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379 settembre 2018

Il Freud che abbiamo rimosso

IN FORMA DI PREMESSA Pier Aldo Rovatti Freud addomesticato? Mario Colucci Come se la psicoanalisi non fosse mai esistita Mauro Bertani Sull’utilità della storia per la psicoanalisi

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INTERVENTI Massimo Recalcati Lo scandalo della pulsione di morte Francesco Stoppa La zuppa di sasso. Freud inassimilabile Ilaria Papandrea Ciò che disturba Raoul Kirchmayr Memorie in rovina. Su una metafora del tempo in Freud Andrea Muni I “masochismi” che rimuoviamo Alessandro Di Grazia Sarò Io? Gli svenimenti di Freud Antonello Sciacchitano Come si fa ricerca in psicoanalisi Élisabeth Roudinesco Freud e il regicidio: elementi di una riflessione Davide Radice Transfert e controtransfert Mario Bottone La lingua (perduta) del sogno nell’epoca delle neuroscienze

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com ISSN: 0005-0601 collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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In forma di premessa

Quando abbiamo cominciato a discutere in redazione di questo fascicolo, con Antonello Sciacchitano e Mauro Bertani, avevamo pensato come titolo “Il ritorno di Freud”. Ma poi ci siamo chiesti: che cosa ritornerebbe? E perché alcuni temi che circoscrivono il nome di Freud sono rimasti come sepolti e dimenticati? Così il titolo del fascicolo è diventato “Il Freud che abbiamo rimosso”, un titolo più impegnativo e meno generico che vorrebbe individuare un lavoro complesso di ricerca critica e di scavo culturale che qui abbiamo cercato di avviare. I testi che aprono il fascicolo in forma di premessa potrebbero funzionare come dei cartelli indicatori utili ad aprire questa strada e a segnalarne l’agibilità. Il lettore di “aut aut” non farà fatica a scorgervi tonalità e motivi che da anni emergono nell’interesse che la rivista ha dedicato al continente “psicoanalisi” e al ruolo che ovviamente vi giocano il pensiero e la pratica di Freud, un capitolo tutt’altro che archiviato in cui ha agito e oggi soprattutto pare manifestarsi un grumo di questioni “rimosse”.


Freud addomesticato? PIER ALDO ROVATTI

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orse non c’è bisogno di andare a cercare zone nascoste del pensiero di Freud. Ciò che di questo pensiero ci turbava, ci perturbava, quel lato che lui stesso indicava come un gioco rischioso tra famigliare ed estraneo (l’Unheimlichkeit), dove è finito? L’abbiamo esplorato in ogni particolare fino a rimpatriarlo e a renderlo docile. Per esempio, la scomoda e quasi intrattabile questione della “padronanza”, di cui mi occuperò nelle prossime righe, è stata via via ammansita. Su di essa, come su altre questioni che ci interpellavano da vicino e ci provocavano, è stato esercitato un quasi totale addomesticamento. Non la vediamo più perché ormai è scomparsa dalla nostra vista. In una battuta, potremmo dire che il Freud rimosso, che abbiamo rimosso, è Freud semplicemente, un pensiero che oggi risulta perlopiù devitalizzato, inerte, perfino banale. E allora credo che il nostro compito critico sia quello di tentare di far riemergere – valorizzando chi si è già messo su questa strada – la “stranezza” di ciò che è diventato ovvio e normale, a cominciare dalle stesse parole chiave della psicoanalisi freudiana, come la parola “inconscio”, o la stessa parola “rimozione”, ma anche la parola “desiderio”, che adoperiamo quotidianamente come se fossero pienamente maneggevoli. Potrebbe aiutarci a capire la situazione in cui adesso ci troviamo il richiamo a un curioso legame che congiunge l’avvenuta normalizzazione di Freud alla preoccupazione espressa da Ber4

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tolt Brecht nei confronti dell’ovvietà. “Ciò che è ovvio trovatelo strano”, ripeteva nelle pièces didattiche e poi in tutto il suo teatro pensante, e in definitiva sempre. Freud e Brecht possono sembrarci lontanissimi, ma qui si intravvede una sorta di chiasmo. Se il pensiero di Freud ci appare ovvio ed è diventato moneta corrente, una cassetta di significanti dal significato scontato, abbiamo solo una chance perché continui a parlarci: ritrovare nella dilagante ovvietà il filo perduto della stranezza, riscoprire in questa falsa famigliarità l’estraneità che si porta dietro. Ho chiamato in causa il consiglio “politico” di Brecht, ma potremmo anche servirci del consiglio “filosofico” della fenomenologia che ci spingerebbe a mettere tra parentesi l’ovvietà. Non incorreremmo in uno scivolamento intellettualistico se solo pensassimo come quest’ultimo consiglio (a mio parere già presente nello stesso Brecht) sia servito a Franco Basaglia per fare esplodere l’ovvietà dell’esistenza dei manicomi, connessa all’ovvietà che la malattia mentale si cura rinchiudendo il malato. Ma entriamo nel merito del pensiero di Freud. Il caso emblematico della non-padronanza di sé, e conseguentemente sugli altri, risulta sovvertito nell’idea che oggi circola, alimentata da un consenso culturale generalizzato. Accade, infatti, che attualmente ci stiamo comportando come se fosse ovvio che l’Io non è padrone di se stesso, e soprattutto come se fosse normale che questo costituisca un deficit soggettivo da colmare in un’epoca nella quale la prestazione vincente è l’ovvio obiettivo di un Io manchevole alla perpetua ricerca del proprio perfezionamento. E se, al contrario, la condizione di non-padronanza, messa in luce da Freud, fosse una condizione “paradossale”, doppia e intrinsecamente contraddittoria? Qualcosa da cui difendersi quando tracima, ma alla quale comunque guardare come un’apertura di orizzonte? Questa “verità” più articolata e complessa è molto difficile da masticare quando ormai abbiamo digerito – in ogni ambito culturale – che occorre essere padroni di noi stessi pena la squalifica sociale. Ciò è talmente palese che non c’è neanche bisogno di portare esempi specifici a conferma. Con altrettanta evidenza possiamo osservare che l’imperativo 5


Come se la psicoanalisi non fosse mai esistita MARIO COLUCCI

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n un dialogo del 2001 con Élisabeth Roudinesco, Jacques Derrida s’interroga sulla paura che continua a esercitare nella nostra epoca la psicoanalisi:1 in fondo, la “logica dell’inconscio” resta incompatibile con il “sistema” etico, giuridico e politico della nostra civiltà, tanto che le idee stesse di Bene, Diritto, Cittadinanza, Stato, sembrano essersi costituite come un sistema di contenimento, una diga di protezione al fine di incanalare e controllare l’energia prorompente che ne deriva. Se si prendesse sul serio la psicoanalisi – e qui Derrida ci fa capire che questo in effetti non avviene –, se si cogliesse ciò che accade quando questa “minaccia sismica” transita all’interno delle nostre società e di noi stessi, si verificherebbe un sovvertimento difficilmente sostenibile per la nostra cultura e per la nostra soggettività. Nella quotidianità facciamo il contrario, “come se la psicoanalisi non fosse mai esistita”.2 Anche se siamo convinti della necessità imprescindibile della rivoluzione e delle problematiche aperte dalla psicoanalisi, nella vita, nei discorsi quotidiani, nella nostra esperienza sociale, ci comportiamo “come se niente fosse, […] come se, in fondo, credessimo ancora all’autorità dell’io, della coscienza e così via, riconoscendo come nostro il linguaggio di questa autonomia”.3 1. J. Derrida. É. Roudinesco, Quale domani? (2001), trad. di G. Brivio, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 246. 2. Ibidem. 3. Ibidem.

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In queste poche parole, Derrida ci fa cogliere come la psicoanalisi, al di là del successo di notorietà che le è stato attribuito in poco più di un secolo e al di là della sua volgarizzazione nel lessico e nell’immaginario di molti, susciti ancora un’enorme “resistenza” e non sia davvero penetrata nella percezione comune quale forza travolgente e potenzialmente rivoluzionaria per la nostra cultura e la nostra etica. Il Freud che abbiamo “rimosso” è della stessa natura dell’inconscio, qualcosa che fa scandalo e sovverte la civiltà. Ed è forse per questo che la civiltà, e talvolta paradossalmente anche la stessa psicoanalisi, cercano volentieri di farne a meno. Quale sarebbe l’idea di inconscio, di cui parla Derrida, che risulta così incompatibile con il “sistema” da fare ancora paura? Forse è la classica immagine di un’istintualità selvaggia e ingovernabile, refrattaria a qualsiasi norma e linguaggio e inassimilabile all’idea stessa di Bene e Diritto? La negazione dell’autorità dell’Io e la caduta del primato della coscienza porterebbero a una perdita di controllo sulla pulsione e a un trionfo dell’irrazionalismo. Va detto che si tratta di una lettura dell’opera di Freud che appartiene alla stagione degli esordi e che, a ben pensarci, non dovrebbe più intimorire nessuno, in questa epoca affascinata dall’effrazione alla legge, dall’oltrepassamento di ogni limite e dal comportamento trasgressivo come vie per sottrarsi al dominio della grigia razionalità. Eppure, è una lettura che non è mai stata del tutto accantonata, se si pensa a quanto la psicoanalisi nella sua storia si sia spesa nel tentativo di rassicurare i suoi detrattori, costruendo la sua pratica clinica sull’immagine di un’operazione di bonifica dell’Es da parte dell’Io, come ribadito dall’Ego Psychology. Il ripristino della funzione di padronanza dell’Io, inteso come rappresentante della realtà, avrebbe il compito di arginare le pulsioni dell’Es e permettere l’adattamento dell’individuo a questa stessa realtà. Sappiamo quanto Lacan abbia avversato questa tesi, rovesciando diametralmente la lettura postfreudiana del Wo Es war, soll Ich werden:4 non si tratta di prosciugare lo Zuiderzee o co4. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) (1932), trad. di M. Tonin Dogana e E. Sagittario, in Opere, vol. XI, Boringhieri, Torino 1979, p. 190.

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struire dighe per impedire l’arrivo dell’acqua dell’inconscio, l’Io non è la roccia solitaria contro i flutti, né la terra asciutta che deve bonificare la palude dell’Es. Alla nozione di Io Lacan preferisce quella di soggetto, soggetto che deve accadere nel luogo dell’inconscio come soggetto di desiderio; e l’inconscio, più che avere una forma minacciosamente liquida, è strutturato come un linguaggio con proprie rigorose regole di funzionamento, a partire dalle quali, negli intervalli della catena dei suoi significanti, potrà dirsi qualcosa attorno al soggetto. È evidente quanto questa intuizione lacaniana renda il quadro più complesso. Tuttavia, già per Freud l’inconscio è un linguaggio: linguaggio che si presta a una cifratura e la cui struttura è quella del codice che va decrittato attraverso il lavoro dell’interpretazione. Freud non è un esploratore come Cristoforo Colombo alla conquista di un continente sconosciuto; è piuttosto un decifratore di simboli come Jean-François Champollion alle prese con i geroglifici dell’antico Egitto. “Freud non ha soltanto razionalizzato quel che fino a quel momento aveva resistito alla razionalizzazione”, afferma Lacan, “ha anche messo in luce una vera e propria ragione ragionante, che ragionava e funzionava secondo una logica all’insaputa del soggetto, e ciò nel campo classico dell’irrazionalismo, il campo della passione, per così dire.”5 Proporre una logica linguistica dell’inconscio significa sostenere che “qualcosa parla e funziona in modo altrettanto elaborato che a livello del conscio, il quale perde così ciò che sembrava essere il suo privilegio”.6 Ulteriore scandalo della psicoanalisi che così ordisce inaspettatamente l’attentato più forte al cogito cartesiano: se c’è una razionalità da rintracciare nell’inconscio, ossia in ciò che per il sistema appartiene al campo senza logica e senza senso delle passioni, che cosa ne sarà mai allora della logica tout court? 5. J. Lacan, Intervista (1957), trad. di P. Feliciotti e R.A. Gentile, “La Psicoanalisi”, 10, 1991, p. 10. 6. Id., Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964) (1973), testo stabilito da J.-A. Miller, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, trad. di A. Succetti, Einaudi, Torino 2003, p. 25.

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Sull’utilità della storia per la psicoanalisi MAURO BERTANI

1.

Se, come ha detto un giorno Jacques Lacan, “il pensiero di Freud è la sua esperienza”, lo storico che si accosta alla creazione del fondatore della psicoanalisi dovrà allora concluderne che è stata sicuramente parte integrante, e nient’affatto secondaria, di quel pensiero, l’esperienza della cultura e della condizione ebraica, ma che lo è stata, almeno altrettanto, anche quella dell’antisemitismo. Senza doversi spingere a sostenere che, fino alla fine, Freud non abbia fatto che “pensare alla storia di Mosè e alla religione dei suoi padri”, è indubbio che la storia biblica, appresa attraverso la Bibbia curata dai fratelli Philippson e donatagli dal padre, abbia avuto un’importanza decisiva nella formazione intellettuale e “spirituale” del giovane Freud. Come ha inciso l’esperienza stessa della condizione ebraica: l’esilio, l’erranza, “l’assenza di terra”, come aveva detto Hegel, il nomadismo, la Diaspora. E come ha contato quella che è stata chiamata la pratica della “lettura infinita” come tratto distintivo del rapporto del popolo ebraico con la parola e il testo, i testi. Ed è altrettanto certo che tutto ciò (e altro ancora, dalla cerchia degli amici e collaboratori più fedeli, all’appartenenza al B’nai B’rith, e così via) si sia riversato nella successiva elaborazione del progetto psicoanalitico. Ma non si deve dimenticare che almeno altrettanto ha pesato, appunto, l’esperienza dell’antisemitismo. È sempre fonte di stupore, per lo storico, constatare il costante riprodursi di una 18

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serie di atti d’accusa nei confronti di Freud e della sua creazione, e una delle più ricorrenti e insistenti, per quanto giustificata con motivazioni e argomentazioni sempre diverse, è quella di non essere “una scienza” o, in termini ancor più squalificanti, nelle intenzioni di chi la formulava, di essere al più una “scienza ebraica”. A partire dai rilievi critici nei confronti della psicoanalisi mossi dai colleghi di Freud all’Università di Vienna, come per esempio Julius Wagner-Jauregg, che finirà la sua carriera aderendo alla Nsdap. O Alexander Pilcz, nel cui manuale Beitrag zur vergleichenden Rassen-Psychiatrie, uscito a Lipsia nel 1906 (e su cui si formeranno generazioni di psichiatri), Freud potrà leggere della fortissima “predisposizione della razza ebraica all’isteria” e della particolare diffusione tra gli ebrei della dementia praecox, e insomma l’ennesimo aggiornamento, pretesamente scientifico, del tema antico della “malattia giudaica” che tanto importante sarà per i nazisti. Si dirà che anche quella di Wagner-Jauregg, Pilcz (o Buschan, o Hoppe, o Kraepelin, o mille altri, che riprenderanno le stesse tesi) era una pseudoscienza. Ma non così era considerata all’epoca, e in ogni caso essa produrrà effetti, discorsivi e non discorsivi, ben reali, ed è questo ciò che per lo storico conta. Se Freud, nonostante la decisione precoce di rompere con le credenze e i riti della tradizione rabbinica, potrà ripetutamente dichiarare di essere rimasto, lui e i suoi figli, di confessione ebraica (“abbiamo tutti conservato la confessione ebraica”: “wir sind alle in der jüdischen Konfession verblieben”), e addirittura, come dirà nella Selbstdarstellung, di essere “rimasto ebreo”, è perché gli ebrei “hanno sempre tenuto nella massima stima le opere e i valori spirituali” (“sie haben geistige Leistung und Interessen immer hoch eingeschätzt”), e si battono per assicurare – come ha inteso fare, sia pure in altre forme, la psicoanalisi – “der Fortschriftt in der Geistigkeit”, “il progresso della spiritualità”. Così intitolerà il paragrafo C del secondo capitolo del terzo saggio del Mosè, letto da Anna al Congresso internazionale di Parigi nell’agosto del 1938, allorché stava per entrare a pieno regime la lotta mortale ingaggiata dal nazionalsocialismo contro l’ebraismo. 19


E se infine, al momento di risolversi a partire per Londra, potrà rivendicare una qualche identificazione con Ahasverus, figura matriciale dell’“ebreo errante” – “è tempo che Ahasverus trovi da qualche parte riposo”, scriverà al figlio Ernst –, non dobbiamo dimenticare che nella cerchia di Charcot, tanti anni prima, vi era stato chi, a partire dalle sue lezioni del martedì alla Salpêtrière, come il suo allievo Henri Meige nel 1893, aveva provveduto a trascrivere tale figura nel catalogo della nosografia psichiatrica, sotto le specie dell’Ostjuden “nevropatico viaggiatore”. 2. Per lo storico che si consacra a Freud e alla sua creazione, dunque, è essenziale occuparsi delle vicende e vicissitudini del fondatore della psicoanalisi, della ricostruzione dell’elaborazione di un sistema di pensiero, se sistema si dà, ma sempre sullo sfondo costituito dai grandi e piccoli eventi della storia del mondo, dall’apogeo e poi dal lento declino dell’impero austro-ungarico, alle tragedie della guerra, dall’ascesa dell’antisemitismo, all’avvento del nazismo, all’esilio finale a Londra. È infatti solo alla luce di tale quadro generale che diventano intelligibili le grandi instaurazioni discorsive avviate da Freud, dalla nuova logica dell’inconscio scoperta attraverso la decifrazione dei sogni, alle varie topiche, all’assegnazione di una posizione strutturale alla sessualità, al tentativo di elaborare una vera e propria “politica della psicoanalisi”, al tentativo finale di fornire una nuova modalità di comprensione della storia e del legame sociale tra gli uomini come genealogia indiretta del nazismo e dell’orrore che si preparava. Il personaggio che ne emergerebbe sarebbe sicuramente una figura paradossale, irriducibile comunque a quella dello scienziato “di professione”. E lo stesso sforzo di costituire la psicoanalisi come scienza, proprio perché costantemente ripreso e ricominciato a partire da sempre nuove ipotesi e nuove idee, risponde di certo alla lucida consapevolezza di Freud, da un lato, della complessità dell’oggetto – la struttura dello psichismo umano – tale da poter rendere possibili solo delle approssimazioni asintotiche, per quanto sempre guidate dallo sforzo del rigore concettuale e della fedeltà ai dati dell’esperienza clinica. Dall’altro, dell’insepa20


Lo scandalo della pulsione di morte MASSIMO RECALCATI

Una buona parte della nostra vita passa a turare i buchi, a riempire i vuoti, a realizzare e a fondare simbolicamente il pieno. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla

Atopia L’identificazione della psicoanalisi alla peste con la quale Freud spiegava a Jung il carattere sovversivo della sua invenzione ruotava attorno al grande tema della sessualità. I corpi, sembra dire Freud, seguono senza compromessi la legge del loro godimento. Il carattere autenticamente inaudito della sua ricerca sulla sessualità umana non consiste nell’aver semplicemente rivelato l’esistenza di una sessualità infantile di tipo pregenitale, eccentrica a quella normata dal primato genitale, ma nell’aver ricondotto a quella sessualità e ai suoi più tenaci e preistorici fantasmi la sessualità della cosiddetta vita adulta. Il punto non era tanto quello di aver rivelato l’esistenza di una sessualità infantile, ma di aver ricondotto a essa la sessualità umana tout court; nell’aver pensato al carattere strutturalmente infantile, perverso-polimorfo, della sessualità in quanto tale. In questo senso Freud, come Socrate, secondo Lacan, porta nel cuore della città qualcosa che risulta radicalmente “atopico”, anarchico, inintegrabile nell’ordine canonico della polis, senza confine, letteralmente “senza posto”.1 Aver mostrato l’irruenza costitutiva della pulsione sessuale nella costituzione della vita umana non poteva essere accettato dalla cultura borghese ed essa sarebbe fatalmente stata oggetto di discriminazione e di ripulsa, alimentando politiche securitarie di immunizzazione. 1. J. Lacan, Il seminario. Libro VIII. Il transfert (1960-1961) (1991), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2008, pp. 12-13.

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In realtà il carattere eversivo della natura perverso-polimorfa della sessualità si è rivelato più facilmente integrabile di quello che si poteva immaginare. Il programma della civiltà ipermoderna anziché fustigare, espellere, segregare il morbo sessuale sembra, infatti, averlo eletto a meta ideale di una vita che non conosce più inibizioni e limiti. In un modo impensato da Freud stesso, il cosiddetto “sistema dei consumi” – nella diagnosi storica già presente nella Scuola di Francoforte e nel Pasolini corsaro – sembra aver perfettamente integrato il passo sovversivo del padre della psicoanalisi assumendo il carattere perverso-polimorfo della sessualità come luogo di una libertà del godimento finalmente affrancata dal peso oppressivo della Legge. La peste non si è rivelata tale, ma ha dato vita all’ideologia della liberazione sessuale che ha ispirato non solo i movimenti giovanili degli anni sessantasettanta e la giusta emancipazione della sessualità dall’oscurantismo delle ideologie religiose, ma è divenuta anche parte integrante dell’attuale programma della civiltà ipermoderna capovolgendosi semmai in una nuova forma di oscurantismo dove il discorso amoroso sembra totalmente surclassato dalla macchinizzazione sospinta del godimento sessuale offerto senza più alcun tabù. Lo sconcertante La mia tesi è che ciò che è stato rimosso di Freud non concerne affatto il suo pensiero circa il carattere originariamente pregenitale della pulsione sessuale. Quello che oggi più che mai appare come radicalmente sconcertante del pensiero di Freud è piuttosto la figura del Todestrieb (pulsione di morte). Si tratta, com’è noto, dell’ultimo vertiginoso passo metapsicologico e clinico che egli porta a compimento in Al di là del principio di piacere. In questo passo il programma ipermoderno della Civiltà è obbligato a confrontarsi con qualcosa il cui carattere scabroso non si lascia affatto integrare nella sua ideologia del benessere fondata sulla diffusione capillare dell’ideale edonistico del piacere. Se, infatti, la vita umana – come ritiene questa ideologia – persegue il proprio Bene e se il Bene nella sua versione più ordinaria viene ridotto al criterio elementare del più utile, se, in altre paro33


le, il Bene è identificato all’utilitarismo del piacere, se, insomma, questa è la nuova bussola che ordina i comportamenti dell’essere umano nell’epoca ipermoderna, allora l’idea freudiana dell’esistenza di una vera e propria pulsione di morte non può che risultare sconcertante. Non a caso, quando Freud la introdusse negli schemi della sua metapsicologia suscitò grandi perplessità anche all’interno del movimento psicoanalitico che, salvo rare anche se significative eccezioni – come quelle di Melanie Klein e Jacques Lacan –, respinse seccamente questa innovazione. Il ricorso alle vicissitudini biografiche del padre della psicoanalisi – la guerra, la perdita dei figli, la vecchiaia, la malattia – ha decisamente prevalso con l’intento di sfilare questo concetto dal corpus della dottrina, considerandolo alla stregua di una vera e propria bizzarria teoretica di un anziano provato dalla vita. Pulsione vs istinto Quello che viene rifiutato attraverso il quasi unanime rigetto della nozione di pulsione di morte è l’idea di Freud che esista nella vita una spinta a evitare la vita, un’aspirazione inconscia alla morte, a rifiutare se stessa, a chiudere l’apertura in cui la vita consiste. Non è forse a questa tendenza alla chiusura che si può ricondurre il carattere regressivo e conservativo della pulsione di morte, la sua volontà “demoniaca”, come scrive Freud stesso, a ripristinare uno stato di vita precedente?2 Si tratta di una spinta enigmatica che in realtà attraversa tutto il corpus teorico freudiano. Può davvero esistere qualcosa nell’ordine di una pulsione di morte? La vita che si protegge dalla vita, che tende a conservare la vita sino al punto di perdere la vita, di rinunciare a se stessa, di rifiutare il suo stesso spasmo vitale, la sua esposizione alla vita, disgrega ogni rappresentazione naturalistica dell’esistenza positiva di un “istinto di vita”. In realtà, in quella forma di vita che definiamo umana, non esiste né 2. S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), trad. di A.M. Marietti e R. Colorni, in Opere, a cura di C.L. Musatti, vol. IX, Boringhieri, Torino 1980, p. 222.

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La zuppa di sasso. Freud inassimilabile FRANCESCO STOPPA

È quando non sono più niente che divengo un uomo? Sofocle, Edipo a Colono

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o sempre pensato che la resistenza alla psicoanalisi non potesse avere a che fare con la (presunta) sessuofobia dei viennesi di fine Ottocento o con una più generale difficoltà a concepire l’esistenza di un inconscio. Credo invece che a metterci sulla strada e a mostrarci il punto realmente inassimilabile del pensiero freudiano sia proprio una certa narrazione dell’umano tipica del nostro tempo. Mi riferisco alla moderna retorica delle differenze, che sulla carta sembrerebbe sposare l’etica psicoanalitica ma che in realtà non tiene affatto conto del punto da cui, in particolare in alcuni passaggi della sua opera, Freud interroga l’alterità di fondo, l’eterotopia della condizione umana.1 Questo genere di misconoscimento rientra nel vigente programma di edulcorazione dell’umano, prima ancora che della psicoanalisi, e ha degli effetti sedativi a proposito di questioni non prive invece di una loro drammaticità. Sono le stesse che muovono il pensiero di Freud: il tema dell’origine, lo statuto del bambino, del soggetto e dell’altro, la paternità. In un’epoca desacralizzata come la nostra, dove i fatti e i sentimenti vengono radiografati, immessi e diluiti nei circuiti comunicativi, la vita ha smesso di coglierci di sorpresa e spiazzarci, e un instancabile e zelante esercito di esperti del tempo, del mer1. “Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la ‘sintassi’”. Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), trad. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1967, pp. 7-8.

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cato, delle relazioni, della politica, intercetta l’inatteso. Grazie alla profilassi dei suoi tratti più intrattabili e spigolosi, la differenza ha smarrito il suo smalto, l’aroma di selvatichezza, l’asperità e ruvidità che appartiene a tutto ciò che resiste alla pianificazione del reale. La differenza è così diventata una più garbata “diversità” dove le difformità si rimpallano l’un l’altra confermandosi reciprocamente.2 E se da un lato ogni forma di eterogeneità deve rientrare nel quadro di una generale armonizzazione delle relazioni, dall’altro l’enfatizzazione delle diversità dà il via a una serie di querelle legate al riconoscimento di benefit e diritti a vantaggio di questa o quella minoranza. Una simile bonifica del campo umano ci consente di bypassare il punto cieco della nostra identità, quello che alla psicoanalisi, come vedremo, non sfugge affatto e che le permette un approccio al tema dell’origine – da dove vengono i bambini? – per certi versi paradossale. Non dissimile in questo dal migrante, il soggetto della psicoanalisi è l’esito di una lacerazione realizzatasi all’interno dei suoi confini. Se il trauma della nascita mantiene qualcosa di prototipico dell’incontro mancato del vivente con se stesso, è in quanto, in un tempo antecedente all’entrata in scena dell’altro, vi si consuma l’esilio del bambino dal suo habitat naturale. Da allora ogni evento traumatico celebra il fuori luogo della comparsa del soggetto che, esposto allo smarrimento più totale, ha modo di cogliere la caduta vertiginosa da cui è sorto e la differenza assoluta in cui si produce. E come se non bastasse, in ogni incontro traumatico con la vita, c’è un buco che si spalanca nell’Altro, in quello che per lui un attimo prima era il luogo della garanzia e dal quale ora non giunge più, invece, alcuna risposta. Veniamo in altre parole “buttati fuori dalla giostra del senso, dove tutto è scritto e funziona a dovere”.3 È evidente il misconoscimento operato da una società come la nostra nei confronti di una dimensione dell’umano così lontana 2. Per fare un esempio, la diversità dell’inglese o del francese non comportava alcun problema per un tedesco del periodo nazista, mentre ben altro era il confronto con la problematica identità dell’ebreo, allora errante per definizione e privo di Stato o nazione. 3. P. Gomarasca, Con l’inchiostro e il pennello. Lacan e Shitao, Mimesis, Milano-Udine 2017, p. 58.

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dall’ossessione della buona forma e inaccessibile a ogni visione del mondo. L’umano, infatti, cessa qui di avere attributi specifici, un volto e un nome. Si assenta, sembra non aver bisogno di parametri di riferimento, interpreti o indovini. Ho usato “misconoscimento” (Verleugnung4) e non “rimozione” perché in verità l’inammissibile – la morte, la perdita, il dolore, l’abbandono – oggi è tutt’altro che celato o bandito, è invece ammesso tra noi di diritto, reso oggetto di infiniti dibattiti e analisi; non c’è giorno in cui non entri nei nostri salotti per essere vivisezionato, sondato, indagato. Tutt’altro che escluso alla vista, viene posto sotto i riflettori e spettacolarizzato, tiene banco e raccoglie un gran consenso mediatico, come tutto ciò che, sterilizzato e omogeneizzato, non può più contagiarci, ferirci, esporci alla notte (impossibile non rievocare qui la domanda che Freud, in vista di New York, rivolge a Jung a proposito della natura della psicoanalisi: “Non sanno che portiamo loro la peste?”). Va detto che il soggetto freudiano si muove all’interno di un’etica tragica che gli riserva un destino di derelizione rispetto a ogni ideale di felice coabitazione non solo con i suoi simili ma anche con sé, col proprio nome, immagine, ruolo o destino. Ora, nel diritto romano “derelizione” fa riferimento a una precisa intenzione del proprietario di un determinato bene di abbandonarne definitivamente il possesso. È una sfumatura interessante che ci confronta con un paradosso: perché l’essere parlante cercherebbe la sua realizzazione umana a discapito del proprio bisogno di agio, certezze e garanzie, nel superamento di ogni miraggio di adattamento, di naturale coesione con sé e col mondo? C’è a questo proposito una scena che Lacan evoca in uno dei suoi scritti, il momento in cui il bambino, in un’età prossima alla conquista dell’identità speculare, gioca a fare a pezzi la sua 4. Questo termine freudiano designa il meccanismo di difesa, peculiare della perversione, che consiste nell’operare una scissione dell’io tale da far coesistere, in parallelo, un certo tipo di giudizio e il suo contrario. Del tipo: “Certo, so che le cose stanno così, lo constato e ne faccio anche argomento di dibattito (si pensi alla spettacolarizzazione mediatica di eventi catastrofici), ma questo non mi tocca nel profondo e non mi impedisce di funzionare a prescindere da tutto ciò”.

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Ciò che disturba ILARIA PAPANDREA

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i sembra che noi diamo troppa importanza ai sintomi e ci preoccupiamo troppo poco della loro provenienza. Nell’educazione dei bambini noi badiamo soprattutto a essere lasciati in pace, a non avere difficoltà, insomma a fare di ognuno di essi un ‘bimbo bene educato’, curandoci assai poco di sapere se la disciplina a cui l’assoggettiamo giovi anche a lui oppure no.”1 “Essere lasciati in pace” potrebbe essere lo slogan del discorso sociale contemporaneo, il cui risvolto imperativo suona come ingiunzione a “eliminare tutto ciò che disturba”. Il sintomo è solo un disturbo, l’irrequietezza di un bambino è un disturbo, la malattia, la vecchiaia e tutto quanto ci rende poco performanti sono disturbi, e disturbo, disorder, è anche tutto ciò che minaccia il sempre più invocato ordine sociale: i migranti, i matti, i poveri, le donne (se queste potessero mai costituire un insieme). Quando Freud ha dato vita a quel nuovo discorso che porta il nome di psicoanalisi la sua preoccupazione era di poter accogliere i resti del discorso medico, di far parlare le isteriche, di interessarsi alla provenienza di certi sintomi bizzarri che perturbava1. S. Freud, Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (caso clinico del piccolo Hans) (1908), trad. di M. Lucentini, in Opere, a cura di C.L. Musatti, vol. V, Boringhieri, Torino 1972, p. 585.

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no l’ordine del corpo anatomico. Supporre l’esistenza di un soggetto che potesse rispondere di quel che gli accade e della sofferenza di cui si lamenta è stata la mossa di apertura di una partita in cui a essere soggetto non era più il medico, ma colei che fino a un attimo prima era stata l’oggetto refrattario e intrattabile della psichiatria. Fin dall’inizio ho esercitato l’ipnosi per uno scopo che nulla aveva a che fare con la suggestione ipnotica. Mi sono avvalso dell’ipnosi per interrogare il malato sulla genesi dei suoi sintomi, genesi sulla quale nello stato di veglia egli non era spesso in grado di dire alcunché. Questo procedimento non solo si rivelò più efficace del mero comando o divieto, ma aveva inoltre il vantaggio di offrire soddisfazione alla brama di sapere del medico, che dopo tutto aveva il diritto di apprendere qualcosa circa l’origine di quel fenomeno che cercava di eliminare mediante il monotono procedimento della suggestione.2 Freud pesca dalla cassetta degli attrezzi del suo tempo, la suggestione con i suoi comandi e i suoi effetti di potere, ma il procedimento è monotono, mono tono, potremmo dire, perché la sola voce che si ascolta è quella di colui che ordina al paziente in stato ipnoide di che cosa si deve sbarazzare se vuole tornare a essere conforme. C’è da perdere un più di godimento, qualcosa di dissonante rispetto alla norma stabilita, una sorta di escrescenza che fa la difformità dall’ideale. Girava, a quel tempo, in un certo modo “il disco(rso)corrente”,3 quel disque-ourcourant, come lo chiama Jacques Lacan, che è fatto per impartirci il ritornello che dovremmo cantare per far un buon uso del nostro corpo. E il disco gira, e gira ancora, perché non c’è verso di scriverlo, questo buon uso, niente che ne tracci i solchi sulla base di un qualche istinto preformato. Ma se 2. Id., Autobiografia (1924), trad. di R. Colorni, in Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1978, p. 87. 3. J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973) (1975), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2011, p. 33.

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non smette di girare, non si può dire che giri sempre allo stesso modo. C’era una volta… – come iniziano tutte le favole che si rispettano – un mondo in cui la canzone da cantare era quella in cui il ragazzo e la ragazza erano fatti l’uno per l’altra come il filo per l’ago,4 in cui il bambino imparava dal padre ad aspettare che fosse il proprio turno per godersi, con un’altra donna, i piaceri che lui si godeva con la madre, e in cui la bambina, con qualche complicazione in più, doveva solo aspettare di trovare nel figlio che avrebbe avuto il sostituto di quel che le mancava. Gira che ti rigira la si cantava tutti la canzone, al punto di finire per prendere per “naturale” quello che era “normativo”. 5 Lo stesso Freud era incappato nel pregiudizio della “naturalezza”, faticando a riconoscere che la “prevalenza del personaggio paterno”6 nella scenetta dell’Edipo era una norma e nient’altro, qualcosa che di lì a poco avrebbe perso il suo smalto e il suo vigore, non senza la spallata che una certa psicoanalisi – più fedele all’enunciazione di Freud che ai suoi enunciati – gli avrebbe dato. C’era una volta un certo prevalere dell’ideale, un dover essere così come norma-natura vuole, che indicava la strada maestra in modo chiaro e netto. Si poteva imboccarla oppure no. Non si poteva, sarebbe meglio dire, che imboccarla ciascuno a proprio modo, perché quando si canta un ritornello occorre metterci la propria voce e la propria carne, o forse, per essere più esatti, si è chiamati, nell’accordarsi con la norma che dà il la, a perdere almeno “una libbra di carne”,7 a pagare il biglietto d’entrata in quell’ordine, chiamiamolo simbolico, che ripartisce i posti e organizza i godimenti. In un mondo sorretto dall’ideale, il biglietto d’entrata è il costo che si paga per avere un modello da 4. Cfr. Id., “Intervento sul transfert” (1951), in Scritti, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, vol. I, p. 216. 5. Ibidem. 6. Ibidem. 7. Id., Il seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963) (2004), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2007, p. 238. Si veda anche Id., “La direzione della cura” (1958), in Scritti, cit., vol. II, p. 625.

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Memorie in rovina. Su una metafora del tempo in Freud RAOUL KIRCHMAYR

1. Disturbi della memoria In una piccola antologia di testi usciti quindici anni fa e intitolata Rovine e macerie, l’antropologo Marc Augé inanellava una serie di riflessioni sul senso del tempo, frutto di esperienze sul campo e orientate verso un’esperienza di ciò che egli aveva deciso di chiamare “tempo puro”. Per Augé il paesaggio della contemporaneità è costellato di rovine, antiche e recenti, e uno dei compiti che l’antropologia si è assegnata è di rendere conto di tale spettacolo, compiendo un’operazione memoriale di inventariazione delle forme della cultura. La vista delle rovine fornisce dunque all’osservatore l’accesso, indiretto e problematico, a questo tempo.1 Le descrizioni di Augé, alcune indubbiamente suggestive, si indirizzano verso la ricerca di un’esperienza fugace, scaturita dalla contemplazione della rovina come segno sensibile del trascorrere del tempo. È un’esperienza estetica in senso stretto: proprio perché questo “tempo puro” si dà sensibilmente, l’arte – in quanto “prossima alle rovine”2 – è in grado di poterlo ritrovare. Inoltre, il tratto distintivo del “tempo puro” è di essere “senza storia”.3 Augé conduce infatti le sue descrizioni tenendo ferma la barra di un dualismo strutturale tra il tempo storico da una 1. Cfr. M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo (2003), trad. di A. Serafini, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 8. 2. Ivi, p. 23. 3. Ivi, pp. 38 e 94-95.

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parte e il tempo puro ed extra-storico dall’altra,4 postulando che quest’ultimo possa essere colto partendo dal tempo storico ma anche, necessariamente, uscendo da esso. La rovina sarebbe una sorta di guida verso questa dimensione pura del tempo. In alternativa a una ricerca che, quanto a ispirazione, pare rimandare quanto meno retoricamente a Proust, ci collocheremo in una prospettiva speculare e opposta, secondo la quale la metafora della rovina, ben lungi dal condurci su un piano extra-storico al quale il “tempo puro” apparterrebbe, ci permette invece di cogliere l’esistenza di un tempo impuro, sedimentato, stratificato, ritmico e non lineare. Avendo Freud fatto ricorso in più luoghi della sua opera alla metafora delle rovine – che per lui si unisce metodologicamente a un’analogia, quella tra archeologia e psicoanalisi – ritornare su questo tema significa per ciò stesso considerare come ancora problematico e fecondo l’intreccio tra la memoria, l’oblio e il tempo che la psicoanalisi pone e mette in questione. È a partire da questo intreccio che interrogheremo alcuni luoghi circoscritti del testo di Freud per orientarci verso un concetto di temporalità che sia in grado di descrivere non più soltanto la sfera della memoria e dell’inconscio individuali, ma che possa aprirsi anche alla dimensione della storia. Uno dei punti più densi di Rovine e macerie è quello in cui Augé si sofferma su una celebre lettera di Freud, datata 1936 e indirizzata all’amico Romain Rolland.5 Nella lettera Freud, andando a ritroso nel tempo, presenta delle considerazioni sul percorso da lui compiuto nel cammino della vita, in senso lato sull’impresa della psicoanalisi e, infine e più specificamente, sul rapporto con il padre e la famiglia.6 Nella lettera Freud, ormai settantenne, racconta un episodio occorsogli molti anni prima, nel 1904, quando si era trovato a Trieste in compagnia del fratel4. Cfr. ivi, p. 43, dove Augé afferma inoltre che oggi siamo posti dinnanzi alla necessità di “reimparare a sentire il tempo per riprendere coscienza della storia”. 5. S. Freud, Un disturbo della memoria sull’Acropoli: lettera aperta a Romain Rolland (1936), trad. di P.L. Lay, in Opere, vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino 1981, pp. 469-481. 6. All’episodio oggetto della lettera Freud aveva fatto cenno pure in L’avvenire di un’illusione, una decina d’anni prima; cfr. Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino 1981, p. 455.

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lo e, su suggerimento di un collega d’affari di questi, avevano deciso di prolungare il viaggio, alla volta non più di Corfù, com’era nei loro piani, ma di Atene. Freud racconta che il suggerimento procurò a lui e al fratello una sensazione sgradevole, che li lasciò di cattivo umore fino all’acquisto del biglietto per l’imbarco. Invece, in quel preciso momento il fatto di partire apparve loro come una cosa del tutto naturale. Entrambi scoprirono in seguito che ciascuno aveva già aderito con entusiasmo all’idea di deviare il viaggio in direzione di Atene. “Quando poi il pomeriggio dopo l’arrivo mi trovai sull’Acropoli e abbracciai con lo sguardo il paesaggio, mi venne improvvisamente il pensiero singolare: ‘Dunque tutto questo esiste veramente, proprio come l’abbiamo imparato a scuola?!’”, scrive Freud, restituendo tutto lo stupore per l’emergere improvviso di una simile idea. L’ipotesi che lo guidò nell’interpretazione dello “strano pensiero”7 sorto alla vista dell’Acropoli è che esso fosse legato intimamente al malumore provato a Trieste. “Incredulità” è la parola-guida dell’analisi che Freud conduce di questo ricordo. Infatti, l’incredulità provata ad Atene di fronte allo spettacolo delle antichità viene interpretata come il segno di un destino felice che l’istanza superegoica nega: “too good to be true”, la visione dell’Acropoli è troppo bella per essere vera, questo pensa Freud. La posta in gioco è la comprensione del perché la “gioiosa sorpresa”8 che lo colse ad Atene fosse stata espressa, nello “strano pensiero”, in una forma così alterata. La spiegazione che egli offre dell’evento si incentra sul “sentimento di estraneazione”9 (Entfremdungsgefühl) da cui si era generato il dubbio circa l’esistenza reale del Partenone. È un complesso processo psichico che, come in questo caso, intacca la memoria, causandone l’alterazione dei contenuti. Esso può presentarsi – precisa Freud – in due forme: quella dell’estraneità di “un frammento di realtà” e quella di “una parte del 7. S. Freud, Un disturbo della memoria sull’Acropoli, cit., p. 475. 8. Ivi, p. 477. 9. Ivi, p. 478.

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I “masochismi” che rimuoviamo ANDREA MUNI

Ha ragione chi afferma che l’esistenza di una tendenza masochistica nella vita pulsionale umana rappresenta un enigma dal punto di vista economico. Infatti, se il principio di piacere domina i processi psichici in maniera tale che il loro primo scopo è quello di evitare dispiacere e ottenere piacere, [allora] il masochismo è incomprensibile. Se invece il dolore e il dispiacere non sono meri avvertimenti, ma possono rappresentare essi stessi dei fini, [allora] il principio di piacere ne risulta paralizzato e, con esso, risulta paralizzato il custode della nostra vita psichica.1 Vorrei avanzare subito l’idea che “il Freud che rimuoviamo” sia quello che ci obbliga a fare i conti non soltanto con lo sgradevole fatto che l’uomo non è un essere benevolo verso i propri simili (cosa che in fondo è stata sostenuta da un’infinità di moralisti e scuole filosofiche di ogni tempo), ma soprattutto con l’evidenza che quest’uomo – cioè proprio tu che leggi, proprio io che scrivo – non è nemmeno benevolo nei confronti di “se stesso”. Il Freud che rimuoviamo è “il Freud” che ci chiama a confrontarci con la paradossale idea (che rappresenta un vero e proprio ostacolo logico) che farmi del male può – in certe occasioni – essere il mio bene. 1. S. Freud, Il problema economico del masochismo (1924), trad. di R. Colorni, in Opere, Boringhieri, Torino 1978, vol. X, p. 5.

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Un’idea tragicomica, che chiama in causa anche lo stesso Freud (e tutti coloro che in ogni tempo, per lavoro, curano e si prendono cura degli altri). Come potrebbe infatti un medico (ma anche un insegnante, o un uomo delle istituzioni) accettare di essere fondamentalmente malevolo nei confronti di coloro di cui si prende cura? E ancora, quali ragioni sadomasochistiche possono orientare un soggetto a scegliere “liberamente” un lavoro che lo costringe a confrontarsi giorno dopo giorno con la sofferenza psichica (o con i bisogni) altrui? La risposta umanitaria del tipo “lo faccio per fare del bene” rischia di essere al contempo troppo facile e troppo sospetta. L’obiezione alle buone intenzioni che presiedono al desiderio di curare, e a quello di prendersi cura, ci introduce infatti alla sgradevole domanda: “Perché darmi tanta pena per fare il bene di qualcun altro (me incluso)?”. Freud non ha mancato di metterci in guardia, nel Disagio della civiltà, da quell’amore del prossimo che gli pareva quanto di più delirante e “malvagio” la cultura occidentale avesse mai inventato nella propria storia. Così come Lacan non ha mai mancato di indicarci le trappole di quell’amore di sé (di cui spesso l’amore del prossimo non è che l’ombra), ferocemente criticato dai moralisti di ogni tempo (da Seneca ad Agostino, da La Rochefoucauld a Kant). Freud è stato il primo a mettere in questione la radicale contraddizione logica del godimento umano. Il suo unico errore è stato quello di considerare tale contraddizione, e tale godimento, come degli universali, mentre essi sono in tutto e per tutto dei fenomeni storici e politici che interessano l’esperienza occidentale, nevrotica e capitalista della soggettività. La storia dell’esperienza più ovvia e immediata che abbiamo del nostro essere soggetti rimane infatti un vero e proprio tabù, una censura che silenziosamente ricopre e inibisce ogni tentativo critico di indagare le ragioni che ci inducono a ritenere automaticamente pericolosa, malata o masochista una persona che si comporta in maniera deviante rispetto ai desideri veri, giusti (e quindi piacevoli da perseguire) che dovrebbero abitarla. Perché spesso un individuo (cioè un soggetto etico norma91


lizzato e borghesizzato secondo la logica del discorso dominante, incarnata nelle “dolci” discipline neoliberali) riesce a essere oscuramente felice solo nei momenti in cui aggredisce o contraddice questo principio etico fondamentale che mi obbliga “naturalmente” a fare il mio bene/utile/interesse? Questa è a mio avviso la posta in gioco politica dell’etica della psicoanalisi (che non è, e non può limitarsi a essere, l’etica dello psicoanalista). Una questione talmente scottante che sia i professionisti sia i detrattori di questa disciplina sembrano – almeno al livello del dibattito pubblico – non volerne sapere nulla (ovviamente per ragioni opposte). Vorrei volentieri ammettere che c’è in me come in altri qualcosa di buono […]. Ma sembra che si tratti, ancora una volta, di un caso di conflitto tra illusione (appagamento di un desiderio) e conoscenza. Non si tratta affatto di ciò che è più gradevole ammettere, […] ma di ciò che può essere più vicino alla realtà misteriosa che pure esiste fuori di noi. Il mio pessimismo mi sembra dunque un risultato, l’ottimismo dei miei avversari una premessa.2 Nel rapporto tra psicoanalisi e politica ne va dell’etica e dello stile di vita borghesi. Non c’è nulla di a priori squalificante in questa affermazione, come invece mi pare di capire vorrebbe una certa critica politica della psicoanalisi di provenienza basagliana. Una critica che sembra curiosamente ignorare lo strano assist che proprio Franco Basaglia offre a Freud a un certo punto delle Conferenze brasiliane.3 Si tratta della fine considerazione per cui, proprio perché è un’istituzione borghese (e su questo mi sembra ci sia poco da discutere), la psicoanalisi avrebbe il delicato compito politico – quasi come se si trattasse di un agente doppiogiochista – di mettere pubblicamente in luce, e di far giungere alla coscien2. Id., Psicoanalisi e fede: carteggio col pastore Pfister (1909-1939) (1963), trad. di S. Daniele, Boringhieri, Torino 1970, lettera del 7 febbraio 1930. 3. F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina, Milano 2000, pp. 200-201.

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Sarò Io? Gli svenimenti di Freud ALESSANDRO DI GRAZIA

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ono rimasto molto colpito da un evento, anzi due, che occorsero a Freud nei primi anni del Novecento: in due occasioni Freud svenne; i due episodi ci vengono raccontati sia da Freud che da Jung che era sempre presente e che, a dir suo, si ritenne più o meno direttamente responsabile di quegli episodi. Episodi che potrebbero apparire poco più che aneddoti, ma che, a uno sguardo più attento, credo, sottendano a qualcosa di significativo, tanto dal punto di vista della produzione teorica quanto dal punto di vista storico-biografico di Freud. Il primo svenimento1 avvenne nel 1909 mentre Freud e Jung si trovavano a Brema in attesa di partire per il Massachusetts dove dovevano tenere, indipendentemente l’uno dall’altro, delle conferenze alla Clark University. Durante l’attesa, il discorso si concentra sulle mummie delle torbiere, a partire da un’associazione indebita di Jung che pensava vi fossero anche nella città che li ospitava. Il discorso sulle mummie irrita parecchio Freud, anzi lo irrita in maniera persino esagerata, a detta di Jung, e durante la conversazione a tavola sviene. Il secondo episodio risale al 1912 a Monaco, quando i due discutono della figura di Echnaton, il faraone ribelle che diede inizio a una forma di parziale monoteismo. I toni tra i due si alzano 1. In realtà prima del 1909 Freud era svenuto nello stesso albergo e sembra pure nella stessa camera.

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discutendo della decisione di Echnaton di cancellare il nome del padre dalla stele regale. Freud assume una posizione critica nei confronti del faraone, mentre Jung avverte Freud che questa era una prassi consolidata già in precedenza, in quanto il faraone, assumendo il suo ruolo divino, era privo di debiti nei confronti degli ascendenti terreni. Su questo contrasto, ricco di tensioni transferali, Freud cade nuovamente svenuto. È singolare che anche in questo caso abbiamo a che fare, sebbene in forma indiretta, con la presenza della mummia. Il ritrovamento della mummia del faraone monoteista2 risaliva infatti a cinque anni prima, al 1907, e il suo nome comincia a circolare solo dopo il 1891 con gli scavi che portano alla luce i resti della capitale Akhetaton, fondata dal faraone. Sappiamo inoltre che Freud era appassionato dell’antico Egitto, tanto da portare con sé nel 1938, nell’esilio londinese, parecchio materiale in suo possesso e in particolare alcune statuette a cui era particolarmente legato. Jung attribuisce gli svenimenti all’incapacità da parte di Freud di reggere l’impatto con le fantasie di morte nei confronti del padre (Freud stesso), cui Jung avrebbe dato corpo con questa sua “mania” dei cadaveri. Si sarebbe trattato, perciò, secondo l’interpretazione di Freud, di fantasie di morte nei suoi propri confronti. Cosa che Jung nega recisamente. Freud avrebbe dunque temuto che Jung lo “facesse fuori”, che gli togliesse la paternità della psicoanalisi. La retorica paternalistica di Freud di fatto è molto forte nelle lettere di quel periodo, in cui Jung viene investito del titolo di principe ereditario o di figlio prediletto. In fondo sono queste fantasie di paternità spirituale che generano e alimentano una conflittualità sempre più esplicita tra i due. Jung riporta una conversazione del 1910, che sancisce, prima del secondo svenimento, il suo distacco interiore nei confronti del maestro: Ho ancora vivo il ricordo di ciò che Freud mi disse: “Mio caro Jung, promettetemi di non abbandonare mai la teoria della 2. Più precisamente si tratta di un enoteismo monolatrico, posizione che in ogni caso rappresenta il gesto inaugurale del monoteismo.

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sessualità. Questa è la cosa più importante. Vedete, dobbiamo farne un dogma, un incrollabile baluardo”. Me lo disse con passione, col tono di un padre che dica: “E promettimi solo questo, figlio mio, che andrai in chiesa tutte le domeniche!”. Con una certa sorpresa gli chiesi: “Un baluardo contro cosa?”. Al che replicò: “Contro la marea nera di fango” e qui esitò un momento, poi aggiunse: “dell’occultismo”.3 Al di là di un contrasto di fondo che si era già manifestato fin dai loro primi incontri, relativo all’occultismo e ai fenomeni “inspiegabili”, Jung rileva in queste pagine che la richiesta di accogliere il principio della sessualità come un dogma religioso aveva inferto un colpo mortale alla stima verso il maestro. La questione di una filiazione spirituale mancata, con tutti i problemi che essa trascina, è senz’altro da tener conto negli episodi degli svenimenti. Credo però che ciò sia insufficiente a spiegare un fenomeno come quello della perdita di coscienza: evidentemente la questione della mummia e del cartiglio doveva attivare altre questioni più profonde. È lecito quindi allargare la prospettiva su questi episodi che dobbiamo considerare estremi, rispetto al contesto in cui si sono verificati. Il primo fatto che mette in relazione, anche se oppositiva, le due scene è la questione della provenienza, dell’accertamento della continuità storica. Freud è indispettito dal fatto che, per legittimare la propria rivoluzione religioso-statuale, Echnaton cancelli il nome del padre. Per contro, nel caso delle mummie delle torbiere, questo cartiglio, questa attestazione e iscrizione di provenienza è del tutto impossibile: le mummie che vengono periodicamente alla luce dalle torbiere del nord della Germania sono spaventosamente anonime. Figure cadaveriche appiattite con tanto di capelli e pelle che non possono in nessun modo testimoniare la loro provenienza e di cui nessuno può sapere più nulla. L’essere-Uno è possibile solo in riferimento al nome del pa3. C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni (1961), trad. di G. Russo, Rizzoli, Milano 1990, p. 191.

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Come si fa ricerca in psicoanalisi ANTONELLO SCIACCHITANO Non cerco. Trovo. Picasso Come è possibile una scienza dopo quel che si può dire dell’inconscio? J. Lacan, Encore

Una premessa peregrina Non sappiamo ancora bene come si faccia ricerca scientifica in psicoanalisi. Il creatore della “nuova scienza” non ce l’ha insegnato. Si dimostrò impacciato con la propria creatura. Alla junge Wissenschaft – così la chiamava – non insegnò a muovere i primi passi in campo scientifico. Ancora oggi va tenuta a balia da qualcuno che la indottrini. Freud la concepì all’interno della scienza cartesiana, senza peraltro conoscere a fondo il pensiero di Cartesio – ma la mandò a scuola dal vecchio Aristotele, forse perché, avendo educato Alessandro il Grande, che conquistò tutto il mondo conosciuto, lo Stagirita offriva maggiori credenziali di affidabilità, fondate sul principio di ragion sufficiente. Ma è sufficiente la ragione per avere certezze in psicoanalisi? Oggi, l’unica nostra certezza è che la psicoanalisi è psicoterapia, come tale accettata dal coro conformistico delle nazioni. È tuttavia una certezza patologica, che inibisce la ricerca e l’avanzamento. Il risultato è che gli stessi psicoanalisti non sanno come procedere per innovare la psicoanalisi al di là dei codici terapeutici, cioè – per dirla con Freud – Al di là del principio di piacere. Da dove in psicoanalisi comincia la ricerca, die Forschung? Mi fermo subito. Forse sto imprudentemente adottando l’opzione unilaterale che esista solo la ricerca scientifica. Forse dimentico che esiste anche la ricerca filosofica. Opportunamente me lo ricorda il ponderoso ottantanovesimo volume delle Gesamtausgabe di Martin Heidegger sui Zollikoner Seminare, appena arrivato sulla mia scrivania (un testo che ogni freudiano 140

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dovrebbe almeno sfogliare, per la serietà con cui Heidegger affronta il pensiero di Freud).1 Che differenza c’è tra ricerca scientifica e filosofica? So di un paio di differenze parziali, viste dalla parte delle scienze: il discorso scientifico è meccanicistico, il filosofico trascendentale; il primo è plurale, tratta il molteplice; il secondo è singolare;2 va alla ricerca della singolarità nascosta nel generale;3 uno è congetturale, l’altro concettuale. Lo scienziato meccanicista presuppone particelle elementari, tra loro interagenti, nel rispetto delle simmetrie iniziali, per esempio gli assiomi della meccanica di Newton; il filosofo trascendentale, invece, cerca le condizioni teoriche necessarie a priori per giustificare la possibilità dell’esperienza, cioè tali da salvare i fenomeni, creando senso.4 La differenza ha una base epistemica. La scienza si muove su un piano di incertezza; formula supposizioni; è congetturale, dicevo. La filosofia, invece, si muove sul piano delle categorie che danno certezza; il risultato è concettuale. Alla frontiera delle due pratiche sta una singolare figura di pensatore, direi anfibia, metà filosofo, metà scienziato, che all’alba dell’era scientifica promosse la certezza dell’incertezza: la certezza dell’essere (io sono) sull’incertezza del pensiero (io dubito). 5 1. M. Heidegger, Zollikoner Seminare (1959-1965), in Gesamtausgabe, vol. 89, a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a.M. 2018, p. 880. 2. Ma Deleuze incalza: “La filosofia è la teoria della molteplicità”. Subito dopo ricade nell’aristotelismo: “Ogni molteplicità implica elementi attuali ed elementi virtuali” (G. Deleuze, L’attuale e il virtuale [1995], “aut aut”, 276, 1996, p. 26). 3. “Posto come essere immediato, sensibile e psichico, l’individuo è l’Individuo che ha il suo télos nel Generale. E questo è il suo compito etico: Esprimere sé stesso in quello e dissolvere la propria individualità nel Generale”, S. Kierkegaard, Timore e tremore (1843), trad. di F. Fortini e K. Montanari Gulbrandsen, Edizioni di Comunità, Milano 1952, p. 61. 4. Dal punto di vista topologico creare senso significa introdurre eventi locali in contesto globale. L’operazione rischia di essere vuota perché il globale può non esistere; per esempio, l’insieme di tutti gli insiemi, che darebbe senso al singolo insieme, non esiste. Tuttavia “essere” e “senso” restano i significanti principali del discorso filosofico; uno significa il soggetto, l’altro l’oggetto. 5. Gilles Deleuze fa giustamente notare che “tutta la critica kantiana si riduce a obiettare nei confronti di Descartes che non è possibile fondare direttamente la determinazione sull’indeterminazione” (G. Deleuze, Differenza e ripetizione [1968], trad. di G. Guglielmi, Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 115). “Nella coscienza di me stesso nel semplice pensiero io sono l’essere stesso; ma così di certo niente di esso mi è dato ancora al pensiero”,

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Si chiamava Cartesio; supponeva che tutto il verosimile fosse falso, come oggi si fa in statistica supponendo che campioni diversi provengano dalla stessa popolazione (ipotesi nulla 6). Inaugurava così un nuovo genere di ricerca filosofica non categorica ma neppure scettica, basato su uno statuto debole di verità, che non presuppone il trascendentale, cioè il principio primo del sapere.7 Alla fine le differenze tra i due tipi di ricerca si riassumono in una sola: la ricerca scientifica opera con il falso per falsificarlo, la ricerca filosofica con il vero per verificarlo. In pratica il filosofo tende a imporsi come maestro, mentre l’uomo di scienza è indifferente a ogni magistero. 8 In altri termini, l’impresa scientifica non è cognitivista; lascia il cognitivismo ai medici. Questa premessa, a livello accademico peregrina, mi serve solo per localizzare i contributi di due grandi del pensiero psicoanalitico: Freud e Lacan, due autori che – riconosciamolo – non furono certamente accademici.9 Un progetto scientifico Nel Progetto di una psicologia (1895) Freud tratta le interazioni di tre tipi di particelle elementari; sono gli elementi del sistema nervoso centrale: i neuroni phi, psi e omega. I neuroni phi sono localizzati nel midollo spinale, al livello più basso del sistema nervoso, all’interfaccia tra mondo esterno e interno, che connettono con l’arco riflesso; i neuroni psi e omega occupano i centri nervosi I. Kant, Critica della ragion pura (1787), trad. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 338 (trad. modificata). Eppure Cartesio fece proprio un’operazione scientifica, il cui senso sfuggì a Kant: poggiò il certo sull’incerto. 6. Il metodo cartesiano ha avuto un attimo di popolarità per la scoperta del bosone di Higgs al Cern di Ginevra. Si è sentito parlare di 5 sigma. Il termine corrisponde a un valore di probabilità pari a 3×10 elevato alla -7, pari circa a una su 3,5 milioni. Questa, però, non è la probabilità che il bosone di Higgs non esista, ma è la probabilità di ottenere dati come quelli del Cern di Ginevra nel caso che la particella non esista. L’incertezza di tale relativismo è ineliminabile dall’empirismo scientifico. 7. Osserva Lacan: “Avant Descartes, la question du savoir n’ait jamais été posée”, J. Lacan, Le Séminaire. Livre XX (1972-1973), Seuil, Paris 1975, p. 88. 8. “In quanto tale la tecnica è indifferente”, M. Heidegger, Zollikoner Seminare, cit., p. 465. 9. Freud non riteneva necessario che si insegnasse la psicoanalisi nelle università.

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Freud e il regicidio: elementi di una riflessione ÉLISABETH ROUDINESCO

F

reud ha dedicato almeno due libri alla questione dell’uccisione del padre: Totem e tabù e il Mosè.1 Non c’è invece nemmeno un’opera su Edipo, nonostante la tragedia di Sofocle costituisca un elemento centrale della sua teoria, così centrale che potremmo arrivare ad affermare che, se fosse rimasto legato a un modello neurofisiologico, Freud non avrebbe mai potuto creare una nuova disciplina, né attualizzare i grandi miti fondatori della storia umana. In altri termini, senza la reinterpretazione freudiana dei miti greci, Edipo sarebbe restato un personaggio di finzione invece di diventare un modello universale del funzionamento psichico. Attraverso Edipo, Freud ha delineato una visione tragica dell’umanità. Colpevole dei due crimini peggiori, l’incesto, che stravolge la successione genealogica, e il parricidio, che introduce la barbarie al posto del diritto, l’uomo edipico inventato da Freud è determinato dal suo destino, cioè dal suo inconscio. È il luogo di formazione della coscienza moderna. Assumendo la propria colpevolezza si autopunisce, senza proiettare il proprio errore su una qualsiasi alterità. E tuttavia, come scrivevo, non c’è nessun’opera dedicata al personaggio di Edipo, che pure è onnipresente a partire dalla famosa lettera a Wilhelm Fliess (del 15 1. S. Freud, Totem e tabù (1913), trad. di S. Daniele, in Opere, a cura di C.L. Musatti, vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 7-164 e Id., L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1939), trad. di C. Bori, G. Contri, G. Sagittario, in Opere, vol. XI, cit., pp. 329-453.

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ottobre 1897) in cui Freud dichiara: “Ogni membro dell’uditorio è stato una volta un tale Edipo in germe e in fantasia”.2 In Freud, la figura di Edipo viene costantemente associata a quella di Amleto: da un lato abbiamo l’inconscio mascherato da destino, dall’altro la nascita di una soggettività colpevole. Contrariamente a Edipo, Amleto non uccide il padre, ma si trova costretto a essere lo strumento della sua vendetta. Essendo il solo a possedere una verità di cui nessun altro sa niente – l’omicidio di suo padre da parte di Claudio – deve confrontarsi con gli spettri ed esita. Amleto rappresenta la tragedia di un soggetto melanconico, ossessionato dalle sue fantasie o dai suoi fantasmi,3 mentre Edipo è la tragedia della logica dell’inconscio. Gli eroi di Shakespeare non arrivano all’atto, mentre il personaggio di Sofocle si dirige logicamente verso il compimento del suo destino. Detto altrimenti, la coscienza colpevole si sbaglia sempre, mentre l’inconscio non manca mai il suo obiettivo. Il destino è sempre implacabile: uccide a colpo sicuro imponendo al soggetto una storia che lo determina a sua insaputa. Obbedendo inconsciamente al terribile fatum, Giocasta si suicida, Edipo si cava gli occhi. Amleto, invece, è l’uomo degli atti mancati. Uccide per errore Polonio, il padre di Ofelia, credendo di star uccidendo Claudio che gli aveva assassinato il padre per sposarne la madre (Gertrude) e regnare sulla Danimarca. Poiché Laerte, fratello di Ofelia, rientra in Danimarca proprio per vendicare suo padre, Claudio organizza un duello tra Laerte e Amleto, ma i giochi sono fatti: la punta della spada di Laerte è avvelenata. Egli finisce per uccidere Amleto che a sua volta lo colpisce con la spada avvelenata prima di rivolgerla contro Claudio. Quanto a Gertrude, muore anche lei avvelenata per errore, bevendo da una coppa destinata a suo figlio. 2. Id., Lettere a Wilhelm Fliess, 1887-1902 (1950), trad. di G. Soavi, Boringhieri, Torino 1968, p. 161. 3. Sugli spettri e i fantasmi, cfr. E. Jones, Hamlet and Œdipus (1949) e la prefazione di J. Starobinski (“Hamlet et Freud”) all’edizione francese, Amleto e Edipo. Seguito da “Amleto e Freud” di J. Starobinski, trad. di M. Caruso De Vidovich, Edizioni Scientifiche, Milano 2008; cfr. anche J. Derrida, Spettri di Marx (1993), trad. di G. Chiurazzi, Raffaello Cortina, Milano 1994.

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Nel caso di Amleto, i delitti si verificano sempre nel quadro di una messa in scena, nel contesto di combattimenti reali o simulati. Il teatro del crimine è infatti un teatro nel teatro, un gioco nel gioco all’interno del quale la fantasia criminale arriva alla realtà dell’atto compiuto. Si verifica così una commistione permanente tra il sogno di uccidere e l’omicidio, tra l’omicidio e il crimine, tra il crimine e l’assassinio premeditato e infine tra l’omicidio e l’atto mancato di uccidere. Per vendicare un crimine premeditato che è allo stesso tempo un parricidio e un regicidio, Amleto deve commettere un tirannicidio (uccidere Claudio) e un parricidio (uccidere sua madre). Nel 1927, Freud aggiunge un terzo elemento a tutta la problematica dell’uccisione del padre, interessandosi, a partire dal parricidio4 al centro del romanzo di Dostoevskij I fratelli Karamazov, alla natura pulsionale del desiderio di uccidere. Secondo Freud, tutti i fratelli erano abitati dal desiderio di uccidere realmente il padre, ma solo uno di loro arriva a compiere l’atto. Questo parricidio è un assassinio volontario, un crimine concertato, premeditato allo scopo di valorizzare la redenzione, mentre nel caso di Edipo, il crimine ha luogo per caso, per strada, in seguito a una lite.5 Il parricida è colui che attenta alla vita di un genitore (si par4. S. Freud, Dostoevskij e il parricidio (1928), trad. di S. Daniele, in Opere, vol. X, cit. 5. A questo proposito occorre distinguere la terminologia tedesca da quella francese (e inglese). In francese la parola meurtre (che può indicare sia un atto reale, sia una “messa a morte” simbolica o immaginaria) è diversa dalla parola crime (che rinvia invece alla designazione giuridica dell’atto di uccidere) così come da assassinat (che è un crimine premeditato). Bisogna poi aggiungere, a partire dal XII secolo, tutta una serie di termini che indicano l’azione di uccidere una persona specifica, termini utilizzati come sostantivo e che hanno anche la variante aggettiva: omicidio (uccidere un essere umano), parricidio (uccidere i genitori), regicidio (uccidere i sovrani), tirannicidio (uccidere il tiranno) ecc. In tedesco le distinzioni non sono così nette. Si possono utilizzare i termini Tötung (dal verbo töten = uccidere) sia per un omicidio reale che per una messa a morte simbolica, Mord (dal verbo morder: assassinare, uccidere) sia per omicidio che per crimine premeditato, Verbrechen (da brechen: rompere) per un crimine in senso giuridico. Freud usa indifferentemente Tötung des Vater, Vatermord, Vatertötung per indicare sia la nozione di messa a morte del padre (in senso simbolico o immaginario), sia il crimine realmente compiuto. Non vi è un sostantivo tedesco per designare l’atto di uccidere una persona specifica. Si usa quindi la serie Vatermord, Königsmord, Vatermörder, Königsmörder per designare sia l’atto che l’autore del parricidio o del regicidio.

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Transfert e controtransfert DAVIDE RADICE

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l termine tedesco che traduciamo ordinariamente con “transfert” è Übertragung. Esso deriva dal verbo übertragen e ha un ambito semantico molto vasto: significa trasferire, trasportare, trasmettere, tradurre e traslare. L’accezione più ampia sembra quella di trasmissione. Questo termine, come in italiano, può essere usato per la trasmissione delle onde, per la trasmissione di malattie (contagio) e per la trasmissione ereditaria. Freud specifica per la prima volta il concetto di transfert negli Studi sull’isteria. Nel capitolo Psicoterapia dell’isteria si occupa degli elementi che possono ostacolare il trattamento catartico. Fra quelli che riguardano il rapporto fra paziente e medico, riporta i casi in cui […] la paziente si spaventa per il fatto di trasferire sulla persona del medico le rappresentazioni penose che emergono dal contenuto dell’analisi. […] Il transfert sul medico avviene per falso nesso. Devo qui darne un esempio. Un certo sintomo isterico in una delle mie pazienti era stato il desiderio, concepito molti anni prima e subito ricacciato nell’inconscio, che l’uomo col quale stava conversando si fosse fatto coraggio e afferrandola l’avesse baciata. Una volta, alla fine di una seduta, sorge nella paziente un desiderio analogo nei riguardi della mia persona.1 1. S. Freud, J. Breuer, Studi sull’isteria (1893-1895), trad. di C.F. Piazza, in S. Freud, Opere, vol. I, Boringhieri, Torino 1967, p. 437 (trad. modificata).

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Freud spiega questo fenomeno facendo riferimento al bisogno dell’essere umano di collegare i fenomeni psichici.2 Quando nella coscienza della paziente emerge il contenuto del desiderio, esso non è accompagnato dalle circostanze che lo collegherebbero al ricordo. Il desiderio si può allora legare alla persona di Freud. L’analista, dopo aver “conosciuto ed eliminato l’ostacolo”, permette al ricordo di emergere e può quindi iniziare a dipanare la serie di ricordi patogeni che la “connessione logica” richiede. C’è quindi, secondo Freud, un nesso vero ed è quello che originariamente lega il desiderio e il suo oggetto. Quando questo legame viene sciolto, l’affetto può creare un falso nesso sulla persona dell’analista. Il nesso è falso perché non è quello originale, ma è una copia, come diciamo che una banconota è falsa o un dipinto è una copia che viene fatta passare per vera. In questo piccolo brano di clinica siamo ancora nel contesto dell’applicazione del metodo catartico, ma è già delineata la dicotomia fra il ripetere e l’agire da una parte e il ricordare dall’altra. Nell’Interpretazione dei sogni Freud usa il concetto di transfert per spiegare la sua “esaltazione” per un personaggio storico, il generale cartaginese Annibale. Dopo che il padre gli ha raccontato di un episodio in cui egli era stato umiliato in quanto ebreo, Freud visualizza questa scena: Amilcare Barca, il padre di Annibale, fa giurare al figlio che si vendicherà dei romani. Freud spiega così questa fantasia e la serie di associazioni che da essa si era generata: “Credo di poter seguire ancora più indietro nella mia infanzia questa esaltazione per il generale cartaginese: anche in questo caso quindi si tratterebbe soltanto del transfert di un rapporto affettivo preesistente su un nuovo oggetto”.3 In questo contesto Freud porta il concetto di transfert fuori dalla cli2. Freud parla esplicitamente di una “coazione ad associare” e per specificare il falso nesso usa il termine di origine francese Mésalliance, lo stesso che aveva usato per definire il rapporto che nell’ossessione si viene a creare fra lo stato emotivo, che persiste, e una nuova rappresentazione, che sostituisce in modo improprio quella originaria. Cfr. S. Freud, Obsessions et phobies. Leur mécanisme psychique et leur étiologie (1895), in Gesammelte Werke, vol. I, Imago, London 1952, p. 347. 3. S. Freud, L’interpretazione dei sogni (1900), trad. di E. Fachinelli e H. Trettl Fachinelli, in Opere, vol. III, Boringhieri, Torino 1966, p. 186 (trad. modificata).

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nica dell’isteria e lo applica non più a un desiderio o a uno stato emotivo, ma a un rapporto affettivo. Nello stesso testo Freud mostra di riconoscere un transfert che il paziente produce nel sogno verso la sua persona.4 Afferma poi che la parte essenziale del lavoro onirico che costituisce il sogno sia determinato “dalla trasposizione [Übertragung] e dallo spostamento delle intensità psichiche dei singoli elementi”.5 Il ricorrere nel sogno di esperienze infantili e la capacità del ricordo visivo di attrarre elementi inconsci porta Freud a descrivere “il sogno come il surrogato, alterato attraverso una trasposizione [Übertragung] su materiale recente, della scena infantile”.6 Questo modo di concepire il sogno ci avvicina al transfert vero e proprio: nel transfert, a costituire il “punto d’attacco necessario per la trasposizione”7 non è il residuo diurno, cioè pensieri e rappresentazioni del giorno prima, ma la persona dell’analista all’interno della situazione analitica. Quando gli elementi del sogno su cui si concentra Freud sono delle persone, l’analogia con il transfert analitico è ancora più netta: cercando di capire chi realmente ci sia dietro una persona che compare nel sogno di una paziente, Freud afferma: “L’originale dunque non si era mai mostrato, ma la sua copia nel ‘transfert’ ci permette di inferire che in passato l’uomo doveva essere stato comunque il padre”.8 C’è quindi una sorta di transfert nel sogno e la coppia di termini “originale” (Original) e “copia” o “ristampa” (Abdruck) ci riporta al concetto di “falso nesso”. Se teniamo per buona la concezione freudiana che ci mostra il sogno come la via regia per l’inconscio, il transfert, la traslazione e la trasposizione sono fenomeni che appartengono a tutti gli uomini e non c’è uno scarto qualitativo per il quale solo i nevrotici producano dei transfert. Quando Freud trova nell’interpre4. Ivi, p. 188. 5. Ivi, p. 284 (trad. modificata). 6. Ivi, p. 499 (trad. modificata). 7. Ivi, p. 514 (trad. modificata). 8. S. Freud, Sogno e telepatia (1922), trad. di E. Luserna, in Opere, vol. IX, Boringhieri, Torino 1977, p. 400 (trad. modificata).

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La lingua (perduta) del sogno nell’epoca delle neuroscienze MARIO BOTTONE

1.

Il metodo delle associazioni libere aveva permesso all’analisi freudiana di giungere all’interpretazione del sogno, cioè di passare dal contenuto manifesto alla rete dei pensieri latenti e, da qui, pervenire alla sua essenza: “Il sogno è l’appagamento (mascherato) di un desiderio (represso, rimosso)”.1 Il lavoro interpretativo portava così alla luce la differenza fra manifesto e latente, individuando al contempo l’opera di un desiderio rimosso. A questo punto si determinava la necessità di spiegare il “lavoro psichico” inverso, quello della sintesi che combina e mette in scena, e che si scompone in due operazioni: da una parte, la produzione dei pensieri onirici, che non costituisce un oggetto specifico della teoria del sogno e, dall’altra, il lavoro onirico.2 Dall’esposizione della sintesi emergeva una seconda differenza, fra pensieri latenti e lavoro onirico. Freud non rinunciò mai a questa duplice distinzione: Una volta trovavo straordinariamente difficile abituare i lettori alla differenza fra contenuto onirico manifesto e pensieri 1. S. Freud, Die Traumdeutung (1899), in Gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, voll. II/III, p. 166; trad. di E. Fachinelli, H. Trettl Fachinelli, L’interpretazione dei sogni, in Opere, a cura di C.L. Musatti, vol. III, Boringhieri, Torino 1984, p. 154. Le traduzioni dei passi di Freud sono state modificate; alla pagina dell’edizione originale, segue quella della traduzione italiana. 2. Ivi, pp. 510-511; trad. pp. 462-463.

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latenti del sogno. Sorgevano sempre nuove argomentazioni e obiezioni, tratte dal sogno non interpretato, quale si presenta nel ricordo, mentre si trascurava l’esigenza dell’interpretazione del sogno. Ora che perlomeno gli analisti si sono abituati a sostituire al sogno manifesto il suo senso, rintracciato mediante l’interpretazione, alcuni di loro si rendono colpevoli di un’altra confusione, alla quale sono legati con non minore tenacia. Essi cercano l’essenza del sogno nel contenuto latente e trascurano perciò la differenza esistente tra pensieri latenti del sogno e lavoro onirico. Il sogno in fondo altro non è se non una forma particolare del nostro pensiero, resa possibile dalle condizioni dello stato di sonno. È il lavoro onirico che produce questa forma ed esso solo è l’essenziale del sogno, la spiegazione della sua peculiarità.3 L’analisi e la sintesi, dunque, fecero emergere due capisaldi della teoria freudiana sul sogno: il desiderio inconscio e il lavoro onirico. Benché sottoposto a rimozione dalle forze della censura, questo desiderio assicura il capitale, ossia la forza senza di cui i diversi desideri (preconsci) difficilmente potrebbero mettere in moto quel lavoro onirico delegato alla produzione delle immagini del sogno. Infatti, grazie soprattutto al meccanismo della raffigurabilità, questo lavoro dà “una forma differente” ai pensieri onirici, in primis la forma delle immagini visive, che costituiscono la principale caratteristica formale del sogno.4 Si tratta qui, come vedremo, della trasposizione di una lingua in un’altra lingua, quella delle immagini – trasposizione che, quantunque resa possibile dalle “condizioni dello stato di sonno”, resta di pertinenza esclusiva della raffigurabilità, posta al servizio sia del desiderio che della censura. O forse dovremmo ipotizzare che le condizioni neurofisiologiche del sonno spieghino da sole sia la genesi del sogno, cioè la forza che lo attiva, sia le particolarità della sua forma? È noto che per le neuroscienze la derivazione del sogno da queste con3. Ivi, p. 510 nota 2; trad. p. 463 nota 1. 4. Ivi, pp. 510-511; trad. pp. 462-463.

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dizioni ha costituito, e costituisce sempre di più, un oggetto di ricerca privilegiato, i cui risultati sono stati sfruttati in ambito psicopatologico e psicoterapeutico, dando vita a una nuova alleanza tra gli studi neurofisiologici e il discorso psico- in generale.5 Una tale utilizzazione non è casuale né priva di conseguenze per nozioni come desiderio e lavoro onirico, ma anche per le tesi avanzate da Freud sulla sofferenza psichica, dato che attribuiva al sogno un “valore teorico di paradigma”, poiché “chi non riesce a spiegare la genesi delle immagini oniriche si sforzerà invano di comprendere le fobie, le idee ossessive e deliranti, ed eventualmente di esercitare su di esse un’influenza terapeutica”.6 Di conseguenza, distruggere la spiegazione freudiana della genesi di queste immagini equivale a colpire contemporaneamente il desiderio inconscio, il lavoro onirico e la rottura operata da Freud nei confronti della vecchia psichiatria organicista, soprattutto in riferimento alla follia. Tale è stato, ed è ancora oggi, l’obiettivo degli psico- che fanno appello all’autorità delle neuroscienze, con tutte le conseguenze etiche e politiche che ne derivano per quanto riguarda la cura, che ormai è più interessata ai circuiti neuronali che al desiderio e alla verità del soggetto.7 2. È impossibile passare qui in rassegna le ricerche neuroscientifiche sul sogno, pertanto mi limito a richiamare brevemente alcune tesi contemporanee che riducono la complessità della scena onirica ai meccanismi neurofisiologici. Da quando negli anni cinquanta le ricerche sul sonno individuarono la fase Rem come “base fisiologica del sogno”, le critiche alla teoria e alla pratica freudiana si sono moltiplicate. Da Michel Jouvet, neurobiologo francese, ad Allan Hobson, neurobiologo e psichiatra statunitense, passando per molti altri, la musica non cambia: il discorso di Freud ha fatto 5. Sul discorso psico- cfr. J. Lacan, “Televisione” (1974), in J. Lacan, Altri scritti, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, p. 513. 6. S. Freud, Die Traumdeutung, cit., p. VII; trad. p. 3. 7. Uno dei più autorevoli neuroscienziati ha ridotto la cura analitica a “uno scambio interpersonale” da affiancare agli “approcci scientifici e causali come la terapia farmacologica” (G.M. Edelman, Seconda natura [2006], trad. di S. Frediani, Raffaello Cortina, Milano 2007, p. 118). Un modo per ridurre questa cura a ornamento immaginario della farmacoterapia.

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