Babel#012

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FEBBRAIO2009 www.bab3l.splinder.com

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PROGETTO EDITORIALE federico res COPERTINA tommaso “gatsu” de benetti GRAFICA E IMPAGINAZIONE federico res EDITING DEI TESTI giovanni “giocattolamer” donda SITO WEB http://bab3l.splinder.com BABEL È OSPITATO DA www.qb3project.net www.issuu.com

REDAZIONE alvise “kintor” salice cristiano “amano76” ghigi emanuele “emalord” bresciani ferruccio cinquemani federico res giovanni “giocattolamer” donda gianluca “sator” belvisi gianluca “unnamed” girelli marco “il pupazzo gnawd” barbero michele “guren no kishi” zanetti michele “macca” iurlaro simone “karat45” tagliaferri tommaso “gatsu” de benetti vincenzo “vitoiuvara” aversa

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LIPS FAKE PLASTIC MICS

AFRIKA INTO THE WILD

COPYLEFT 2007/2008 Babel Edizioni

Babel è rilasciato sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 3.0 Unported. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-ncnd/3.0/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA.

BABEL 002

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COVER STORY Lips 003

FRAME Meteore: che fine hanno fatto i film interattivi? 008

REVIEW Banjo: Nuts & Bolts 013 Afrika 014 Call of Duty: World at War 019 Lips 018 Need for Speed Undercover 020 Valkyria Chronicles 016 UNDERRATED Echo Night Beyond 021

DAL VANGELO SECONDO TOMMASO

Un discorso del c***o 004

ODIO DI GOMITO Spezzatori di lance e... 005 ESCO DI RADO Pensaci su 006

ARS LUDICA La perdita di controllo 007 LA TV CHE VIDEOGIOCA Guitar Queer-o 024

1492 Un uomo e il suo sogno 012 TIME WAITS FOR NOBODY Episodio 3 022

FILM INTERATTIVI

DAI LASER GAME A CAPTAIN POWER

NEXT MONTH Killzone 2 025


012 COVER E

STORY

' un mondo di glitter, di luci della ribalta. Un mondo, come direbbe Elio, di "Piccole donne, grandi labbra / piccolo uomo grandi labbra apprezzerà". Un mondo dove ci si pesa divertendosi, si impugna un microfono e si inizia a cantare, si premono a caso tasti in chitarrine di plastica e chi si era mai divertito così. Ho visto il Pupazzo Gnawd, nostro esimio collaboratore, pubblicare in rete i video della sua "band" che "suona" pezzi di Guitar Hero. Ho visto un mio amico di 130 kg, i cui orizzonti musicali iniziano e finiscono con i madrigali e Burzum, improvvisamente impazzire per Rihanna e i microfoni con le lucine di Lips, ne ho visto un'altro che lavora 10 ore al giorno in una maschia acciaieria proporsi al mondo come spericolato emulo di Dido. Ho visto labbra, ho visto corpi. Di maschi. E non è stato bello. Ma non possiamo piangere sul latte versato tutto il tempo: il videogioco reclama il nostro corpo, mai come ora, e noi incuranti del

LIPS

senso del ridicolo glielo concediamo. Ma non solo, invitiamo i nostri amici, fidanzate, conoscenti, e parenti tutti a partecipare al sacrificio con noi. Alcuni li costringiamo. "Canta che anche tu devi fare la figura dello scemo". Va bene così? Forse sì, forse era ora. Ora di scrollare di dosso dal videogioco un'aura di drammaticità che salvo sporadici casi ha sempre indossato con disagio. Il rovescio della medaglia, in tutto questo, è che presto dovremo essere più bravi e più belli degli altri. Quando per tutti sarà normale giocare a SingStar alle feste, o avere la serata Rockband con gli amici del bar, non avremo più scuse. Rifiutare sarà come ammettere di non saper giocare a calcio. I videogiochi vogliono salire on stage, portandoci con loro. Ma noi lo sappiamo quel che succede a chi sale su quel palco: un giorno hai labbra scintillanti e applausi tutt'intorno, quello dopo sei solo un nessuno qualunque. Tommaso De Benetti

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Tommaso De Benetti

Uno che i VG preferisce discuterli

Tommaso De Benetti è stato membro fondatore e colonna portante di Ring, la rivista più amata dai videogiocatori meno rincoglioniti. Qualche tempo fa, esasperato dall’ignavia invincibile degli ormai depressi ringhici, ha lanciato da solo il progetto RingCast (reperibile su iTunes), primo podcast italiano a tema

videoludico, a cui comunque la vecchia guardia partecipa a corrente alternata. Gatsu, secondo il nick con cui è solito firmarsi su Internet, attualmente vive e tromba ad Helsinki, tra frotte di bionde ninfomani e sferzate di gelo più o meno devastanti.

DAL VANGELO SECONDO TOMMASO Un discorso del c***o

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Pochi videogiochi affrontano tematiche sessuali. Mass Effect e Silent Hill 2 lo fanno bene, God of War: Chains of Olympus e Grand Theft Auto (con il suo Hot Coffee) lo fanno in modo molto più discutibile

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ue minuti fa ho visto il primo nudo integrale maschile della storia dei videogiochi. Il gioco incriminato, e non mi viene in mente un candidato migliore, è Grand Theft Auto IV: The Lost and Damned. Seguono piccoli spoiler che però fareste meglio a leggervi. La missione vede il protagonista Johnny dialogare con un politico - notate il particolare, democratico di facciata, ma segretamente sostenitore di una dittatura illuminata - in un centro massaggi. Questo omuncolo di potere, senza preoccuparsi più di tanto, ciondola da una parte all’altra della stanza completamente nudo. Per quasi tutto il tempo la telecamera si mantiene a livello ombelico, poi, di colpo, un piano americano ci svela la tremenda verità: gli uomini nudi non finiscono sopra l’inguine. Mi auguro che sia cosa nota: se vi siete mai interrogati sull’escrescenza nelle vostre mutande, dovreste sapere anche di cosa stiamo parlando. Non essendo questa una puntata di Siamo Fatti Così ci dobbiamo però porre la domanda giusta: perchè c’è un uomo nudo in Grand Theft Auto IV: The Lost and Damned? Procediamo per ipotesi. Potrebbe essere una risposta di Rockstar a chi si ostina a lanciarle contro accuse di misoginia. Accuse forse false, ma quante donne di classe vi ricordate in Grand Theft Auto? Non molte, ad assere sinceri. Donne interessanti, donne vissute, certo, ma raramente qualcosa più di battone o spacciatrici. Forse mostrare un uomo inerme, di mezz’età, con il pippero al vento è una mossa per riequili-

brare le cose - fermo restando che in GTA nemmeno gli uomini ci hanno mai fatto una gran bella figura. Voglia di provocazione gratuita, magari. E se fosse semplicemente un modo per infrangere l’ultimo tabù, ed esorcizzarlo? “Ecco qua. Un pene barzotto. Mai visto uno? Uuuh, che paura.” Nell’episodio #36 del podcast di Multiplayer.it, uno dei ragazzi che vi partecipa (A. Jodice) mette sul tavolo la questione sesso & videogiochi, domandandosi perchè sia così difficile coniugare le due cose quando da sempre in film e libri destinati a qualsiasi target esistono scene di sesso per ogni gusto: esplicite, suggerite, perverse, romantiche, disperate, frigide, violente. Quasi a sottolineare il difficile approccio al tema, gli altri del gruppo non si risparmiano in battute maliziose e perculate. Discutere di sesso fra maschi finisce sempre ed inevitabilmente in accuse di omosessualità latente, ma è con Jodice che incrocio (metaforicamente) il pene in segno di reciproca stima. Serve del sesso per fare un buon videogioco? No. Lo vogliamo in ogni nuovo titolo? No. È necessario per una buona storia? No. Possiamo accettare che anche il sesso diventi un soggetto narrativo (o ludico, se si può far meglio di God of War: Chians of Olympus) nè più nè menò di tematiche come politica, cavalli, religione, macchine, invasioni aliene, cani abbandonati e brutalità assortite? Sì, possiamo. Pensate a Ken e a Barbie. Negli anni ottanta avevano gli organi genitali lisci: generazioni di bambini son cresciuti con la convin-

zione che le donne non avessero i capezzoli. L’ultima volta che ho avuto fra le mani una Barbie (...) ho notato che adesso Mattel stampa le mutande direttamente sulla plastica per nascondere l’inenarrabile verità: Barbie ha la patata e, al pari di Megan Fox, ogni tanto deve andare al bagno. Posso capire che avere una Barbie con organi genitali dettagliati sia sostanzialmente superfluo. Ma poi penso al popolo di videogiocatori cresciuti negli anni ottanta a pane e Kenshiro, fruitori di porno dalle medie, appassionati di manga tutt’altro che candidi, gente che spazia fra cultura alta e bassa senza grossi problemi. Siamo bambine che giocano con le bambole, servi di un sistema che nega l’evidenza perchè l’evidenza è in qualche modo contraria al buoncostume, i cui standard a loro volta negano la natura? Qual’è il gran segreto che ci devono nascondere, il mistero che - ipocritamente - dobbiamo fingere di non conoscere? Se proprio dobbiamo cercare un senso nel cazzo, che sia questo: è parte del nostro corpo, ce l’abbiamo nelle mutande da sempre. È un amico fedele che condivide con noi gioie e dolori. Lo conosciamo perfettamente, così come la conoscono tutti gli altri uomini del pianeta. È tempo che i protagonisti dei videogiochi da pupazzi di legno diventino bambini veri, perchè se è vero che andare in giro a sventolare i gioielli di famiglia è cattivo gusto, negarne l’esistenza non ha davvero alcuna giustificazione.


Giovanni Donda

Un uomo per due stagioni

Giovanni Donda, in arte Giocattolamer, è italiano di nascita e inglese d’adozione. “Scozzese, prego” aggiungerebbe lui. È entrato a far parte dell'industria dei videogiochi dalla porta di servizio, e lì è rimasto. Oggi è a capo di una piccola azienda indipendente di Quality Assurance e localizzazione, il cui nome e/o prodotti qui non verranno mai men-

zionati. Questo ci ha costretti a scriverlo lui. Va da sé che le sue opinioni siano appunto tali. Pure questo. La moglie, invece, gradirebbe che simili premure le riservasse a lei, e alla figlia, non a quella ditta del... Ma lo ama tanto. Fortuna che non capisce l'italiano e crede ancora che “Odio di Gomito” sia solo il romanzo che gli pagherà il mutuo.

odio di gomito Spezzatori di lance e picchiatori di cavalli morti

Q

uella bighellona di Dorotea aveva ragione, non c’è posto come la propria casa. E Sony lo deve aver capito, perché la scommessa Home inizia nel migliore dei modi. O per meglio dire, nel migliore dei posti. Ovvero dalla tua casa. Non che il nome suggerisse altrimenti, vero, ma è importante specificare. Per esempio, Home non inizia da un anonimo isolotto nell’anticamera del mondo, dove ti vengono impartite noiose istruzioni di fisica, nel mentre che altri niubbi come te incasinano il tutto. No, a differenza di Second Life, Home inizia nel privato del tuo appartamento. Completamente solo. Puoi muovere così i primi passi senza l’angoscia di nessuno che ti rompa gli zebedei. Puoi goderti la bellissima vista sul porto turistico senza che nessuno ti inizi a danzare davanti, quando ancora non sai neanche come si faccia a mandarlo a quel paese, tanto meno mostragli due passi di polca. Per quanto l’etichetta di ‘gioco’ gli sia stata cucina addosso sul lato sbagliato, Home inizia proprio come tale. Crei l’avatar ad immagine e somiglianza di come vorresti che diventasse da grande tuo figlio, o figlia. Lo vesti degli abiti che sai già milioni di altri utenti avranno scelto, pensando - come te - che nessuno andrebbe per quella combinazione di vestiti lì. Infine, passi il tutorial al sicuro delle tue quattro mura e via, verso il primo livello. Non proprio così immediato, a dire il vero, perché il primo livello non è altro che la piazza principale di Home e questa dev’essere prima scaricata,

ma poco importa. L’importante è che ti sei mescolato al resto della comunità e il mondo è tuo. Puoi schifare il cabinato di Echochrome dopo pochi minuti, guardarti il trailer esclusivo di Watchmen che hai già visto su YouTube, e... beh, è un hub ed è nella fase di beta, di quel che c’è non manca nulla. Certo, cosa sia esattamente questa beta di un hub mi continua a sfuggire, e questo nonostante una seduta intensiva, passata ad attendere che gli avatar altrui mi si materializzassero davanti, per capire se il placeholder con cui stavo parlando fosse un morto di figa, oppure uno che si spacciasse per figa. Potrebbe non rimpiazzare quell’incerto tentativo di arte moderna conosciuto ai più come l’XMB. Potrebbe fare la fine del dodo - o di Second Life, per rimanere in termini semi-ludici - e non imparare mai a volare, diventando così lo scemo del villaggio. Potrebbe, del resto, scomparire velocemente e silenziosamente quanto è apparso l’altra mattina accanto al PlayStation Store. Probabilmente non accadrà nessuna delle tre probabilità, e specialmente non quest’ultima. Sei hai già dimostrato di avere le braccine talmente corte da crearci un hub, pur di non buttar via anni di sviluppo del fu The Getaway, prima di farlo scomparire del tutto, lo tramuti in un museo a pagamento piuttosto. Ma sto divagando. Mia nonna – quella della carriola – aveva un detto: “chi visse sperando, morì cagando”. Sacrosanto. Ma credere in Home non richiederà un’intensiva seduta

sulla tazza del cesso. Perché non c’è molto da sperare qui, quanto da aspettare. Avrò dubbi su cosa sia oggi, ma su quello che sarà un domani, no, perché il fulmine a ciel sereno l’ho visto anche con i prosciutti da fanboy sugli occhi. Home è l’ennesimo gimmick a fare capolino sulla nostra industria preferita. Uno specchio per le allodole, come il Nunchuk, aggiungerei per aiutarvi a capire dove stia andando a parare. Come gli achievements, aggiungerei per sbattervelo in faccia. E sei bella così. Home deve invogliare gli utenti a giocare di più. O meglio, a spendere di più. E a farlo con Sony. Sì - uno potrebbe portare sul tavolo della discussione però ci sono già, rispettivamente, il Sixaxis e i Trofei. Ahimè, Sony ha dimostrato che non è solo la prima frittata a non venire mai bene, ma anche la seconda. La terza andrà meglio, deve andare meglio, anche perché per una volta non è una copia, ma direttamente l’originale. Per vincere la guerra del porting multiplatform, allora, quale idea migliore di un idilliaco appartamento con una vista mozzafiato, tutto vostro, da arredare, espandere e tramutare in quello che non avrete mai in vita vostra? Ah, è gratis*. Voi chiamatelo escaspismo, se volete, per me è solo la solita storia di chi ce l’ha più grosso. E, putacaso, noi videogiocatori siamo sempre i primi a tirare fuori il righello.

Non è stato amore a prima vista, il mio sodalizio con Home. Ma in un certo, preciso istante qualcosa è scattato. Non è stato dar il via a una danza collettiva davanti alla pubblicità di PlayStation Portable. Non è stato vedere rincorrere da una mandria di ragazzini brufolosi, un divorziato alcolista fintosi donna meretrice. No, l’amore è sbocciato a seguito dell’incantesimo più antico e potente del mondo: vincere. Il mio è stato amore a primo scacco

*Attenzione: vita sociale non inclusa, leggere le avvertenze prima dell’uso, non è proprio gratis.

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Vincenzo Aversa Professore Nerd

Ritenendosi da sempre uno dei cinque migliori giocatori al mondo di Tetris, il Dr. Vitoiuvara ha deciso di condividere con il mondo le sue conoscenze e abilità portando avanti su youtube quel “Corso per Videogiocatori Professionisti” che oltre a renderlo famoso, lo ha definitivamente consacrato al ruolo di pagliaccio. Vive

solo e abbandonato in compagnia del suo fidato quaranta pollici ma, come ama ripetere, risparmia un sacco sui preservativi. Nonostante attualmente passi tutto il suo tempo libero a videogiocare, è fermamente convinto che, nell’arco di massimo cinque anni, sarà fuori da questo ambiente di sfigati.

esco di rADo (ma gioco pure troppo) Pensaci su

È

il mio mese dedicato alla pigrizia. Considerando quanto io sia pigro già di mio, è quasi un problema. Considerando che i mesi ormai sono quasi due, è un problema vero e proprio. Perché non lo so, capita. Sarà il freddo della mia sala giochi senza termosifoni, sarà la pioggia che mi irrita le giornate, oppure sarà il materasso in memory che ho comprato. Dio quanto lo adoro, è come dormire su una vagina gigante, impagabile. Fatto sta che non c’ho voglia, so che non è ancora tempo di appendere le chitarre e i pad al chiodo, ma adesso non c’ho voglia. Ed è in questi momenti, quando il telecomando gira troppo veloce, che ti fai delle domande. Guardi indietro, ti guardi adesso e subito il futuro ti sembra limpido e chiaro. Io proprio non mi ci vedo tra una manciata di anni a litigare con i videogiochi. Non a tutti sembrerà così evidente, ma i videogiochi chiedono tanto prima di dare qualcosa. Sono delle puttane avide che regalano amore solo a comando. E non sto parlando di soldi, ma di quel prezzo d’ingresso così faticoso, a volte noioso, altre solo trascurabile, che ogni videogioco richiede. Sistemi di controllo sempre diversi, interfacce da interpretare, motoseghe da accendere al momento giusto. Oggi, nonostante la pigrizia, quella rogna iniziale non è sempre un male necessario. A volte quella sensazione di smarrimento e di frustrazione alla partenza è parte del divertimento. Perché prima o poi verrà vinta, le sue reni cadranno al suolo devastate e un profumo di soddisfazione inonderà le radici del malcapitato lcd di turno. Ma domani? Difficile immagi-

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narmi della prole al fianco prima ancora di aver trovato l’infornatrice, ma è possibile che qualche rompicoglioni ci sarà in futuro. E se anche non fossero loro, avrò davvero la voglia di aspettare ancora che i videogiochi diventino maturi? Perché a tirare le somme spesso ci si fa del male. Sono grandi in quanto ad intrattenimento puro, sono perlopiù fuffa quando ti aspetti emozioni forti. Non sempre, non solo, ma perlopiù fuffa. Io in questi cazzo di giochi continuo a vedere un potenziale smisurato, non intrattenimento, potenziale vero. Sogno scelte difficili, decisioni importanti, X per l’etica, quadrato per la morale, cerchio per il fanatismo religioso. Sogno di giocare storie importanti, perché di salvare questo cazzo di mondo, o altri cazzo di mondi, ne ho piene le palle. E allora in quel futuro di prima, con poco tempo libero, lo stesso lavoro stancante e una mente meno vogliosa di soddisfazioni faticose, non sarà più facile guardare i Soprano o chissà cosa in Red Ray. In quel futuro, quando ci sarà da rattoppare qualche ora, non sarà più appagante riempirsi la bocca di qualcosa che riempia veramente? Avete solo una colazione a disposizione e due tipi di cereali davanti a voi. Nel primo pacco ci sono quelli buonissimi, nel secondo quelli buoni. Chi sarebbe tanto pazzo da consumare i secondi? È il mio mese dedicato alla pigrizia. Vedo tutto nero, non posso farci nulla. E se dovessi fare una previsione oggi, in questo preciso momento, racconterei di un mercato con pochi Grand Theft Auto IV e tante bilance. Perché finalmente si vedeva una luce in fondo al tunnel e l’inatteso successo del

divertimento usa e getta made in Nintendo ha spento l’interruttore. Forse no, magari sbaglio, ma forse sì. Ragiono da uomo pratico. In quel futuro, sempre lo stesso, se i videogiochi saranno Wii Fit, non sarà più divertente correre per un’oretta tra le strade del mio quartiere? C’ho bella musica nel mio ipod shuffle, non credete. Non dico di credermi, ma di pensarci su, un paio di minuti basteranno. Sapete perché credo che questo mondo, questo settore, stenti a decollare? Perché tanto potenziale rimane perlopiù materiale da anteprima? Perché i migliori, in questo mondo, se ne vanno prima o poi. Ci passano in tanti, ci crescono in molti, poi ognuno per la sua strada, sono pochi a continuare a spalare la neve. È fisiologico credo. Ma tanto ricambio, così tanta fioritura costante di nuove braccia per la terra, appiattisce e smorza la crescita. Una volta un muratore nasceva da bambino, cresceva, diventava bravo e insegnava il suo lavoro. Oggi nasce a trent’anni, dopo due pensa di aver capito tutto e si mette in proprio a rovinare appartamenti. Sarò all’antica, ma si cresce davvero se nello stesso teatro ci sono gli attori bravi, le comparse che saranno attori e qualche ragazzino in platea che sogna di salirci, un giorno, su quel palco. Mi sto deprimendo, figuratevi voi. Domani arriva Killzone 2, poi Street Fighter 4 e ho da farmi un giro di prova con Fear 2 e Silent Hill 5. Domani il mese della pigrizia sarà finito, ma continuerò a vedere lo stesso futuro. Non deprimente, diverso. Due minuti, non di più, pensateci su.


Simone Tagliaferri

Si perde troppo spesso per mondi virtuali

Simone Tagliaferri nacque e sta ancora cercando di recuperare da quella faticaccia immane. Nel frattempo ha scritto articoli per molte testate, tra le quali Gameoff, Xoff, PSW, PC Games World e altre di cui non ricorda molto (sapete... la senilità). Attualmente scrive articoli su multiplayer.it, cura la sezione videogiochi

del Mediaworld Magazine e scrive assiduamente su Ars Ludica, progetto nato nel lontano 2005 che si occupa di spammare un po' di cultura videoludica in giro per il web. Tra le sue altre attività, oltre allo spaccio internazionale di pannolini usati, traduzione di guide ufficiali e di videogiochi.

ARS LUDICA

www.arsludica.org

La perdita di controllo

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iceva qualcuno che è nei momenti di crisi in cui si vede il vero valore di un uomo. Perché, se è facile dissimulare tranquillità quando tutto va bene, non lo è altrettanto quando la situazione è fuori controllo. Da Omero a Uwe Boll, il tema della perdita di controllo dell’essere umano davanti a una situazione di crisi è stato centrale. Non a caso il controllo è uno dei principi su cui si basa lo sviluppo stesso della civiltà (non inteso in senso prettamente lineare), e intorno a cui si è sviluppata la cultura. Quello del controllare è un concetto complesso che si apre a moltissime interpretazioni, dal superficiale controllo dei fenomeni criminali al più profondo creare un pantheon di divinità per spiegare e, quindi, controllare culturalmente i fenomeni inspiegabili che l’uomo si trovava davanti (un lampo, un terremoto, la follia stessa, la morte e così via). Uno dei principi della psicologia della Gestalt che più mi affascina è quello della similarità, secondo cui due elementi con caratteristiche comuni (forma, dimensione, colore e movimento) vengono percepiti come un’unica forma dal cervello, il quale li unisce automaticamente creando l’illusione d’insieme. Ovviamente il cervello può operare in questo modo soltanto sul piano generale e non su quello particolare, perché, nel caso l’osservatore si concentrasse sul singolo elemento, l’illusione dell’insieme sparirebbe. Avvio Far Cry 2 e inizio a guardare. È il gioco che invita a farlo perché parte con un breve viaggio all’interno di un auto da cui posso soltanto guardarmi intorno (HalfLife docet). Capisco che siamo in Africa perché la vegetazione somiglia terribilmente a quella di alcuni film ambientati in Africa (ma quale parte dell’Africa? Si tratta di un

continente immenso, il cui paesaggio può variare moltissimo e in cui vivono molte culture diverse, nonostante le barbare credenze occidentali). Gli sviluppatori ci tengono moltissimo a farmi entrare nello scenario a gamba tesa e a mostrarmi le meraviglie del loro motore grafico. Sulla strada non manca nulla: vegetazione, guerriglieri, corsi d’acqua e i famosi incendi ultra realistici di cui i PR hanno tempestato i comunicati stampa nei mesi precedenti alla pubblicazione. Fortunatamente sono un cinico disilluso e riesco a non stupirmi più di tanto… e poi la boscaglia del concorrente diretto, Crysis, è molto più boscaglia. Vista una viste tutte. Inoltre, inizio a pensare che odio la vegetazione perché mi occlude la vista dei nemici, mentre loro riescono comunque a colpirmi con precisione chirurgica. Ma sono già avanti. Torniamo al viaggio. Arrivo all’albergo con in testa un quadro preciso della situazione: i gruppi di guerriglieri locali e dei gruppi stranieri dominano l’area e combattono per il potere. Mi viene un po’ da ridere. Fortunatamente arriva la malaria a far svenire il protagonista, favorendo la dissolvenza che porta alla sequenza successiva in cui il terrorista cattivo lo va a trovare nella stanza dell’hotel dove il nostro se ne sta a letto impotente e morente. Niente, non lo/mi uccide. Un po’ ci speravo. Assaltano l’hotel e finalmente prendo il controllo del personaggio. Segue una sparatoria e un nuovo svenimento. Dopo un dialogo con il mio salvatore posso finalmente andarmene in giro per il mondo di gioco. Svolgo la missione tutorial e posso tornare in città (chiamiamola così) per esplorarla. Qualcosa non torna. Il quadro generale è Africa, la situazione politica del territorio

fa molto film con Schiattaneger ambientato in Africa… ma qualcosa non torna lo stesso. Dove sono gli africani? Maledetti, dove siete finiti? Non vi vedo! Dai, non fate i dispettosi e uscite fuori da quelle baracche di lamiera. Dovete esserci. Altrimenti, chi li scaverebbe i diamanti sparsi per tutto il gioco? Su chi si eserciterebbe il potere dei gruppi dominanti? Il prete cittadino per chi direbbe la messa? Dove diavolo siete andati a finire? C’è la polvere, ma non ci siete voi nella polvere. I bambini… mancano anche i bambini! Eppure l’equazione Africa=bambini affamati è immediata. Inizio a osservare attentamente e il quadro si sfalda finendo in pezzi. Non mancano solo le persone, mancano anche gli animali. Inizio a non sentire il rumore degli insetti e la vegetazione diventa di carta pesta. Non ci siamo, sto perdendo il contatto con l’illusione. È colpa mia. Ne so troppo e pretendo troppo, oppure ne so troppo poco, ma pretendo troppo lo stesso. Non posso più giocare perché questa non è più l’Africa che ho in testa, le somiglia, ma non lo è. Non posso più giocare perché l’illusione ha perso il controllo e ha mollato la presa, finendo in crisi. Eppure tutto questo non mi è capitato con Crysis o con S.T.A.L.K.E.R.! Ci penso un po’, poi capisco. In Crysis e S.T.A.L.K.E.R. non mi aspettavo di trovare altri esseri viventi che nemici ben armati, perché i lori mondi lo permettono. Far Cry 2 non lo permette… ho quindi immaginato una Liberty City abitata da soli criminali e ho capito che non avrebbe avuto senso.

Africa, ti viene da urla’, una stramaledetta cartolina dell’Africa!

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di Gianluca “Unnamed” Girelli

METEORE: che fine hanno fat

i film inte

on in molti lo ricorderanno, ma già verso la fine degli anni ‘80 c’è chi affermava che il modo di intendere il videogioco sarebbe cambiato radicalmente. L’utilizzo massiccio della grafica 3D era ancora a venire, eppure le premesse per una prospettata rivoluzione videoludica sembravano esserci tutte, o almeno così promettevano numerose software house che investirono ingenti risorse su quella che doveva essere la nuova frontiera del fotorealismo videoludico. Una nuova sensazione di ‘coinvolgimento’ che doveva passare attraverso sequenze in game di qualità cinematografica. Anzi, il videogioco avrebbe abbattuto il limite del cinema stesso, tant’è che il fruitore non sarebbe stato più un mero spettatore delle sequenze video, ma ne avrebbe fatto parte. Era appena nata una nuova corrente, quella dei cosiddetti ‘film interattivi’. Venti anni più tardi ci si chiede che fine abbia fatto. Con il termine ‘film interattivo’ non viene indicato un genere, piuttosto una corrente di idee che avrebbe dovuto portare ad una

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nuova e solida commistione tra videogioco e film. Il nuovo filone doveva valicare dei problemi di carattere tecnico piuttosto complessi: tenendo conto delle possibilità espresse dall’hardware durante l’arco di sviluppo del genere, raggiungere il fotorealismo con questo metodo significava bruciare parecchie tappe. E i compromessi derivanti da questa scelta erano più che evidenti. Le sequenze video, per quanto spettacolari, mostravano il fianco ad una poca interattività, poiché gestire ogni possibile variabile equivaleva a girare ulteriori ore di filmato. In seguito vennero adottate diverse soluzioni, come unire scene filmate a fondali pre-renderizzati o in real-time, tuttavia il problema non venne mai risolto completamente per ovvi motivi. La corrente dei film interattivi si sviluppò di pari passo con l’arrivo sul mercato home dei primi sistemi multimediali. Primi esponenti del genere furono i laser game, sviluppati a metà degli anni ‘80, il cui nome derivava dall’utilizzo di un lettore laserdisc per la gestione delle sequenze animate. Anticipando di qualche

anno l’uscita sul mercato dei compact disc (da cui parte della tecnologia deriva), i laserdisc offrivano numerosi vantaggi, tra cui l’utilizzo di dati digitali facilmente interpretabili da un computer (sebbene la parte video fosse in realtà gestita ancora in maniera analogica), una migliore gestione di freeze/seeking oltre che, ovviamente, alla mancanza di tutte quelle problematiche derivate dall’utilizzo continuativo dei nastri. Mutuando soluzioni tecniche prese dal televideo, venivano inserite all’interno dei filmati alcune linee video non visibili su cui venivano trascritte informazioni e con cui l’hardware poteva sincronizzarsi per il controllo delle sequenze. Un sistema già di per sé relativamente complesso, che però non permetteva la creazione di impianti di gioco altrettanto articolati. Audiovisivamente notevoli, i lasergame avevano un’interattività limitata ad alcune sequenze, o ad alcuni passaggi da eseguire rigorosamente in sequenza in un preciso istante poiché pre-trascritti sulla traccia video. Molti lasergames si limitavano alla pressione di

tasti con tempistiche ben precise, cosicché, paradossalmente, giochi tecnicamente meno validi offrivano un’attrattiva maggiore perché più ‘liberi’. Spina nel fianco furono i costi di gestione/manutenzione delle macchine di cui i lettori erano la parte più critica, oltre ovviamente ai costi di produzione di quelli che erano veri e propri film. Queste spese non potevano che ricadere sul giocatore, il quale finiva per pagare uno sproposito una partita che in alcuni casi durava persino secondi. A metà degli anni ‘90 la partita si sposta dal campo arcade a quello domestico, dove il genere avrebbe avuto la sua prima vera, e forse unica, popolarità ed espansione. Nascono su PC i primi titoli ‘ibridi’: i laserdisc fanno posto ai cd-rom, mentre dalle avventure grafiche punta e clicca viene preso in prestito

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erattivi? l’impianto di gioco. Niente più sequenze narrative testuali, ma filmati della durata di diversi minuti; niente più fondali pitturati, ma allestimenti scenografici veri e propri; via i ‘guy brush(ed)’ per far posto ad attori che recitano le linee di dialogo ripresi su sfondo verde. La navigazione all’interno delle scene avviene mediante schermate 2D rielaborate al computer o più spesso tramite l’utilizzo di mondi realizzati in 3D in grafica pre-renderizzata, il cui stacco con le riprese reali è meno traumatico rispetto al 3D realtime, che almeno per il momento non può competere in qualità. Le novità apportate danno fiato al genere, ma non risolvono totalmente le carenze di interattività, al filone non resta che svincolarsi puntando maggiormente su questo aspetto a scapito della componente filmica che assume un ruolo minore. C’è chi però ancora crede nella validità dell’idea, in futuro filmati e interattività andranno a braccetto (non è chiaro come) e quando questo accadrà attori famosi sostiuiranno gli avatar nei cuori dei giocatori e le pellicole ci-

nematografiche verranno soppiantate definitivamente. Il filone acquista una certa popolarità, le avventure grafiche sono ancora un genere forte e questi nuovi prodotti sembrano essere la loro naturale evoluzione. È però anche l’era in cui il 3D inizia ad affacciarsi in maniera massiccia in ambito delle produzioni per il mercato home, e anche i film interattivi dovranno adeguarsi: mischiano sequenze filmate a concept di gioco in 3D real-time. Un ulteriore passo indietro sulla componente filmica, ma un passo necessario per fare sopravvivere il filone. A questo punto, però, cosa è rimasto dell’idea iniziale? Poco, forse solo la paventata chiamata in massa di star di Hollywood, o meglio, di ex star di Hollywood in cerca di nuova notorietà. Più di una ventina di volti noti e meno noti fanno comparsa in molte delle produzioni, decantando le potenzialità del media. Forse ci credono poco pure loro, oppure sperano – assurdamente - che Hollywood crolli, facendoli così divenire pioneri del nuovo corso del cinema.

der A Killing Moon, forse il massimo esponente del genere

Si è parlato di ambiente PC, su console, invece, si dovrà aspettare il consolidarsi delle piattaforme dotate di CD (MegaCD, CD32, 3DO, PcEngineFX, etc.) per vedere affiorare nuovi prodotti, anche se tra gli esponenti solo pochi esulavano dal vecchio modello punta e clicca. Da notare che se mentre molte software house occidentali si buttarono a capofitto sul filone, in Giappone rimasero sempre piuttosto freddino, preferendo dilazionare l’uscita dei – pochi - titoli in un’arco di tempo più dilatato, buttandosi sulla commistione con il genere dei giochi di ruoli piuttosto che sull’avventure grafiche. Quand’è che l’industria ha smesso di credere ai film interattivi? Intenzionalmente mai, la trasmutazione dall’idea di partenza a quelli che sono i prodotti odierni è stata fin troppo lenta e naturale perché qualcuno potesse rendersi conto del cambiamento. In realtà, come per altre correnti ludiche che non hanno avuto il successo sperato, i film interattivi nel vero senso del termine hanno subito un declino piuttosto

(sotto) Malcom McDowell e Mark Hamill, probabilmente i più famosi tra gli attori che hanno prestato il loro volto nei film interattivi. Il primo è finito a fare, ehm, Heroes. Il secondo è finito e basta

lento. Tuttavia, non avendo mai raggiunto una grandissima popolarità, in pochi si sono preoccupati della loro scomparsa. Lo stesso genere ha sofferto di crisi di identità piuttosto spesso nel corso della sua breve vita, tant’è che non è immediato identificare, o meglio associare i titoli a questa categoria. Avatar più realistici da impersonare, congiuntamente all’introduzione di nuovi metodi narrativi all’interno del videogioco, hanno contribuito a dare la mazzata finale ad una corrente ludica le cui basi erano molto probabilmente traballanti fin dal principio.

Lo sapevate? Anche il cinema tentò il suo personale approccio al ‘film interattivo’. Negli anni ‘80, soprattutto in campo televisivo, furono sviluppate soluzioni in grado di espandere le potenzialità della TV attraverso alcuni dispositivi che potessero interagire con essa. Ad esempio nella serie televisiva Captain Power alcune sequenze del telefilm erano state studiate per ‘interfacciarsi’ ai giocattoli dell’omonima serie. Negli anni ‘90 anche – pochi - cinema si attrezzano: in Mr. Payback: An Interactive Movie era possibile scegliere in anticipo che direzione avrebbe preso la trama utilizzando una pulsantiera che ricorda quella di Buzz per PlayStation 2. Successivamente, grazie all’avvento del DVD, fu più facile proporre film a scelta multipla con riprese a diversa angolatura. Tuttavia non ci fu mai un gran interesse per il genere. Insomma, il risultato alla fine fu lo stesso: un disastro

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Italian Top Games Chart


1492 L

alla scoperta delle ‘indie’

e storie di successo che giungono dal mondo indie si moltiplicano e si fanno sempre più frequenti. Se prima erano gli indipendenti più validi a essere reclutati nel gotha della produzione videoludica, oggi, grazie anche alle possibilità offerte dal digital delivery, i progetti più interessanti vengono presi in carico dalle major o addirittura distribuiti autonomamente dai loro stessi creatori. Il ritorno dei bedroom coder? Se Crayon Physics Deluxe è un’indicazione attendibile, sì. In ogni caso una certezza esiste: parte del videogioco sta lasciando la catena di montaggio per riappropriarsi della sua dimensione umana.

UN UOMO E IL SUO SOGNO

Scaricate Crayon Physics Deluxe al seguente indirizzo: http://www.crayonphysics.com

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a cura di Marco “Il Pupazzo Gnawd” Barbero

CRAYON PHYSICS DELUXE

N

on si può non amare un pazzo come Petri Purho. Un soggetto che da due anni a questa parte si è lanciato in una personale sfida: produrre un gioco al mese. I risultati (che verranno discussi in una futura puntata di 1492) sono sorprendenti per qualità e inventiva. Una di queste dimostrazioni ha però catalizzato più di ogni altra l’attenzione della critica e degli habitué di www.kloonigames.com: Crayon Physics Deluxe. Un’idea tanto semplice quanto geniale. Hai una pallina, hai una stella e hai una matita: fai in modo che la palla rotoli, rimbalzi, si catapulti, qualunque cosa purché raggiunga la stella. Gli strumenti a propria disposizione? La fisica e una matita con cui dare vita a qualsiasi forma ti venga in mente. Il concetto è molto simile a puzzle quali The Incredible Machine, ma in questo caso è la genesi degli strumenti per mettere in moto la reazione a catena il fulcro e non la reazione stessa. Quello di Crayon Physics Deluxe è un passo indietro strutturalmente e un paio di passi avanti concettualmente. Una libertà simile raramente la si è sperimentata all’interno di un videogioco. I primi momenti sono pura estasi. Gran parte del merito è dovuto a un impianto audiovisivo che è un trionfo di stile e funzionalità: gentile nei suoi tratti infantili, semplice come il foglio stropicciato che fa da base alla propria fantasia e rilassante grazie a melodie mai invasive, capace di cullare i pensieri. È un mondo di calma quello di Crayon Physics Deluxe, una disconnessione dalla realtà esterna che stimola a rispolverare il fanciullino, che a giudicare dalla qualità artistica dei risultati non è cresciuto molto dai suoi primi scarabocchi (vi accorge-

rete di quanto siete scarsi, garantito). Nonostante la pochezza e l’incertezza delle forme disegnate, il programma non si scompone, interpretando e collocando nel mondo di gioco qualsiasi schifezza la vostra matita/mouse partorisca. Quella di Purho è una vittoria su tutta la linea. Un titolo che farà parlare a lungo di sé, perché pur rielaborando meccaniche di certo non nuove le propone da un punto di vista inedito, creando un videogioco nuovo, da sperimentare assolutamente. È un peccato che la libertà prenda spesso il sopravvento. Solo la mancanza di limiti, infatti, può portare al paradosso che la maggior parte dei puzzle possa essere risolta con un sistema di carrucole. È vero, la filosofia del gioco è quella di stimolare fantasia e creatività, di godere delle mostruosità più ardite. Quando succede è effettivamente un momento da tramandare ai posteri, ma anni di videogiochi ci hanno portato a cercare la crepa nel meccanismo per poi sfruttala senza pietà. E di questo Crayon Physics Deluxe soffre, soffre pesantemente. È un peccato che solo a conclusione del gioco si abbia la possibilità di recuperare ulteriori stelle basandosi su criteri differenti (disegnare un numero minimo di forme oppure non usare spilli), perché se questi stimoli a limitare lo sfruttamento della libertà concessa fossero evidenti sin dall’inizio, Crayon Physics Deluxe non rischierebbe di alienare la sua utenza prima della conclusione. Se questo sia un limite è affare dell’utente e del suo modo di interpretare il gioco. L’editor di livelli e una comunità on line molto attiva sono comunque un rimedio più che sufficiente agli eventuali mali del parto di Petri Purho.


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BANJO KAZOOIE NUTS & BOLTS Io bullono, ergo sono

piattaforma 360 sviluppatore rare ltd produttore microsoft versione pal provenienza uk

a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa

volte ci vuole fantasia. Immaginate nella stessa riunione un dirigente Microsoft, una coppia di programmatori Rare e Banjo. Immaginate ora quanto possa essere incazzato il primo per le scarse vendite del gioco, poi immaginate quelli di Rare scrollare le spalle e infine immaginate Banjo, rinchiuso in una gabbia per gatti, che si dichiara innocente. Un giorno qualcuno condannerà i colpevoli e poi li rilascerà in libertà condizionata, ma non è oggi il giorno del processo. Oggi, un paio di mesi dopo il fattaccio, possiamo solo constatare che Banjo-Kazooie: Nuts & Bolts è una vittima. Una fottuta vittima della mafia videoludica, più potente della cinese, più feroce della russa, più istruita di quella italiana. Una mafia che macella la sua coca sempre sullo stesso scaffale, quello natalizio. A giocare con Viti e Bulloni ti passa la voglia di programmare videogiochi, pure se non lo hai mai fatto in vita tua. Perché un buon lavoro non può essere lasciato alla deriva da una collezione così pacchiana di imperdonabili errori. Il primo sbaglio è non spiegare che di platform non si tratta. Ci sono i livelli sì, ci sono i salti sì, ci sono pure le note collezionabili e uno scenario perfetto, ma di platform non si tratta. E grazie a Dio, perché, dopo Kameo, Rare si rilancia come regina dei controlli indecenti. Banjo sarebbe il dito in culo di ogni pad se dovesse solo saltare in testa a qualcosa. Il secondo sbaglio è una demo pedante e noiosa, fuorviante e inefficace, una stronza che nemmeno fa capire che di platform non si tratta (appunto). Non era facile inzaccare una formula tanto nuova in cinque minuti di pubblicità, ma ti vuoi del male se non lasci nel cassetto quella che ha invece invaso il marketplace. Il terzo sbaglio, e qui mi fermo, è lo scontro tra un massimo e un mosca. Quelli del marketing avranno fatto i loro conti, sembra sciocco e superficiale sputare sul lavoro di tanta brava gente, ma bisogna essere degli imbecilli patentati per oscurare uno spaghetto alle vongole con del parmigiano. Che in questo caso gli spaghetti siano un gioco di

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orsi e il parmigiano un misto di motoseghe e sangue ha davvero poca importanza. A volte ci vuole fantasia e questo Banjo è un cavallo sbizzarrito nel vostro cervello. Le regole del tavolo sono tanto chiare quanto indefinite. Una missione, un obiettivo, e poi solo un foglio bianco da riempire con gli scarabocchi di progetti assurdi e improbabili. Lo rispiego, meglio stavolta. Rare sceglie un punto d’arrivo, il giocatore costruisce il percorso, Banjo ritira il premio. È proprio difficile da spiegare Nuts and Bolts, perché tanta libertà non si era davvero mai vista. Un’ispirazione, un lampo di genio, una lampadina sulla testa magari e il più bastardo dei livelli si trasforma in un esemplare gioco da ragazzi. L’importante è creare un mezzo con motore, un sedile e qualche ruota. Un gioco senza regole e senza muretti. Come se in un picchiaduro si potesse lanciare contro il nemico uno di quei tifosi ubriaconi alle tue spalle. Come se in un RPG si potesse prendere a bastonate il cattivo prima che diventi fortissimo. Come se si potesse porre fine ad Heroes dopo la prima stagione, per sempre. Rare ti sfida a fottere e scavalcare le sue regole, perché di regole vere e proprie ne ha scritte poche. Il giocatore costruisce la sua avventura più di quanto non si faccia in Little Big Planet. Il gioco si modella a sua immagine e somiglianza, si fa grande o piccolo in base alle capacità del suo manovratore. Nuts & Bolts è un gioco diverso per chiunque lo giochi, il primo esempio di codice volatile e permeabile. Si potrebbe pure parlare degli inevitabili bug, della sala giochi, dei segreti marini, dei mille pezzi a disposizione, della fisica credibile, di alcune insopportabili gare e di alcune missioni dannatamente frustranti. Ma facendolo, supererei i 3800 caratteri e questa recensione richiederebbe un’altra pagina di spiegazioni. E Banjo-Kazooie: Nuts & Bolts, il gioco che la LEGO avrebbe sempre voluto fare, non si può spiegare. Si può giocare e, per una volta, fatevi il piacere. 8

Quello che sorprende maggiormente nel gioco, è la facilità con la quale si riesce a partorire il proprio mezzo dei sogni. Davvero splendida ed intuitiva l’interfaccia del piccolo meccanico

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ps3

AFRIKA Formaggio

console ps3 sviluppatore rhino studios produttore scei versione jap provenienza giappone

a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa

eve essere cominciato tutto il giorno della mia prima comunione. Tra gli innumerevoli regali (adesso che ci penso i miei non mi hanno fatto toccare le bustarelle con i soldi, bastardi) non posso dimenticare i miei preferiti: una mountain bike, un gameboy in bundle con Tetris, un Commodore 64 con Kick Off Franco Baresi e due splendide macchinette fotografiche, una Nixon e una Casio. Adesso capite? Sony ci rimane male, se la lega al dito, e ben diciotto anni dopo (porca di quella vacca, diciotto) si vendica con un gioco dedicato alla fotografia e alle sue macchinette fotografiche. Il cerchio si chiude, troppo facile Watson. La mia carriera di fotografo è poi proseguita tra splendidi primi piani, gente che spegne le candeline e gruppi ordinati di gente felice. Una volta ho pure fotografato una sposa colpita con ferocia dal riso, quanti bei ricordi. Ma Afrika, così magari torniamo a fare il nostro sporco lavoro, è davvero un gioco di fotografia? Più no che sì, a dire il vero. Chi di obiettivi se ne intende davvero, infatti, quelli che sanno cos’è la regola dei terzi, lamenta carenza di opzioni, poche luci sul palcoscenico e risoluzioni troppo basse. Chi sa pigiare il tasto nero senza la messa a fuoco e il flash automatici, insomma, delle fotografie di Afrika se ne fa davvero poco. In fondo non è un grosso problema. Ma allora Afrika è

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un gioco documentaristico sugli animali? Più no che sì, a dire il vero. Dietro le pregevoli animazioni degli animali, infatti, si nascondono delle routine pane al pane, basilari più che altro. Il bufalo va all’acqua, poi torna indietro. L’elefante va alla cascata, poi torna indietro. L’ippopotamo va in piscina, poi ne esce. L’iguana… ecco, se vi capita di beccarla l’iguana fatemi un fischio che una gomitata d’amicizia gliela do volentieri. Un andirivieni di dolcissime passeggiate interrotte, solo di tanto in tanto, da alcune missioni speciali. In quelle, e solo in quelle, si assiste alla caccia dei predatori e ad alcuni momenti fuori dagli schemi. Come un minigioco, solo parecchio uguale al gioco vero e proprio. Ma allora, guardandoci negli occhi, Afrika cos’è?

Afrika è un gioco, né più né meno. Un gioco con macchine digitali, jeep per spostarsi, animali e missioni. Più classica di quanto possa far credere, l’Afrika di Sony è un videogioco senza rivoluzioni. Pacato e singolare certo, ma con una struttura da manuale. Accetti la missione, scatti la tua foto, prendi la ricompensa e ritorni sulla giostra. Il resto è contorno, ma in fondo non c’è molto altro da fare. Perlomeno gli obiettivi sono raramente banali, le situazioni non si ripetono troppo e la noia ha la meglio solo su chi ha proprio sbagliato acquisto. Ma allora vien da chiedersi, perché Afrika è lo stesso un’esperienza gratificante e coinvolgente? Perché ha un sapore strano rischiare la vita e il lavoro di


A delle ottime animazioni non si può dire certo corrisponda una grafica all’altezza. Lo scenario è spoglio, brutto, a tratti ridicolo. Il low budget ha un suo costo. Tutto sommato stavolta non ci arrabbiamo

un’intera giornata stando nascosti in un cespuglio. Perché guardare negli occhi un animale che si sta infuriando e attendere ancora un secondo prima di darsela a gambe è qualcosa che non avevo mai fatto in vita mia. Da buon videogiocatore ho sempre corso dei rischi, ma ho pure salvato tutte le volte che potevo. In Afrika no, ho ucciso tre boss finali, ho ignorato il save point e mi sono scagliato in faccia ad un nemico più grosso. Ho rischiato, spesso ho perso, mi sono maledetto e poi ci sono ricascato ancora. Ho mentito all’inizio, la mia carriera di fotografo non è mai stata un granché. Gli scatti ammucchiati nell’hard disk di PlayStation 3 ne sono infelici testimoni. Ma sapete una cosa? Sticazzi, mi sono divertito. 8

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ps3

VALKYRIA CHRONICLES Guns of the patriots?

console ps3 sviluppatore sega produttore sega versione pal provenienza giappone

a cura di Michele “Guren no kishi” Zanetti

atevi un favore, saltate il prossimo paragrafo. Troppi spoiler. E se c’è una cosa che non vorrete rovinarvi, sarà lo svolgersi dei capitoli di Valkyria Chronicles, sbloccati così duramente sul campo di gioco. La Federazione Atlantica e l’Alleanza Imperiale si combattono su tutto il territorio di Europa per il possesso dei giacimenti di Ragnite, un particolare minerale usato per moltissimi scopi: da fonte energetica per ogni tipo di macchinario, alla cura stessa delle persone se raffinato in un particolare modo. Le vicende si svolgono nel piccolo regno di Gallia, invasa dall’Impero per essere usata come testa di ponte con cui colpire la Federazione. Gallia, però, nasconde vari segreti, oltre che una potentissima arma che potrebbe far comodo all’Impero. Sotto assedio, la vita spensierata dei semplici civili cambierà con l’arruolamento, trasformandoli in veri combattenti, desiderosi non solo di difendere la propria terra, ma anche quello che hanno di più importante. Wellkin è il nostro protagonista, chiamato nella milizia, ‘taggato’ tenente e messo a comando della Squadra 7. Squadra a cui molto presto si aggiungeranno nuove leve, diventando così una sorta di famiglia allargata da cui attingere truppe e con cui approfondire i rapporti. Le truppe da schierare si dividono in cinque classi. Gli Scout hanno resistenza bassa, ma una capacità di movimento gigantesca. Utilissimi da mandare in avanscoperta per determinare la posizione dei nemici più nascosti. Gli Shocktrooper sono la classe d’assalto: libertà di movimento limitata, compensata da un ottimo sbarramento di fuoco. Riescono anche a tirar giù carri armati colpendoli al radiatore. I Lancer sono una classe pensata per smantellare tutto ciò che è troppo grosso e metallico. Torrette, mortai, carri armati, cannoni e così via. Gli ingegneri sono l’asso nella manica della vostra squadra. Possono riparare trincee demolite, riparare l’Edelweiss (il vostro carro armato), curare un’unità in difficoltà, disarmare mine antiuomo e anticarro. Non male, soprattutto perché hanno in dotazione molte granate con cui combinare degli scherzetti mica da ridere al nemico. Infine, non pote-

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vano mancare i cecchini: basso movimento, difesa ridicola, ma ultra letali coi loro fucili con mirino telescopico. Mirando alla testa dell’avversario, sempre che il colpo vada a segno, questi passerà subito a miglior vita. Il fattore peculiare di VC è che dopo aver schierato le truppe in campo si hanno a disposizione vari turni all’interno della fase in corso. Nel momento in cui si seleziona un’unità la visuale passa dall’alto della cartina topografica ad una in terza persona dietro all’unità scelta, direttamente sul campo. Da quel momento ne avrete il controllo diretto. A voi gestire come muovervi, quando attaccare, dove posizionarvi e via dicendo. Terminato il turno in corso ritornerete alla schermata dall’alto. Potrete selezionare una truppa diversa oppure ancora la stessa con cui avete appena giocato, ma questa, essendo stanca, disporrà di una capacità di movimento più limitata. Gestendo turni, ordini e truppe con la massima efficacia, riuscirete a conquistare gli accampamenti avversari, portare a termine manovre di accerchiamento su larga scala, piccole operazioni di infiltramento, nonché risolvere situazioni disperate, come completare una missione con pochissime unità

schierate, portare in salvo un compagno ferito entro tre turni (altrimenti muore) o mandare a segno col cecchino un colpo da parte a parte del campo di battaglia. Grandi soddisfazioni. Valkyria Chronicles lo si vive completamente, ti entra nella pelle e non ti molla. Sei lì in mezzo al campo di battaglia con i tuoi uomini mentre cerchi non solo di raggiungere l’obbiettivo della missione, ma anche di farlo il più velocemente possibile. Meno fasi si impiegano e maggiori saranno i punti esperienza e i soldi elargiti dopo la vittoria. E magari anche qualche arma presa al nemico. Una volta tornati al quartier generale vi saranno varie destinazioni raggiungibili. Si può andare in udienza con la regina e ricevere medaglie o armi per i vari traguardi raggiunti. Nel cimitero è possibile farsi insegnare da un veterano degli ordini particolari in cambio di esperienza. Vi è anche la possibilità di parlare con la giornalista Ellen, leggere le ultime notizie e comprare capitoli extra sui membri della propria squadra per approfondirne la conoscenza (alcuni dei quali presentano anche delle battaglie aggiuntive). Il reparto ricerca e sviluppo, invece, è il luogo in cui spendere

Il Canvas Engine fa sembrare il gioco un dipinto su tela in movimento. La resa finale, nonostante le scalettine, è più che convincente. Come se già non bastasse, Sakimoto Hitoshi aggiunge poi una marcia in più con la sua musica inconfondibile, firmando una delle sue migliori partiture


Mai mi sarei aspettato che SEGA proponesse uno dei migliori giochi strategici dell’ultima decade e dell’intera softeca PlayStation 3. Il gigante che risorge?

soldi come se piovesse. Dopo varie battaglie o all’aumento del livello delle vostre classi potrete acquistare nuovi armamenti con cui equipaggiare le truppe, nuove potenziamenti e pure vari upgrade per l’Edelweiss. È consigliato farci un giro spesso, per vedere se per caso non ci siano novità in vendita. Nel campo di allenamento, invece, è possibile assegnare alle classi l’esperienza acquisita e farle salire di livello. Tutta la classe fa level up, non una truppa specifica. Le ultime opzioni disponibili nel quartier generale riguardano la sala di comando e gli alloggi. Nella sala di comando è possibile aggiungere unità nella vostra squadra che scenderà in campo fino ad un massimo di venti. Scegliete con cura: di certo non vorrete con voi gente che, appena mossa, faccia cadere l’unica granata a disposizione, o a cui calino tutte le statistiche non appena si sporca il vestito, o che si senta sola se non è vicino ai compagni, o qualche misogino. Negli alloggi è possibile equipaggiare le armi alle varie classi, in particolare se pensate che in fondo vi serve di più un fucile potente anziché uno con la mira migliore, e così via. Nel caso soldi ed esperienza

non vi bastino, potrete rifare più volte delle missioni peculiari dove racimolarne quanti ne volete con la debita pazienza. Avere classi troppo potenti, però, potrebbe inficiare la difficoltà del gioco, piuttosto impegnativo in molti punti, rendendolo più semplice. È possibile salvare anche in battaglia prima di ogni turno, ma è meglio che vi teniate due save separati. Davvero, non si sa mai che cosa possa accadere e vi capiterà più volte di ricaricare il save in battaglia con annessi quaranta secondi di “now loading” in bella mostra. Gli altri caricamenti sono tutti sopportabili, merito dell’installazione su disco rigido. Valkyria Chronicles non è lunghissimo come tempo di completamento, siamo sulle trentacinque ore, però il counter tiene conto solo del tempo effettivamente giocato, non di tutto quello passato a studiare le mappe, venire decimati, preparare una strategia, ridisporre le truppe, ricaricare un save perché il cecchino ha mancato di due millimetri il bersaglio o il Lancer di turno, sparando in diagonale, è riuscito a mancare il radiatore del carro armato a due passi da lui. Non parliamo poi delle missioni più complesse e articolate e quelle in cui af-

fronterete i boss. Ogni missione è unica e può accadere di tutto, di certo non vi annoierete neanche un po’ e se lo vorrete rigiocare in un New Game+ con tutte le classi ai livelli dove le avevate lasciate, potreste trovare un paio di gradite sorprese. Da quanto visto in rete, Valkyria Chronicles sembrava sì potenzialmente interessante, ma non così tanto. Un ottimo lavoro da parte di SEGA in ogni comparto del titolo, magari un caricamento più breve per i save in battaglia e missioni un pelo più permissive lo avrebbero reso ancora più giocabile, ma anche se il trial and error è un po’ troppo accentuato, VC offre un’esperienza ‘mesmerizzante’ che vi rimarrà dentro. Un gioco da avere nella propria softeca. 9

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360

LIPS And we don’t care about the SingStar’s folks console 360 sviluppatore inis produttore microsoft games studios versione pal provenienza giappone

a cura di Tommaso “Gatsu” De Benetti

accio outing: ho comprato Lips perchè volevo infastidire i miei vicini. L’ho comprato perchè non so cantare, ma disperatamente vorrei e non è mai troppo tardi per vivere davvero. L’ho comprato per le uniche ragioni per cui vale la pena scaraventare sessanta euro nel vuoto: rendersi ridicolo di fronte agli amici ad una festa, giocare insieme alle ragazze, far casino e duettare con qualcuno dopo dieci birre. E se queste sono le vostre esigenze, Lips è un successo e vale tutti i vostri soldi: ha una buona scaletta generalista, offre due microfoni wireless solidi e belli da vedere, non sbaglia quasi niente di veramente fondamentale, offre dei contenuti scaricabili che lentamente iniziano ad interessare. Ma grattando la superficie, se sotto sotto potete ammettere che passerete la maggior parte del tempo in sessioni solitarie presso la vostra grotta a Moria, Lips vi deluderà come una donna che sotto il vestito niente. Sono venuto al mondo dei singing games puro e innocente come Maria Maddalena, non avendone praticamente toccato nemmeno uno prima di questa release iNiS-Microsoft Games Studios. Lips, quindi, dovrebbe essere più che soddisfacente per uno non particolarmente attento ai dettagli del genere. Sono invece bastati trenta minuti a SingStar ABBA su PlayStation 3 per far sì che mi rotolassi nudo in un campo innevato gridando a squarciagola: “C‘ho rabbia dentro di me!“. Rispetto al titolo Sony, Lips vince a mani basse in quanto a chiarezza dell’interfaccia e coinvolgimento fisico (saprete infatti che il gioco prevede l’attivazione di speciali moltiplicatori in concomitanza con determinate pose che il cantante deve assumere, senza contare gli accelerometri che trasformano i microfoni in tamburelli). Dove il gioco sostanzialmente collassa su se stesso è nella totale ed imperdonabile

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mancanza di opzioni: i punteggi non si possono salvare, la voce originale non si può rimuovere dalle tracce, non esistono classifiche, non si può registrare una performance, le sfide online sono elementari e governate da regole derivanti dalla teoria del porcospino di Shinji Ikari. La sezione MyLips, presentata con rimarchevole faccia di culo come collegamento alla ‘community musicale’, non permette di sapere automaticamente chi nella lista amici possiede il gioco, né quale sia la sua lista delle canzoni (fondamentale in ottica DLC) e, offesa finale, nel caso qualcuno vi lanci una sfida non è prevista alcun tipo di notifica. Il che significa, in sostanza, che senza controllare a mano la sezione MyLips un giorno sì ed uno no è impossibile accorgersi delle sfide, che peraltro hanno una durata limitata a - attenzione alla perfidia - 7 giorni dal momento in cui vengono lanciate. La demenza di tali scelte è imperscrutabile ed imbruttisce il gioco molto più del dovuto, perchè Lips è fondamentalmente divertente quando ci si limita a prendere in mano il microfono e cantare a squarciagola in attesa che dalla cucina arrivi un nuovo round di punch doppia vodka. Ancora meno logico è il fatto che a tale scempio non venga posto rimedio con una patch distribuita tramite Live, visto che si tratterebbe di una soluzione confezionabile in una manciata di ore di lavoro. Nella speranza che i prossimi contenuti scaricabili sfoggino un po’ più di varietà e gusti meno da MTV, non posso far altro che attendere un futuro migliore consigliandovi Lips solo in casi di estrema necessità: compleanni, inaugurazioni di appartamenti o funerali particolarmente graditi. 4

Lips permette di importare le proprie canzoni nella libreria. Al di là del fatto che i nuovi iPod non vengano riconosciuti o che le istruzioni sul come fare siano abbastanza vaghe, i pezzi vengono presentati a schermo senza testi e con dei video fittizi di discutibile fattura. Lo scopo è cercare di ricalcare il più possibile il tono di voce originale, ma piccoli trucchetti possono far schizzare il punteggio verso l’alto senza particolari problemi. Certo, poter importare gli At the Gates non ha prezzo


pc 360 ps3

CALL OF DUTY WORLD AT WAR It’s your duty (to shake that booty*) piattaforma pc 360 ps3 sviluppatore treyarch produttore activision blizzard versione pal provenienza usa

a cura di Gianluca “Unnamed” Girelli

lla notizia che sarebbe stata Treyarch a sviluppare il nuovo Call of Duty ho provato un brivido freddo. Per carità, Call of Duty 3 era ben lungi dall’essere brutto, ma trasmetteva come una sensazione di compitino svolto senza particolare convinzione. D’altronde Infinity Ward lasciava in dote qualità ludiche mica da ridere e rovinare un già ottimo prodotto era difficile, a meno di non accanircisi volutamente. Con questo ‘nuovo’ episodio, l’approccio di Treyarch alla serie è rimasto invariato. Per fortuna o purtroppo. Niente più ‘guerre alla maniera moderna’, si ritorna alla classica Seconda Guerra Mondiale che oramai ha ammorbato un po’ tutti, anche se lo scenario asiatico è quantomeno originale. Basta poco però per rendersi conto di come World at War sia una copia nemmeno perfettamente riuscita di Modern Warfare. La sensazione è che WaW tenti di riproporre paro paro la struttura delle missioni del predecessore, ma senza quel guizzo che caratterizzava il precedente lavoro, e soprattutto senza una storyline decente che ne faccia da collante. Il paragone è in alcuni casi impietoso. Come dimenticare la sezione di cecchinaggio di Modern Warfare curata sia dal punto di vista del (game) design, sia dal punto di vista narrativo: a pochi secondi dalla decisiva pressione del grilletto i 3 giorni virtuali di appostamento sembravano pesare come fossero reali. WaW, invece, rippa l’intera sequenza, ma stavolta le sensazioni sono le medesime di una partita a Time Crisis. E il remake della sezione aerea… lasciamo perdere. Chi ha giocato al precedente episodio non avrà difficoltà ad ambientarsi rapidamente, pregi e difetti del sistema di gioco sono fondamentalmente gli stessi. Viene diminuito in maniera sensibile il respawn dei nemici, anche se i più attenti ricorderanno che Infinity Ward aveva messo una parziale pezza al problema già in CoD4: le ondate tendono a diminuire di intensità fino a quietarsi

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quasi completamente a zona ripulita, in questo modo la sfida è tenuta alta senza dare l’impressione al giocatore di dover marciare verso il checkpoint successivo per veder esaurite le ondate di soldati. I commilitoni offrono un aiuto inferiore e questa volta, fortunatamente, non potrete contare su di loro per tirarvi fuori dai guai. Vengono infine limitate numericamente le occasioni di disimpegno nell’attacco ravvicinato: se in precedenza liberarsi dai fastidiosissimi cani era un terno a lotto, questa volta di quadrupedi se ne vedono pochi e gli stessi musi gialli difficilmente arriveranno tanto vicini da infilzarvi con le loro baionette. WaW propone un numero minore di missioni, livelli più corti e una difficoltà generale diminuita. Se CoD4 ai massimi livelli si rivelava un’avversario decisamente ostico, lo stesso giocatore non troverà troppe difficoltà a finire WaW in 2-3 giorni. Purtroppo, nemmeno l’introduzione dei similachievement sarà sufficiente a tenervi ancorati al single play per un periodo ulteriore. A quanto pare, l’impegno più concreto sembra essere stato riposto sul versante online. WaW ripropone il già ottimo sistema di gioco del precedente episodio e per la prima volta introduce il coop-online che ultimamente va molto di moda. Qualche aggiunta alle solite modalità multiplayer e, per finire, un’insolita modalità Nazi Zombie a metà strada tra l’Orda di Gears of War e Left4Dead, che nonostante le finalità di diversivo rispetto all’avventura principale è in grado di regalare abbondanti dosi di divertimento. In fin dei conti non ci si aspettava che Treyarch rivoluzionasse il franchise, ma il lavoro svolto con World At War, seppur con alcune novità, non può dirsi affatto sufficiente. WaW è un buon gioco se preso singolarmente, solo discreto se considerato nell’economia della serie. I possessori di Modern Warfare passino pure oltre, gli altri risparmino pure dindini per il precedente episodio o per giochi più meritevoli. 6

* Avete scoperto qual’è la citazione del titolo della recensione (senza usare Google, eh)? Inviate la risposta alla redazione, potreste essere il fortunato vincitore di un’abbonamento gratuito per un’anno alla rivista Babel

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pc ps3 360

NEED FOR SPEED UNDERCOVER Bisogno di fermarsi

formato pc ps3 360 sviluppatore ea vancouver produttore ea versione pal provenienza canada

a cura di Gianluca “Unnamed” Girelli

er Need For Speed è arrivato il momento di congedarsi dai fan. Sarebbe stato più dignitoso se il commiato fosse stato frutto di una precisa volontà, ma a giudicare dai non proprio esaltanti risultati di ProStreet, congiuntamente alla prevista valanga di licenziamenti in sede EA, parrebbe proprio un blocco forzato. Con Undercover il franchise sembra aver toccato il fondo e, continuando di questo passo, probabilmente avrebbe iniziato a scavare. Riproporre per l’ennesima volta la carta del free-roaming senza modifiche sostanziali non è stata una scelta saggia, anche perchè con Burnout Paradise in giro c’è solo da prendere schiaffi. Saltata l’intro, si inizia a girovagare in una città tristemente semideserta con pochissime auto e nessun pedone. Una breve corsa che si supera con fin troppa facilità e la prossima gara è subito pronta. In effetti, perchè andarsene a spasso tra ambientazioni decisamente anonime quando si può benissimo skippare alla gara successiva con la semplice pressione di un tasto? Di attivare missioni direttamente ‘sul campo’ non se ne parla, il GPS dimentica di contrassegnare gli obbiettivi e selezionare manualmente la missione dalla mappa principale è spesso solo un’inutile perdita di tempo, data la lunghezza dei caricamenti. Le missioni paiono tutte uguali: la solita gara fra truzzi, la cui faciltà rasenta il ridicolo; la corsa nel traffico, dove il ‘traffico’ torna a farsi vedere e rendersi utile, ma probabilmente erano tutti lì ad aspettare solo voi; l’inseguimento con la polizia, in cui l’ottima gestione delle vetture viene in parte vanificata dalla notevole disparità di prestazioni tra il vostro bolide e le loro pattuglie. A queste si aggiungono missioni principali un po’ più difficili della norma, dove il premio generalmente è un’auto nuova o denaro frusciante. In alternativa, almeno su Xbox 360, potrete spendere veri e propri Microsoft Points per acquistare auto o pacchetti upgrade, ma franca-

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mente è solo un’inutile spreco di denaro. Alcune vetture, tuttavia, non saranno acquistabili nemmeno con un conto in banca tale da comprarvi l’intero parco auto, ma potrete sbloccarle in seguito facendo salire il vostro livello d’abilità. Statistiche, Nos e Bullet Time servono però a poco: riuscireste a battere la maggior parte degli avversari con una mano legata dietro la schiena. Anche con tutta la buona volontà, la spinta a continuare è davvero poca, il tempo passa e spererete fino all’ultimo che la situazione possa migliorare, ma di decollare Undercover proprio non ne vuole sapere. La rincorsa all’esagerazione visiva iniziata con Underground ha ormai il fiato corto: non se ne può più di effetti sparati sulla retina spesso a casaccio - e strade che paiono lastricate di marmo. Se almeno l’engine facesse bene il suo lavoro, ma mostrare incertezze nella gestione di una metropoli meno densa di quella di Driver su PSX è davvero deprimente. L’online tenta di salvare la baracca proponendo una sorta di caccia al ladro tra drivers e pattuglie che tenteranno di fermarvi prima che raggiungiate l’obbiettivo; le gare versus, invece, non offrono una grandissima attrattiva dato un modello di guida molto permissivo in cui i danni non inficiano minimamente sulla velocità della vettura. A salvarsi dalla mediocrità generale è la colonna sonora, non che i brani facciano gridare al miracolo, ma il sound spanglish è perlomeno originale. Need For Speed ha bisogno di un momento di riflessione o per lo meno di idee nuove. Undercover è la fiera del mediocre, tante idee riciclate e nessun tentativo di bilanciare gli elementi in modo che formino qualcosa di interessante. È un vero peccato veder finire così una serie che tra alti e bassi aveva saputo conquistare il cuore di moltissimi giocatori. Perché dopo una corsa sfrenata che ha visto l’uscita di almeno un episodio all’anno, ora la serie ha davvero bisogno di fermarsi. 5

(Sopra) Durante le vostre scorribande avrete la possibilità di guadagnare soldi danneggiando auto e infrastrutture, inoltre potrete sfruttare alcune zone ‘pericolanti’ per sbarazzarvi una volta per tutte degli inseguitori e allo stesso tempo incrementare il vostro punteggio distruzione


playstation2

ECHO NIGHT BEYOND The Wild Blue Yonder

console ps2 sviluppatore from software produttore digital jesters versione pal provenienza giappone anno 2004

ello spazio nessuno può sentirti urlare. Né tu puoi sentire gli altri, con buona pace – in teoria – del primo motore emozionale dei survival horror, ovvero l’impianto audio. Rumori ambientali, accompagnamenti techno-industrial, grida disumane provenienti dal buio: lo spazio si fa beffe di tutto ciò. Lo spazio vi isola completamente nella vostra tuta da astronauta, disarmati ed in balia dell’ignoto. È qui che Echo Night Beyond porta a casa il primo, probabilmente il più importante, dei suoi numerosi riconoscimenti. Pur non essendo privo di rumori e musiche ambientali (del resto siamo all’interno di una stazione lunare pressurizzata), Beyond punta tutto sulle viscere e il cuore: il battito cardiaco e il respiro del protagonista – parallelamente a quelli del giocatore – dominano l’orizzonte uditivo e scandiscono le fasi e i saliscendi emotivi dell’intera esperienza. All’apparire del pericolo il battito accelera, i tonfi del cuore si fanno più forti e distinti, il respiro affannoso riempie le orecchie tanto che sembra di sentirle pulsare davvero. Anche la vista, dal canto suo, si annebbia e si oscura, lasciandoci alla mercé del buio più totale. Non si tratta però di una semplice trovata scenica. Dove la paura si fa insostenibile, il cuore non regge. Il battito supera i livelli di guardia e in un attimo, magari mentre si armeggia con una siringa sedativa per tentare il tutto per tutto, semplicemente si muore. E questo è l’unico modo che Echo Night Beyond ha per ucciderti. Il secondo riconoscimento di Beyond sta nella sua totale coerenza interna. Strutturato come un survival horror classico (ciò implica, tra le altre cose, una buona dose di back tracking), il titolo From Software si serve di una nutrita serie di enigmi ambientali per condurre il giocatore lungo l’avventura. Ognuno di questi è perfettamente coerente con l’ambientazione e la trama narrata. Ma c’è di più. In Echo Night Beyond non esistono armi, di nessun tipo. E non esistono perché i nemici che si incontrano sono fantasmi, dal primo all’ultimo, e da

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che mondo è mondo i fantasmi non possono certo essere uccisi. Altro che camere obscure. L’unica maniera di sfuggire agli spettri è scappare (non vi seguiranno oltre le porte chiuse, per un motivo preciso), oppure farseli amici, liberandoli dalla pazzia: è sufficiente scovare i terminali che controllano il sistema di ventilazione e succhiare via la densa e misteriosa nebbia che li rende aggressivi. Sta qui, in questi pochissimi elementi, il fulcro agonistico di Echo Night Beyond. E, credetemi, la sua semplicità è pari soltanto alla sua efficacia. Così configurato, il gioco veicola un’esperienza di una solidità e atipicità raramente riscontrate in altri survival horror, sebbene gli stilemi del genere non vengano comunque stravolti. Esplorazione, fascino per l’ignoto, il gusto ancestrale e inspiegabile per la paura, sono i pilastri dell’intera esperienza. Le vicende narrate, nonostante non brillino per originalità, sanno coinvolgere ed emozionare: ciò in buona parte perché da ognuno degli spiriti presenti nella stazione, una volta fatti rinsavire, è possibile ottenere informazioni ed oggetti assortiti, talvolta fondamentali per proseguire nell’avventura. Soddisfare le richieste degli spiriti li renderà liberi, finalmente in grado di ‘tornare a casa’, anche se solo in forma di spettri. Liberarli tutti, infine, darà l’accesso al finale vero e proprio del gioco… Finale grazie al quale Echo Night Beyond mette in saccoccia l’ultimo dei suoi premi, sbaragliando la concorrenza e spiazzando – ma anche commuovendo – il giocatore ormai assuefatto al buio e al silenzio. Un colpo di scena degno de Il Sesto Senso che porta l’ultimo tassello ad un mosaico che già pensavamo completo, donando un significato logico ed emotivo completamente nuovo all’intera esperienza. E poi, infine, la poesia. In una delle ending scene più belle a memoria di videogiocatore, vicina per estro e sensibilità alla poetica cinematografica di Tim Burton. Uno dei migliori survival horror della scorsa generazione, una delle opere videoludiche emotivamente più coinvolgenti di sempre.

UNDERRA TED

a cura di Federico Res

(In alto) Il sistema di monitoraggio della stazione permette di studiare gli ambienti (ed eventualmente i loro “abitanti”) prima di esplorarli fisicamente. Il gran numero di telecamere e la possibilità di impiegarle per panoramiche e zumate ne fanno un elemento di gioco di prima importanza. Nelle fasi finali, il sistema di telecamere sarà impiegato in maniera geniale per la risoluzione di un enigma ambientale

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#3 a cura di michele “guren no kishi” zanetti

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isto che Babel lo stampate in ufficio e a star dietro a tutti i titoli da me giocati, in termini di numero di pagine, farebbe girare troppe teste, è nato Time Waits for Nobody. Una serie di uscite colme di ogni ben di dio Made in Japan, in un’orgia cromatica pensata per rovinarvi la vista prima ancora di iniziare a giocare!

AWAY: SHUFFLE DUNGEON A

way: Shuffle Dungeon (DS, NTSC/UC, Mistwalker/Artoon, Majesco Games) è un prodotto abbastanza riuscito che merita attenzione. Con una grafica deliziosa e musichette carine mette in scena un’avventura non proprio lunga (una ventina di ore), ma molto giocabile e con una storia piuttosto imprevedibile, almeno fino ai primi colpi di scena. Nei panni di Sword, dovrete recuperare gli abitanti del vostro villaggio che sono stati rapiti da un fenomeno luminoso chiamato Away. I villici si trovano alla fine di particolari dungeon che si sbloccano in vari modi. Solitamente pigiando il tasto giusto nel posto giusto, compiendo certe azioni e così via. I dungeon si sviluppano su entrambi gli schermi del DS e si può passare da una schermata all’altra, ammesso di avere un passaggio libero a dis-

posizione. Uno dei due schermi ha costantemente un bordo lampeggiante, trema e presenta un counter. Raggiunto lo zero, la schermata interessata verrà mescolata e sostituita con un’altra. I dungeon sono quindi fatti da due gruppi di schermate orizzontali che si mescolano e alternano in continuazione mettendo al giocatore il pepe al culo per muoversi a passare da uno schermo all’altro prima di venire coinvolto nello shuffle. Pena la perdita di uno sputo di energia, l'obbligo di ricominciare il livello daccapo, la perdita del proprio pod porta Fupong (esserini di vari tipi e dai numerosi poteri magici) e lo stordimento di tutti i Fupong attivi. Peggio ancora, se state scortando un villico all’uscita, nel caso venga preso in uno shuffle questi verrà ricacciato dove lo avete trovato. In-

somma, evitare di subire lo shuffle sulla vostra pelle è la parola d’ordine. Come anche saper posizionare i vari negozi, stando bene attenti alle informazioni relative al Feng Shui sull’apposita mappa. Pena trovarsi con negozi molto lenti a svilupparsi, con un inventario povero o oggetti molto più costosi del normale. I Fupong, poi, possono essere potenziati e allevati, ma spesso rimangono incastrati in varie trappole e possono andare persi se ve li dimenticate nei dungeon. Frustrante. ASD è tutto qui, una semplice avventura senza grosse pretese, giocabile e divertente con alcune buone idee, ma un tasso di sfida piuttosto blando e un riciclo eccessivo di ambientazioni e mostri nei dungeon. Si merita comunque una chance.

MASTER OF THE MONSTER LAIR

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YGGDRA UNION

assando in casa Sony, i possessori di PlayStation Portable possono godersi - si fa per dire - Yggdra Union (PSP, NTSC/UC, Sting, Atlus Co.), se mai se lo fossero lasciato sfuggire ai tempi della versione GameBoy Advance. Sting è responsabile di prodotti con enormi alti e bassi, giochi per niente addomesticabili capaci anche di rompere vivacemente le scatole alle nicchie più nicchie di hardcore gamers. Sempre che esistano. E anche questa volta, varie e originali scelte di game design diventano una scocciatura più che un fattore di divertimento. Gli oggetti, ad esempio, una volta equipaggiati non possono essere più tolti fino allo scadere del numero di battaglie che vi è concesso portarli. Vi piaceva quell’armatura così resistente? Bam, svanita dopo x battaglie. Facevate i galletti ammazzando nemici a destra e a manca con quella spada, eh? Crack, sparita dopo y battaglie. Nel passaggio a PSP, YU ha goduto di maggior spazio per visualizzare l’azione di gioco, ma Sting s’è ben guardata dal fare un bel update al comparto grafico che risulta estremamente datato, tranne nella rappresentazione effettiva delle schermaglie. Gli scontri avvengono tra piccole squadre, solo dopo aver scelto quale carta particolare usare per attacco e difesa. Tenendo conto anche dei

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rapporti che governano i vari tipi di armi (come nella morra cinese), il vostro scopo sarà quello di annientare in un solo assalto (o indebolire il più possibile) l’armata nemica che vi si para dinanzi, azzerandone il morale. YU era un titolo super intransigente su GBA, ma nel passaggio a PSP è stato reso più semplice, anche se la sfida è ancora abbastanza elevata così come la frustrazione nel ripetere numerose volte le stesse battaglie per i motivi più stupidi. Molto gradita la possibilità di velocizzare i dialoghi e le battaglie. E se il nuovo doppiaggio non vi piacesse, potete sempre optare per l’audio nipponico.

NEVERLAND CARD BATTLES

estando sulla 16/9 portatile e continuando in tema di carte e strategici, Neverland Card Battles (PSP, NTSC/UC, Idea Factory, Yuke’s Company of America) è un titolo decisamente più accessibile rispetto alle avventure della principessa Yggdra. Un dio cattivo sul fondo di un tempio sta per sfondare il sigillo che lo imprigiona. Il guardiano decide allora di convocare i possessori di particolari Spectral Cards che contengono frammenti di quello stesso sigillo, così da poter porre rimedio alla situazione. Nei panni di Galahad, ben distante dal ‘paladino’ che vi potreste immaginare, dovrete viaggiare di piano in piano, sempre più nelle viscere della terra, fino a raggiungere il sigillo di cui sopra. Ogni piano ha la sua ambientazione particolare, quindi non aspettatevi caverne su caverne. Il problema maggiore è però rappresentato dagli altri Dominator, i possessori degli altri mazzi di Spectral Cards, che per un motivo o per un altro vi ostacoleranno. Gli scontri avvengono in modo strategico sulle classiche ambientazioni divise parzialmente a quadretti, con la particolarità che ogni casella su cui vi muovete viene con-

siderata vostro territorio. Più territorio avrete e più carte potrete evocare in battaglia. Le carte rappresentano le truppe, da cavalieri di ogni tipo a muri di difesa, mostri e fenomeni naturali. Anche le truppe, durante i loro movimenti, possono conquistare territori da aggiungere al pool totale, ottima idea visto che quasi tutte costano determinati valori per mantenerle in campo. Una volta entrati a portata del nemico, lo scontro avverrà in un’altra schermata dove ne si potrà osservare l’esito o potenziare il proprio pupazzetto. Sconfitto il Dominator avversario, guadagnerete da cinque a dieci carte da aggiungere al vostro mazzo, per un massimo di trenta carte attive alla volta. La costruzione del mazzo ideale si rivela una priorità assoluta, visto che la CPU non ha alcuna pietà. L’intelligenza artificiale, infatti, pone una sfida più che adeguata e vi farà sudare le proverbiali sette camicie. Problemi del gioco? Grafica abbastanza ridicola, doppiaggio poco all’altezza, musiche ultra ripetitive, azione soporifera, storia non proprio convincente e così via. Però la sfida impegnativa c’è, la strategia pure, e in dose sovrabbondante.

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N l’arriv quell e i alla o dopo ) è tutto be veder 3 mess it b Hero ore vorre vengono co prefer t io a gioca mezz’or , il loro g cati in a a vo stess una cast ata di av bagliare s s a gogn itica spae e. Senza o, sempli p n r e la c d’attenzio rare trop ge cerca enza esa . s to i, e f a r e t m nte p e m e c yle OL n e K ritore mR ID . Sta L uo co UITA to epico uno scop uarda G FINA tan e il s grande – g a en R 3 d A li m i S T , o t ia m ne UI ei io, solo Altro no ingagg capito be o e can5 – G o l’episod anno un nteggio d o cis t veng nti. Avete brano in cidere un n In tut i turno h gere il pu erfetta. e in le od giun nzone p le urla ie co di ta re qualch offre di pagn : rag i cop a ttivo nare la ca però, tra ei suoe gli milioni d oi la muie i b suon r o lt suo no, ne d ep ere è da a tato Per vend usica. Ch nche e i a sogni, ce la fan ddisfazio davanti o a o . s e M d m n o n n . a o e agla a à v r e d t u o c e disc n li e r Q o i t a a la v o gr orm mbe e si amic la lor n è loro, olo una f ane viene i degli quello ch glia le ga Sembre s n ll v a ”. no atori, itta che t Are Fags mentre u sica eppure è n e al gio no. Cape n il g u cr a s o m iY a “ v , esti n llenta Sta o compa i d’oggi, n t e il i: t , na, in u la i cuor rtan ra van uov appe impo e Kyle Kyle oi fiostra NDS un n lli dei gio ge poco e capisce tutti i su ie iak m magiFRIE tela. Stan , stanno proposto e e c u b R iq b r A ik a e e o c o or r u t m t r IT a i I a m a e it s d t c U o . t v n H a c e G e n e le a r e p 1– re un ia co di Guitar ibridi ondia che sa fa sica, senz a teles catore rip tte quell no conment i loro minc i u to m ti Si co giocator r power eogio ncati. A t che si so maledet talen ale quello senza mu prio senz od d r t i a ie t d o e a o d , c s r o s d i o p è m lo o t n o s n io i a e o d a ic li n gran g lo t s ic n a B u e s n fa film so i am fenom miraziona Rock ginat fraca hi un enti spes rte e colle stasiata d arte del nate ti. Imma ciki-ciak soffe on delud . Perchè e mentre p e l’am li occ e n l c g a o e in t a r e f u n u s q t ai. a lo a folla mirarli. È ulazione uonare c clu al fu ivare all ro di s d ridico ? rivi m andi ull’alt sarebbe o ad am Hero: l’a impara a ssionista arr on ar n im n n r r a e e m p e r i u f fin o to d Guita Come ch ra, il pro olo quan le essere chiam mo che la lo. A è l’id . n ar da so a aperia orma zione ro la chit lasticose ssare co a p n t s n h e a e p e comm isione ch il sogno davv hitarrine è si può p l a quello io si v c i a h pisod una tele avalcare nulla che delle olle. Perc llo norm e canzon ’e L c f o ve con c’è oa delle zza dal li re le ultim 3 è lavor oggi, ominciat rds, non Queer-o a e e o e e in sciolt ma domin uitar Her di Halo ch ena c no dei n . Guitar p rend ta. , erica e meglio atori, li p o ontra hard perto di G giocatore c u m r l a a r s bi, gioc ca are la ia fa te dell’e duse. Un ille niub sapp ta i video cia a gir on battu on gio n e m e m c in n a h r , o c co m c o li o c pe o sta b m t a ic e b r a r it t u r in sfig e poi i grande i ad un p enne, salta olo uno giro s gior icat ra d 2 rio, è ezz’o sensi ded che mag lioniti. Mi M . pi og più altro e dop e adulto, i fieri rinc un pedale red h n c o e o c ll c iù li , a S p d tto il io pubb RUG la so e ia so ecch AR D al succes truggere e ad un nello sp a batter loro. È la T I U n h o i u d 4 – G corrotto d ce col dis ck Star c co e ere uno d za per il guar is o il tac z , s Stan bilità, fin e ogni R an finisce sotto e so di es ssa in pia a m t s e spon rriera. Co si tale, S che ti di- h muso a, m li ig r m t a a a sua c di chiam ga, quella ebbe Sou mia f i tutti. r i o ene d merit della dr a non sa lata. La b ia a M n n vittim e la vita. esima ge infatti, u g n è, strug enza l’en episodio lice sem- l I s p – Park di questo ioco sem n drago. u g a rarsi egue drog ioco. Un a s p in s a n g re ve io. U video Il giocato gioco de pisod rAD lice. nista del dell’e eve un to D p a R ic A n r m go GUIT scena co tata in b re di Sta prota n a ad Prim he è dive rnet. Il p e di moc e perla ne su int tti e decid o vano ment io g i da guar

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