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378 giugno 2018

L’ECONOMIA UNIVERSALE DI BATAILLE Georges Bataille L’economia all’altezza dell’universo 5 Massimiliano Roveretto Un immane e multiforme coito: Bataille e l’ontologia 14 Damiano Cantone Bataille e la doppia economia 37 DISCUSSIONI. RIPENSARE L’EUROPA Roberto Esposito Europa e filosofia

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INTERVENTI Edoardo Greblo Umanità di confine 64 Ottavio Marzocca Negligenza del mondo. Disavventure dello spazio tra filosofia e globalizzazione 89 Nicola Gaiarin Istantanee. Il Diario fenomenologico di Enzo Paci 110 Paolo Fabbri I monumenti sono ritornelli 125 RICERCHE Emilia Musumeci Venere contro natura. Il delitto di sodomia, storia e diritto 138 Paolo Godani L’affermazione del carattere nell’età di Bichat 155 Linda Bertelli Fotografia scientifica e riproducibilità meccanica. La cronofotografia di Marey 176 MATERIALI. MARIO VEGETTI Mario Vegetti Premessa all’edizione 2018 di Il coltello e lo stilo Neutralizzazione animale, epistemologia e politica. Intervista a Mario Vegetti

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Mauro Bertani, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com ISSN: 0005-0601 collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek per proposte di pubblicazione: autaut@ilsaggiatore.com Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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L’economia universale di Bataille

Nei due anni precedenti la pubblicazione di La parte maledetta, Georges Bataille ne anticipò diverse parti sulla rivista “Critique”, da lui fondata e diretta. La prima, nel maggio 1947, fu quella sul Tibet; mentre l’ultima, sul potlach, fu anche la sola a uscire su un’altra rivista, il “Mercure de France”, nel gennaio 1949. A questa serie si può tuttavia aggiungere senz’altro l’articolo L’économie à la mesure de l’univers, apparso nel 1946 su “Constellation” e di cui “aut aut” presenta qui di seguito, per la prima volta, la traduzione italiana. Pur non essendo stato ripreso nella versione definitiva dell’opera, esso presenta i temi che saranno in parte trattati nell’introduzione teorica, e più precisamente nel capitolo sulle “Leggi dell’economia generale”. Rispetto a quest’ultimo, tuttavia, esso opera lo spostamento di prospettiva e il cambio di scala che caratterizzano l’approccio di Bataille all’economia in maniera più scoperta e diretta. Perché non si tratta soltanto di ammettere, per Bataille, che nelle attività ordinariamente definite economiche, insieme al principio dell’utile che le regge, operi un’ingiunzione alla


dépense che lo contraddice. Più radicalmente, occorre prendere atto di come l’uno non meno dell’altra derivino dall’ordinamento stesso dell’universo e dal flusso dell’energia che lo percorre al modo di un’ininterrotta e abbagliante esplosione, di cui l’esistenza umana e l’orizzonte ristretto dell’economia terrestre sarebbero al contempo l’effetto e un punto d’arresto necessariamente provvisorio. Con i due contributi che presentiamo in coda al testo di Bataille, e che in parte riflettono gli ultimi orientamenti della critica internazionale, abbiamo semplicemente voluto tentare una prima messa a fuoco della questione, concentrandoci su alcuni degli aspetti che legano il concetto di economia generale alle concezioni cosmologiche e ontologiche che ne costituiscono l’implicito. Nella convinzione che da qui occorra partire per ripensarne la posta in gioco, finora rimasta insufficientemente apprezzata.


L’economia all’altezza dell’universo (1946) GEORGES BATAILLE

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a ricchezza è essenzialmente energia: l’energia è la base e lo scopo della produzione. Le piante che coltiviamo nei campi e gli animali che alleviamo costituiscono delle somme di energia rese disponibili dal lavoro agricolo. Noi utilizziamo questi animali e queste piante, li consumiamo al fine di acquistare l’energia spesa in tutti i nostri lavori. Anche gli oggetti artificiali da noi prodotti – una sedia, un piatto, un edificio – rispondono alle esigenze di un sistema dinamico. L’impiego della mia energia muscolare implica un periodo di riposo, durante il quale sto seduto: la sedia mi aiuta a risparmiare l’energia che in questo momento spendo per scrivere... Eccedenze di energia derivanti dall’azione del sole Captare l’energia di cui ho bisogno per vivere non mi è difficile. Di norma dispongo anzi di energia in eccesso in misura apprezzabile e l’umanità, nel suo insieme perlomeno, ne detiene un immenso surplus. Attribuire come d’uso l’eccesso della ricchezza che possediamo alle recenti invenzioni, allo sviluppo delle attrezzature moderne, è però un errore. La somma dell’energia prodotta è sempre superiore a quella impiegata per la sua produzione. È il princiTitolo originale: L’économie à la mesure de l’univers, “Constellation”, 65, 1946; ried. in G. Bataille, Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1974, vol. VII, pp. 9-16.

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pio stesso della vita, in generale confermato dall’attività degli organismi vegetali e di quelli animali. L’attività produttiva di un organismo vegetale può essere considerata da un lato come dispendio di energia, dall’altro come sua acquisizione. Se l’acquisizione non fosse superiore al dispendio nessuna pianta potrebbe crescere. Lo stesso vale per gli animali (la crescita animale è più difficile e spesso presuppone la cura prestata dagli adulti: in questo caso la massa che si accresce è quella costituita dall’insieme degli adulti e degli individui più giovani). Questa legge fondamentale della vita non è sorprendente. Le somme di energia spese in modo utile permettono alla vita di captare l’energia solare e quest’ultima rende correntemente possibili gli eccessi del mondo vivente. Sono le parti verdi delle piante terrestri e marine a operare incessantemente l’appropriazione di una parte importante dell’energia luminosa del sole. È in questo modo che la luce – il sole – ci genera, ci rende vivi e dà origine ai nostri eccessi. Questi eccessi, questa vitalità sono l’effetto di questa luce (in fondo siamo soltanto un effetto del sole). Praticamente, dal punto di vista della ricchezza l’irradiamento solare si distingue per la sua unilateralità: si perde senza badare a spese, senza contropartita. L’economia solare è fondata su questo principio. Solitamente, se si considera la nostra economia dal punto di vista pratico la si isola. Ma essa è soltanto una conseguenza di quella che la rende possibile e la domina. Se ci sforziamo di cogliere i movimenti economici dai quali siamo animati a partire da questo principio scorgiamo a un tempo l’eccesso della produzione in rapporto all’energia necessaria e l’effetto di tale eccesso: se produciamo più di quanto abbiamo speso per produrre, l’eccesso di energia prodotto deve in qualche modo ritrovarsi. Esso può essere utilizzato solo ai fini della crescita del sistema che lo ha prodotto. Altrimenti dev’essere distrutto. Anche se tendiamo a dimenticarlo, l’energia che è in gioco nella nostra attività non è svincolata dalle sue origini. In noi opera soltanto un passaggio. Possiamo trattenere i raggi del sole, ma soltanto provvisoriamente. L’energia solare che siamo è un’energia che si perde. Noi possiamo senz’altro ritardarla, ma non 6


Un immane e multiforme coito: Bataille e l’ontologia MASSIMILIANO ROVERETTO

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er quanto consista in un volume a sé stante, pubblicato per i tipi di Gallimard nel 1949, La parte maledetta può essere senz’altro considerata un’opera incompiuta, in quanto è ciò che rimane di un più ampio ciclo di cui essa avrebbe dovuto costituire, con il titolo La consumation, soltanto la prima parte.1 Al di sotto di essa, inoltre, è rinvenibile un imponente palinsesto, che si trova oggi minuziosamente documentato nell’edizione delle Œuvres complètes di Bataille e che consta di una pluralità di abbozzi, materiali, piani e finanche stesure preparatorie, senza contare quelli relativi agli scritti a essa collegati. Sappiamo anche che nel settembre del 1945 Bataille aveva scritto all’editore, preannunciandogli l’invio di un lavoro intrapreso quindici anni prima e inerente a un argomento di interesse generale.2 Alcuni mesi più tardi, tuttavia, egli aveva sentito l’esigenza di pubblicare sulla rivista “Constellation” L’economia all’altezza dell’universo. L’articolo, presentato come una serie di “note preliminari alla redazione di La parte maledetta”,3 presenta un certo interesse, in quanto la parte teorica sul senso e sulle leggi dell’economia generale, che nell’opera maggiore si trova inter1. Cfr. la nota editoriale contenuta in G. Bataille, Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1976, vol. VII, p. 470. 2. Cfr. la nota editoriale alla versione di Il limite dell’utile presentata nello stesso volume (p. 502). 3. Cfr. ivi, p. 465.

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polata tra la prefazione di ordine metodologico e la lunga trattazione dei “dati storici” che ne occupa la gran parte, ne costituisce sì la ripresa, ma soltanto parziale. Una spia, questa, delle gravi difficoltà, che, per ammissione dello stesso Bataille, l’avevano condotto, giunto ai tre quarti dell’opera “dove doveva trovarsi risolto l’enigma”, ad abbandonarne per l’ennesima volta la stesura e a scrivere al suo posto Il supplizio, “in cui l’uomo raggiunge l’estremo limite del possibile”.4 Amministrare l’ingovernabile Secondo Michel Surya l’interesse di Bataille nei confronti dell’economia risalirebbe verosimilmente al 1928, quando egli avrebbe cominciato a maturare un primo ciclo di riflessioni sul tema culminato nel saggio su La nozione di “dépense” del 1933.5 A partire da una serie di osservazioni di ordine sociologico e antropologico, in quello scritto egli aveva come noto avanzato l’ipotesi che, accanto alla produzione e alla capitalizzazione dei beni assunte dalla teoria classica a paradigma di ogni possibile attività economica, ve ne fosse anche un’altra, essenzialmente votata alla dépense,6 ovverosia al consumo improduttivo delle risorse socialmente disponibili. Caratteristiche di alcune società del passato, che ne avevano operato una vera e propria istituzionalizzazione, con l’avvento del capitalismo le pratiche di dépense sarebbero viceversa state progressivamente messe al bando e ridotte al rango di mere sopravvivenze, a un pulviscolo di forme degradate – dall’agonismo sportivo al fumo passando attraverso i consumi suntuari della borghesia e il gioco d’azzardo –, in cui il loro originario significato sarebbe andato da ultimo completamente perduto. Non fosse che, avendo in tal modo espunto da se stessa il principio stesso della 4. Cfr. G. Bataille, L’esperienza interiore (1954), trad. di C. Morena, Dedalo, Bari 2002, p. 26. 5. Cfr. M. Surya, Georges Bataille, la mort à l’œuvre, Gallimard, Paris 2012, pp. 440-441. 6. Il termine dépense può essere tradotto in italiano con “spesa”, ma anche con “consumo” e con “dispendio”. Esso introduce quindi l’idea di un impiego irrazionale e della dilapidazione delle ricchezze. Anche nel prosieguo del testo lo si utilizzerà nell’originale, come d’uso nella letteratura secondaria su Bataille.

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perdita, la moderna società capitalistica si sarebbe esposta al suo ritorno nella forma della rivoluzione proletaria.7 Quest’ultima notazione, che introduceva il problema dell’individuazione di nuove forme di dépense, differenti da quelle rovinose della crisi economica e della guerra in cui nel corso degli anni trenta stavano sfociando le contraddizioni del sistema capitalistico, si trova significativamente ripresa nel manifesto programmatico dell’“unione di lotta degli intellettuali rivoluzionari” denominata “Contre-Attaque”, costituitasi nel 1935 e di cui Bataille fu tra i fondatori.8 Si tratta di un breve testo che, nella sua prima edizione, fu sottoscritto da oltre una dozzina di intellettuali, ma al cui interno è facile distinguere alcune posizioni di matrice chiaramente batailliana. Al punto 11, per esempio, viene proclamata l’esigenza di farla finita con il presupposto dell’“impotenza economica”. Contro ogni retorica della povertà, il manifesto escludeva categoricamente che la rivoluzione proletaria dovesse porsi come obiettivo la riduzione dei consumi borghesi. Rapportati all’esiguità di quelli della classe operaia, strettamente limitati al soddisfacimento – spesso soltanto parziale – dei bisogni primari, essi potevano infatti certamente apparire ingiustificati in quanto suntuari. Ma piuttosto che auspicarne l’estinzione, occorreva impegnarsi affinché divenissero accessibili anche a coloro che ne erano sino ad allora rimasti esclusi. E questo non tanto in base ad argomentazioni di ordine keynesiano – cui pure il manifesto allude – ma a partire dal riconoscimento di un assunto già implicito nel saggio su La nozione di “dépense”, ossia che il problema economico fondamentale risiedesse nella sovrabbondanza delle risorse disponibili per il consumo piuttosto che nella loro scarsità. Anche l’ultima parte di La parte maledetta, del resto, si sarebbe collocata in una prospettiva non dissimile, interpretando il piano per la ricostruzione europea varato nel 1947 su impulso del segretario di Stato americano George Marshall non in fun7. Cfr. G. Bataille, “La nozione di dépense”, in La parte maledetta (1949), trad. di F. Serna, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 16-20. 8. Cfr. Id., Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1970, vol. II, p. 379 sgg.

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Bataille e la doppia economia DAMIANO CANTONE

La vita degli uomini è come lo sfavillio delle stelle: essenzialmente, non ha altro fine che questo sfavillio. G. Bataille

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a riflessione di Bataille intorno al tema dell’economia si sviluppa a cavallo degli anni trenta e quaranta del secolo scorso, in numerosi testi e appunti che – come spesso capita con il pensatore francese – non conoscono una sistematizzazione definitiva. In questo tortuoso percorso è compreso il testo che “aut aut” propone in traduzione italiana per la prima volta, L’economia all’altezza dell’universo, una sorta di prologo al suo lavoro maggiore degli anni quaranta, La parte maledetta. Si tratta dunque di ricostruire il percorso della riflessione a partire dal saggio che lo inaugura, La nozione di “dépense” del 1933,1 fino a La sovranità, il testo che Bataille non pubblicò mai in vita e che uscì solo nel 1976 (anche se il nucleo più importante delle riflessioni ivi contenute risale agli anni cinquanta),2 passando ovviamente attraverso i testi e i frammenti degli anni quaranta raccolti da Thadée Klossowski – curatore dell’opera omnia di Bataille – in Il limite dell’utile. È proprio dall’apertura di questo ultimo testo che si può cogliere la cifra della sua riflessione intorno al tema dell’economia: in un movimento paragonabile a un’ardita carrellata cinematografica si passa da una grandiosa immagine dell’universo e del1. Pubblicato per prima volta su “La Critique sociale” nel gennaio del 1933, questo testo chiave del pensiero di Bataille verrà più volte rimaneggiato e rivisto dall’autore. 2. Per un approfondimento delle vicende editoriali del testo, rimando alla nota di Thadée Klossowski contenuta in G. Bataille, Œuvres completès, Gallimard, Paris 1976, vol. VIII, pp. 592-594.

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le sue galassie fino alle più piccole particelle che compongono il nostro pianeta. Questo passaggio ripercorre quello dell’energia universale di infinite stelle che prodigano la loro energia verso freddi pianeti – tra cui il nostro – avidi della forza che da esse deriva. L’essere umano occupa un gradino peculiare di questa scala: è consapevole della gloria del sole, del suo dispendio energetico gratuito, ma condivide con le particelle la condanna dell’avidità, è costretto al lavoro, allo sfruttamento delle risorse e alla lotta per il loro possesso. Si potrebbe pensare dunque che il piano su cui si muove Bataille sia eminentemente ontologico: l’Universo è un’unica grande sostanza, al contempo materiale e spirituale (energia) retta da leggi fisiche. In questo sistema, l’uomo ha un posto preordinato per quanto peculiare, che ne limita fortemente la capacità di autodeterminazione. A questo proposito, nella nota che conclude la prefazione a La parte maledetta, Bataille riconosce il suo debito nei confronti dell’amico e fisico Ambrosino, direttore di un laboratorio di ricerca sui raggi X.3 Da questo confronto ne ricava una concezione dell’essere in termini di sistema, sulla base delle acquisizioni delle scienze “dure” negli anni venti e trenta del secolo scorso: l’universo è un Tutto percorso da un moto di disgregazione e aggregazione che determina la formazione di aggregati locali coerenti seppur temporanei. Questo fa sì che si possa parlare di un Tutto solo nel senso di un’unità del molteplice, rispetto al quale le parti non sono mai autonome ma inserite in insiemi di funzionamenti a complessità crescente. Gli esseri umani non vanno 3. G. Bataille, La parte maledetta (1967), trad. di F. Serna, Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 67. Per una ricostruzione dei rapporti tra Bataille e le scienze, rimando agli studi di Cédric Mong-Hy, Bataille cosmique. Georges Bataille: du système de la nature à la nature de la culture, Lignes, Paris 2012, e dello stesso autore “Vers la thermodinamique de l’anthropos. Georges Bataille, Georges Ambrosino et les naissances du paradigme énergétique”, in C. Limousin, J. Poirier (a cura di), La “Part maudite” de Georges Bataille, Garnier, Paris 2015, pp. 337-353. Da questo testo si ricavano anche interessanti indicazioni per un possibile confronto con la filosofia di Bergson e Deleuze riguardo alle influenze del pensiero scientifico sulla filosofia francese del Novecento. Sullo stesso tema rimando anche all’ormai classico testo di F. Wahl, “Nudo, o le impasse di un’uscita radicale seguito da Post scriptum: un nuovo bergsonismo”, in P. Sollers (a cura di), Bataille. Verso una rivoluzione culturale (1973), Dedalo, Bari 1974, pp. 215-289.

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considerati come soggetti individuali, ma come un tipo di funzionamento della materia in continua trasformazione e in continuo scambio con il sistema esterno in cui sono inseriti, sia esso di tipo naturale o sociale. L’essere non è una totalità chiusa, ma un’unità processuale derivante dal fatto che tutto l’essere è il risultato di un medesimo processo energetico.4 Esso non sarà mai compiuto, sebbene non si possa dire che sia mancante di qualcosa. L’insufficienza dell’uomo rispetto a un’immagine di sé come unità completa e autoconclusa è determinata esattamente dalla propria natura processuale. Egli non è un insieme disordinato di processi casuali, ma piuttosto partecipa di un processo generale dal quale può essere distinto solo logicamente. In pratica, tutti gli esseri sono accumunati dal fatto di essere parte e risultato dello stesso processo. Per usare un’immagine di Bataille: “L’essere, quale l’uomo l’ha definito ritenendosi tale, non è mai presente come il ciottolo del fiume, ma come il flusso delle acque, o meglio, come un passaggio di corrente elettrica”.5 Si configura così un’ipotesi radicalmente monista, secondo la quale non esiste una distinzione di natura tra gli enti che partecipano a questo processo universale, ma solo di grado, ovvero relativa alla funzione e alla posizione che essi occupano all’interno del sistema energetico. Non dobbiamo però pensare che si tratti di un sistema in equilibrio, il processo di creazione è inesausto e inesauribile, e la sovrabbondanza dell’azione energetica deve trovare uno sfogo: “L’energia (la ricchezza) eccedente può essere utilizzata per la crescita di un sistema (per esempio di un organismo); se il sistema non può crescere, o se l’eccedenza non può per intero essere assorbita nella sua crescita, bisogna necessariamente perder4. Secondo Bataille una simile ipotesi ontologica va estesa a tutte le configurazioni esistenti della molteplicità. Essa va dunque utilizzata anche per spiegare la genesi degli ordinamenti sociali sia in campo animale che umano. Si confronti a questo proposito G. Bataille, L’economia all’altezza dell’universo, in questo fascicolo, e gli interventi raccolti in D. Hollier (a cura di), Il collegio di sociologia 1937-1939 (1979), Bollati Boringhieri, Torino 1991 e in particolare i testi “Attrazione e repulsione I. tropismi, sessualità riso e lacrime”, pp. 126-139 e “Attrazione e repulsione II. La struttura sociale”, pp. 139-154. 5. G. Bataille, Il limite dell’utile (1976), trad. a cura di F.C. Papparo, Adelphi, Milano 2000, p. 136.

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Discussioni Ripensare l’Europa


Europa e filosofia ROBERTO ESPOSITO

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Puntualmente, come è accaduto in ogni momento drammatico della sua storia, l’Europa contemporanea si rivolge alla filosofia con un’intensità sconosciuta ad altre terre. Mentre, a sua volta, la filosofia torna a interrogarsi sul destino dell’Europa come qualcosa che tocca il suo stesso modo di essere. Del resto quando ci si trova di fronte a una situazione che oltrepassa il piano delle scelte economiche e degli assetti istituzionali, per implicare una vera decisione di esistenza – quella appunto dell’Europa come soggetto politico – non può non essere chiamato in causa il pensiero. Ma da dove nasce questa corrispondenza tra l’orizzonte del pensiero e la terra europea, che non si scioglie neanche quando la storia sembra sottrarsi alla ragione e imboccare strade senza uscita? Quale nodo stringe in maniera indissolubile Europa e filosofia? Cosa rende, nonostante tutto, la filosofia questione essenziale per l’Europa e l’Europa oggetto privilegiato della filosofia? Una prima risposta a queste domande attiene al luogo in cui la filosofia è nata. È vero che forme diverse di pensiero e di saggezza si sono sviluppate, anche prima, in altre terre – dall’Africa settentrionale all’Asia centrale e meridionale. Ma nessuna di esse presenta i tratti di quello specifico linguaggio che da più di duemila anni siamo abituati a chiamare “filosofia”. Non solo, come è noto, esso ha la sua origine in Grecia, ma ha trovato in Europa l’ambiente più favorevole al suo sviluppo, da cui diffondersi aut aut, 378, 2018, 51-62

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nel resto del mondo. Anche quando si è nutrita profondamente di altre tradizioni di pensiero, come quelle araba, la connotazione europea della filosofia occidentale è stata tanto prevalente da segnarne in forma incancellabile la storia. Anche la linea di pensiero che più recentemente ha assunto la denominazione di “filosofia analitica”, da alcuni curiosamente opposta alla filosofia cosiddetta “continentale”, è nata nel nostro continente e solo successivamente trasferita altrove – in particolare negli Stati Uniti, per sfuggire alla persecuzione nazista. Da questo punto di vista l’intera tradizione filosofica occidentale, con tutte le sue suddivisioni interne, è oggettivamente “continentale”, dove il continente cui ci si riferisce è appunto quello europeo. Fin qui, tuttavia, la questione del rapporto tra filosofia ed Europa risulta posta in maniera ancora esterna – attinente a un dato di fatto storico-geografico, piuttosto che radicata in un elemento più profondo. Essa è guardata soltanto da un lato – quello del carattere prevalentemente europeo della tradizione filosofica occidentale – e non da quello, più intrinseco, del carattere filosofico dell’Europa. Che significato conferire a tale attribuzione? Come può, un continente, essere definito “filosofico”? Non si rischia, in tal modo, di scivolare in una semantica astratta o, peggio, retorica? Per cogliere il senso meno generico di questa espressione bisogna partire da una constatazione negativa – da una mancanza che ha avuto un rilievo difficilmente sottovalutabile nella storia europea. A differenza di altri continenti, l’Europa non è definibile in base a determinati elementi geografici – a mari, fiumi, monti. Non ha confini certi, almeno a Oriente, come l’Africa, l’America o l’Oceania. La sua distinzione dall’Asia è problematica al punto che almeno due grandi paesi, la Russia e la Turchia, sono sempre stati in bilico tra i due continenti e tra ciò che essi hanno significato nella storia del mondo. Ma questa contiguità spaziale con l’Asia, piuttosto che determinare assimilazione con il mondo asiatico, ha costituito un elemento di contrasto che, almeno all’origine, è stato decisivo per l’autocoscienza dell’Europa. Se si vuole individuare il suo momento genetico, lo si deve cercare nelle guerre delle città greche 52


Umanità di confine EDOARDO GREBLO

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a mobilità è da sempre parte integrante dell’agire umano, sia individuale che collettivo. Ma in passato la sua regolazione politica era profondamente diversa da quella attuale, poiché gli Stati non disponevano delle risorse e delle capacità amministrative per controllare i propri confini e distinguere efficacemente fra interno ed esterno, fra cittadini e stranieri. È stato attraverso l’invenzione moderna della nazione intesa in senso pre-politico, dove è l’ethnos a definire il demos, che gli Stati-nazione hanno fatto coincidere i confini della cittadinanza con i confini della comunità, politica e nazionale al tempo stesso. Con l’avvento della configurazione nazionale della cittadinanza è stata però automaticamente creata anche la figura moderna dello straniero, di chi è definito in negativo come estraneo alla comunità degli appartenenti. Non a caso il dilagare sulla scena europea di migranti forzati, rifugiati e apolidi si verifica con la fine della Prima guerra mondiale, quando l’Europa assume il profilo di un sistema di Stati-nazione ciascuno dei quali impone una politica della cittadinanza basata sulla continuità fra natività e nazionalità. Ogni Stato pretende di riconoscere come cittadini solo i membri della nazione, e perciò di garantire pieni diritti civili e politici solo a coloro che per nascita o per origine rientrano nella finzione di una comunità nazionale ipoteticamente omogenea. È questa decisione all’origine del fenomeno dei rifugiati e degli apolidi, di una massa stabilmente residente di non-cittadi64

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ni che finisce per mettere a nudo questa finzione, per portare alla luce lo scarto tra nascita e nazione e per rivelare l’artificio della naturalità dell’appartenenza a una “comunità di destino” basata sull’unità etnico-culturale.1 Hannah Arendt è stata la prima a trarre le conseguenze di questa situazione. Il capitolo di Le origini del totalitarismo dedicato al problema dei rifugiati e degli apolidi tra il 1918 e il 1945, Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, è stato ed è tuttora una straordinaria fonte di ispirazione per un numero considerevole di analisi e ricerche.2 Molti studi sulle migrazioni hanno adottato l’analisi di Arendt come punto di partenza per istituire uno stretto parallelismo tra gli apolidi di allora e i migranti senza documenti del nostro tempo,3 poiché, come ha sostenuto Benhabib, “nelle nostre società, l’essere sprovvisti di documenti regolari è una forma di morte civile”.4 E questo perché dà luogo a quella forma di privazione dei diritti che impedisce di essere parte di una comunità, ovvero di “vivere in una struttura in cui si è giudicati per le proprie azioni e opinioni”.5 È il ritrovarsi in questa sorta di limbo giuridico, di “morte civile”, a caratterizzare i sans papiers, i migranti in condizione irregolare di 1. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995 (20052), p. 145. 2. H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1951, 19662), trad. di A. Guadagnin, introduzione di S. Forti, Einaudi, Torino 2004, pp. 372-419. Cfr., a puro titolo di esempio, G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., in particolare pp. 145-149; Id., “Al di là dei diritti dell’uomo”, in Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 20-29; S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini (2004), trad. di S. De Petris, Raffaello Cortina, Milano 2006; J. Rancière, Who Is the Subject of the Rights of Man?, “South Atlantic Quarterly”, 2-3, 2004, pp. 297-310. 3. M. Borren, Towards an Arendtian Politics of In/Visibility: On Stateless Refugees and Undocumented Aliens, “Ethical Perspectives: Journal of the European Ethics Network”, 2, 2008, pp. 213-237; M. Krause, Undocumented Migrants: An Arendtian Perspective, “European Journal of Political Theory”, 3, 2008, pp. 331-348; S. Buckel, J. Wissel, State Project Europe: The Transformation of the European Border Regime and the Production of Bare Life, “International Political Sociology”, 4, 2010, pp. 33-49; P. Hayden, From Exclusion to Containment: Arendt, Sovereign, Power, and Statelessness, “Societies without Borders”, 3, 2008, pp. 248-269; J. Hyndman, A. Mountz, Another Brick in the Wall? Neo-refoulement and the Externalization of Asylum by Australia and Europe, “Government and Opposition”, 43, 2008, pp. 249-269. 4. S. Benhabib, I diritti degli altri, cit., p. 172. 5. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 410.

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oggi.6 L’esclusione dall’appartenenza politica vissuta dalle minoranze tra le due guerre mondiali può essere equiparata alla realtà odierna dei migranti senza i documenti in regola: “La realtà politica dell’apolidia vissuta da Arendt e da milioni di altre persone non è scomparsa, ma è diventata una questione all’ordine del giorno”.7 Si tratta di un’equiparazione che richiede però alcune precisazioni. Dopo la Seconda guerra mondiale il sistema della protezione internazionale degli apolidi, dei rifugiati e dei richiedenti asilo ha esteso le norme di tutela e garanzia anche alle persone in fuga dalle persecuzioni o dalle ingiustizie sofferte nei paesi di origine. Il diritto di avere diritti significa attualmente che lo statuto universale di persona spetta a ogni singolo essere umano a prescindere dalla sua cittadinanza nazionale. Il trattamento da parte degli Stati di coloro che sono stati costretti ad abbandonare la comunità di origine perché spinti a forza in una comunità territorialmente definita diversa dalla loro non rappresenta più una prerogativa intoccabile. Il diritto di asilo e il principio di non-respingimento possono essere considerati come gli strumenti primari progettati per garantire la tutela formale del non-cittadino, dell’individuo straniero.8 È questa constatazione a suggerire l’esigenza di fornire alcune precisazioni riguardo all’equiparazione tra i rifugiati e i migranti senza documenti. Sottolineare la distinzione tra gli uni e gli altri è importante anzitutto per una ragione storica, e cioè per non rimuovere l’unicità della sorte toccata agli ebrei prima e durante la Seconda guerra mondiale, anche perché era a loro che Arendt faceva riferimento quando scriveva il capitolo sui rifugiati sen6. É. Balibar et al., Sans papiers: l’archaïsme fatal, La Découverte, Paris 1999; M. Krause, “Stateless people and undocumented migrants”, in C. Sawyer, B.K. Blitz, Statelessness in the European Union: Displaced, Undocumented, Unwanted, Cambridge University Press, Cambridge 2011, pp. 22-41. 7. P. Hayden, From Exclusion to Containment: Arendt, Sovereign, Power, and Statelessness, “Societies without Borders”, 3, 2008, p. 250. 8. D.J. Whittaker, Asylum Seekers and Refugees in the Contemporary World, Routledge, London-New York 2006, p. 14 sgg.; D.J. Cantor, J.-F. Durieux, Refuge from Inhumanity? War Refugees and International Humanitarian Law, Brill-Nijhoff, Leiden-Boston 2014.

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Negligenza del mondo. Disavventure dello spazio tra filosofia e globalizzazione OTTAVIO MARZOCCA

Perdere le distanze Forse, ancor prima che si iniziasse a parlare insistentemente della globalizzazione, nella nostra società si è cominciato a porre in evidenza gli effetti di dematerializzazione delle tecnologie di comunicazione che hanno contribuito alla globalizzazione stessa e, fra tali effetti, si è iniziato a dare rilievo crescente ai fenomeni di despazializzazione: le tecnologie telematiche avrebbero innescato un ridimensionamento tendenziale del ruolo dello spazio materiale e del territorio fisico rispetto alle attività e alle relazioni principali dell’uomo contemporaneo.1 È difficile negare, in effetti, che la globalizzazione tele-tecnologica stia provocando da tempo una radicale riduzione dell’importanza dello spazio, delle distanze e delle relazioni fisiche soprattutto mediante il moltiplicarsi delle possibilità di comunicazione iperveloce fra utenti dislocati in ogni parte del mondo. Ciò non toglie, però, che possa essere opportuno cercare di capi1. Un’intensificazione definitiva dei discorsi sulla dematerializzazione tecnologica contemporanea si ebbe con la grande mostra intitolata “Les immateriaux”, che si svolse a Parigi nel 1985 al Centre Georges Pompidou (cfr. É. Théofilakis [a cura di], Modernes, et apres? “Les Immateriaux”, Éditions Autrement, Paris 1985). La mostra fu organizzata sotto la direzione di Jean-François Lyotard il quale, alcuni anni prima, aveva marcato il “passaggio d’epoca” provocato dagli sviluppi dell’informatica con il suo famosissimo: La condizione postmoderna (1979), trad. di C. Formenti, Feltrinelli, Milano 1981. Già prima di quel momento, soprattutto Paul Virilio aveva iniziato a insistere sulle conseguenze “despazializzanti” – oltre che “dematerializzanti” – delle tecnologie contemporanee di comunicazione. In ogni caso, gran parte degli autori, che da allora hanno analizzato lo sviluppo di queste tecnologie, ha evidenziato in un modo o nell’altro tali conseguenze. Fra i vari testi che si potrebbero richiamare in proposito, si vedano di P. Virilio: Velocità e poli-

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re fino a che punto questa prepotente tendenza rappresenti una chiave decisiva di lettura della nostra epoca. A questo scopo ci si potrebbe interrogare, in particolare, sul senso dello spazio che la nostra cultura, almeno nelle sue forme più riflessive, ha espresso finché la “rivoluzione telematica” ha cominciato a non trovare più ostacoli. Il che potrebbe servire innanzitutto a comprendere in che misura questa cultura era pronta a confrontarsi con certe conseguenze di tale rivoluzione; inoltre, forse potrebbe servire proprio a problematizzare e a circoscrivere in maniera non banale la validità dell’idea di despazializzazione tecnologica.2 Comunque sia, qui da parte mia vorrei provare a fare qualcosa del genere riferendomi in particolare al sapere filosofico. Le domande generali che porrei alla base di questo tentativo sarebbero le seguenti: qual è stata l’attenzione che fino a ieri la filosofia ha rivolto alla spazialità, ovvero a questa dimensione della nostra esistenza, di cui oggi in qualche modo staremmo smarrendo il controllo o mutando profondamente la percezione? Quale consapevolezza la cultura filosofica ha avuto della possibilità che tica. Saggio di dromologia (1977), trad. di L. Sardi-Luisi, Multhipla, Milano 1981; La velocità di liberazione (1995), trad. di U. Fadini, S. Talluri e T. Villani, Strategia della lumaca, Roma 1997; Cybermonde, la politique du pire, Les éditions Textuel, Paris 1996; La bomba informatica (1998), trad. di G. Piana, Raffaello Cortina, Milano 2000. Si vedano inoltre: J. Meyrowitz, No Sense of Place: The Impact of Electronic Media on Social Behavior, Oxford University Press, Oxford 1985; P. Levy, L’intelligenza collettiva. Per una antropologia del cyberspazio (1994), trad. di M. Colò, D. Feroldi e R. Scelsi, Feltrinelli, Milano 1996; W.J. Mitchell, City of Bits: Space, Place, and the Infobahn, Mit Press, Cambridge (Mass.) 1995; E. Fiorani, La comunicazione a rete globale, Lupetti, Milano 1998; S. Graham, S. Marvin, Telecommunication and the City: Electronic Spaces, Urban places, Routledge, London 1995; F. Cairncross, The Death of Distance: How the Communications Revolution Will Change Our Lives, Harvard Business School Press, London 2001; K. Ohmae, The Borderless World: Power and Strategy in the Interlinked Economy, Harper Collins, New York 2002; M. Ciastellardi, Le architetture liquide. Dalle reti del pensiero al pensiero in rete, Edizioni Universitarie Led, Milano 2009. 2. Qui propongo tutto questo dando per acquisito che oggi in vari campi di ricerca l’idea di despazializzazione venga ampiamente problematizzata, per cui da tempo è possibile parlare di un vero e proprio spatial turn riguardo al quale mi limito a rinviare a: B. Warf, S. Arias (a cura di), The Spatial Turn. Interdisciplinary Perspectives, Routledge, London 2009; W. Soja, Postmodern Geographies, Verso, London 1989; Id., Third Space, Blackwell, Oxford 1996; M. Lussault, L’espace en actions, Hdr, Tours 1996; Id., De la lutte des classes à la lutte des places, Grasset, Paris 2009. Cfr. inoltre G. Marramao, Alla ricerca dello spazio perduto, “Alfabeta 2”, 30, 2013, p. 20.

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lo spazio fosse esposto a una simile prospettiva? Quale attenzione essa ha rivolto alle funzioni, alle trasformazioni e all’importanza dello spazio rispetto alla vita della società? Naturalmente, non pretendo di dare risposte certe ed esaustive a simili interrogativi. Mi limiterò, piuttosto, a fare una ricognizione di massima in tal senso, riferendomi soprattutto – ma non solo – ad alcuni degli esponenti principali del pensiero filosofico contemporaneo. Il tempo come rifugio Considererò in primo luogo l’impressione generale che si può ricavare dalla storia della filosofia degli ultimi secoli. Essa ci dice che questo sapere ha avuto la tendenza a privilegiare il tempo, ossia ad attribuire a esso una dignità maggiore rispetto a quella che è stata disposta a riconoscere allo spazio. In questo senso si esprime in particolare Michel Foucault sostenendo che la filosofia, dalla fine del XVIII secolo, si è progressivamente rifugiata appunto nella riflessione sul tempo, mantenendo a un livello di minore intensità la riflessione sulla spazialità. Il che, secondo lui, si spiega in generale col fatto che – dopo la rivoluzione scientifica moderna e con l’avvio da parte degli Stati di precise politiche dello spazio – altre forme di sapere hanno preso saldamente possesso di questa dimensione e hanno “rigettato la filosofia su una problematica del tempo. Da Kant – dice Foucault –, ciò che la filosofia deve pensare è il tempo. Hegel, Bergson, Heidegger. Con una correlativa squalificazione dello spazio che appare dal lato dell’intendimento, dell’analitico, del concettuale, del morto, del fisso, dell’inerte”.3 Certamente l’autore francese non intende negare l’enorme valore della riflessione che i grandi filosofi da lui richiamati – ciascuno a suo modo – hanno comunque dedicato alla dimensione spaziale. Piuttosto egli vuole evidenziare che la filosofia non si è mai misurata veramente con il “problema degli spazi […] come 3. M. Foucault, “L’occhio del potere” (1977), conversazione con J.-P. Barrou e M. Perrot, in J. Bentham, Panopticon, ovvero la casa d’ispezione, a cura di M. Foucault e M. Perrot, trad. di V. Fortunati, Marsilio, Venezia 1983, pp. 7-30.

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Istantanee. Il Diario fenomenologico di Enzo Paci NICOLA GAIARIN

Nell’atteggiamento fenomenologico c’è un continuo intrecciarsi della riflessione filosofica con la vita quotidiana, con la vita del corpo, con la comunicazione, con il rinnovamento dell’angolo visuale dal quale si considera l’esperienza che si vive...1

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a prima cosa che colpisce – prima della vastità dei riferimenti e delle letture, prima dei viaggi, degli incontri, dei paesaggi – è il ritmo. Che il diario sia una specie di ritmo, un battito che scandisce il rapporto tra dimensioni che sembrano a prima vista cancellarsi a vicenda. Del fatto che il Diario fenomenologico di Enzo Paci sia un documento che si possa leggere anche come una prospettiva su una certa stagione della cultura italiana degli anni cinquanta-sessanta, con le luci di Milano nella notte, con i grattacieli in costruzione, con l’apparizione di un nuovo paesaggio urbano, con le prime di Schönberg, di tutto questo non andrò a parlare. Un diario lo si scrive scegliendo cosa escludere, cosa rimane fuori. E la prima regola forse sarà proprio questa: leggere un diario come lo si scrive, come una stenografia, un reportage su un’intimità, un’operazione in presa diretta sulla realtà quotidiana. Ma, proprio per questo, c’è un trucco, un’esibizione, un teatro. Mettersi in scena con gli occhi di un altro, svelare i propri pensieri come se venissero offerti a un possibile lettore. Tan1. E. Paci, Diario fenomenologico, il Saggiatore, Milano 1961, p. 38 (d’ora in poi DF). Il diario esce nel 1961 e raccoglie pagine scritte tra il 1956 e il 1961. La scrittura diaristica accompagna comunque tutto il percorso di Paci, sia come redazione “privata”, sia in forma intermedia, a metà tra l’appunto diaristico e la rapida pagina tematica, come si può vedere nelle voci scritte per la rubrica di “aut aut” Il senso delle parole. Una seconda edizione del Diario esce per Bompiani nel 1973.

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to più se il diario è predisposto in vista di una pubblicazione, e quindi viene sottoposto probabilmente a un editing o a una parziale riscrittura. Occorrerà tenere conto di questi effetti di cornice, a cominciare da una presentazione editoriale che esordisce con una constatazione: “Di rado il calendario dei fatti coincide con quello dei sentimenti: lo sanno i protagonisti delle avventure del cuore”.2 Con un ulteriore twist, l’anonimo redattore della nota editoriale, aggiunge: “Più raro ancora che la coincidenza si verifichi quando un calendario dei pensieri si aggiunga agli altri due, come succede a chi vive un’avventura della mente”. Cos’è il diario di un filosofo, questa strana avventura della mente? La prima idea potrebbe essere: il diario è una forma di scrittura che tenta di cogliere e restituire il pensiero nel momento in cui sorge. Ed è evidente, di nuovo, il motivo per cui questo non sarà mai del tutto possibile. La trascrizione, la traccia, si rivela l’ostacolo che rende impossibile la trasparenza a sé del pensiero. Ma d’altra parte la trasparenza, attraverso la scrittura, viene sempre in luce come operazione retrospettiva. A posteriori questi pensieri saranno stati chiari, verranno esposti allo sguardo del lettore, che in questo caso è, per primo, l’autore stesso. Il suo calendario dei pensieri, in questa non coincidenza tra i fatti, i sentimenti e il paesaggio mentale, si presenta nella forma apparentemente casuale di una successione di occasioni di riflessione. Qualcosa accade: una lettura, un viaggio con Padre Van Breda, un re-incontro con Paul Ricœur, Sartre a Milano, l’invito a un convegno, la deriva sentimentale nella visione di un paesaggio famigliare, una preoccupazione sociale (la bomba, quanto la patina del tempo si è stesa su questo modo di dire, oppure no?), e il diario registra il modo in cui gli accadimenti rimbalzano sui pensieri. La scrittura diaristica non potrà che essere intermittente, fatta di veloci appunti, annotazioni. Anche se è il diario di un filosofo. Soprattutto se è il diario di un filosofo come Enzo Paci. Dunque un diario, la trascrizione di un pensiero che, per dirla con Paci, è un pensiero dell’orizzonte intenzionale. Un’operazio2. DF, “Nota”, p. 7.

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ne di senso che, ritornando al soggetto, scopre nel soggetto un’apertura preliminare. Che il soggetto sia già da sempre attraversato dall’altro, e che l’orizzonte sia già da sempre abitato da altri punti di vista, questo Paci non finisce di ricordarlo al lettore. Il mistero dell’intersoggettività, che è un compito, un’apertura ulteriore. “Bisogna, ancora una volta, con tenacia e con pazienza, ricominciare, riprendere la ricerca, correggere, bruciare la ‘coscienza impura’ per ritrovare in se stessi il senso della verità, il telos del mondo.”3 C’è tutto, in queste poche parole, tutto quello che serve per fare di questo diario un esercizio. “Bisogna”, un imperativo, perché non siamo noi a scegliere di pensare, “ancora una volta”, perché l’operazione va sempre ripresa, con tenacia e pazienza, e senza l’ostinazione del lavoro nulla prende forma. Poi “ricominciare”, perché la passione è la passione dell’origine, “riprendere la ricerca”, perché la ricerca sembra essere destinata a un’interruzione, “correggere”, perché l’interruzione è l’errore e non c’è errore se non c’è un senso, un percorso che riguardi la verità. E la verità, come sempre, è là fuori, nelle cose, nel mondo, che ha una sua direzione, un telos. Non saprei come commentare la coscienza impura che deve essere bruciata, se non con il richiamo a certi santi del deserto dei quadri di Bosch. Tutto questo è un esercizio in cui il ritrovamento del senso di se stessi ha a che fare con qualcosa che brucia, con l’ascesi della coscienza impura che viene consumata per ritrovare il senso della verità. Tutto un programma filosofico che è soprattutto un programma di allenamento, mi verrebbe da dire parafrasando Peter Sloterdijk.4 Insomma, partiamo dall’idea che forse la filosofia è un esercizio, e quindi un’ascesi, e l’ascesi ha a che fare in primo luogo con una forma di pratica che coinvolge il soggetto. Il filosofo sarebbe allora quel soggetto per il quale ogni avventura della mente è anche un piccolo protocollo di sperimentazione. 3. Ivi, p. 12. 4. Penso a quanto dice Peter Sloterdijk in Devi cambiare la tua vita (2009), trad. di S. Franchini, Raffaello Cortina, Milano 2010.

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I monumenti sono ritornelli PAOLO FABBRI

Il mondo dell’arte è appunto il mondo estremo dei segni. G. Deleuze, Marcel Proust e i segni

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el 1994 ho fatto parte del Monumento a Félix Guattari. Dapprima senza saperlo, persuaso di rispondere all’invito dell’amico Jean-Jacques Lebel (JJ) a un intervento “metalinguistico” sul pensiero e l’attività di Félix Guattari, che conoscevo come semiologo e come attivista politico nel periodo intenso del 1977 a Bologna. Conoscendo anche l’autore del Monumento – “pittore della trasversalità” come lo definiva Guattari –, avrei dovuto sospettare che non era così. Il tavolo e il microfono a cui mi trovai seduto – accanto all’autore, ad Allen Ginsberg, Robert Fleck, Édouard Glissant, Jacqueline Cahen, Bernard Heidsieck, Ilan Halevy, Anne Querrien, Allan Kaprow e altri – appartenevano a pieno titolo alla grande installazione del Beaubourg; io stesso ero un nodo di quell’esteso, aperto agencement collettivo di enunciazione di cui Félix e JJ sono stati entrambi e ciascuno alla sua maniera, teorici e operatori. L’installazione era parte della mostra Hors limites. L’art et la vie: ogni giovedì artisti, antipsichiatri, poeti, ecologisti, attivisti hanno integrato quel “blocco di sensazioni” con un bricolage di gesti, suoni, improvvisazioni e letture; un moto browniano di concetti e una babele di affetti. Una macchina di segni, come l’avrebbe chiamata Guattari, a cui i novanta e più interventi militanti, artistici e politici che si sono succeduti hanno aggiunto il vigore performativo di un montrage agonista e protagonista. Un evento che ha lasciato il segno. aut aut, 378, 2018, 125-136

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Come nodo di questo testo collettivo, nutrivo allora due progetti: collocare il pensiero di Guattari nella corrente semiotica che è la mia e operare uno spostamento dell’arbitrario alfabetico, per modificare un errore che sfiora l’aberrazione ottica. Nel corso del mio intervento avevo citato infatti come Guattari e Deleuze – e non come Deleuze e Guattari – gli autori dei due volumi di Capitalismo e schizofrenia: L’anti-Edipo e Mille piani, di Kafka, di Rizoma, di Che cos’è la filosofia?. Nonostante le dichiarazioni esplicite dei due autori e la documentazione di genetica testuale è al solo Deleuze che viene attribuita un’opera filosofica e teorica elaborata congiuntamente a Guattari. Eppure Deleuze ha esplicitato il senso di ciò che li legava. Opponeva l’Et all’Est: a differenza dell’ontologico Est (È), Et (E) è la molteplicità e la diversità e soprattutto “non è né l’uno né l’altro, sta sempre tra i due, è la frontiera […] una linea di fuga o un flusso”.1 Il guattareuze, com’è stato definito, è l’accettazione della singolarità, a partire dall’affetto di una distanza amativa (cfr. Jankélévitch) e un generatore duale di concetti, comparabile a quello di Marx ed Engels. Un’enunciazione a variazioni che Deleuze riprenderà poi da Pasolini come un Discorso Indiretto Libero. Alla corporazione filosofica – come a Badiou – sfuggiva allora e ancora oggi l’apporto originale del pensiero teorico di Guattari, che si manifestava con un’incessante invenzione neologica, dovuta alla sua formazione psicoanalitica, linguistica e semiotica. Il rimprovero che gli veniva rivolto “di voler mettere la semiotica dovunque”2 era fondato, perché per lui “produrre desiderio, è questa la sola vocazione del segno, in tutti i sensi in cui l’(es) si macchina”.3 E ancora: “La significazione del mondo, il senso del desiderio, una volta colto al di fuori delle ridondanze dominanti, esigono di allargare la gamma delle nostre risorse semiotiche”.4 1. G. Deleuze, Pourparler (1990), trad. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 64. 2. F. Guattari, Lignes de fuite, éd. de l’Aube, Paris 2011, p. 83. 3. G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), trad. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1975, p. 42. 4. F. Guattari, “Sémiotique du brin d’herbe”, in Lignes de fuite, cit., p. 406.

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La semiotica è parte della formazione intellettuale e artistica di JJ insieme all’antropologia sociale, alle arti plastiche e al collage d’ispirazione neodadaista. Vorrei quindi tornare sul mio intervento “monumentale” per replicare due concetti essenziali alla teoria di Guattari e Deleuze, e alla prassi creativa di JJ: macchina astratta di segni e “agencement d’enunciazione”. L’espressione “macchina astratta” proviene dal semiologo Hjelmslev per cui il senso si dà come intersezione di due forme: la forma dell’espressione (il significante) e la forma del contenuto (il significato).5 La reciproca sostituzione dei due piani – l’espressione può diventare contenuto di una nuova espressione e viceversa – assicura l’elasticità e la mobilità trasformativa in cui può articolarsi il desiderio. Per Guattari era la sola teoria moderna del linguaggio: una linguistica dei flussi e dei processi “che spezza il doppio gioco del dominio voce/grafismo che fa scorrere forma, sostanza, contenuto, espressione secondo i flussi di desiderio e taglia questi flussi secondo punti-segno o figure-schize”. Una trans-semiotica immanente che può manifestarsi in tutte le sostanze percepibili e che sarebbe “la sola adatta sia alla natura dei flussi capitalisti che a quelli schizofrenici”.6 Quanto all’agencement collettivo d’enunciazione7 il concetto è mutuato dal linguista Benveniste e dalle sue istanze discorsive – “l’impronta del processo d’enunciazione nell’enunciato”.8 Guattari, e JJ con lui, ne traggono il modello pragmatico della meccanosfera: concatenazioni simboliche e modi di soggettivazione, variabili e turbolenti come il free jazz, che si esprimono poeticamente in regimi nuovi di segni: “Quantità intensive nel corpo sociale, proliferazioni e precipitazioni delle serie, connessio5. G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie 2, Minuit, Paris 1980, p. 219: “L’espressione ‘macchina di segni’ copre il sistema di segni e il sistema di simboli in Hjelmslev”; “questa solidarietà delle forme (tra forme dell’espressione e forme del contenuto, che qui chiameremo ‘macchine astratte’”; “gli agencements collettivi di enunciazione relativi a queste ‘macchine di segni’ […]; ciò che ‘fa macchina’ sono le connessioni”; “produzione del desiderio secondo delle ‘macchine di segni’”. 6. G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, cit., p. 278. 7. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka, pour une littérature mineure, Minuit, Paris 1975, cap. IX, “Qu’est-ce qu’un agencement?”. 8. Idd., L’anti-Edipo, cit., p. 140.

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Venere contro natura. Il delitto di sodomia, storia e diritto EMILIA MUSUMECI

Peccato o reato? La sodomia, sia nella sua variante perfecta (masculi cum masculo o feminae cum feminae)1 o imperfecta (unione carnale tra uomo e donna, uniti dal sacro vincolo del matrimonio, ma non finalizzato alla procreazione), è stata per molti secoli non solo sanzionata penalmente ma considerata uno dei crimini più gravi che potessero essere commessi. Bollando come nefendissimus et horrendum vitium et crimen2 tali eterogenee esplicazioni della sessualità, diritto e religione sono stati per secoli concordi nel reprimere violentemente ogni comportamento che esulava dal rigido schema matrimoniale-procreativo. Così di volta in volta sono stati etichettati da teologi, giuristi e giudici come abominii o atti contro natura, quali la masturbazione, il coito extra vasum e, a maggior ragione, la sodomia in senso stretto, vista non solo come reato ma anche spesso (nella forma della coazione alla sodomia) come giusta causa di separazione tra i coniugi.3 Una pratica già vietata persino tra marito e moglie diviene doppiamente proibita quando posta in essere tra uomini perché Emilia Musumeci è borsista di ricerca post-doc in Storia del diritto medievale e moderno presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Teramo. Questo articolo si colloca all’interno di una ricerca più ampia e ancora in fieri sulla storia giuridica del corpo. 1. Cfr. Biblioteca pei parrochi e cappellani di campagna, Antonelli, Venezia 1837, vol. XIII, p. 816 (laddove quello di sodomia viene appellato come peccatum enorme et abominandum). 2. Cfr. R. Canosa, Storia di una grande paura. La sodomia a Firenze e a Venezia nel Quattrocento, Feltrinelli, Milano 1991, p. 130. 3. M. Cavina, Nozze di sangue. Storia della violenza coniugale, Laterza, Roma-Bari 2014, pp. 70-71 (edizione digitale).

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con una sola azione viola contemporaneamente ben due principi di natura (la finalità procreativa e l’eterosessualità). A partire dal XV secolo, si manifesta pian piano l’impossibilità di concepire un tipo di giustizia globale in grado di dominare la vita e la morte, perché le istituzioni ecclesiastiche e secolari concorrono tra loro, e di conseguenza anche i grandi ordinamenti giuridici che ne derivano, con la creazione di un dualismo tra legge positiva e coscienza, tra reato e peccato: “Lo Stato tende a criminalizzare il peccato per fare di questa criminalizzazione uno strumento di potere”.4 Questo processo, che da un’iniziale fusione del diritto canonico con quello secolare particolarmente già presente nel XIII secolo,5 nel XVI secolo, a opera dei più celebri criminalisti italiani, porta alla fondamentale distinzione tra crimen (foro esterno) e peccatum (foro interno),6 ma nello stesso tempo anche a una trasformazione di molti peccati (tra cui la blasfemia e i reati sessuali) in crimini. Tale processo giunge a completa maturazione durante l’Epoca dei Lumi in cui la secolarizzazione del diritto penale7 diviene uno degli obiettivi primari di molti sovrani illuminati. Il reato di sodomia8 è stato per secoli considerato tra i più gravi, essendo punito in maniera addirittura plurima, trattandosi di un classico esempio di comportamento considerato nell’età

4. P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, il Mulino, Bologna 2000, p. 215. 5. Cfr. D. Schiappoli, “Diritto penale canonico”, in E. Pessina (a cura di), Enciclopedia del diritto penale italiano, Società Editrice Libraria, Milano 1905, vol. I, p. 614. 6. A. Pertile, Storia del diritto italiano. Dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, vol. V: Storia del diritto penale, 2a ed. riveduta e migliorata (1892), Forni, Bologna 1966, p. 34. 7. Cfr. M.A. Cattaneo, “I principi dell’Illuminismo giuridico-penale”, in S. Vinciguerra (a cura di), I codici preunitari e il codice Zanardelli, Cedam, Padova 1993, pp. 5-8. 8. Per una recente ricostruzione della secolare persecuzione penale dell’omosessualità in una prospettiva storico-giuridica si rinvia alla dettagliata ricerca di M.A. Chamocho Cantudo, Sodomía. El crimen y pecado contra natura o historia de una intolerancia, Dykinson, Madrid 2012. Inoltre, sulle origini della repressione della sodomia nell’antichità e, in particolare, sul cruciale passaggio tra “mondo pagano” e “mondo cristiano”, non si può non rinviare a D. Dalla, “Ubi Venus Mutatur”. Omosessualità e diritto nel mondo romano, Giuffrè, Milano 1987.

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moderna delitto ma prima ancora peccato e pertanto soggetto a diverse pene a seconda delle fonti di riferimento: Nel foro penitenziale l’excommunicatio e il bannum a gremio Ecclesiae per sette anni, nel contenzioso canonico la privazione perpetua dei benefici e la deposizione da ogni ordine sacro se si è chierici o la scomunica e l’espulsione assoluta a coetu fidelium per i laici, la poena capitis nel diritto civile.9 Con l’avvento dell’Illuminismo ovviamente il delitto va immaginato come qualcosa di separato dal peccato e dunque la permanenza di reati che sono mere infrazioni delle regole morali o comunque tipici di un diritto penale confessionale10 diventa un fardello troppo ingombrante. Nei trattati di diritto penale si continuava, infatti, a parlare di venere mostruosa per indicare una serie di atti e comportamenti che andranno a costituire la base dei successivi reati sessuali o a scopo di libidine. Utilizzato anche in scienze naturali11 e in letteratura12 oltre che in diritto canonico,13 il corrispondente latino venus monstruosa o prodigiosa verrà adoperato in campo penalistico da Giovanni Carmignani (1768-1847) per descrivere una serie di comportamenti che il giurista non può ignorare: 9. M. Pifferi, “Generalia Delictorum”. Il “Tractatus Criminalis” di Tiberio Deciani e la “parte generale” di diritto penale, Giuffrè, Milano 2006, p. 300. 10. Cfr. A. Cadoppi, P. Veneziani, “Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”, in A. Cadoppi (a cura di), Trattato di diritto penale – Parte speciale, vol. VI: Delitti contro la moralità pubblica, di prostituzione, contro il sentimento per gli animali e contro la famiglia, Utet, Torino 2010, p. 6. 11. Si veda, per esempio, la descrizione della corbula, un tipo di conchiglia in Dictionnaire des sciences naturelles, Levrault-Le Normant, Strasbourg-Paris 1818, vol. X; trad. Dizionario delle scienze naturali, Batelli, Firenze 1836, vol. VII, pp. 569-570. 12. È considerato appartenente alla venere mosturosa un “unnatural love, which does not lead to procreation and which cannot ensure the continuation of Nature’s plan” (V. Fraser, “The goddess Natura in the Occitan lyric”, in J.E. Salisbury [a cura di], The Medieval World of Nature: A Book of Essays, Garland, London-New York 1993, p. 132). 13. Al tale riguardo si rinvia a F.E. Jr Rogers (a cura di), Theology and Sexuality: Classic and Contemporary Readings, Blackwell, Oxford 2002 e J. Boswell, Christianity, Social Tolerance, and Homosexuality: Gay People in Western Europe from the Beginning of the Christian Era to the Fourteenth Century, University of Chicago Press, Chicago-London 1980; trad. di E. Lauzi, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità. La Chiesa e gli omosessuali dalle origini al XIV secolo, Leonardo, Segrate (Mi) 1989.

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L’affermazione del carattere nell’età di Bichat PAOLO GODANI

Introduzione Tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, in quella che Michel Foucault ha chiamato “l’età di Bichat”,1 si assiste all’emergere di una nozione che sino a quel momento si può dire non esistesse come tale: il carattere come insieme di tendenze proprie di un singolo individuo. Questa vicenda, di cui si è iniziata a tratteggiare l’evoluzione,2 trova probabilmente un suo punto d’emergenza in Rousseau e nella polemica che egli intavola contro l’uguaglianza naturale delle intelligenze professata da Helvétius. Ma affinché il termine “carattere” acquisisca il significato che avrà nella psicologia di fine Ottocento e che in buona misura (benché per lo più soppiantato nel frattempo dalla “personalità”) ha ancora per noi, esso deve passare attraverso l’incontro con la nuova scienza medico-fisiologica che si afferma definitivamente solo all’inizio del XIX secolo. Nel presente lavoro si mostra come in quest’epoca si affrontino due diverse concezioni del carattere: la prima, tradizionale, rappresentata da Kant, da Victor Cousin e da quanti alla loro scuola si sono formati (come Elias Regnault, da cui inizierà il nostro percorso), per cui con “carattere” si intende la libertà che rende padroni di sé; la seconda, emergente, rappresentata dai fisiologi e dai primi psichiatri, che vede invece nelle tendenPaolo Godani, ricercatore, insegna Estetica all’Università di Macerata. 1. M. Foucault, Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical, Puf, Paris 1963, p. 174. 2. Cfr. P. Godani, Per un’archeologia del carattere, “aut aut”, 371, 2016, pp. 184-200.

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ze costitutive del carattere la possibilità di un territorio sottratto all’autocontrollo. Ma si mostra anche che solo dall’imporsi della seconda concezione potrà affermarsi pienamente la nozione moderna di un carattere al contempo naturale e individuale. In questa ricostruzione, due filosofie si profilano come particolarmente significative. La prima è quella di Maine de Biran. La sua figura è centrale perché costituisce in qualche modo l’anello di congiunzione tra la nozione tradizionale e quella moderna, essendo Biran da un lato l’ispiratore del pensiero di Cousin, dall’altro l’anticipatore di alcune istanze fondamentali della psicologia successiva. La seconda figura su cui ci soffermeremo è quella di Schopenhauer, perché l’idea moderna di carattere si afferma in maniera definitiva proprio nel suo pensiero, almeno a partire dal momento in cui esso entra in contatto con le ricerche medico-fisiologiche che trovano proprio in Bichat il loro nume tutelare. 1. Un conflitto di facoltà: Kant tra avvocati e psichiatri Nel 1828 Elias Regnault (1801-1868), giovane avvocato parigino, pubblica uno scritto volto a considerare criticamente la competenza dei medici nelle questioni giudiziarie relative all’alienazione mentale3 e destinato a suscitare vaste discussioni polemiche. La questione che Regnault intende porre non è affatto nuova. Trent’anni prima, nell’Antropologia, Kant aveva a sua volta sollevato le ire di insigni esponenti della scienza medica (Johann Daniel Metzger, 1739-1805, e Johann Christian Reil, 1759-1813) affermando che l’avviso circa l’imputabilità di un accusato sospettato di essere folle non andava richiesto alla facoltà di medicina, bensì a quella di filosofia (dato che “la domanda se l’imputato, nel compiere la sua azione, fosse in possesso delle sue naturali facoltà di intendere e di giudicare è una questione interamente psicologica”4). 3. Cfr. E. Regnault, Du degré de compétence des médecins dans les questions judiciaires relatives aux aliénations mentales, B. Warée, Paris 1828. 4. I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, Nicolovius, Königsberg 1798; trad. di G. Garelli, Antropologia dal punto di vista pragmatico, Einaudi, Torino 2010, § 51, p. 215.

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L’argomento con cui Kant risolveva il conflitto di attribuzione era, a dire il vero, piuttosto cauto. Nonostante l’affermazione perentoria appena citata, Kant riconosce che “un funzionamento fisico alterato degli organi psichici possa ben essere talora la causa di una violazione innaturale della legge del dovere”.5 La ragione per cui “medici e fisiologi” non possono fungere da giudici in materia di infermità mentale sembra dunque essere solo il fatto che il loro “sguardo […] non è progredito al punto di poter scorgere tanto in profondità nel meccanismo interno all’essere umano, da spiegare l’impulso che ha indotto a un atto [criminale] o da poterlo prevedere (in mancanza di un’anatomia del corpo)”.6 La cautela di Kant non consente comunque di minimizzare la radicalità della sua presa di posizione, perfettamente coerente con la concezione generale dei rapporti tra corpo e spirito, ovvero tra Gemüt e Geist, sviluppata in tutta l’Antropologia. Fin dalla prefazione, infatti, Kant spiega che “una dottrina della conoscenza dell’essere umano, trattata sistematicamente (antropologia), può dirsi tale o da un punto di vista fisiologico o da un punto di vista pragmatico. La conoscenza fisiologica dell’uomo – prosegue Kant – ha di mira l’indagine di ciò che la natura fa di lui, mentre quella pragmatica mira a indagare ciò che egli, in quanto essere che agisce liberamente, fa ovvero può e deve fare di se stesso”.7 L’antropologia fisiologica, cioè la medicina, si occupa dell’organizzazione fisica dell’essere umano, ma un’antropologia elaborata da un punto di vista pragmatico deve occuparsi di ciò che l’uomo fa di quella sua organizzazione fisica. Il presupposto di questa distinzione è che l’uomo possa fare uso della propria natura, possa in qualche modo agire liberamente su di essa, possa cioè atteggiarsi rispetto a essa in modi differenti, pur senza modificarne la struttura.8 5. Ibidem. 6. Ibidem. 7. Ivi, prefazione, p. 99. 8. Un esempio di che cosa significhi questa sorta di agire ineffettuale ce lo fornisce Kant stesso quando, nel Conflitto delle facoltà, ci comunica la sua propria attitudine a quella che chiama hypochondria vaga: “A causa del mio petto piatto e stretto, che lascia poco spazio al movimento del cuore e del polmone, io ho una disposizione naturale all’ipocondria,

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Fotografia scientifica e riproducibilità meccanica. La cronofotografia di Marey LINDA BERTELLI

1. La riproduzione meccanica dell’immagine Negli anni ottanta del XIX secolo la stampa fotografica per la tipografia subì una profonda trasformazione in seguito all’impulso provocato da un rapido sviluppo tecnologico. Nell’arco di pochi decenni si passò dalla tecnica dell’incisione all’impiego di processi fotomeccanici che potevano essere sia a immagine continua, come la fotolitografia, sia a mezzatinta, come la similigravure inventata in Francia da Charles Guillaume Petit.1 I progressi erano una diretta conseguenza dell’automatizzazione delle tecniche per ottenere le lastre di stampa, che limitarono il ruolo dell’incisore, e del miglioramento dei processi di riproduzione fototipografica, che resero possibile l’alternanza tra testo e immagini (effettivamente praticabile solo dopo lo sviluppo delle tecniche di stampa a mezzatinta).2 La graduale sostituzione tecnologica dell’incisione con tecniche fotomeccaniche dipendeva anche da ragioni econoLinda Bertelli è ricercatrice in Estetica presso Imt Scuola Alti Studi Lucca. 1. Petit fu il primo a sviluppare questa tecnica in Francia, brevettandola nel 1878; cfr. C.G. Petit, Nouveau procédé photographique, dit similigravure, “Bulletin de la Société française de photographique”, 5, 7 maggio 1880, pp. 136-140. Negli stessi anni furono sviluppate tecniche differenti, in Germania da Georg Meisenbach, negli Stati Uniti da Frederic Eugene Ives e in Francia anche da Stanislas Krakow. 2. Alphonse Poitevin diede un importante contributo alle ricerche sul primo aspetto; cfr. S. Aubenas, Alphonse Poitevin (1810-1882). La naissance des procédés de réproduction photoméchanique et de la photographie inaltérable, École nationale des chartes, Paris 1987; Id., D’encre et de charbon. Le concours photographique du Duc de Luynes 1856-1867, catalogo dell’esposizione, Bibliothèque nationale, Paris 1994. Sulla relazione tra fotografia e stampa fototipografica alla fine dell’Ottocento, cfr. G. Belknap, From a Photograph. Authenticity, Science, and the Periodical Press, 1870-1890, Bloomsbury Academic, London 2016.

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miche, permettendo così un più ampio utilizzo delle immagini in tipografia. Ma fu nel campo scientifico che la possibilità di stampa e di riproduzione meccanica delle immagini conobbe gli sviluppi più decisivi, soprattutto nel campo della fisiologia animale e umana, in particolare nello studio del movimento umano, aprendo così possibilità d’indagine del tutto inedite. Il fisiologo francese Étienne-Jules Marey sottolineò l’importanza delle nuove tecniche di fotoincisione delle immagini, come la similigravure, nella ricerca scientifica. Gli esperimenti di cronofotografia a lastra fissa, che Marey condusse in quel periodo impiegando la tecnica messa a punto da Petit, permettevano infatti di cogliere l’importanza e il senso della svolta consentita dalla meccanizzazione della stampa fotografica.3 L’espressione “riproduzione meccanica” ha, infatti, una peculiare genealogia che storicamente mette in luce la doppia radice dell’immagine fotografica: L’aggettivo “meccanico” dev’essere compreso mediante una contestualizzazione. Il compito è reso più difficile dal fatto che la singola espressione “riproduzione meccanica” fonde due processi distinti concettualmente e storicamente. In un senso, l’espressione si riferisce alla produzione automatica di un’immagine senza interventi da parte dell’artista. In un altro senso, si riferisce a una moltiplicazione “automatica” delle immagini (potrebbero essere litografie o stampe, o anche fotografie) tale per cui possano essere disseminate in modo mirato, ampio ed economico. Sebbene le immagini fotografiche abbiano rappresentato il prototipo del primo significato di “meccanico”, esse non ricaddero sotto il secondo fino agli anni ottanta dell’Ottocento, quando nuove tecniche, come la woodburitipia e la fotolitografia a mezzatinta resero praticabile la stampa delle fotografie su una scala di massa.4 3. Cfr. É.-J. Marey, Le mouvement, G. Masson, Paris 1894, in particolare p. 125; Id., Reproductions typographiques des photographies, procédé de M. Ch. Petit, “Comptes rendus hebdomadaires des séances de l’Académie des Sciences”, 95, 1882, pp. 583-585. 4. P. Galison, L. Daston, Objectivity, Zone Books, New York 2007, p. 137.

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Sarà proprio grazie al loro carattere “meccanico”, inteso in questo secondo senso, che le immagini fotografiche potranno essere impiegate nel campo della ricerca scientifica, specificamente in fisiologia, e utilizzate come prova. La descrizione dei tratti essenziali di questo processo di costruzione del significato dell’immagine in quanto prova dell’esperimento sarà condotta attraverso l’analisi della transizione dell’immagine dal negativo fotografico alla stampa fototipografica,5 in un processo che implica, dunque, il coinvolgimento di media differenti. La transizione da un medium a un altro di un’immagine avente il medesimo soggetto implica l’effettiva differenza materiale dell’immagine stessa. Una delle conseguenze più importanti di questo processo di transizione consiste nel fatto che aspetti dell’immagine di partenza (nel nostro caso il negativo) sono conservati, mentre altri aspetti risultano necessariamente soppressi.6 Il problema che si delinea, dunque, è relativo tanto al ruolo che ha tale rimediazione nella costruzione dell’immagine come prova scientifica, quanto alla definizione degli elementi specifici dell’immagine per mezzo dei quali è possibile stabilire la funzione assegnatale. Qui avanziamo l’ipotesi che questi elementi, relativi sia ai dispositivi tecnologici sia all’immagine in sé, non possano essere compresi se considerati separatamente, ma debbano invece essere esaminati in quanto effetti di procedure sperimentali specifiche, cioè di protocolli finalizzati alla definizione dello spazio sperimentale, così come alla preparazione dell’oggetto da analizzare. Se si analizzano le descrizioni dettagliate utilizzate da Marey in una delle sue opere più rilevanti, cioè Le mouvement,7 si può comprendere come la composizione di tali protocolli fos5. La prima incisione da un’immagine fotografica fu realizzata in Francia nel 1843, sulla rivista “L’illustration”. Con l’inizio del XX secolo semplicità ed economicità delle tecniche fotomeccaniche resero l’immagine fotografica la più diffusa sulla carta stampata; cfr. T. Gervais, L’illustration photographique. Naissance du spectacle de l’information, 1843-1914, tesi di dottorato, EHESS, Paris, ottobre 2007. 6. Cfr. B. Latour, “Circulating reference. Sampling the soil in the Amazon forest”, in Pandora’s Hope. Essays on the Reality of Science Studies, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1999, pp. 24-79. 7. Seguendo il tema dell’analisi dei protocolli, alcune importanti analogie, non soltanto di tipo iconografico, possono essere reperite tra il lavoro di Marey e molti trattati del

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Materiali Mario Vegetti

Mario Vegetti (1937-2018) ha dato un’impronta molto rilevante agli studi sul pensiero greco antico riscuotendo anche una significativa risonanza internazionale. Tra le sue collaborazioni ad “aut aut” spicca la cura del fascicolo speciale dedicato alle Nuove antichità: metafore dell’immaginario, produzione di saperi, figure del sacro (184-185, luglio-ottobre 1981). Tra gli innumerevoli testi che costellano il suo itinerario vogliamo ricordare Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica, il sorprendente saggio che aveva fatto uscire presso il Saggiatore nel 1979 (19962) e che proprio ora riappare presso l’editore Petite Plaisance di Pistoia. Qui riproduciamo la breve premessa e un’ampia intervista su alcuni dei temi principali del libro rilasciata nel 2017 alla rivista “Liberazioni”, ringraziando l’editore Carmine Fiorello e la direzione. Desideriamo inoltre dire grazie a Matteo Vegetti, anche lui impegnato nella ricerca filosofica sulle orme del padre, che ci ha permesso di organizzare la presente sezione. (Pier Aldo Rovatti)


Premessa all’edizione 2018 di Il coltello e lo stilo MARIO VEGETTI

I

l coltello e lo stilo fu pubblicato nella primavera del 1979. Fin dalla sua comparsa, suscitò un vivace interesse, non solo, e non tanto, fra gli specialisti di antichistica, quanto presso un pubblico composito di lettori che frequentavano i territori che allora si chiamavano “cultura critica”: epistemologia, antropologia, psicoanalisi, ed eventualmente movimenti come quello femminista e animalista. Ne uscirono naturalmente diverse interpretazioni del senso e degli intenti del libro (dalla critica irrazionalistica ai fondamenti “violenti” della scienza, a una rivisitazione moderata di Foucault). Nell’introduzione all’edizione del 1996 ho tentato di delineare le coordinate culturali entro le quali Il coltello e lo stilo era stato concepito, e di indicare un punto di vista d’autore sulla collocazione del libro.1 Ha fatto però bene l’editore a ristampare la prima edizione, quella del 1979. Da un lato, questo restituisce ai primi lettori la possibilità di un rinnovato incontro con il testo; dall’altro, e soprattutto, consente a nuovi lettori l’accesso alla forma originale del libro ormai da gran tempo esaurita. Non è immotivato pensare che questa ristampa possa apparire a qualcuno come una riscoperta, e ridestare almeno in parte l’interesse e la discussione così vivaci tanti anni or sono. Se così Pubblichiamo qui la premessa alla nuova edizione di Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica, Petite Plaisance, Pistoia 2018. 1. Ho ripreso l’argomento in una recente intervista: Neutralizzazione animale: tra epistemologia e politica, “Liberazioni”, 31, 2017, pp. 4-15 [riprodotta qui di seguito].

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Neutralizzazione animale, epistemologia e politica. Intervista a Mario Vegetti

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ario Vegetti è una figura troppo nota per essere introdotta al pubblico degli studi classici e di quelli epistemologici e, più in generale, a chiunque abbia costeggiato il dibattito culturale degli ultimi quarant’anni con una sensibilità militante. L’impegno che Mario Vegetti ha speso nella comprensione del presente a partire dallo studio della nostra storia materiale e culturale, in particolare nelle sue origini greche, e il rinnovamento che il suo lavoro ha prodotto in un vasto campo di studi che vanno dall’epistemologia delle scienze, all’etica e alla politica, lo rende una figura chiave per qualunque teoria critica che si serva, tra gli altri, di strumenti di analisi di derivazione marxiana. Ma abbiamo deciso di intervistare il professor Vegetti per un motivo più stringente. Nei suoi lavori fondamentali sul sapere greco, non si è infatti esentato dal tematizzare il rapporto con l’animalità come uno dei problemi di fondo tanto della psicologia, che della politica, che della scienza antiche. In particolare, Il coltello e lo stilo. Le origini della scienza occidentale1 rappresenta, per quelli di noi che studiano la storia concettuale e materiale della questione animale, uno studio precorritore. Nell’orizzonte del relativamente recente interesse per una teoria critica della relazione umano-aniL’intervista, fatta da Benedetta Piazzesi, è apparsa sulla rivista “Liberazioni”, 31, 2017, pp. 4-15. 1. M. Vegetti, Il coltello e lo stilo. Le origini della scienza occidentale, il Saggiatore, Milano 1979; ried. Petite Plaisance, Pistoia 2018.

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male, questo testo del 1979 si offre allo studioso di Critical Animal Studies come uno dei primi percorsi genealogici tra i saperi zoologici e i poteri zootecnici. Esso si inserisce inoltre in una stagione particolarmente viva degli studi epistemologici, sulla scorta di grandi maestri come Georges Canguilhem e Michel Foucault. Ma la sua attenzione per le condizioni materiali ed epistemiche del discorso zoologico greco ha inoltre il merito di illuminare un’importante zona grigia dello spettro di analisi foucaultiano. Nonostante la postura antiumanistica della sua interrogazione sui processi di soggettivazione, Michel Foucault implicitamente seleziona, ad avviso di molti, un campo di studio strettamente antropologico, sia per quel che riguarda l’indagine epistemica (nella sua predilezione per l’archeologia delle scienze umane), sia soprattutto per quel che riguarda l’indagine microfisica dei dispositivi di potere. Ci sembra che Mario Vegetti decidesse, al contrario, di affrontare la storia della scienza occidentale a partire dal problema della rappresentazione del corpo animale, scegliendo di ricercarne le condizioni di possibilità in pratiche storicamente individuabili di potere sugli animali. Negli stessi anni pubblicava inoltre Marxismo e società antica.2 Come nasceva, nel contesto di questa complessa interazione tra studi classici e preoccupazioni politiche su cui aveva deciso di scommettere, l’interesse per gli scritti biologici di Aristotele? Perché scegliere proprio questo tipo di discorso e questo tipo di potere, non facilmente inscrivibile né nel pantheon della tradizione filosofica classica, né in un discorso marxista orbitante intorno alla categoria di classe? In realtà, la storia comincia una decina d’anni prima del Coltello e lo stilo, ed è interessante richiamarla per capire meglio l’esperienza intellettuale che lo preparava. Insieme con il mio amico e collega pavese Diego Lanza, avevamo proposto a Ludovico Geymonat – che accettò con entusiasmo – di preparare per la sua collana Utet di “Classici della scienza” una traduzione, am2. M. Vegetti, Marxismo e società antica, Feltrinelli, Milano 1977.

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