titoli il sesso è negato, anche se in molti non manca una certa tensione sessuale (vedi Bioshock o Silent Hill); invece, come visto, nei titoli in cui è esplicito l’inserimento è spesso forzato e superficiale, asettico e greve. Manca la consapevolezza narrativa e manca la capacità di inserirlo in un contesto coerente in cui il sesso appaia come elemento tra gli altri, più che come momento estemporaneo inserito per far sghignazzare il giocatore e far parlare la stampa, ottenendone la pubblicità che serve per vendere qualche copia in più. Non per niente, alcuni di quei pochi titoli in cui il sesso è stato inserito in modo strutturale, non hanno destato alcuno scandalo, pur essendo a volte più espliciti di quelli molto chiacchierati.

Sesso tra umani e alieni? Chissà come mai ha destato meno scandalo del sesso tra due donne

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di Gianluca “Unnamed” Girelli

METEORE: che fine hanno fat ipartefilm inte seconda

ello scorso numero di Babel abbiamo parlato di “Film Interattivi”, trattando in maniera molto generica gli aspetti più comuni che hanno contraddistinto il filone. In questa seconda parte, invece, verranno affrontati in maniera più dettagliata alcuni tra i molti aspetti che li hanno caratterizzati. Come già accennato nell’articolo precedente, primi esponenti di questo nuovo filone furono i laser game che combinavano un impatto visivo di qualità televisiva ad un gameplay piuttosto banale. Per questo motivo, la mole di dati di controllo da gestire era molto limitata, non a caso il primo laser game prodotto, Rollercoaster (1982), basato sull’omonimo film, funzionava collegando un lettore laser ad un semplice Apple II, mentre giochi come Dragon’s Lair funzionavano su PCB relativamente semplici. Di fatto, il fulcro dell’intero sistema era il lettore laser, interscambiabile in molti cabinati, che costituiva la vera ossatura dell’hardware. La limitata interattività derivante dalle scarse capacità degli hardware fu la causa dello sviluppo di titoli dal gameplay pressoché identico, dove la discriminante era la sequenza video a cui erano legati

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(Space Ace, Cliffanger, Astron Belt, etc). Nella realizzazione di molti di essi vennero addirittura utilizzati film tradizionali o d’animazioni famosi, tanto per ribadire quanto la sequenza video fosse ininfluente nel peso dell’economia dell’impianto di gioco. Furono realizzati laser game su spezzoni di film (Firefox, Rollercoaster) o cartoni giapponesi (Cliffanger/LupinIII, Bega’s Battle/Harmagedon, Freedom Fighter/Galaxy Express, etc). L’alto numero di laser game nipponici è da ricercarsi nella grande diffusione che ebbero i lettori laser in Giappone che, integrando negli anni successivi le tecnologie derivanti dai giochi laser, divenivano veri e propri sistemi da laser game. Giochi come Time Gal (Taito), Road Blaster (Data East), Project Dragoon (Namco), Esh’s Aurunmilla (Funai), però, non riuscirono a far breccia nei nipponici, più impegnati forse a darsi da fare con sistemi da casa più tradizionali (MSX, NES). Di fatto, il Giappone e gli USA furono le uniche due nazioni a produrre laser game. Data la natura preregistrata delle sequenze, il controllo su schermo si rifaceva al Simon di Ralph Baer (o il Touch di Atari), che nella sua semplicità sembrava calzare a pennello. I laser game avevano un’interattività

limitata, le cui azioni dovevano essere eseguite rigorosamente in sequenza e in un preciso istante. Queste erano prestabilite e memorizzate nella memoria della scheda che le sincronizzava con le immagini a schermo. La difficoltà, quindi, non consisteva solo nel premere i tasti nel giusto tempo, ma ricordarsi anche quale fosse la sequenza corretta. Caduto in disuso insieme ai laser game, il sistema venne riscoperto molti anni dopo da Yu Suzuki e ribattezzato Quick Time Event. Merito del QTE fu quello di permettere l’inserimento di spezzoni particolarmente studiati dal punto di vista registico, senza dover modificare il sistema di controllo principale e mantenendo tuttavia una certa interattività, dando così l’impressione al giocatore di avere sempre il controllo sul personaggio. Quasi a volersi svincolare dalle meccaniche QTE, i laser game hanno elaborato tecnologie più complesse senza però distaccarsi troppo dai limiti del laser. MadDog McCree, Who Shot Johnny Rock, Crime Patrol, utilizzavano una nuova tecnologia meno vincolante, ma nemmeno troppo più evoluta, in grado di rilevare un punto esatto dello schermo puntato dalla pistola del giocatore e modificare il video agendo di conse-

guenza. Anche in questo caso i tre titoli erano formalmente una variazione dello stesso concept di gioco. Titoli come GP Word di Sega, al contrario, erano molto più divertenti da giocare poiché restituivano un feedback più immediato e continuativo, in quanto solo lo sfondo era generato dal laser, mentre tutto il resto era gestito nella maniera classica. Diverso il discorso per Street Viper, poiché essendo tutto generato dal laserdisc, il giocatore controllava solamente lo sterzo, in una maniera per altro simile a quella dei soliti laser game. La “navigazione” all’interno dei laser game, in stile QTE, ricorda per molti aspetti quella utilizzata nei più popolari libri-game, poiché analogamente a quest’ultimi (dove vita e morte del giocatore sono legati a più scelte corrispondenti a salti di pagina differenti), nei laser game questa corrispondenza è relativa a poche righe di codice che determinano la riuscita o meno di un determinato passaggio. In molte avventure punta e clicca, inoltre, possiamo ritrovare lo stesso schema dei libri-game nella sua funzione primaria, ovvero quella della divisione a bivi che portano a sezioni o finali diversi. Gli stessi punta e clicca, o meglio i loro antenati, cioè le


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erattivi? avventure testuali (Advent, Zork, Trinity, The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy e A Mind Forever Voyaging), condividono con i libri-game alcuni concetti alla base del sistema di avanzamento, come l’osservazione dell’ambiente circostante, la possibilità di eseguire alcune semplici azioni e, nel caso di componenti RPG, la capacità di poter affrontare nemici (Tunnels And Troll, Fighting Fantasy). Le avventure testuali si sarebbero evolute più tardi in interfacce di tipo SCUMM, molto più intuitive ed efficaci. Nel videogioco, il potere di modificare il percorso all’interno dell’avventura è però spesso limitato rispetto ad un libro-game, a causa di problemi di carattere tec-

nico/pratico che lo sviluppatore deve affrontare. Un maggior numero di scelte comporta, nei film interattivi, un maggior numero di ore di lavoro su codice e su riprese girate. Una struttura a bivi mal strutturata finirebbe per aumentare il carico di lavoro in maniera eccessiva. Un’autore di libri-game risentirebbe del problema in misura minore, in quanto limitato nella sola scrittura del testo, motivo per cui in molte avventure, scelte diverse nei dialoghi non corrispondono necessariamente a bivi diversi. Una suddivisione a bivi con struttura lineare è da scartare a priori in quanto poco, se non del tutto impraticabile. Si ponga ad esempio il caso in cui, all’interno di un videogioco, esistano cinque fasi in cui al giocatore è chiesto di scegliere tra due opzioni. Se la matematica non è un’opinione, lo sviluppatore dovrebbe

lavorare a 32 sottotrame in cui la trama si potrebbe articolarsi. Uno dei metodi più usati nella creazione delle avventure è quello dello “spazio narrativo” in cui la trama non è vista come una linea che si biforca, ma piuttosto come un’area all’interno della quale siano sparse delle “zone chiave”. Ognuna di queste corrisponde a località ed eventi unici, in modo che il giocatore possa passare, da sinistra verso destra, da un punto all’altro, in base alle scelte fatte durante la partita. Non necessariamente in sequenza e non necessariamente dovendo passare su tutte, fino ad arrivare infine alla fine del percorso. Il giocatore potrebbe finire il suo viaggio all’estremità dello spazio narrativo, corrispondente con il finale reale, o fermarsi prima; oppure arrivare ad un altro punto dell’estremità dello spazio corrispondente ad un finale diverso. Nei giochi più complessi, lo spazio narrativo potrebbe essere sviluppato su più dimensioni, costituito cioè da più spazi sovrapposti tra loro. Azioni che determinano cambiamenti drastici da cui non è possibile

(Sotto) Psss… non è vero che Yu Suzuki ha riscoperto per primo il QTE con Shenmue! Dynamite Deka/Die Hard Arcade lo aveva già fatto nel 1996... ma non ditelo a nessuno!

tornare indietro, porterebbero il giocatore a passare da uno spazio all’altro che rappresenterebbe una sorta di nuova linea temporale alterata dalle scelte del giocatore. Knights of the Old Republic e Fable, molti anni dopo, avrebbero fatto dell’evoluzione dello spazio narrativo il cardine del loro impianto di gioco e l’interattività non sarebbe stata più un problema, in quanto sarebbe divenuta addirittura attiva o passiva. Ma questa è un’altra storia. (Appuntamento con la terza parte su Babel 014)

(In alto) Sviluppato da Cinematronics nel 1983, l’hardware di Dragon’s Lair era molto semplice. Fu inizialmente sviluppato su un hardware Amiga connesso ad un Pioneer LDV-1000, anche se poi l’hardware finale risultò molto più semplice da basare su CPU Z80. Lo stesso lettore poteva essere tranquillamente sostituito con altri (Pioneer pr7820, Philips 22vp932). Dragon’s Lair divenne famoso per altri due motivi: primo, fu disegnato da Don Bluth, ex animatore Disney; secondo, costò uno sproposito: 1,3 milioni di dollari per 23 minuti totali, in pratica quasi 1000 dollari al secondo. I lettori, poi, tendevano a rompersi a causa della loro natura non ludica: essendo stati concepiti per leggere film, non erano abituati ai continui accessi su e giù per il disco richiesti dal gioco, finendo così per rompersi. Nonostante ciò, il cabinato ottenne un ottimo successo che generò seguiti a non finire

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giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda

Far Cry Vengeance

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i ricordo montagne verdi, e le corse di una bambina. A dire il vero di bambine non mi pare ce ne fossero, e le montagne me le ricordavo fatte meglio. Fa niente, ho adorato FarCry e la notevole (per i tempi) libertà di accoppare nemici nei modi e dalle posizioni più disparate, un po’ di terra slavata non mi ucciderà. Già finito su PC e provato pure nell’ottima conversione per Xbox, ma la versione Wii propone di essere qualcosa di più e il telecomando Wii saprà fare la differenza dando un senso tutto nuovo all’avventura. Ma c’è chi mi mette in guardia: FarCry Vengeance non è un prodotto riuscito, il sistema di controllo riprende i difetti di quello di Red Steel, la grafica non è fluida, l’Intelligenza Artificiale non funziona, Gamerankings lo massacra. E la confezione puzza pure. Macchisselincula! A me i controlli di Red Steel non dispiacevano, l’I.A. non funzionava benissimo neanche nell’originale, del giudizio della gente non me ne importa nulla e Gamerankings stila le medie in base ai gusti degli ‘ammeregani’, cosa volete che ne capiscano loro di videogiochi? E la grafica non scatta, ho visto i filmati su YouTube! Sembra bello! Dopo averlo provato

posso dire in tutta onestà che Far Cry Vengeance non è solo “lammerda”, è proprio un’idealizzazione che si infrange rovinosamente contro una realtà troppo diversa, l’aggrapparsi ad una convinzione che frana dopo pochi attimi. Criticare la softeca Wii è diventato oramai sport nazionale, eppure ritengo che per rovinare un prodotto già ottimo in partenza e tecnicamente alla portata dalle capacità del Wii, serva mettersi d’impegno. Da ex amighista mi ritornano in mente i pomeriggi passati a farmi piacere le conversioni U.S. Gold dei giochi Capcom, pagate fin troppo per il loro reale valore (quello del dischetto copiato!) e di una tale bruttezza da far passare persino la voglia di giocare gli originali. Ubisoft non è U.S. Gold, ma quella strana sensazione lì sotto allo stomaco è tale e quale. Il sistema di controllo non è poi così malvagio, in fondo. Lento per gli standard Wii, ricorda Red Steel in alcuni movimenti piuttosto scomodi, come ad esempio lo zoom, ma tutto sommato non totalmente deprecabile. Lo diventa, invece, quando il gioco decide di crollare nei momenti meno opportuni, durante la “trasformazione” o nelle fasi di guida, durante le quali,

ubisoft montreal ubisoft wii 2007 tra la telecamera che se ne va per i fatti suoi e il mezzo che va da tutt’altra parte, ho iniziato a dubitare del lavoro delle madri dei programmatori. Peggio ancora l’I.A., che nel passaggio ha subito qualche modifica di troppo. Sia chiaro, niente faine nemmeno nell’originale, ma abbattere una guardia mentre quella a fianco se ne sta bellamente tranquilla è roba dei tempi andati di cui sopra. Più che altro, spero di non essere l’unico fesso ad essermi chiesto come sia possibile che la versione Wii sia tecnicamente inferiore a quella Xbox, nonostante la presunta superiorità nell’hardware: texture slavate, normal mapping inesistente, animazioni riciclate. E c’è davvero da ridere pensando che il team di sviluppo è lo stesso. Il gioco ben presto prende la via dello scaffale. Di ammettere lo sbaglio non se ne parla e di chiedere scusa neanche morto, ho una dignità io. Da Ubisoft mi aspettavo ben altro che un prodotto convertito durante le pause caffè, soprattutto, la prossima volta, niente più braccino corto nelle modalità multiplayer offline. Lo splitscreen a 4 giocatori c’era già in Goldeneye, 12 anni fa!

di gianluca “unnamed” girelli

GIOCHI DI MERDA!

giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda giochi di merda 014 022


Italian Top Games Chart



360 ps3 pc

RESIDENT EVIL 5 Il carrozzone va...

piattaforma 360 ps3 pc sviluppatore capcom produttore capcom versione pal provenienza giappone

a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa

uando Capcom lasciò la strada vecchia per quella nuova, il futuro sembrava già segnato da un nuovo filone di seguiti fotocopia. Quel futuro, allora, pareva il migliore dei possibili. Affogate da una demo costruita per inorridire, però, le vecchie meccaniche zoppicavano con vergogna tra zombie arrabbiati e uccellacci troppo rapidi. Come Brad Pitt e il suo bottone, insomma, Resident Evil 5 nasceva vecchio nel presente di una generazione ancora lontana dal morire. Poi metti il disco con poca convinzione, azzoppi un paio di indigeni colorati, spappoli due teste a forza di calci volanti e sei già la puttana di un seguito con nulla da dire. Resident Evil 5 si specchia nel successo del suo predecessore, si spoglia di una sorpresa che non può più offrire e mette in campo una formazione da manuale. Quattro-quattro-due si direbbe nel calcio, azione-fuoco-varietà la formula magica dei videogiochi. Arricchito dalla solita trama insulsa e prosciugata, il quinto Resident Evil ingrana la marcia dopo soli cinque minuti di smarrimento. Piccola pausa necessaria per assimilare nuovi controlli, nuovi menu e nuova interfaccia. Come un sogno che si avvera, il 2009 concede quello che per anni si è supplicato invano: armi a chiamata rapida, comodo scambio di oggetti tra prima donna e compagna di viaggio, pensionamento delle macchine per scrivere. Mentre leggete, immaginate un coro Gospel che mi lancia un alleluia. Ma non tutto il bene viene senza nuocere. L’ulteriore snellimento dell’azione a base di checkpoint e salvataggi automatici si è, infatti, portato via quel poco che era rimasto del vecchio survival horror. Paura, tensione e scoppio di coronarie hanno lasciato definitivamente il posto ad un gioco sempre godibile, ma senza rischi. Pure il negoziante, essere fuori moda e contesto nel precedente capitolo, è stato scalzato dalla comoda possibilità di accedere al negozio all’inizio di ogni capitolo. E pure quando la morte prende il sopravvento,

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dopo aver scelto se continuare o meno, si può fare incetta di spray medici, cannoni rotanti e lame perforanti. Tutto a prezzi ridicolmente bassi, tutto per piallare un livello di difficoltà normale che si lascia giocare, ma che non spinge mai oltre i propri limiti. Il ritrovamento continuo di tesori e gioielli preziosi, quindi, si piega all’esigenza, nemmeno troppo obbligata, di upgradare il proprio infinito set di armi. Come la domenica in chiesa, si buttano le mille lire nel piatto per non fare brutta figura, ma senza sapere se aiuteranno i poveri o se abbelliranno qualche giardino. Arsenale di tutto rispetto, a dire la verità, con bagnarole di pistole e fucili e con l’aggiunta (vado a memoria) di mine dell’amicizia utili in più di qualche situazione. La valigia questa volta non è ampliabile, ma tra gli slot del compare e un inventario sfruttabile a singhiozzo, son pochi i motivi per piangere lacrime e miseria. La ballata degli zombie, dal canto suo, esce raramente dalla superclassifica. Il ritmo è serrato, ma lascia spazi preziosi tra un’orda e l’altra per perlustrare i contorni. Non che ci sia molto fuori dal seminario; Resident Evil 5 tira dritto con qualche rara concessione al libero arbitrio. Peccato, perché le prime zone all’aperto sono costruite per dare sfogo alle idee del giocatore. Scale, tetti e porte possono diventare un labirinto per rallentare il nemico. Certo, la candela si spezza quando è un miniboss a farsi prendere a schiaffi tra fughe, rincorse lente e fuoco da lontano. Proprio i Boss, quelli veri, sono l’anello debole di un ingranaggio che nel complesso conta bene i minuti e i secondi. Addobbati da luci al neon, i loro punti deboli non si fanno ricercare e l’abbattimento è spesso raggiungibile senza spreco alcuno di munizioni. Senza tattica, senza ragionamento, senza il sudore necessario per godersi una vittoria. Chiavi in mano mi sono indubbiamente divertito, ma chissà se salirò ancora su questa macchina. 7

La modalità coop è costruita con intelligenza e prevede alcune sezioni da divorziati. In quei casi è necessario aiutare il proprio compagno dalla distanza

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playstation2

PERSONA 4

EverydayisagooddayatyourJunes console ps2 sviluppatore atlus co. produttore atlus co. versione ntsc/uc provenienza giappone

a cura di Michele “Guren no kishi” Zanetti

splorato il setting cittadino in Persona 3, è ora di cambiare e di trasferirsi in una località di campagna. Quello che sembrava dover essere un anno di studio tranquillo, si rivelerà presto un calvario a causa di strani omicidi seriali che accadono nella relativamente piccola cittadina di Inaba. Al nostro solito Silent Protagonist e ai suoi compagni spetterà il compito di acciuffare il colpevole, vivendo allo stesso tempo la propria vita privata e scolastica. Ancora una volta la parte simulativa e quella prettamente esplorativa e di combattimento si fondono perfettamente, con la maggior parte dei cambiamenti alla struttura di gioco volti a rendere l’esperienza più accessibile e meno frustrante di un tempo. Un po’ d’impegno e spirito di dedizione, però, ci vogliono sempre, soprattutto all’inizio. Ogni giornata è divisa in vari “slot temporali”. Alla mattina seguirete le tipiche lezioni, rispondendo di tanto in tanto alle domande dei professori e sostenendo gli esami quando dovuto. Potrete invitare qualcuno dei vostri amici a pranzo, nel caso abbiate cucinato e preparato il tutto la sera prima. Di pomeriggio le cose si fanno movimentate. Potrete decidere se spendere il tempo con uno dei vostri amici per approfondire i rapporti e aumentare così i Social Link (che ora richiedono meno punti per salire di livello), oppure dedicarvi a qualche Side Quest, lavorare part time, pescare o altro. La sera potrete studiare, leggere un libro, lavorare, costruire modellini... tutte attività atte ad aumentare i propri cinque parametri base per le interazioni sociali. Certi livelli di conoscenza, coraggio, accuratezza, espressione e comprensione sono necessari per accedere a specifici SL o lavoretti. Da non sottovalutare, allo stesso modo del nuovo sistema meteorologico. Personaggi ed eventi potrebbero essere accessibili o meno a seconda delle condizioni del tempo. Il beneficio di aumentare il livello dei SL giova ancora di più al gameplay. Come in P3, più è alto il livello e maggiori punti esperienza bonus verranno regalati al Persona appartenente al medesimo Arcana del SL in questione. Questo dopo essere stato fuso nella Velvet Room, ma

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nel caso dei SL legati ai personaggi che combattono con voi, i benefici sono ancora più grandi. I personaggi guadagnano abilità automatiche in battaglia, come resistere ad un colpo mortale, prendersi un attacco al posto del protagonista (se lui muore è Game Over diretto), curare gratuitamente status negativi, aiutare un compagno in status Down a rialzarsi o eseguire un colpo critico extra. Molto utile. Tutti i personaggi, siano essi legati alla trama principale o semplici Non-Payable Characters per i SL, sono trattati con molta cura, tutti interessanti e piuttosto riusciti. La parte della simulazione scolastica è sempre piacevole da intraprendere e serve anche a rilassarvi e a staccare dalle fasi esplorative nei dungeon. Sì, al plurale. Non più un unico, lunghissimo (e altissimo direi) dungeon, ma vari scenari, più brevi e con differenti aspetti. Le fasi esplorative avvengono tutte di pomeriggio. Le persone che entro un paio di settimane verranno uccise compaiono in TV sul Midnight Channel nei giorni di pioggia. Per accedere al loro dungeon e salvarli bisognerà prima sbloccarlo cercando indizi in lungo e in largo per le poche locazioni di Inaba, parlando con chi di dovere. Accedendo

al mondo alternativo all’interno della televisione del centro commerciale di Junes, si potrà decidere dove andare e cosa fare. Vi attenderanno un assortimento di save point per ogni evenienza, la Velvet Room, pronta ad essere usata per tutte le vostre manie più sfrenate in campo di fusioni tra Persona, nonché i vari personaggi con cui parlare per accedere ai dungeon di turno. L’esplorazione avviene come in passato, muovendosi in quattro tra i corridoi del livello con la mini mappa che si completa procedendo. Lo scopo è quello di raggiungere il livello successivo fino all’ultimo piano e al boss di turno. In mezzo le buone e vecchie Shadow, che non possono più assalire i personaggi che troppo spesso rimangono indietro incastrandosi in qualche angolo. Colpirle di spalle vi assicura ancora un fondamentale intero turno aggiuntivo in battaglia. Il protagonista non può più equipaggiarsi con vari tipi di armi, come l’utilissimo arco di P3, ma solo con spade, quindi il rischio che una Shadow si giri di colpo prima di riuscire a sorprenderla è maggiore. Peggio ancora con le nuove ombre svolazzanti per cui vi ci vorrà un po’ per imparare il timing giusto, per non essere voi a subire un attacco preventivo.


PS2 spara le ultime cartucce “errepiggistiche” rimaste e se ne esce col classico canto del cigno. Persona 4 capitalizza su quanto c’era di buono nel terzo episodio, ne modifica e migliora alcuni aspetti legando tutto a storia, atmosfera e personaggi riusciti. Insomma, un altro capolavoro

P4 non si aggiudica il massimo dei voti a causa di un paio di imperfezioni: a livello grafico vi è un leggero filtro blur, quasi onnipresente, mentre a livello uditivo il doppiaggio non è sempre convincente

In battaglia vi sono delle novità mica da poco che ne snelliscono il flusso. Non esistono più tre classi di armi fisiche, ma solo una generica. Colpire il punto debole di un avversario con l’attacco giusto vi fa ancora guadagnare un turno extra, ma avversari e compagni non ne perdono più uno per rialzarsi: possono subito agire. Per fargli perdere il turno dovrete pestarli ancora una volta mentre sono a terra e mandarli in Dizzy. Alcune vecchie strategie con i nemici in Down a cui eravate abituati in P3 qui non funzionano più. Sono anche diminuite le formazioni nemiche che vi martellano con magie di classe Hama o Mudo, diminuendo così drasticamente le chance di Game Over immediato. Il cambiamento più epocale rimane il fatto che i propri compagni possono essere finalmente controllati direttamente, invece che lasciati in balia dell’I.A. della CPU. Niente più colpi sprecati, scelte assurde o danni immeritatamente subiti. Altra grande novità di peso strategico è data dalla possibilità di mettersi in parata e diminuire drasticamente il danno dal successivo colpo subito, oltre che annullare in questo modo il proprio punto debole elementale. Era ora.

P4 come esplorazione e combattimento è più bilanciato rispetto a P3 e la sfida è più umana. Alla fine di uno scontro vi è ancora la possibilità di giovare di uno Shuffle Time. Più difficile da seguire che in P3, potrete scegliere tra un Arcana, un bel niente, oppure una penalità. Alle volte potrebbe anche capitarvi una carta extra che, a seconda se si fermi dritta o rovesciata, potrà elargirvi bonus o malus. L’Arcana portato in saccoccia entrerà immediatamente nel Compendium della Velvet Room, diventando da subito accessibile in cambio di denaro. Scomparse dallo Shuffle Time le carte per soldi extra, HP guariti, oggetti o EXP aggiuntivi, quindi, ma tutto ha una sua spiegazione. I nemici sconfitti rilasciano quasi sempre dei materiali (oppure oggetti rari in caso di specifiche Quest), vera fonte di ricchezza se venduti e unico modo per far comparire nell’inventario dell’armaiolo nuovi equipaggiamenti. I personaggi non si stancano più combattendo, così come non vengono più totalmente guariti tornando alla base del dungeon. Un simpatico comprimario vi rigenererà gli Skill Point perduti in cambio di quantità “gargantuesche” di denaro, ma più il suo SL aumenterà e meno vi farà pagare. L’espe-

rienza richiesta per i level up pare diminuita, non si sente quindi veramente il bisogno di esserne sommersi. In aggiunta, è possibile riprendere il dungeon dall’ultimo piano che si era visitato. Verso la fine del gioco, grazie ad alcune abilità del vostro supporter, HP e SP non saranno più un grande problema, rendendovi quasi inarrestabili. P4 è impegnativo nelle fasi iniziali, ma poi scema verso un livello di difficoltà generale sulla media. Tutti lo possono giocare, tutti si possono divertire con un grande e lunghissimo JRPG. Un comparto grafico da spremuta di PlayStation 2 e la solita ottima musica fanno il resto, a cui si aggiunge poi un senso di soddisfazione piuttosto marcato, una volta giunto al termine e visto il vero finale. 9


ps3

KILLZONE 2 Occhi rossi sul pianeta Helgan

console ps3 sviluppatore guerrilla produttore scee versione pal provenienza olanda

a cura di Gialuca “Unnamed” Girelli

untare su idee innovative come soluzione per ottenere visibilità. Un’asserzione logica che può sembrare banale, ma non sempre la logica fila perfettamente. Piuttosto che dare maggior peso all’innovazione, Guerrilla percorre la strada dell’affinamento di meccaniche che già hanno dimostrato di funzionare e i risultati non sembrano dargli torto. Killzone 2 è pura dimostrazione di forza bruta: delle capacità del team, della console su cui gira, del genere che va per la maggiore. Agli albori del 3D si era soliti pavoneggiarsi realizzando giochi di guida, se oggi invece siamo sommersi da ‘quintalate’ di FPS è solo perché, se non mastichi shader, bump mapping, HDR e sarcazzi assortiti, non vali una cicca. Rispetto ai colleghi, Guerrilla si eleva con un prodotto di caratura maggiore, ma non si sottrae a compromessi: mostra i denti con un comparto grafico da urlo, ma sforna, a conti fatti, un titolo decisamente lineare. Che in Guerrilla abbiano preferito puntare su clichè evitando rischi inutili? Dunque, mancanza di coraggio o mancanza di inventiva? Nessuna delle due e tutte e due. Gli ultimi titoli Valve dimostrano che innovare sfornando prodotti godibilissimi è possibile, Crysis concilia una magistrale realizzazione tecnica con un concept tutto nuovo e Fallout 3, pure, offre interessanti soluzioni. La stessa struttura di Killzone tutta spara-copri-spara paventa presagi di monotonia, una monotonia da sudare, però, metro per metro, con il coltello fra i denti. Killzone 2 non è scevro di momenti ludici decisamente interessanti, né da sezioni il cui (level) design non si dimostri efficace. Inoltre, nonostante la linearità, concede sempre un certo grado di libertà, mancando di quella sensazione di ‘ingabbiamento’ in cui una data sezione debba essere preferibilmente completata nei modi previsti dai coders. Giu-

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sto le fasi diversive - che generalmente servono a spezzare le fasi FPS - in Killzone 2 sono meno convincenti, perchè nella loro funzione di rottura sembrano inserite quasi a forza. Nonostante i paragoni con Call of Duty 4 o Black di Criterion, è con F.E.A.R. che le affinità sono maggiori. Un titolo controverso, che però aveva delle qualità enormi, prima fra tutte la superba I.A. dei nemici e le ben studiate tattiche di ingaggio. Ma F.E.A.R. peccava forse fin troppo in varietà d’azione, ingabbiato in un level design incapace alla lunga di dare massimo risalto alle qualità dell’impianto di gioco, laddove in questo senso Killzone 2 è supportato adeguatamente. Killzone 2 mantiene una sua identità ben definita, riuscendo meglio di altri nella rappresentazione ludica della guerra: pesante, logorante, sporca. In Guerrilla avranno pensato che la guerra non è fatta di storie romanzate, piuttosto di una successione di missioni da svolgere, punti di atterraggio da ripulire, luoghi da raggiungere, laddove

interessi più grandi possono solo sfiorare il soldato che la combatte. La trama è – quasi - non pervenuta, quello che ne rimane sa di deja-vu. Un contorno migliore alle vicende dei 4 eroi sarebbe stato decisamente apprezzato. Notevole è la sensazione di pesantezza delle armi la cui precisione è relazionata alla quantità di colpi sventagliata, purtroppo leggermente compromessa da un sistema di fuoco tendente alla deriva, che costringe a correggere il tiro varie volte prima di centrale il bersaglio. Nulla di grave, ci si fa l’abitudine (nel momento in cui scrivo una patch ha in parte risolto il problema), ma il predecessore, pur restituendo le stesse sensazioni, non falliva. Killzone 2 ha la sua ragione d’essere negli scontri a fuoco: in altri titoli, i nemici riescono a soverchiare il protagonista solo grazie ad armi tarate in modo da essere più potenti, Killzone 2, pur non esulando totalmente da ciò, vedrà non di rado gli Helgast superare il giocatore in arguzia, dimostrando di poter affrontare il

Ti stai sbagliando chi hai visto non è... non era Crysis! No, sul serio, i paragoni tecnici Killzone 2 vs Crysis sono improponibili. Killzone 2 è ottimo, ma chi ha giocato a Crysis sa bene che non è tecnicamente paragonabile a qualunque altra cosa sia uscita finora! Sì, direte voi, ma per far girare Crysis ci vuole un PC da mille milioni! Non proprio, un rapido calcolo con i prezzi dei componenti e una buona configurazione che faccia girare –decentemente - Crysis a 720p la si trova tranquillamente sui 4/500€, qualcosa in più rispetto al costo di una PlayStation 3. È anche vero che i costi dei componenti PC tendono a calare molto in fretta. Non resta che aspettare la conversione su console di Crysis, intanto qualcuno sta lavorando ad un mod del famoso CG dell’E3 2005…


giocatore – quasi - ad armi pari. Merito di un’I.A. estremamente elaborata che permette agli Helgast di studiare tattiche diverse e di inseguire il nemico praticamente dappertutto, mostrandosi nella sua pienezza solo al massimo livello di difficoltà - sebbene barlumi di questa intelligenza siano avvisabili anche ad un livello “veterano”, già abbastanza tosto da risultare godibile. Meglio lasciar perdere i livelli di difficoltà più bassi, però, l’usanza di regolare la difficoltà dall’alto verso il basso mal si sposa con le capacità di questo titolo. Non mancano neanche sezioni ‘scriptate’ o irritanti ‘respawn’, ma fortunatamente non ostacolano in alcun modo le decisioni dell’I.A. Lascio colleghi e community intervenire su eventuali/fantomatiche rivoluzionarie tecniche grafiche. L’impatto grafico che percepiscono le retine non è per nulla comune, ma non voglio che si fraintenda: ombre che friggono, texture scadenti, occhi vitrei sono difettucci evitabili ed evitati in molte altre produzioni. In questo ricorda il predecessore, visivamente fenomenale nella sua contraddizione, con i suoi effetti di

(fake) HDR, blur, fumo, rumore video che convivono bellamente con compenetrazioni, texture distorte, framerate instabile e altro ancora. Killzone 2 non fatica a stupire, ma i suoi sono – forse - più meriti artistici che tecnici. 30 milioni di dollari spesi, 150 tra artisti e coders, 4 anni di lavoro. E i risultati si vedono tutti. Killzone 2 è uno dei giochi più curati da anni a questa parte, una cura che va dai più visibili effetti di luce caleidoscopici, fumo, polvere e post-produzione dell’immagine, alle ambientazioni che paiono (dis)arredate da una precisa volontà, fino a scontri a fuoco tra bot visibili da ogni angolo della mappa. C’è chi ha parlato di un single player piegato ad un multiplayer più solido, e tutto sommato non siamo troppo distanti dalla verità. L’online di Killzone 2 è strutturato in classi, riprendendo in qualche modo quello di Team Fortress 2, una solida base che garantisce ore di sano divertimento grazie anche ad una diversificazione delle (7) classi e (8) mappe sufficientemente varie e godibili. Aggiungiamo, poi, un lag praticamente

assente anche con 32 giocatori online e il quadro è completo. Si poteva però fare molto meglio sul fronte della gestione del clan: se da un lato è possibile organizzare squadre, eventi, tornei e sfide con altri clan, dall’altro è impensabile che manchino funzioni basilari come l’invito degli amici, la chat pre-partita o un tasto voce che eviti l’aggrovigliamento di queste. Peccato, anche, che manchi una modalità coop-online. In questo titolo, più di altri, avrebbe fatto davvero la differenza. Su Killzone 2 si è detto tanto prima dell’uscita e probabilmente si dirà ancora tanto in futuro. Rimarrà a suo modo impresso nella memoria di molti giocatori, anche se forse per i motivi sbagliati. Killzone 2 punta molto sulla componente grafica superiore alla norma, ma sarebbe ingiusto sminuire aspetti validi come l’I.A., la sensazione di coinvolgimento e gli scontri a fuoco. Killzone 2 manca di coraggio e di inventiva? Forse, ma rimane un prodotto divertente, curato oltre la norma. E non è poco. 8

PER IL SACRO DORAEMON! KYAIIIIIII!!!! La cura di Killzone 2 è dimostrata anche nel doppiaggio, già ottimo nel primo episodio e in Liberation per PlayStation Portable. Pegasu… ehm, Ivo De Palma (Narville) è potente nell’incitare alla lotta contro gli Helgast, mentre il noto Pietro Ubaldi non se la cava male nell’interpretare Rico (con buona pace dei detrattori che lo vedono bene solo per i cartoni animati... e forse nemmeno quelli), laddove la voce originale è forse un po’ troppo giovanile. Buona anche la voce di Visari, anche se l’originale (Brian Cox) è inarrivabile

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360 ps3 pc

STREET FIGHTER 4

I don’t care what the critics say... formato 360 ps3 pc sviluppatore capcom produttore capcom versione pal provenienza giappone

a cura di Davide “Lun” Lunardelli

iete Capcom. Una delle vostre serie più prestigiose sta vendendo alla grande, nonostante mostri qualche lievissimo calo di creatività. Cosa fate? Esattamente, annunciate subito il capitolo successivo. Ma se vi trovaste di fronte alla situazione esattamente opposta? Se vi trovaste a produrre una perla bizzarramente snobbata dalle masse, come vi comportereste? Rileggete la prima frase, siete Capcom. Bingo! Street Fighter IV arriva dopo che per 10 anni la serie è stata data per morta e sepolta, e al tempo stesso continuamente mitizzata e glorificata da chiunque ne avesse anche solo un vago ricordo. Il risultato dell’annuncio di un seguito in questo contesto era non solo facilmente immaginabile, ma si è poi effettivamente verificato con un’aderenza alle previsioni semplicemente disarmante. La buona notizia di oggi è che, gioco alla mano, possiamo finalmente capire se dietro all’hype e al genio commerciale si nasconda anche il gran gioco che ci è stato garantito in decine di pedanti interviste e preview. Ma andiamo con ordine, e vediamo cosa ci è stato promesso durante la grande campagna dell’hype. In uno slancio di filantropia, gli intenti di Capcom sembravano puntare a raggiungere ogni tipo di utenza possibile e immaginabile. Il primo passo in questo senso è stata la distinzione, decisamente grossolana, tra i giocatori “esperti” (pochi, amanti della complessità del terzo capitolo) e tutti gli altri (moltissimi, amanti dei ricordi del secondo capitolo). Considerato questo, deve essere stato chiaro fin da subito su cosa fosse necessario lavorare: gameplay “classico”, cast dominato dalle vecchie glorie, combo e tecniche varie alla portata di tutti, ma anche – attenzione - profondità garantita da una nuova feature tutta da esplorare. Tutto questo contestualizzato ai desideri ed alle esigenze (?) dei giocatori di oggi, anche completamente nuovi alla serie, grazie ad elementi quali la nuova veste grafica, gli obbiettivi, i personaggi e gli orpelli vari da sbloccare; senza dimenticare un gioco online all’altezza delle aspettative. Un concept a dir poco impeccabile che, diciamolo, da solo è

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bastato a garantire al gioco gran parte delle valutazioni positive che ha ricevuto dalla critica di tutto il mondo. Ma come si comportano, in realtà, tutti questi elementi quando ci si trova sul ring e sta salendo un nuovo avversario? Il primo pensiero va inevitabilmente al comparto grafico, che (ri)porta i poligoni nel contesto di un picchiaduro dalle meccaniche genuinamente 2D. Come sia possibile preferire modelli poligonali incerti e spesso sgraziati, a lottatori disegnati da mani delicate e sapienti, è un discorso che non affronteremo. Sta di fatto che, nel complesso, l’aspetto visivo del gioco funziona. Non si prende troppo sul serio e riesce nel suo intento di risultare immediatamente appetibile, soprattutto a chi non ha o non ha più grande confidenza con il genere, grazie anche ad una serie di effetti visivi tutto sommato apprezzabili. Certi aspetti come il feeling a dir poco bizzarro delle collisioni ed alcune compenetrazioni poligonali, però, non vanno considerati come mali necessari alla svolta, ma come veri e propri difetti (seppur assolutamente tollerabili) che andavano corretti per tempo. Il gameplay, in compenso, vanta una solidità non indifferente, es-

sendo fondato in maniera quasi religiosa sull’antico e collaudato connubio bolla/shoryuken, con il quale chiunque ha un minimo di confidenza... Oppure la può acquisire facilmente. Tutto infatti è immediato in Street Fighter IV: tenere a distanza l’avversario, reagire in maniera istintiva ad una sua azione, provare le prime combo base. Le finestre per gli input sono state generosamente allargate, e come se non bastasse c’è una tolleranza probabilmente senza precedenti verso gli errori di esecuzione. Tutto questo fa in modo che ogni tipo di giocatore si possa sentire “subito a casa” e divertire già dalle prime partite, senza necessariamente dover passare attraverso ore di studio e/o allenamento. Il che, clamoroso a dirsi, non preclude affatto la possibilità di dedicare volontariamente e con profitto del tempo a questi aspetti. L’approccio graduale, infatti, è costantemente incoraggiato, e il giocatore interessato a migliorarsi (e quindi a trarre maggior godimento dall’esperienza, ingenuo chi non ci vuole credere) si accorge ben presto del fatto che le combo saranno anche “pane e salame”, ma in compenso ne esistono di maggiormente ostiche che ampliano le potenzialità offensive del proprio personaggio


in maniera importante. Oppure del fatto che il Focus Attack non è un giocattolino da utilizzare a sentimento, ma un pezzo di gameplay indispensabile in tutte le fasi del gioco. Quest’ultimo punto merita sicuramente un piccolo approfondimento, in quanto il FA è l’elemento che rende questo Street Fighter davvero unico, diverso dai precedenti nonostante le premesse e in ultima analisi meritevole di essere approfondito. La tecnica in questione ripropone in una nuova veste l’ormai famoso concetto di “difesaoffensiva”, ma il suo utilizzo non è quasi mai banale. Anche il semplice assorbire una bolla può infatti diventare un modo per guadagnare spazio prezioso (grazie al dash cancel) o un rischio calcolato volto ad aumentare la Revenge meter. Ma non mancano finte varie o la possibilità di poter leggere e punire il gioco avversario con efficacia buona, ma mai esagerata. La situazione che nasce dopo un FA parato ma dash cancellato, inoltre, è veramente molto interessante, un momento di gioco nel quale il mind game torna per un attimo all’importanza che riveste nel sublime terzo capitolo.

Impossibile dimenticare, infine, la piccola proprietà che consente di cancellare alcune mosse in FA e successivo dash, per favorire in caso di successo l’esecuzione di altri attacchi, Ultra comprese. Le possibilità in questo senso sono enormi (nonostante il costo in termini di Super meter), in alcuni casi realmente esagerate. Il che sarebbe perfettamente comprensibile se l’intero cast potesse beneficiare al massimo di questa tecnica, cosa non vera in quanto la move list della maggior parte dei personaggi non consente “incastri” particolarmente vantaggiosi, o semplicemente non ne consente. L’impressione è quindi quella di essere di fronte ad un sistema di gioco particolare e ben congegnato, ma non perfettamente cucito su di un cast semplicemente vecchio, in tutti i sensi. Forse già dalla versione arcade sarebbe stato meglio essere meno conservativi e provare, almeno provare, ad inserire qualche volto nuovo in più, in modo da rafforzare ulteriormente il carattere del gioco e soprattutto avere una maggior aderenza del cast a tutto quello che il FA consente. Ma al posto di pensare a quello che Street Fighter IV avrebbe po-

tuto essere, meglio limitarsi più pragmaticamente a quel famoso avversario appena salito sul ring di cui parlavamo in precedenza. Da quell’istante e per quei pochi minuti di gioco, tutto deve funzionare alla perfezione, e poco contano le chiacchiere di Ono e Killian, o le vendite del gioco in questo o quel continente. Solo in quei minuti si può realizzare che il famoso gioco offensivo senza respiro, teorizzato dal producer nipponico, si infrange spesso e volentieri su un ben costruito muro di fireball, o che il proprio personaggio non può sfruttare proprio tutte le sfumature del sistema di gioco, o ancora che qualche personaggio può permettersi di agire in maniera completamente dissennata, mentre altri devono fare attenzione a non commettere il minimo passo falso... E mentre ci si rende conto di questo ed altro ancora è già troppo tardi, perchè il match è finito e già si sta pensando al prossimo. La parola chiave allora è semplicemente divertimento, cosa che il gioco riesce ad elargire ad ampie dosi, qualunque sia la pretesa che il giocatore nutre nei suoi confronti. Una caratteristica che la maggior parte dei grandi beat’em up pos-

siede, a differenza della maggior parte delle grandi operazioni commerciali. E allora siamo semplicemente lieti di poter finalmente constatare che Street Fighter IV, seppur lontanissimo dalla perfezione, non è solamente una sterile opera di necromanzia, com’è stato più che lecito sospettare per tutti questi mesi. 8

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360

GTAIV: THE LOST AND DAMNED Ragazzi perduti

console 360 sviluppatore rockstar north produttore rockstar games versione pal provenienza uk

a cura di Tommaso “Gatsu” De Benetti

entre gli altri ci usano come cavie con modelli di distribuzione uno più deleterio dell’altro, Rockstar Games setta lo standard: d’ora in poi, ogni DLC dovrà confrontarsi con The Lost and Damned. Mettiamo da parte argomentazioni da forum come “ma è un’espansione, non un contenuto aggiuntivo” ed andiamo a vedere quello che conta per l’utente finale, cioè il rapporto qualità-prezzo. Questo nuovo capitolo di Grand Theft Auto perchè di quello oggettivamente si tratta - incidentalmente utilizza lo stesso motore e la stessa ambientazione di GTA4. A 1600MP è l’affare dell’anno: dieci ore abbondanti di gioco, un cast di personaggi nuovo di zecca, tonnellate di dialoghi originali, nuovi spettacoli, i difetti principali di GTA4 limati oltre ogni ragionevole aspettativa e un livello di cura dei dettagli che generalmente accompagna solo le release principali. Possiamo scalare gli specchi, dire che Microsoft ha finanziato, oppure che i tempi di sviluppo non sono stati brevi, o che appoggiandosi ad un gioco esistente Rockstar ha fatto la furba. Ma è difficile far polemica quando ci si rende conto che Johnny Klebitz e la sua crew fanno parte di un masterplan magistralmente orchestrato fin dall’avventura di Niko, e che le due storie (presto tre) scorrono come fiumi adiacenti che a tratti affluiscono naturalmente l’uno nell’altro. Dopo aver messo le mani su The Lost and Damned, ed aver scoperto che tornare a Liberty City in panni diversi è un fottuto colpo di genio, non potrete fare a meno di chiedervi perchè gli altri sviluppatori non stiano facendo la stessa cosa. In Rockstar - che forse si è ispirata al lavoro di Valve con Half-Life 2 - devono aver pensato che, con i costi di sviluppo in costante crescita, forse era tempo di utilizzare al meglio le risorse disponibili: GTA4 esauriva la sto-

REVIEW

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ria di Niko, ma GTA4 non era Niko. Era Niko, un milione di altri personaggi e una città immensa e ricca di intrecci che aspettavano solo di essere raccontati. Con una minisaga esplosiva - in tutti i sensi - Rockstar ci racconta i biker di Liberty City, la scalata al potere di uno che il capo forse non lo voleva fare e l’inevitabile caduta di un’impero che si sgretola dall’interno. Il taglio adulto è lo stesso che abbiamo apprezzato nel capitolo serbo: sboccato, ma ben sceneggiato, intelligente per la maggior parte del tempo, gratuito solo a volte. Ci sono dei momenti in cui la convinzione di conoscere Johnny ce lo rende irriconoscibile di fronte a scelte discutibili, ma non è raro chiudere un occhio quando queste licenze poetiche si trasformano in missioni - dannatamente - divertenti. The Lost and Damned forse non ha un cast all’altezza dell’avventura di Niko, ma qui speculiamo sulle preferenze personali: una passione per l’heavy metal e la curiosità di gettare uno sguardo completamente differente alla malavita di Liberty City, rende TLAD un acquisto obbligato. I fatti nudi e crudi si possono riassumere in poche righe: il sistema di guida per le due ruote è stato perfezionato, avere accesso alle armi è molto meno frustrante, ritentare una missione non vi riporta a due anni luce dall’azione e il multiplayer si aggiorna con modalità particolarmente casinare. A questo si aggiunge una trama non scontata, con alcuni elementi che forse avrebbero meritato approfondimento (il biker in sedia a rotelle, la relazione con Ashley) e altri che non necessitano di ulteriore pubblicità (uomini nudi al centro massaggi). The Lost and Damned è uno spaccato di una città viva, pulsante, forse inverosimile, ma terribilmente carismatica. Datemi ascolto e montate in sella, Johnny vi mostrerà Liberty City come non l’avete mai vista. 8

Frankie Boyle è il nuovo stand up comedian esclusivo di The Lost and Damned. I suoi spettacoli sono talmente irriverenti da ridefinire completamente il senso dell’espressione “politicamente scorretto”. Se Boyle non esistesse davvero, gli autori Rockstar dovrebbero essere salutati con oro, incenso, mirra e il sacrificio di dodici vergini. Il loro lavoro è comunque chilometri sopra lo standard a cui i videogiochi ci hanno tristemente abituato


playstation2

KILLZONE

E’ peggio di Cold Winter?

console ps2 sviluppatore guerrilla produttore scee versione pal provenienza olanda anno 2004

aledetta sia Edge quando, con una frase ad effetto, definiva il nuovo First Person Shooter in sviluppo presso Sony come “l’Halo Killer”, alimentando aspettative fuori portata. Killzone poteva essere ricordato per le sue qualità, è stato invece uno dei prodotti più tartassati, criticati, derisi dell’epoca PlayStation 2. I paragoni fanno male, soprattutto quando devi dimostrare di essere all’altezza, altrimenti, indipendentemente dal risultato finale, sarà sempre e comunque un mezzo fallimento. Vabbe’, come se mettere i piedi in testa a Half-Life 2 e Halo 2 fosse una cosa semplice… Killzone è lineare, pesantemente lineare: si spara, ci si nasconde, si spara, stop, pochi diversivi, nessun mezzo controllabile. Che poi lineare significa tutto o niente, anche HL2 era lineare, però più vario questo sì. Non parte nemmeno bene, un primo livello tecnicamente e ludicamente osceno, un secondo pietosamente banale che presta il fianco a scelte di design discutibili come bloccarsi di fronte ad ostacoli di 10cm perché non esiste il salto, o come le munizioni indispensabili che non re-spawnano. I paragoni grafici farebbero solo ridere: Halo 2 o The Chronicles of Riddick paiono next-gen al confronto. Gli effetti di fumo, il rumore video, il blur e il finto HDR sono robe fiche, ma le texture penose, il LOD che non funziona, una fisica ridicola, il tutto condito da un frame-rate instabile, proprio no. E nel 2004, texture che si rompono e compenetrazioni varie dovevano essere estirpate già da un pezzo. Eppure Killzone qualcosa da dire ai suoi più illustri rivali ce l’ha eccome. Un sistema di gioco originale basato sull’avanzamento metro per metro piuttosto che su scontri aperti, dove parecchi caricatori vengono scaricati prima di averla vinta e i combattimenti non si riducono a 15 secondi di fuoco continuo. Un level design

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secondo a nessuno in grado di massimizzare l’impianto di gioco e in grado di regalare parecchi scontri epici. Armi che restituiscono un maggior senso di pesantezza, letali nella sventagliata ma precise nella singola raffica. Cose ovvie oggi, ma non certo all’epoca. Discorso a parte per l’Intelligenza Artificiale, criticatissima, ma in realtà in grado di fare la differenza. La sensazione è quella che l’I.A. fosse stata castrata in qualche modo determinando strani comportamenti negli Helgast, fissi e fessi in varie occasioni. Eppure gli Helgast sono in grado di inseguire il nemico, spuntano da qualsiasi parte e costringono il giocatore a guardarsi anche ai fianchi e alle spalle, e sono in grado di ricaricarsi quando non bersagliati dal fuoco nemico. Se persino in HL2 i Combine se ne restavano fissi a guardare il muro, qualcosa vorrà pur dire. E quei quattro che hanno giocato contro i BOT in multiplayer, si ricorderanno che gli Helgast li potevi fregare due volte con la stessa tattica, tre volte no. Killzone fa leva sulla sensazione di guerriglia urbana e su un (level e game) design adatto a rendere questo scopo. Avamposti dove difendersi da attacchi esterni, corse per stanare l’avversario in cima ad una collina, lotte in spazi aperti così come in fazzoletti da 2 metri quadri, ambientazioni di rara bellezza (su tutte il centro di Vecta) con gli Helgast che sbucano da trincee, gunship, imbarcazioni. Quando questi elementi funzionano, tutto il resto sembra meno rilevante. Se Killzone non è finito nell’olimpo degli FPS ci sarà stata pure una ragione, e non può essere solo colpa di Gamespot: difetti grafici, I.A. pazza, staticità degli ambienti e una certa ripetitività. Ma Killzone sa offrire molto altro e se persino Call of Duty 4 lo cita indirettamente, qualcosa dovrà pur significare.

UNDERRA TED

a cura di Gianluca “Unnamed” Girelli

Al diavolo quei frocetti dell’ISA, i veri protagonisti di Killzone sono gli Helgast! Chi non avrebbe voluto farne parte dopo il discorso introduttivo di Visari?

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#4 a cura di michele “guren no kishi” zanetti

V

isto che Babel lo stampate in ufficio e a star dietro a tutti i titoli da me giocati, in termini di numero di pagine, farebbe girare troppe teste, è nato Time Waits for Nobody. Una serie di uscite colme di ogni ben di dio Made in Japan, in un’orgia cromatica pensata per rovinarvi la vista prima ancora di iniziare a giocare!

STAR OCEAN FIRST DEPARTURE N

el mare infinito delle stelle iniziano le avventure della saga Star Ocean, che per la conversione da Super Famicom a PlayStation Portable guadagna il sottotitolo di First Departure. SOFD (PSP, ntsc/uc, Tri-Ace, Square Enix) fa un po' sorridere, se giudicato con gli standard odierni. Graficamente il passo avanti è notevole e il remake è stato improntato basandosi sul suo seguito per PSone, con scenari ottimamente pre-renderizzati e per questo privi di vita, come vegetazione al vento e così via. Sugli sfondi si muovono i personaggi bidimensionali. L'effetto scia dei contorni degli scenari, soprattutto nei dungeon, presente per un secondo quando la telecamera si sposta è atroce. Molto bella, invece, la mappa del mondo resa in un 3D semplice e senza tanti fronzoli, funzionale al

suo scopo. Incontri casuali piuttosto elevati e back tracking pesante ve la faranno comunque odiare. I combattimenti avvengono su un apposito campo di battaglia in 3D dove i personaggi bidimensionali si scatenano. Il giocatore assume direttamente il controllo di uno dei quattro combattenti e mena fendenti a destra e a manca, inframezzandoli a colpi speciali precedentemente assegnati ai tasti dorsali. Il tutto mentre i propri compagni cercano di cavarsela e mentre numerose skill passive vengono attivate in automatico rendendovi così la vita più semplice. È anche possibile aumentare o diminuire l'encounter rate, anche se in certi punti diminuirlo lo fa aumentare tantissimo. Don't ask. Esistono anche skill che vengono usate dall'intero party, come le abilità per diminuire o aumentare i

LUMINOUS ARC 2

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prezzi nei negozi a vostro vantaggio. Ogni personaggio è poi dotato di vari talenti, con cui aumentare il successo nell'uso di certe abilità. SOFD è cortissimo, sulle quindici ore. Il cast è piuttosto nutrito ed è impossibile vedere tutto in una sola partita (non solo le scene specifiche nel finale, ma anche dungeon e parti aggiuntive alla trama che si sbloccano o sono inaccessibili a seconda di chi abbiate o non abbiate nel party). La storia in generale è ancora apprezzabile e il doppiaggio discreto. Musica di Sakuraba, quindi si è in buone mani. La versione PSP presenta un dungeon extra dove fare incetta di esperienza nel caso vogliate affrontare il boss opzionale, che per l'occasione è stato bello pompato.


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CHRONO TRIGGER A

ncora remake, o meglio, un porting con le sequenze extra della versione PSone a cui sono stati aggiunti nuovi contenuti. Chrono Trigger (DS, ntsc/uc, Square Enix), è una sorta di mistico mostro sacro della metà degli anni novanta di cui non si sente altro che decantare le lodi. Effettivamente se i JRPG si fossero evoluti seguendo l'esempio di CT, probabilmente i 4/5 delle software house che campano nel genere sarebbero morte e sepolte da lustri. Meglio ignorarlo e far finta che sia stato un incidente di percorso causato da dei pazzi visionari, molti dei quali lavorano oggi in Square Enix o sono diventati free lancer. CT basa molto del suo fascino nell'obbligo di viaggiare in varie epoche per cambiare il futuro, il tutto inframezzato da vari accorgimenti che rendono l'avventura unica. Spesso vi ritroverete a compiere azioni che apparentemente non dovrebbero avere ripercussioni sul gioco e invece ce l'hanno. In più di un caso potrete decidere come agire per venir fuori da certe situazioni. Il sistema di combattimento è talmente semplice ed efficace da risultare intrigante e mai noioso. I combattimenti avvengono nello stesso punto in cui vi trovate, con i nemici che sbucano da elementi dello scenario in vari modi. Estratte

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le armi, le barre dell'active time dei tre personaggi in uso inizieranno a scorrere e agirà chi avrà la barra carica per primo. Potrete anche aspettare che quella dei comprimari si carichi, nel caso vogliate usare delle tecniche in comune (di cui tenere conto della portata e del raggio d'azione) o infilarci in mezzo qualche magia. Ogni scontro vi porta in saccoccia esperienza, soldi e Tech Points, utili per imparare nuove tecniche. Fine. Funziona alla grande e rende gli scontri sopportabili. Molti dei nemici sono visibili su schermo e quindi evitabili. La durata dell'avventura è più che sufficiente e i tredici finali a disposizione vi assicureranno una bella longevità nel caso decidiate di ottenerli tutti. Il New Game+ è un vero New Game+ in cui vengono tenute sia le armi che i livelli dei protagonisti. Storia pregevole e più adulta nella messa in scena di tante produzione attuali, grafica piacevole ancora oggi e una colonna sonora che continua a fare la sua figura aggiungono valore ad un gioco senza tempo. Se non l'avete mai giocato è ora di farlo.

MY WORLD MY WAY 'invasione di JRPG su DS non si ferma con il lavoro successivo dei creatori di Master of the Monster Lair/Dungeon Maker. In My World My Way (DS, ntsc/uc, Global A Entertainment Inc. - Marionette, Atlus Co.) vestirete i panni di una principessa viziata e capricciosa fino all'inverosimile, ignara di come vada il mondo. Dichiarato il suo amore ad un ballo e rifiutata dal belloccio di turno, deciderà di mettersi in viaggio e intraprendere un'avventura che la faccia finalmente crescere, così da far riconoscere il suo valore all'amato. È l'inizio della fine. Il re incarica il guerriero Nero di seguire la principessa; Nero avrà l'ingrato compito di preparare quest, far scavare dungeon, piazzare mostri e sorvegliare che tutto vada secondo lo script previsto. A voi risolvere i compiti assegnati diligentemente, oppure no. Una principessa così capricciosa ha dalla sua parte un'arma notevole: mettere il broncio e lamentarsi a più non posso. Per usare il comando “Pout” servono Pout Points, guadagnabili risolvendo quest, durante la trama del gioco (simpatica e frizzante) o mangiando determinati piatti nelle locande: piatti diversi aumenteranno le altre statistiche, come in MotML. “Pout” piega il mondo al vostro volere: sarà possibile cambiare il terreno di gioco, aumentare o diminuire il livello dei mostri, ottenere più EXP, soldi, oggetti o addirittura finire una quest immediatamente. In battaglia potrete invece decidere se usufruire di un at-

tacco preventivo, far fuggire i mostri, oppure, iniziato lo scontro, paralizzare un nemico, impedirne l'uso delle magie e così via. Definitivo. Tutto il gioco è basato sul completamento di quest, solitamente raccogliere oggetti, uccidere mostri, esplorare un dungeon, uccidere un boss; le solite cose. In fase esplorativa, sullo schermo superiore sono sempre visibili le statistiche di Elise e dello slime Pinky, con la mini mappa che vi mostra la posizione; mentre nello schermo inferiore è rappresentato il tipo di terreno, il vostro avatar e tutta l'interfaccia dei comandi. Nei dungeon la visuale passa dall'alto con una leggera inclinazione. Gli scontri sono in prima persona, selezionando vari comandi quando è il vostro turno. È sempre possibile fuggire, anche dai boss. Gli oggetti più utili si recuperano alla morte degli avversari e, come per lo slime di MotML, anche Pinky può imitare le parti dei mostri uccisi (unico modo per potenziarne le statistiche e darle la possibilità di equipaggiarsi, trasformandola in un potente alleato). Elise non è una maga provetta, ma il suo pappagallo Paro invece è un genio. Basterà farsi colpire dalle magie durante gli scontri e al prossimo level-up probabilmente Paro le imparerà. Grafica decente, storia simpatica, poche musiche ripetitive e longevità nella media fanno di MWMW un gioco più adatto a chi si è avvicinato ai JRPG da non molto tempo.

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da unto re sp ese d n a e pre oco inter bep lio ch o i meg nonima e serie, s Lara d e r a a ll fa e a d m idare uo e a t u r t n m g il a i a f d m un dal s è un Da a cere oom a. Tratto nte. che il pia nfa vitale l modo in D a s , k t li o ia t o da ia tkow re in fre ceva cert nissim on succh piuttosto i suoi a j Bar a ndrze dimentic che non f rza, si lioft n nd, ma gere r A n C iu e La a a o u g c o if if rag gro sso d i epo che s videogioc punto d zaglia di back cerca di succe da Para- enilm d ta, f o in z i u n i o i d s le u c t le ll o c da cui llata unta ma il un’a o attinen parzia attribuit hanno ra i. carre scorsa p qualcosa della tra sentare it , pi. Il oc a, la u o D p it c g è o v O s o e e a p e r A o s a ll r in o T p i a dell pessimo i delirant elina na de racconta ben due ita a ali e pers ira. Il ritm ttore ll a u m c m o g l r n . v fa ia lo isp saga te. In za An i nuo unt a ca. e e, ee ba a mo ci qu ecco più recen arlare di hi più id pera che i tension on ha un mille mo l’uscita d sarà sen vvero po , p d a ’o c o n e d ll t io a r o le io , a r a h a è g e t iv u o c t p r o t e rec i irit ucia iand rtan o, p uro, di pa può add ue dei vid ta si è fiacc più impo r. Tralasc ografico d Il fut la mia fid n d si at e ye ro e e m la v ncor li e casi ronto tra anni nova sale cine ip v a o in lt a J oc f ed mu e alità Il con anti degli poi nell me vemond hiedersi s iatura o o ti. d azioni al rt negg FPS da c e it impo e trasferit isultati, c i sufficien n c c s ie r u a una a un re, v dunq rafiche. I quasi m iamo l’at gene partorire n FPS. D h o g vii può ente da u poi… mato , non son ilm giudic giochi e s f o o m inc drem in un tele uale vide nati, in conv ome Doo g q e Ma s ne con la gono dise te la fe- - puro c n u an tenzio catori ve iù import a ricostr io p on deog llicola è o una bu ilmente e b sa, una p lla trama ri? Proba a chi lo . a a m deltà degli scen risposta, to articolo s zione darò una erlo que riv vi non ra sc i. anco pensatec o v e d tanto in i o V

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da etto za ill e dir ga film n il Sa 07, i tre o ent H ger Avary Hill è, se lli v l n i E o S s t 0 n il side 02 e il 2 ident Ev non 5 – to da Ro ns, Silent o tra que ae R tt tr di 3– il 20 a di Res Scrit phe Ga rodo Pur s presa i tra g lior p risto uina. ama oriUscit ti alla sa facile im ngarbur - Ch bio, il mig esta cinq t I n a n . o ic la o c n , ded i nella n o dei fa qu più dub poco m è una e it rama o lic osti in n di riusc prop do, e no ioco, il fil contatto pubb di più la t ro mond il e r e i g n t ole irrita o ancora a dell’in volge del video di punti d ente per pellic ic d am e t t ela c n lu inale glian d epilett infatti, le Capcois o g la s e ro eta m tiche. As ella deso delle vulsa eogiochi, ll’univers iche e pe d discr e e ti tip ze po oduzione si può dir ade e n i vid onore a n e o e r e c c d u i t r li i o a t ip r s t o r a s d i u n e a t d X le str a tero la t u d s o a a o q a t s n d t t n s t e lo in a a r o e e r f n irett Hill e ne infest iuscendo pellio con n si t ri. Sp nn s e d ioco, è u ilent r e mian gi familia certo no ma la te itma Wood og li S ature ch Pur non chi, la i, g Le di g s a e . u e n a n t o 1 – H da Skip n, il vide e la o i. r s n eogio r che p is n c n o p n a id n a io n v io le r z o a e s i z a t a h ro to d it o r c uz t b e n o u p n a r a o h Scrit ens. Hitm r profes d a u il lt n o t u sie e più a G La pr ello e le rizzare q creto film le fanta leggia kille alth vier à v o arzia - scen è di certo lla serie. is r re di tra lo ste r li p d e o t o b e n r la c im e o tu ti. èu nato simu amiche dell’a sione episodi d , è di ott i cinemat e dis passiona cola in oluzio iche e i ment n sue d hanno riv le dinam ilm, è la sceifficil e degli ap ultim comunqu asposizio to di peg d f lo di o e di tturn re so eogiochi, ione, o delle tr mente vis game inventat itman, il o a z p t n m is e n H e s ra nd sio pro ment enzioso. on è i. Certi vid i preil mo e ha sicu rofes lvere. Il lpa n t s sil ler p o te ich ento La co ri e regis ura, mal tion un kil a da ris è l’agen er graf i d olgim t o ggiat stessa na e al coinv duzioni io. storia e problem eogioco, mbino p e g n h id ba ro pro ità , si proqualc ta, del v ruito da per lo alla static a. Dalle ta, però re. Il t nis em e ttan no r cos uo mestie bero con in tago o a c o le t i l it s il n e k s on ur rifin to d li an lun b ola è ass 47, u meglio il limita dizia deg osa di più uoni risu m, è ic al alc nb l mon u del fil a. La pell era origifare o e q , c n im a a t e è p n nis io sati mpr i, ma tago re di pan tosa dell’o a dall’alto è pas o. Non se ente anz uno spaz e o t r rsi am ibil r t a tent un cu nte rispe quadratu alla regia a u li t r c g a o e iin a rita i indis molt aggio tura ins e lutam qualche tati, io riesce rodotto d n sono fi- , io om gia e o p ch eder n film c s e nale o e propr a sceneg u l e h e d m lc d n uon r L un b ideoe qua le doma ezza ista. h lt l, c un ve eogioco. il ’a n ll H a v a èa gon id ilent tà. M a dal he del v erò, non co-prota quali meglio S bbastanz diocre, c p a e È a . m a a e t pida, lausi dell ir it s m p n fil co p sua is , un si dis lo da ap Saga estiti so ga che o Hitman dele alla v e n ider f o in a lu c e i R r e io n a a n g omb i doll tazio e rim 4 – T milioni d una ges ta, Ange invec , is o ? t o m n e t il n o t f n e g u C o T zio prota prim uolo. per il rta e una a per il r mani un i. r tt fe c f le e f o io r a s d r e t e e p no m varsi olie, lina J per ritro uantome er per q id to i a s t t R e o u b q od puoi di pr rendi Tom ra, non u paio p t e ia s g é eg Perch na scen rne u a f da etto e dir ham a ll m a o C o 2 – D da David to Scrit

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