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Abdelmalek Sayad. La vita dell’immigrato Pier Aldo Rovatti La cultura come distanza paradossale MATERIALI Abdelmalek Sayad La maledizione – Con un “lavoratore immigrato” [1993] Ahmed Boubeker Dalla “guerra delle razze” alle lotte dell’immigrazione Yassine Chaïb La morte nell’immigrazione. La sepoltura come riferimento migratorio Davide Durì Abdelmalek Sayad: un “passeur” alle frontiere del sapere Ernesto Venturini I nostri conti con Basaglia Slavoj Žižek Ma il pollo non lo sa. Ecologia come nuovo oppio del popolo Chiara Brambilla, Martino Doni Metafore migranti. Per un’epistemologia delle frontiere

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LETTURE Jean-Luc Nancy Strani corpi stranieri Judith Butler Capacità di sopravvivenza, vulnerabilità, percezione

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SUPPLEMENTO D’ANIMA Edoardo Greblo Autocritica della ragione laica? Religione, sfera pubblica e integrità etica

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Graziella Berto, Laura Boella, Paulo Barone, Giovanna Bettini, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: via Pacini 40, 20131 Milano collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, M. Cacciari, G. Comolli, G. Dorfles, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek

il Saggiatore S.p.A. Via Melzo 9, 20129 Milano www.saggiatore.it ufficio stampa: autaut@saggiatore.it abbonamento 2009: Italia € 60,00, estero € 76,00 L’Editore ha affidato a Picomax s.r.l. la gestione degli abbonamenti della rivista “aut aut”. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Picomax s.r.l. responsabile dati, Via Borghetto 1, 20122 Milano (ai sensi della L. 675/96). servizio abbonamenti e fascicoli arretrati: Picomax s.r.l., Via Borghetto 1, 20122 Milano telefono: 02 77428040 fax: 02 76340836 e-mail: abbonamenti@picomax.it www.picomax.it Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci Stampa: Arti Grafiche Bertoni, Verderio Inferiore Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano. Finito di stampare nel marzo 2009


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La cultura come distanza paradossale PIER ALDO ROVATTI

“Cultura”, “vita”, “politica”. Lo scenario è molto cambiato, ma di “cultura” abbiamo ancora e forse più bisogno di prima. Per la nostra respirazione. Perché ciascuno disponga per sé di quella distanza rispetto alla realtà che sembra essersi consumata. La realtà è andata avvicinandosi, spesso oltre la nostra capacità di sopportarla, e al tempo stesso si è come dileguata, quasi sfumando in un’anonima poltiglia adesiva (una specie di iperrealtà, come ha detto Baudrillard). Abbiamo dunque nostalgia di un periodo felice, gli anni sessanta per esempio, in cui distinguevamo bene le differenze e dove gli strumenti di distanziazione erano fruibili e sotto gli occhi. Alcuni autori, alcuni libri ci servirono allora per uscire allo scoperto o per emergere da tempi bui. Per me fu l’incontro con Brecht negli ultimi anni del liceo (il prestigioso “Parini” di Milano), e poi, all’università, la conoscenza di Paci, la lettura di Sartre, e in definitiva un’idea di fenomenologia concreta. Strumenti per “leggere la realtà”, aprirmi, confrontarmi con i discorsi e le cose che quelle letture mi permettevano di “vedere” per potervi in qualche misura partecipare. Negli anni che hanno preceduto il Sessantotto, tutti abbiamo scoperto “modi di pensare” che non appartenevano alla routine linguistica delle nostre famiglie di provenienza e ci Questo testo, con qualche piccola variazione, compare anche nel volume AA.VV., A cosa serve la cultura, il Saggiatore, Milano 2008, pubblicato in occasione dei cinquant’anni della casa editrice.

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facevano fare dei salti in avanti o solo a lato, rompendo specialismi e silenzi. Nella mia bizzarra biografia, che mi portò a frequentare più via Rovello che via Festa del Perdono, almeno all’inizio, le pagine di Whitehead produssero cortocircuiti su scienza e avventure di idee che avevano effetti virtuosi meno sullo studio comunemente inteso che sulle pratiche della vita quotidiana e sociale. D’altronde, quale biografia non si caricò allora di un tratto bizzarro? Direi che la cultura era un bisogno diffuso e che il consumo (e la produzione) di essa si allacciava immediatamente alla “vita” e perciò aveva altrettanto immediatamente una caratteristica “politica” nel suo spingerci a fare, a usare e mettere in pratica le idee. Cultura, vita e politica (così intese) erano quasi sempre una sola cosa, collegate come risultavano con un legame disponibile… Mi fermo, anche se bisognerebbe dirne molto di più, per esempio parlare di certi maestri, che potevamo trovare intorno a noi senza dovere avere subito il sospetto che fossero meno che buoni. Oggi, comunque, i maestri, come sappiamo, non ci sono più. E tante altre cose sono cambiate. Si è snodato il terzetto virtuoso che ho appena ricordato. Nel mondo globale in cui siamo (e ho in mente soprattutto le considerazioni sull’“ultima sfera” proposte da Peter Sloterdijk) quello che i filosofi chiamavano “soggetto”, e a cui tutti ci siamo riferiti con la parola “uomo”, sembra alla deriva, o semplicemente non occupa più il centro della questione. Gli “individui” cui siamo stati ridotti, individui poco o molto stressati e che reagiscono allo stress coltivando spesso una spasmodica cura di sé favorita dai dispositivi sociali, sono diventati il centro di se stessi ma funzionano come anonime ubicazioni del globale. Foucault lo aveva descritto in anticipo, e assai prima le teorie della dislocazione del soggetto avevano buttato il sasso. Salvo che adesso ci accorgiamo che non si tratta neppure di uno spostamento, bensì di una perdita di luogo. Tentare di rimontare il soggetto o collocarci nella sua destrutturazione? La domanda non è retorica solo per chi immagina (a sue spese, si teme) che si possa riavviare la pellicola e realizzare un colpo di flashback. È invece il caso di guardarsi intorno 4


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senza filtri e zoomare sul dato di fatto, per quanto scomodo ci possa apparire. Parole come “cultura”, “vita” e “politica”, cosa possono significare oggi per noi? Se davvero ci facciamo questa domanda, e ci mettiamo al lavoro su di esse, constatando che il legame sostanziale che ne faceva un programma si è sfilacciato o è del tutto saltato, c’è materia abbondante, perfino troppo, per intellettuali e pensatori che non si accontentino della loro famigliola o del calduccio di una sinecura, e vogliano mettere il naso alla finestra. Se lo facciamo, ci accorgiamo subito che la distanza dalla realtà è sparita perché la realtà stessa entro cui viviamo, ben piantati alla superficie, si è appunto trasformata in una materia collosa e mediatizzata che non presenta buchi. Il trascinamento collettivo nella cultura spettacolo è innegabile, come è innegabile che non si tratta di un processo di alienazione al quale siamo costretti ma di un nostro partecipe starci dentro. Dico partecipe perché questo misto di informazione e divertimento, che ha assorbito il nostro privato e privatizzata la dimensione pubblica, e dentro cui scorre la nostra cosiddetta vita, è la dimensione in cui si realizza al tempo stesso il nostro godimento. In tale godimento, che definirei pubblicitario e turistico, si riassorbono ormai gli eventuali desideri che ci muovono in un accorciamento drastico dei tempi, al punto che il soggetto, oltre a ritrovarsi senza luogo, si scopre ogni giorno che passa anche senza tempo. Ancora un passo e arriviamo a constatare che il rischio che stiamo correndo è di trovarci senza cultura. Intanto, la parola stessa “cultura” si è sfrangiata, si è moltiplicata ed è divenuta pervasiva. Si è pluralizzata nelle culture, nelle realtà e negli studi che le riguardano, per cui potremmo riparlare di cultura al singolare solo con un colpo di bacchetta metafisica che cancelli le differenze culturali con i loro problemi e le unifichi in un unico progetto culturale fondato in modo allucinatorio su un soggetto che non c’è più. Ed è inoltre divenuta pervasiva, perché nulla del nostro vivere vi sfugge, tutto paradossalmente si è culturalizzato disegnando uno scenario di microfisiche della cultura che attraversa da parte a parte tutte le falde della nostra esperienza. 5


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Quanto alla “vita” e alla “politica”, esse si sono fuse in un unico dispositivo sociale, in un’unica tecnica di governo, che ormai chiamiamo biopolitica. Insomma, vita e politica non possono più chiamarsi fuori o venire appese all’immaginazione di un soggetto padrone: appartengono culturalmente alla pratica di governo dei corpi e delle anime (come avrebbe detto Foucault), un dispositivo che va tessendosi sulle nostre teste e a cui tutti diamo mano. Il potere biopolitico appare poco sensibile alle disavventure dei governi locali e agli interessi dei cosiddetti “politici”. Quel che è da vedere è come vi si intrecciano gli interessi del mercato capitalistico o quelli di coloro che ancora affermano di amministrare solo le anime. Differenze culturali o governo biopolitico producono conflitti importanti, il cui contrappeso è il processo di omologazione globalizzante delle vite. Ci servono navi leggere. Questi accenni allo scenario attuale, per quanto rapidi, credo che possano bastare a motivare il bisogno che sentiamo di una nuova stagione di riflessione culturale. Lo scenario è complesso, come si dice, e lo abbiamo solo avvistato. Ora è necessaria una navigazione che non potrà in nessun modo essere ingenua. Siamo a una specie di grado zero, come se dovessimo apprestarci a partire da capo. Siamo spiazzati, poiché le vecchie bussole sono impazzite, e bisogna convincersene, ma non è vero che siamo privi di equipaggiamento né che ci è impossibile orientarci in queste acque ormai tanto domestiche quanto ignote. E l’impresa, diciamolo, può avere un suo fascino. Navi leggere, questo intanto ci serve per una simile navigazione, e allora dovremo buttare a mare una quantità di pesi: idiosincrasie, partiti presi, oggetti d’affezione, anche, di cui si capisce bene che esitiamo a liberarci. Proverò a compilarne un breve elenco. Innanzi tutto, il nostro vecchio e caro “umanismo”, che ci è servito da bandiera negli anni sessanta, e che, riempito di concretezza, è stata la chiave filosofica con cui abbiamo creduto di poter aprire ogni porta. Pur “antiquata” (ricordate Günther Anders?), è stata questa l’idea regina con cui si faceva cultura a 6


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tutto campo. Il “mio” Brecht, il “mio” Sartre, la “mia” fenomenologia – solo per pescare dall’esperienza in prima persona – si appoggiavano a questa sponda, e allora fu anche (lo ricordo) l’epoca di un Marx strappato alle leggi dialettiche e restituito al volto umano di una critica radicale dell’alienazione. Così si filò verso il Sessantotto, anche se voci dissonanti già si erano levate a parlare di strutture e di una storia rivisitata in senso anti-umanistico. Solo più tardi Heidegger cessò in parte di apparire un amico del diavolo, e si comprese sempre meglio che la “morte dell’uomo” non era un vezzo francese ma la conseguenza di quella “morte di dio” proclamata molto prima da un certo Nietzsche. Oggi Nietzsche è stato completamente sdoganato, ma non si può dire altrettanto di Heidegger e di Lacan. L’insegnamento di quest’ultimo, che riguarda precisamente la “barratura” del soggetto, è ancora per molti lettera morta. In ogni caso l’umanismo metafisico non ha più ragione di far mostra di sé nella nostra cassetta degli attrezzi, tanto meno come il più importante di essi. Lo stesso vale per il “fondamento”, liberalizzato nella più urbana “fondazione”. Abbiamo cercato per decenni di misurare la cultura con questo metro essenzialmente filosofico. A svanire non sono stati solo i punti d’appoggio, l’uomo integrale primo fra tutti, ma soprattutto uno stile di pensiero e di ricerca che si muoveva sempre dalla maschera al volto, e dunque dall’inautentico all’autentico, secondo una millenaria pratica della verità. Tuttavia – ed è il terzo del mio elenco sommario – anche l’onda del “nichilismo” che poi è sopravvenuta a bagnare tutto, non senza ogni sorta di equivoci, mentre utilmente infrangeva gli idoli, è passata, e non sembra che oggi possa funzionare da motore per una nuova cultura. Gli equivoci del pensiero debole – di cui so qualcosa – lo testimoniano: le sirene del nulla e del tragico (ce ne sono ancora in circolazione) cantano con voce stonata una canzone ormai poco orecchiabile e soprattutto priva di parole, mentre proprio l’indebolimento si diffonde a macchia d’olio attraverso l’idea di un soggetto vulnerabile e perfino malato, che non si riesce a trattare senza sconforto. 7


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Uomo, fondamento e nichilismo sono tre esempi di un deficit vistoso nel nostro modo di produrre verità attraverso la cultura, e a volte danno l’impressione di essere ancora dei crampi quasi necessari al nostro pensare abituale. Se vogliamo ripartire, dobbiamo scaricarci, almeno in parte, di questi pesi che zavorrano preliminarmente ogni attuale navigazione. Un equipaggiamento leggero, dunque, che non significa in alcun modo andare alla cieca, anche se sarà il caso di navigare sempre a vista. Per spiegare cosa intendo qui per leggerezza, potrei intanto riferirmi a una delle magistrali indicazioni per il nuovo millennio contenute nelle Lezioni americane di Calvino. Imparare a volare, o almeno a fare qualche salto senza l’ancora delle verità filosofiche già date. Rifiutare, allora, la filosofia e il suo ruolo di agente padrone? Non c’è altra soluzione, se non vogliamo retrocedere come i gamberi. Ma c’è anche la possibilità che la filosofia cominci essa stessa ad assumere un equipaggiamento leggero, il che vuol dire sovvertirne il discorso e intanto delegittimarne il privilegio ordinatore: farla scorrere in tutte le pratiche culturali. Si cominciò negli anni cinquanta a insistere sulla unità dei saperi e lì si accampò la pretesa della fondazione. Lo scenario attuale dello “sfondamento” rinuncia a quella pretesa (se ci riesce), ma non rinuncia a descrivere un legame tra le pratiche culturali, che sarà più debole e trasversale ma non per questo meno efficace in ragione di una sua minore illusorietà. Nessun superordine filosofico sembra più destinato a produrre effetti di realtà. Questi si ottengono sperimentando varie rotte, anche insolite, e costruendo reti provvisorie. Se un’idea filosofica emerge da ciò (dal sondaggio dei giochi linguistici che stiamo praticando e dalla creazione di nuovi giochi linguistici che potremmo praticare), essa potrebbe, forse, essere rappresentata dalla parola “ospitalità”, le cui implicazioni sono meno ovvie di quel che di solito riteniamo. Il compito di descrivere i fenomeni del nostro tempo resta un compito fenomenologico, se vogliamo dargli un’etichetta filosofica. Ma di una fenomenologia che si allontana da se stessa (dai suoi sistemi di difesa e certificazione) per aprirsi 8


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a un rapporto davvero spregiudicato con i fenomeni, cioè abolendo le gerarchie di senso già stabilite. Per esempio quella tra cultura alta e cultura bassa. “Ospitalità” potrebbe essere il nome di un atteggiamento la cui tonalità riduca al minimo le violenze del pensiero di fronte a ciò che non gli è noto, e i cui oggetti non siano già prefigurati in una griglia di valore. È in gioco la dimensione plurale dell’“altro”, che sono gli altri, le altre culture, ma anche la capacità di destrutturare il soggetto, cioè il punto di vista da cui guardiamo, creando in esso effettivi spazi di ospitalità o – come a me piace dire – di gioco. Il discorso universitario non sembra adeguato a questa manovra, almeno come oggi va riproducendosi: è pur vero che esso deve aprirsi ai campi e agli oggetti della cultura che chiamavamo “bassa”, però continua a farlo con un vettore di interesse che va dall’alto al basso e che spesso ha poco a che fare con l’ospitalità necessaria al pensiero, cioè si serve ancora di un’idea di sapere regolata dalla logica contenente-contenuto. La logica della descrizione fenomenologica, che ho in mente e che mi pare richiesta dallo scenario globalizzato in cui viviamo, è invece una “logica” paradossale. Per suggerire cosa intendo, dirò che si tratta di trasformare il gioco tradizionale della verità a due valori contrapposti in un altro gioco in cui chi è nella posizione di soggetto (come è, per esempio, l’autore di un libro o comunque l’enunciatore di un discorso) non può più identificarsi esclusivamente in un valore, ma deve assecondare un movimento di oscillazione tra dentro e fuori. La metafora del “confine” può rappresentare questa posizione instabile o – come potremmo dire – di incessante sdoppiamento, sempre che per confine non intendiamo un muro che divide chi sta da una parte e chi sta dall’altra, bensì uno spazio abitabile, uno stare sulla soglia, che non solo partecipa di entrambi ma anche li unisce nella loro disgiunzione. Per me che vivo a Trieste, questa metafora corrisponde al vissuto quotidiano di una città. Quando, alla fine del 2007, il confine effettivo tra Italia e Slovenia è stato cancellato con l’empirica scomparsa del posto di frontiera, si è aperto un interessante confronto di 9


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opinioni ospitato dal quotidiano locale. Non tutte si sono limitate a discorsi di circostanza sulla positività dell’evento, alcune hanno rilanciato proprio la questione del dentro e del fuori. Che farsene di un fuori che non è più un fuori e di un dentro che non è più completamente garantito come tale? È chiaro che per rispondere a domande come queste, di ordine psicopolitico, occorre far vacillare l’idea abituale di confine e collocarsi in un luogo diverso da quello che si legittima attraverso la contrapposizione tra dentro e fuori. La metafora del confine inteso come soglia paradossale può a mio parere venire estesa a rappresentare il luogo possibile della cultura attuale e della sua produzione. Questo luogo ha a che fare con quella distanza che dovremmo cercare di abitare nel nostro corpo a corpo con la melassa appiccicosa di cui sembra fatta la realtà in cui siamo a bagno. Il problema si è rovesciato e adesso dobbiamo fare i conti con una prossimità che opacizza tutto e brucia ogni intervallo. Nello specifico, il problema è quello della differenziazione e della traducibilità in assenza di un traduttore universale e di un’identità filosoficamente forte. Di questa assenza, peraltro, dobbiamo convincerci come dell’unica pista che non ci metta subito fuori strada e renda inefficace la perlustrazione. Ho potuto sperimentare ciò che sto cercando di indicare attraverso l’esperienza culturale di una rivista filosofica, appunto “aut aut”, su cui da anni, precisamente dagli inizi degli anni settanta, sto affannandomi. La barbarie, che il richiamo kierkegaardiano voleva evocare fin nel suo logo – risalente al 1951 –, e che il fondatore, Enzo Paci, individuava nel peso e nella violenza delle false generalizzazioni, e insomma di una filosofia da padroni, si è trasformata fino a oggi assumendo molte figure allora impensabili ma mantenendo, direi, la propria sostanza. È invece molto cambiata la pretesa di una zona franca da cui condurre la battaglia cosiddetta culturale. Quanto ho accennato prima sull’uomo, ecc., è puntualmente riscontrabile in questo esempio di cui posso ampiamente testimoniare in prima persona, al punto che la contrapposizione escludente, strillata dal titolo, appare oggi da girarsi in un “et et” tutt’altro che accomodante. 10


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Il luogo da cui parlare è diventato lo scenario delle differenze e la possibilità di parlare, cioè di produrre un po’ di comunicazione, si misura adesso con la capacità di stare continuamente dentro e fuori dalle cose, occupando dunque l’inedito posto dell’altro, o meglio tentando ogni volta di collocarsi in un orizzonte mobile privo di un soggetto padrone. Cosa ha significato, nelle pratiche specifiche di “aut aut”, questo mutamento? All’inizio degli anni ottanta il taglio fenomenologico-marxista del decennio precedente ha lasciato il posto a un lavoro di “servizio” teorico alla ricerca di una cassetta di attrezzi per pensare, e questo impianto si è gradualmente sviluppato e precisato fino a oggi. Una specie di epoché applicata a se stessi. Per attrezzarsi a diventare un simile sismografo culturale, la rivista ha dovuto indagare territori nuovi, filosofici ed extrafilosofici, nel tentativo di disegnare una mappa aperta dei modi di pensare. Aby Warburg era un filosofo? Neppure Foucault lo è stato in senso stretto. Ancor meno Gregory Bateson. E così via, senza limitare generi e territori e mirando piuttosto alle pratiche e ai loro processi teorici, più o meno impliciti. Problemi? Una montagna di difficoltà, a cominciare dall’identità intellettuale del collaboratore di questa rivista cui non sono più bastate una formazione filosofica, pur mirata, né una tradizionale presa di partito culturale; per finire con il problema del linguaggio, perché si è resa necessaria una scrittura sempre meno specialistica e pur sempre rigorosa. In altre parole, dentro “aut aut”, abbiamo vissuto sulla nostra pelle questa esigenza di paradossalità (criticità a tutto campo, agilità nel passare da una pratica all’altra, smarcamento dalle seduzioni d’autore e di scuola, ecc.) che ho richiamato prima. E anche se ci sentiamo ogni volta inadeguati a questo compito, abbiamo la convinzione che questa sia l’unica strada che porta da qualche parte. Forse, verso quell’appassionato distanziamento di noi da noi stessi che non è una questione da delegare agli esploratori della psiche (non dico agli psicologi, né alla psicanalisi in senso stretto), ma da rilanciare come questione “politica” complessiva.

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Una società senza distanza potrebbe essere la barbarie dei giorni nostri. Le culture, tutti i giochi linguistici culturali, aprono un campo d’indagine di impressionante ampiezza, ma la “cultura” resta una pratica soggettivante, che produce soggettivazione. Il paradosso, contro cui battiamo la testa, e che tuttavia dobbiamo attraversare, è quello di una soggettivazione senza Soggetto (da scriversi, per chiarezza, con la maiuscola). Nel tentativo di abitare la distanza, in cui riassumo il compito arduo della cultura di oggi, nessuno può tirarsi fuori dallo scenario prendendosi da se stesso per i capelli, né può aggrapparsi a qualche figura di maestro assoluto. Infatti, tutti siamo imbarcati e tutti siamo osservatori (e non solo di un naufragio). Mantenere, almeno per un tratto, questa doppia identità, significa mettersi in grado di tenere quella distanza di cui sto parlando.

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Materiali

Il testo di Abdelmalek Sayad qui presentato è uno dei più significativi e celebri contributi al volume La misère du monde, uscito nel 1993 presso le Editions du Seuil a cura di Pierre Bourdieu. Come per prendere in contropiede l’ingenuità interessata e il discorso “esorcizzante” delle grandi istituzioni del potere politico costituito (“La France ne peut pas accueillir toute la misère du monde, mais elle doit savoir en prendre fidèlement sa part” – è la frase pronunciata nel 1990 da Michel Rocard, allora primo ministro socialista), Bourdieu raccolse un gruppo di suoi collaboratori – tra gli altri, oltre a Sayad, Remi Lenoir, Louis Pinto, Patrick Champagne, Loïc Wacquant, Alain Accardo – attorno a un progetto di ricerca “sul terreno”, nei luoghi stessi, cioè, di produzione e riproduzione delle varie forme di miseria sociale e di esclusione (o, per riprendere il suggerimento di Robert Castel in Les métamorphoses de la question sociale, di “disaffiliazione”) proprie della società francese contemporanea (ma non solo, evidentemente): i cosiddetti “quartieri difficili”, la scuola pubblica più marginalizzata e declassata, la fabbrica, il mondo della disoccupazione e della precarietà, del sottoproletariato generalizzato e del disagio familiare, della frustrazione come esperienza di vita quotidiana. Uno stesso malessere proteiforme e disseminato; forse la stessa miseria, ma vissuta differentemente a seconda del “punto di vista” considerato, vale a dire della prospettiva singolare implicata nella posizione che ogni “attore” occupa all’interno di uno spazio sociale in via di dis-integrazione: il lavoratore immigrato, il giovane disoccupato o “stagista”, il poliziotto, l’operatore sociale, l’insegnante, la studentessa beur, l’impiegato francese che vive il declino del suo status, la vicina di casa di una “famiglia di arabi” nel Grand Ensemble parigino o marsigliese, ecc. Non si tratta,


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pertanto, di uno studio statistico-quantitativo sui grandi “problemi sociali” che interessano lo Stato e i suoi funzionari (povertà, disoccupazione, delinquenza ecc.), ma di un’analisi spregiudicata degli “effetti di destino” – per usare le parole di Bourdieu – che le diverse tattiche (giuridiche, amministrative, socio-economiche, tecnoscientifiche) di gestione e di “problematizzazione” del sociale fanno subire a tutti quelli che, in un modo o in un altro, vi sono sottoposti; analisi che si intreccia ai racconti di questi ultimi, a cui gli autori danno la parola, come occasione per intraprendere un percorso di comprensione di se stessi e di ciò che pesa come una necessità sulle loro esistenze, che così diventano “emblematiche” senza perdere nulla della loro singolarità. In questo senso, il pezzo di Sayad è più che mai esemplare. L’intervista ad Abbas è stata raccolta nella sua lingua d’origine e riportata in francese da Sayad. Le poche espressioni della lingua francese utilizzate durante la conversazione dall’intervistato sono segnalate nel testo dall’autore. Ahmed Boubeker e Yassine Chaïb sono due tra i più interessanti studiosi dell’immigrazione in ambito francese e tra i più originali eredi della lezione di Sayad. Il primo insegna sociologia all’Università di Metz e ha pubblicato in questi ultimi anni dei testi diventati in poco tempo punti di riferimento imprescindibili in materia: Familles de l’intégration. Les ritournelles de l’ethnicité en pays jacobin, Stock, Paris 1999; Les mondes de l’ethnicité. La communauté d’expérience des héritiers de l’immigration maghrébine, Balland, Paris 2003; con Abdellali Hajjat ha curato il volume Histoire politique des immigrations (post)coloniales. France, 1920-2008, Editions Amsterdam, Paris 2008; ha inoltre partecipato all’opera collettiva curata da Pascal Blanchard, Nicolas Bancel e Sandrine Lemaire, La fracture coloniale. La société française au prisme de l’héritage colonial, La Découverte, Paris 2005. Yassine Chaïb è stato ricercatore presso l’Università di Aix-enProvence ed è attualmente direttore dell’Agence nationale pour la cohésion sociale et l’égalité des chances (ACSE) per la regione Picardia. Il suo libro L’émigré et la mort. La mort musulmane en France, di cui riportiamo l’introduzione, è uscito nel 2000 per le edizioni Edisud di Aix-en-Provence. [Davide Durì]


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La maledizione ABDELMALEK SAYAD

he vita è una vita da lavoratore immigrato? Per poter rispondere a questa domanda con cognizione di causa bisogna, innanzitutto, averla vissuta intensamente e, come si dice, “senza troppo rifletterci”; occorre poi che, grazie ad alcune particolari circostanze atte a favorire il distanziamento, come la morte dei genitori, l’emancipazione dei figli, maschi e femmine, la malattia, l’incidente sul lavoro, il prepensionamento e il pensionamento, che forniscono altrettante occasioni di provare la vacuità di un’esistenza che non ha senso se non attraverso il lavoro, si sia realizzata poco a poco quella particolare disposizione che permette di “tenersi a distanza dalla vita e dalle sue menzogne”, cioè dalle sue vanità, formula quasi rituale della saggezza tradizionale, qui usata in senso forte: “sospendere la (propria) vita per vedere cosa ne è stato”, dispiegarla di fronte a sé come un oggetto di osservazione, al quale, appunto, applicare tutta la capacità di riflessione acquisita nel corso di questa vita da coloro che hanno interesse a “conoscersi e a conoscere la vita a dispetto dei suoi inganni (ghadra: la trappola, il tradimento)”. Abbas, colui che parla in questi termini, è tra questi. Ex operaio, oggi in pensione, di una grande industria della regione parigina, egli è, a suo modo, un intellettuale. Più che le indicazioni,

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A. Sayad, La malediction – Avec un “travailleur immigré”. Entretien de Abdelmalek Sayad, in P. Bourdieu (a cura di), La misère du monde, Seuil, Paris 1993.

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brevi e allusive, che dà sulle proprie origini sociali (“mio padre non era fatto per essere fellah”,1 “mio nonno era il letterato della famiglia, ha sempre vissuto del Corano”), è tutto il suo discorso a fornirne la prova, in particolare quella sorta di distanza nei confronti di se stesso, che egli chiama, mestamente, “il mio divorzio da me stesso”. Potendo associare l’esperienza diretta, lungamente vissuta, della condizione di immigrato e l’atteggiamento riflessivo che permette di elaborare, per se stesso innanzitutto, questa esperienza, di sottoporla a un esame critico e, cosa ancora più rara, di comunicarla agli altri, attraverso il racconto apparentemente più ordinario (come in questo caso), egli riesce a sfuggire alla consueta alternativa tra un’esperienza muta e un discorso vuoto su un’esperienza inaccessibile (il mondo dell’immigrazione e l’esperienza di questo mondo restano, probabilmente, del tutto impenetrabili alla maggior parte di coloro che ne parlano). Con lui, l’indagato e l’osservato si fa indagatore e osservatore di se stesso, essendo la presenza dell’indagatore “professionista” nient’altro che l’occasione attesa per esprimere ad alta voce il prodotto, frutto di lunga riflessione e maturazione (“ho molto riflettuto su tutto questo… Per essere più precisi, non smetto mai di riflettere, di rimuginare in fondo a me tutti questi problemi”), dell’indagine che egli ha condotto su se stesso. Prodotto che non è lungi dall’identificarsi con quello della scienza, nella misura in cui l’indagatore e l’indagato, avendo lo stesso interesse nell’indagine che li riunisce, si accordano, senza che ci sia stato bisogno di una concertazione preliminare, sulla problematica, in modo tale che l’indagato si pone da sé le domande che l’indagatore vorrebbe porgli. Come si raggiunge questa capacità di “dimenticare se stessi”, come dice l’interessato, per meglio “ricordarsi di sé”? È ancora nell’intreccio di certe caratteristiche sociali, e in particolare nella relazione che la famiglia di Abbas intrattiene con il fatto di emigrare, relazione molto poco comune in una regione di così intensa e antica emigrazione verso la Francia, che va rintracciata l’ori1. Nel Maghreb, fellah è il contadino, l’uomo della terra e del lavoro agricolo. [Tutte le note al testo sono del traduttore.]

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gine del profondo disincanto che dispone al ritorno riflessivo su di sé. Le attuali condizioni di vita, per poter essere sopportate, spingono a rivolgere lo sguardo sul cammino che vi ha condotto, a partire dal famoso “primo giorno”, luogo della “maledizione” iniziale, e a ricostituirne la genesi sociale, fornendone anche una certa forma di spiegazione; ma, d’altra parte, le condizioni di ieri, rievocate con compiacimento, portano ad adottare sulla situazione di oggi il punto di vista critico che rende possibile la lucidità dei discorsi sulla propria traiettoria personale (che è anche una traiettoria collettiva) e, soprattutto, l’effetto di liberazione che produce il lavoro di autoanalisi e la confessione di sé a se stesso. Confessione dello stato di crisi cui è giunta questa “generazione” di immigrati, di cui si può parlare ormai solo al passato. “Oggi più niente è come pensavamo.” Questa “generazione” vive con drammaticità la rottura radicale rispetto alla situazione anteriore, che non è così lontana, e che lo spronatore di coscienze che è Abbas descrive retrospettivamente come uno “stato di sonno”, uno “stato di intorpidimento”. Cosciente di tutto ciò che lo separa dalla maggior parte degli altri immigrati, suoi contemporanei, di cui tuttavia condivide l’intera traiettoria e tutte le condizioni di vita – egli insiste su questa comunità di destino –, li richiama a una maggiore vigilanza; li invita a una specie di “risveglio” (fayaq). Convinto di aver compreso a fondo la propria situazione e di essersi fatto carico della propria “verità”, vorrebbe che tutti condividessero la “verità” che ha da proporre e che si impegnassero a produrre la loro propria “verità”, a farla finita con tutte le maschere e le dissimulazioni che l’immigrazione esige da tutti per poter essere accettata. L’esercizio non è facile, si tratta di una prova estremamente dolorosa, anche se tutti sanno che questa revisione lacerante è la condizione della propria sopravvivenza, della possibilità di resistere all’annientamento che li minaccia a causa dei cambiamenti verificatisi nelle loro condizioni di vita e soprattutto nella rappresentazione abituale che danno di se stessi e della loro posizione di immigrati. Abbas si sente in qualche modo predestinato al ruolo di spronatore di coscienze. Egli possiede un senso molto aristocratico della propria distinzione, che lo rende 17


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incline a una certa commiserazione nei confronti degli altri, i quali rifiutano la specie di ascesi che lui propone loro, non solo attraverso i suoi atti, ma anche e soprattutto attraverso le sue parole (“sono da compatire”, “bisogna aprire loro gli occhi […], ma si rifiutano”). Quelli della sua cerchia, compresi i familiari, lo guardano come fosse un’eccezione e provano nei suoi confronti l’ammirazione, il rispetto e l’attrazione, e anche, allo stesso tempo, il fastidio e l’irritazione, che suscita ogni eccezione. Consultato da tutti, dai più intimi ai semplici conoscenti, circondato spesso da un pubblico numeroso che viene ad ascoltarlo (lo chiamano cheikh, è un saggio), si è guadagnato una reputazione da “solitario” e si ripiega, quasi provocatoriamente, anche quando è in famiglia, in un “isolamento” che è finto e reale allo stesso tempo, e che l’inattività non ha fatto che rafforzare. Uomo di verità e di grande integrità morale, è temuto per la severità dei suoi giudizi e anche quando gli si è grati di aver detto la verità, spesso gli si rimprovera di averlo fatto. Ciò avviene, in particolare, ogni volta che si affronta il problema della situazione dei figli, occasione questa per avvertire, nel modo più evidente, la crisi profonda vissuta da tutte le famiglie immigrate, e che si traduce, in questo caso, con la rottura tra la generazione dei genitori e quella dei figli, prodotta in condizioni sociali e culturali del tutto diverse. Può ancora essere accettato che il saggio, cui capita spesso di essere anche un profeta di sventura, dica che l’emigrazione è stata uno “sbaglio”, che tutti si sono ingannati al riguardo. Ma quando dichiara che l’immigrazione delle famiglie – in primo luogo la sua – costituisce un tradimento, un rinnegamento, un’apostasia (nel senso religioso del termine) e che essa ha avuto come conseguenza una riconversione completa che fa sì che, come ama ripetere, “invece di lavorare per la (propria) prosperità, gli immigrati (con famiglia) lavorano in realtà per la posterità degli altri”, enuncia qualcosa che è molto difficile da sopportare, perché si tratta, allo stesso tempo, di una denuncia.

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Con un “lavoratore immigrato”

“Niente è stato come pensavamo” Abbas. Niente va per il verso giusto… E per rendersene conto, bisognava arrivare alla fine, ora che è tutto terminato… perché ci siamo ingannati su tutta la linea: niente è stato [letteralmente: niente è riuscito… nel senso che niente si è realizzato] come pensavamo. Io stesso non riesco a farmene una ragione. Dubito di me stesso… Penso di raccontarmi delle bugie. Ho molto riflettuto su tutto questo… Per essere più precisi, non smetto mai di riflettere, di rimuginare in fondo a me tutti questi problemi… E se dico che rifletto, è unicamente ora che sono arrivato a questo risultato, e per il fatto che sono arrivato al risultato [el-haqiqa, la verità, la realtà, la certezza] di oggi. Per il resto, sono sempre le stesse cose che girano per la testa. Come siamo arrivati a questo punto? Siamo rimasti gli stessi, siamo le stesse creature che eravamo il primo giorno [della nostra immigrazione in Francia]? Cos’è stato ad averci trasformati? A quando risale la nostra metamorfosi [in senso forte, per effetto di una maledizione divina]? Non l’abbiamo vista arrivare, ci è piombata addosso quando ormai era troppo tardi per reagire. Bisogna accettarla e basta… Bisogna accettarsi così. Non c’è più niente da fare. Se non rendere grazie a Dio. Lui sa quello che fa. Noi siamo solo dei giocattoli nelle sue mani. La sua volontà ci governa. Sayad. In cosa consiste questa “maledizione”? Perché questa “maledizione”? 19


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Abbas. Ma per comprendere questo, bisogna forse che le racconti tutto, sin dal primo giorno. Altrimenti non si può comprendere nulla. Io stesso, per comprendere la metamorfosi, devo ricordarmi del primo giorno, devo ricostruire l’itinerario che abbiamo percorso a partire da quel momento… Non sono l’unico… Ma gli altri hanno la fortuna di essere ciechi…, di non vedere nulla…, di non vedere niente delle cose che gli sono molto vicine, che sono sotto i loro occhi, che hanno dentro di sé. Non vedono niente e non sentono niente, hanno dimenticato tutto, non si ricordano di nulla. Sono fortunati. […] Anche se volessi, non saprei da dove cominciare… Solo nella testa si possono tenere insieme tutte queste cose. Quando bisogna esprimerle, anche solo per me stesso – mi capita di parlare a me stesso, di parlarmi ad alta voce, manca poco che mi prendano per un pazzo – arrivano tutte nello stesso momento, in blocco, si tengono insieme, non si può separarle. È confuso. Allora, anche quando parlo tra me e me, mi interrompo quasi subito: sto zitto e lascio che le cose si affollino, si mescolino, le lascio arrivare tutte insieme e ripartire come sono venute… Non è facile parlare di tutto questo. […] Ogni periodo ha i suoi problemi, le sue difficoltà e con l’età le cose peggiorano. Ma con l’età si sanno valutare meglio le cose, si impara a distinguerle: da una parte, le cose senza importanza, sulle quali prima ci si intestardiva; dall’altra, le cose più essenziali, che eravamo portati a trascurare, a disprezzare. Non sono le cose a essere cambiate strada facendo, siamo noi; è il nostro sguardo su queste cose che è cambiato nel frattempo. Sayad. Per esempio? Abbas. Per esempio: una volta ero sistemato molto male, avevo un’unica stanza con tre bambini, all’inizio… poi un appartamento fatiscente con cinque bambini. Ora sto in un vero appartamento, all’interno di un vero palazzo, anche se è un HLM;1 è sicura1. Gli immobili HLM (Habitation à loyer modéré) sono il corrispettivo francese delle nostre “case popolari”.

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mente un progresso. Ma è solo su questo punto che la situazione è cambiata: è proprio adesso che il problema dell’alloggio è risolto… che si scopre che, per quanto fosse reale, non è il problema, il vero problema – quello che niente può risolvere, il problema che non ha soluzione. Nessuno può fornire la soluzione, perché nessuna soluzione può venire dall’esterno. Ecco un esempio. Vuole che le dia un secondo esempio? Il lavoro, è la stessa cosa: ho conosciuto la disoccupazione, i magri salari, la miseria del lavoratore… tutto questo era un grosso problema a suo tempo; in seguito ho avuto un lavoro stabile, quindici anni nella stessa azienda, la paga è migliorata, non è una fortuna ma è sufficiente per mangiare, vestirsi, crescere i figli e mettere qualcosa da parte… Ma anche in questo caso scopro che, dopotutto, neanche questo problema, che preoccupava e che preoccupa tutti gli operai, ora che non si pone più per me… o che si pone diversamente, è il vero problema. Sayad. Allora qual è il vero problema? […] Non è questa la maledizione? Abbas. Il primo giorno! Qual è questo primo giorno? È quello che mi chiedo; pongo a me stesso la domanda. […] Ci ho molto riflettuto. Ho cercato di capire perché questo “primo giorno” è diverso per me dal “primo giorno” di tutti gli altri [immigrati], perché tutti hanno un “primo giorno”. Perché? Perché nella mia famiglia sono stato il primo a emigrare in Francia. Sayad. Chi c’era nella sua famiglia? Abbas. Mio padre, sua moglie, poiché mia madre è morta quando avevo dodici, tredici anni, un fratello più giovane, o meglio un fratellastro (era figlio di un’altra moglie di mio padre, morta anche lei nel 1948; all’epoca avevo diciassette o diciott’anni). Mio fratello maggiore, siamo fratelli di padre e di madre, è morto giovane, quando era ancora ragazzo, aveva forse diciotto, vent’anni. Mi ricordo di quel giorno: il 17 novembre 1951; è un giorno 21


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che non si può dimenticare. Erano già parecchi anni che assillavo mio padre per poter partire per la Francia. Lui faceva orecchie da mercante, opponeva resistenza… E tuttavia non nuotavamo nell’oro, eravamo la famiglia più povera del nostro ramo. E c’era una ragione per questo. Una ragione segreta, ma che faceva parte della nostra mentalità, del nostro modo di vedere le cose del mondo. Avevo ventun’anni, ero grande. Tra me e mio padre ci parlavamo per interposta persona. Io mandavo a lui le persone a cui potevo parlare di certe cose e alle quali mio padre accordava un certo credito. Lui, da parte sua, mi rispondeva allo stesso modo, ma non necessariamente utilizzando le stesse persone che gli avevo mandato io. Alla fine, si erano formati due gruppi: quelli che andavano da lui a fare i miei “avvocati” e quelli che lui mandava da me a fare i “difensori” della sua posizione. L’ho assillato così per due anni interi. Ho capito che avevo vinto la partita – se così si può dire – quando mio padre mi ha risposto e mi ha fornito le sue ragioni, cioè le ragioni del suo rifiuto, attraverso la stessa persona che gli avevo mandato io. […] Si tratta di un parente, una specie di saggio, un uomo molto serio, religioso, gran lavoratore, devoto, anche se ha passato tutta la vita in Francia. Mio padre lo stimava molto, era una stima reciproca. Grazie a questa persona, che tra l’altro faceva anche lui l’operaio in Francia, mio padre ha ammorbidito la sua posizione e la sua risposta, senza tuttavia darmi il suo consenso ufficiale […]. È in compagnia di questa persona, dunque, che sono arrivato in Francia. Era il mio primo viaggio fuori dal nostro villaggio e dai dintorni, il mio primo contatto con la città: il treno, Algeri, la nave, la Francia… Il 17 e 18 novembre 1951. Avevo ventun’anni […]. Mio padre (che al tempo consideravo un tiranno, una persona arretrata che voleva la miseria) mi aveva rivelato il motivo della sua opposizione proprio quel mattino del 17 novembre, quando, accompagnandoci e avendo raggiunto il punto in cui ci dovevamo congedare, al momento degli abbracci e ad alta voce, come per prendere a testimoni tutti quelli che erano lì, uomini e donne, visto che c’erano anche delle donne, le madri degli uomini che stavano per partire, mi disse: “Ascoltate tutti, Dio mi è testimone, 22


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io non ti ho mai chiesto di andare in Francia per me, per spedirmi del denaro dalla Francia. Non ho mai pensato, in tutta la mia vita, che mi sarebbe potuta succedere una cosa simile. Dover sostenermi con i soldi della Francia! Per me, è un’empietà. Ci tengo che tutti lo sappiano. Te ne supplico, tienili per te quei soldi, tienili laggiù; è un favore che mi farai, è più che un favore, è un ordine che ti do, risparmiami questa vergogna. Anche perché, se tu me li spedissi, non saprei che farmene. Né mangiarli, né bruciarli”. Furono le ultime parole di mio padre; è morto qualche anno dopo, senza che l’abbia più rivisto. Ma la cosa ancora peggiore è che sul momento non avevo capito niente di quella predica. Mi sono detto: che sceneggiata2 che mi sta facendo. È solo più tardi, quando era diventato troppo tardi, che ho compreso l’importanza delle sue parole. Non è questa la maledizione? Non è questa la maledizione che continua a perseguitarmi? E a perseguitare tutti gli altri, anche se non lo sanno…? […] I soldi della Francia sono soldi illeciti Sayad. Parliamo un po’ di suo padre. Chi era? Un contadino, che non era mai uscito da casa sua, che non aveva mai abbandonato i suoi campi, oppure aveva lavorato anche lui da qualche parte in cambio di un salario? Abbas. […] Mio padre, in teoria, non doveva fare il fellah. È diventato fellah per necessità, anche se non c’era neppure della terra da coltivare, o talmente poca che era una miseria [el-miziria]. Ma prima di parlare di mio padre, bisogna cominciare con mio nonno. Mio nonno era il più giovane della famiglia, aveva molti fratelli e zii [paterni]. Era il “letterato” della famiglia, l’ultimo [in età], un po’ mingherlino e di salute cagionevole; gli avevano fatto fare degli studi [coranici], ha sempre vissuto del Corano, all’inizio nelle zawija3 come taleb [discepolo]. Lei sa come andavano 2. L’espressione francese usata da Abbas è “quel cinéma”. 3. Le zawija sono delle confraternite islamiche, normalmente organizzate attorno a una moschea, o comunque a un luogo di preghiera per i fedeli, uno spazio riservato allo studio e alla meditazione e dei locali per ospitare gli indigenti.

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queste cose una volta. Tutti, i discepoli, i maestri e tutti gli uomini devoti [i “fratelli”] che frequentavano quei luoghi, tutte queste persone vivevano sul posto, vivevano insieme. La zawija riceveva doni, organizzava collette di provviste, noi andavamo in giro a raccoglierle, cucinavamo anche e studiavamo nello stesso tempo, tutti insieme. Lui è stato cresciuto in questo ambiente e si dice che, nonostante fosse sposato e con dei figli già grandi, gli capitava di piantare tutto e di ritornare di tanto in tanto nella zawija. Tutto il resto, le cose concrete della vita, evidentemente, non gli interessavano. Quando doveva lavorare, cioè guadagnare di che vivere, lo faceva mentre era taleb, in qualche villaggio e, come si faceva a quel tempo, veniva pagato in natura, solo lo stretto necessario per vivere. E, naturalmente, in occasione della spartizione dei terreni con i suoi fratelli e zii, egli fu la vittima. Non era là, non badava affatto a tutta quella faccenda, non sapeva neppure dov’erano le terre di famiglia. E col pretesto che non aveva mai lavorato, che non aveva faticato, che l’avevano viziato facendo di lui un letterato, gli è stata concessa una parte piccolissima, la parte più piccola dell’eredità; quasi niente. Lo hanno spogliato di tutto, semplicemente. E pare che, quando era in vita, non abbia mai detto nulla, non abbia mai protestato. Sembra che il primo a essersi amareggiato per questa vicenda, ad aver cercato in seguito di ribellarsi contro ciò che reputava essere un’ingiustizia, sia stato mio zio, il fratello maggiore di mio padre; non l’ho mai conosciuto, è morto prima che nascessi, o l’anno della mia nascita. Di lui si dice che fosse più deciso, più determinato, più energico di mio padre. Ma entrambi avevano la sensazione di aver perduto qualcosa e, soprattutto, di non essere fatti per ciò che erano diventati. Hanno accettato la cosa, si sono sottomessi, come diceva mio padre, a quello che il destino aveva loro assegnato. E non è che fosse disprezzo per il lavoro della terra, come si dice; assolutamente. Solo che non erano stati cresciuti nel mestiere di coltivatori, e inoltre di terra da coltivare non ce n’era. Hanno dovuto lavorare tantissimo. […] Probabilmente non sono arrivati alla fine della loro formazione coranica; erano forse cambiate le condizioni della professione di taleb? Fatto sta che hanno sempre dovuto 24


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lavorare con le loro mani, e loro non erano stati preparati a questo. Hanno lavorato molto nelle terre dei coloni come stagionali; sono riusciti entrambi ad acquisire una specializzazione, che gli ha risparmiato i lavori pesanti nelle fattorie, come la zappatura, la raccolta delle patate: hanno imparato a innestare la vite. Facevano due stagioni nel corso dell’anno: in primavera, la preparazione degli innesti o “l’innesto sulla tavola”, come si diceva; e, in autunno, “l’innesto sul solco”. Mio padre, in particolare, viaggiava da Tunisi al Marocco, era molto conosciuto e apprezzato. Ecco cosa è stata la mia famiglia […]. Sì, era già un’emigrazione [letteralmente, un’“uscita” fuori dal paese], ma un’emigrazione che non ha niente a che vedere con la mia… Era sempre all’interno del paese, non dovevano attraversare il mare; era un’emigrazione stagionale: da tre settimane a un mese e mezzo al massimo; era lavoro della terra, vivevano in campagna e non in città… E, soprattutto, per mio padre – è una cosa che gli ho spesso sentito uscire dalla bocca –, era qualcosa che restava sempre in terra musulmana. Era questo il suo problema, i soldi della Francia sono soldi sospetti, soldi detestabili, soldi illeciti. Lei capisce bene come lui non potesse desiderare quei soldi! […] Ha vissuto in questo modo tutta la sua vita, senza mai concedersi una tregua, senza avere un attimo di sollievo. Anche la mia emigrazione ha finito per corrispondere, in qualche modo, alle sue aspettative; mio malgrado, certo, del resto non l’ho voluto, ma è andata esattamente come mio padre aveva previsto e forse voluto. Non volevo accettare che mio padre, nella situazione di povertà in cui eravamo, potesse rifiutare i soldi che gli sarebbero entrati nelle tasche. Per me era incomprensibile; e poi mi dicevo che non ne aveva il diritto: se questa è la sua volontà, se ha deliberato così, se vuole vivere da asceta, non ha il diritto di imporre questo modo di vita agli altri, a sua moglie, ai miei fratelli e sorelle, grandi e piccoli. Sayad. In che modo la sua emigrazione avrebbe corrisposto alle aspettative di suo padre? Non capisco.

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Abbas. Ha corrisposto alle sue aspettative nel senso che lui non ha mai toccato un franco dei miei soldi. La vita non gliene ha lasciato il tempo; né a lui, né a me. Io sono arrivato in Francia in un pessimo periodo: dal 1951 al 1953 l’epoca era difficile. Non ho mai trovato un lavoro che mi piacesse, dei lavoretti soltanto, un po’ qui, un po’ là. Non mi sono dato da fare per inviargli dei soldi, come si faceva a quel tempo, perché mi aveva dichiarato il suo disagio: quei soldi erano leciti o erano proibiti? […] Non ho mai preso in prestito del denaro, una volta arrivato in Francia, per spedirglielo, come facevano tutti allora e come fanno ancora adesso: era questo che faceva credere che in Francia i soldi si raccogliessero per terra, che bastasse arrivare in Francia per trovare del denaro… prezioso, raro, impossibile – non solamente difficile – da guadagnare in Algeria. Tuttavia, non mi mancavano i sostegni in Francia: mio cognato, da cui sono andato appena sbarcato e presso cui ho abitato per un bel po’; mio zio materno, che era emigrato in Francia già da molto tempo, e molti altri ancora, tutti parenti più o meno prossimi […]. Proprio quando ero finalmente riuscito a sistemarmi bene e cominciavo a costruirmi il mio spazio, accadde l’inevitabile… la guerra e le sue disgrazie […]. Ma questa è un’altra storia. [A quanto si dice, suo padre fu una delle primissime vittime della guerra nella regione, durante la primavera del 1955.] Ecco il ricordo che conservo di mio padre… Non è tanto l’immagine del suo volto quando ci siamo lasciati – eravamo consapevoli che non ci saremmo mai più rivisti? Ma la sua voce, quella voce terribile che risuona ancora oggi nelle mie orecchie: “Ricordati… che tutti mi siano testimoni… non ho fatto nulla perché tu parta per la Francia, non te l’ho mai chiesto, non ti ho mai spinto a partire; al contrario, ho fatto di tutto affinché non ti venisse neppure l’idea… Tu hai deciso diversamente. Non posso impedirti…, dopo potrai rimproverare solo te stesso, ed è una cosa che non ti auguro”. E sì… vedeva lontano, lui. Non me lo ha augurato, ma è successo. Ciò che probabilmente temeva, alla fine è accaduto, e prima di quanto lui pensasse. Sento sempre quel saluto. Mi tormenta. Più passa il tempo, più si inscrive dentro di me. E aveva concluso dicendomi: “Ti auguro un cammino felice e che Dio sia con te…”. […] 26


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Noi sapevamo che la Francia non è il paradiso Sayad. Lei, dunque, è cresciuto in una famiglia che si potrebbe definire “intellettuale”. Che cosa ha comportato questo per lei? Abbas. Famiglia intellettuale? È un po’ esagerato. Mio nonno forse. Mio padre…, quella generazione, era già tutto finito… Quanto a me, per niente; non è più il tempo della devozione, e forse neanche della semplice fede, del credo. Sayad. Sì, ma comunque ne rimane qualcosa. Che cosa ha trovato in casa, quando era bambino, di questa eredità “intellettuale”? Abbas. Che cosa ho trovato in casa? Qualche tavoletta [sulle quali venivano scritte le sure del Corano], ed erano custodite con estrema cura, le prendevamo con rispetto, perché era la parola di Dio che era scritta lì, e inoltre mi dicevano: “Questa tavoletta è scritta dalla mano di tuo nonno o di tuo zio!”. Alcuni libri del Corano [nashka], abbastanza consumati, dovevano essere stati usati molto. […] C’era, comunque, all’interno di un cofanetto… intoccabile, un libretto che era la summa, il Corano nella sua totalità. A parte questi pochi esemplari, alcune opere… di giurisprudenza, in particolare Elboukhari [giureconsulto e teologo]. Lo so perché venivano a chiederlo in prestito a mio padre. Oltre a questo piccolo patrimonio, mio padre aveva conservato di suo cognato, il marito della più giovane delle sue sorelle, la mia zia più giovane, alcuni libri, dei commentari del Corano, dei volumi di storia religiosa e anche qualche rivista in arabo, tra cui “Elbassaïr” [la rivista dell’Associazione degli Ulema, negli anni cinquanta]. Ecco quale poteva essere il nutrimento di un letterato, che non era né un contadino, come tutti gli altri contadini, né veramente un letterato che potesse vivere esclusivamente del suo sapere. Mio padre rappresentava un caso intermedio. Aveva accettato, senza convinzione evidentemente, di abbandonare la sua condizione di letterato. Tutti ne erano a conoscenza e per questo lo rispettavano. Rispettavano in lui il contadino che era e lo ammiravano, poiché era partito per avere “le mani bianche” ed ecco che si adattava a meraviglia 27


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al suo mestiere di agricoltore. Ancora di più rispettavano la persona devota che era. Accadeva spesso che avesse priorità sul taleb del villaggio. Del resto, quest’ultimo faceva di tutto per avere l’accordo di mio padre. Mio padre lo aiutava in tutto, quando non c’era lo sostituiva per la preghiera, per il sermone del venerdì… Mio padre era presente a tutte le veglie funebri del villaggio e delle zone vicine, quando bisognava passare la notte in bianco a recitare il Corano. Ma non era un “professionista”, mio padre si è sempre rifiutato di toccare un soldo per questo servizio, mentre i taleb professionisti ricevevano il loro salario […]. Ecco chi era mio padre. E poi, all’epoca, uno non aveva scelta: partire per la Francia era la strada di tutti i giovani, ricchi o poveri; era il solo modo per dimostrare che uno, alla fine, era diventato un uomo, che non era più un bambino. In fondo a se stesso, mio padre non ha mai pensato che io avrei fatto come tutti quanti, che non aspettavo che questo…, l’età giusta per questo… Era tutto il contrario della vita che lui si immaginava e che immaginava per me. Non era più il tempo degli studi, ma del lavoro; e il lavoro, quello vero, è in Francia. Sayad. Viste le condizioni, ha ricevuto anche lei una formazione coranica? Abbas. Quando è arrivato il mio turno, era già troppo tardi. Anche per mio fratello maggiore, che ha conosciuto meglio suo nonno – dicono che sia morto nel 1931 –, era già troppo tardi, non ha potuto beneficiare dell’insegnamento che ci si poteva attendere. […] Da giovane, mi dividevo tra il lavoro della terra e l’apprendimento del Corano. Era sempre nella piccola moschea del villaggio e, soprattutto, era d’inverno. D’estate, i lavori dei campi non ce ne lasciavano il tempo. Ho avuto perlomeno la fortuna di aver conosciuto un maestro molto bravo. Era un saggio, una persona coscienziosa. Ma tutto questo non era altro che bricolage [in francese]. Quando finalmente, alla moschea del villaggio, sono arrivato al quarto [quindici capitoli, un quarto dei sessanta capitoli che compongono il Corano], avevo già tredici, quattordici anni. 28


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Era miseria nera, non si trovava niente da mangiare, le epidemie, la gente moriva senza poterla contare. Mio padre ha voluto che proseguissi ancora. Era quindi necessario che andassi nella scuola di una zawija. […] Ero anche ammalato… Questa malattia è durata fino a quando sono arrivato in Francia, dove mi hanno ricoverato in occasione di una crisi; avevo dei “sassi nei reni”. È per questo che ho mollato tutto, non volevo saperne più nulla di quella vita. Chiaramente, quando sono tornato a casa e mi sono rifiutato di ripartire [per la zawija], è cominciato il dissenso con mio padre; ci evitavamo. Questa atmosfera di discordia è durata, più o meno intensamente, fino alla mia partenza per la Francia. Ecco le condizioni nelle quali sono arrivato in Francia. Già all’inizio, come vedi, non era una gran gioia; è il meno che si possa dire. Non fa mai piacere abbandonare la propria famiglia, il proprio paese per un altro luogo. Anche se sogniamo questo altrove, anche se ci aspettiamo molto da esso, è sempre con rimpianto e con dolore che si abbandonano i propri cari e il proprio mondo familiare. Quando sento dire che noi siamo tutti emigrati in Francia perché ci immaginavamo che la Francia fosse il paradiso, mi domando se non ci prendono per dei bambini! Noi sapevamo che la Francia non è il paradiso; sapevamo, anzi, che per certi versi è l’inferno […]. Nel mio caso, era anche più di questo: non si tratta soltanto del dolore della separazione, del venir meno di quella fiducia che si ha quando si è a casa propria, la paura dell’ignoto verso il quale ci si dirige oppure la nostalgia che si prova e che, a volte, ti prende alle budella; vi si aggiunge il rimorso, il rimorso della disubbidienza. Anche se in apparenza ha acconsentito, in fondo al suo cuore mio padre non ha mai dato il suo assenso alla mia partenza per la Francia, è stato un assenso di pura forma. Questo io non me lo perdono. E me lo perdono ancora meno, in quanto non so come mi sono ritrovato nella situazione attuale: quasi quarant’anni dopo, con moglie e figli, mentre credevo di essere venuto in Francia da solo, per lavorare qualche mese, qualche anno, due o tre anni al massimo. In questi quarant’anni, sommando tutti i miei soggiorni in Algeria, non arrivo a sei mesi di tempo trascorso al paese. Va’ a sapere perché! 29


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Qualcuno lo ha veramente voluto? Sayad. Il perché me lo potrà dire lei. O, più esattamente, com’è successo tutto questo? Abbas. Poco dopo la mia partenza, sono cominciate le sciagure, le crudeltà della guerra. Ancor prima di avere avuto il tempo di rimettermi dalle difficoltà degli inizi, poiché ero rimasto a lungo disoccupato durante il primo anno, di abituarmi alla Francia e alla mia nuova situazione, arrivarono le disgrazie d’Algeria. Né il nostro villaggio, né la nostra famiglia sono stati risparmiati. All’inizio c’era un entusiasmo generale…, tutti erano volontari, chi come mujaheddin, chi come mousabal. Si credeva di vivere già in un’Algeria indipendente. Anche quelli di cui si avevano tutti i motivi di diffidare, erano a favore…, avevano fatto onorevole ammenda e spingevano persino al rilancio. […] Quando, in seguito, l’esercito ha occupato il villaggio, questi qui erano in prima fila; divennero le guide e gli informatori dei soldati. Sono successe cose atroci da una parte e dall’altra. È in questo contesto che mio padre ha trovato la morte. Il villaggio occupato, la guerra tra i clan del villaggio, le zone vietate tutt’attorno,4 i bombardamenti dell’aviazione, era il fuggi fuggi generale. Chi poteva partire e aveva dove andare, un posto dove rifugiarsi, è scappato, da solo o con la famiglia. È in questo modo che mia moglie e anche mia sorella con i suoi bambini sono state recuperate da un parente che si era stabilito nei dintorni di Algeri. E un giorno di primavera del 1956, sbarcano tutti in Francia, accompagnati da questo parente che non ne poteva più. […] Ci ha messo di fronte al fatto compiuto […]. Mia sorella aveva anche suo marito in Francia… Aveva già tre bambini. Anch’io 4. Intere aree dell’Algeria (soprattutto nel nord berberofono) furono letteralmente svuotate dalle popolazioni che le abitavano e dichiarate interdites dalle autorità militari francesi, allo scopo di isolare i miliziani dell’ALN (Armée de libération nationale) – il braccio armato dell’FLN (Front de libération nationale) – , che in quelle zone principalmente si rifugiavano, protetti e sostenuti dalle comunità locali. Le popolazioni evacuate furono poi raggruppate nei “centri di raccolta” (centres de regroupement), gestiti direttamente dall’esercito. Per un’analisi della politica dei “raggruppamenti” e dei suoi effetti sulle strutture sociali, economiche e culturali della società “tradizionale” algerina, cfr. P. Bourdieu, A. Sayad, Le déracinement. La crise de l’agriculture traditionelle en Algérie, Minuit, Paris 1964.

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avevo una bambina appena nata. Eravamo, dunque, due famiglie. Non era una sciocchezza. Inoltre, non eravamo affatto preparati a quest’arrivo, perché non c’era una comunicazione regolare con il paese. Quindi, abbiamo dovuto improvvisare completamente. Non possedevamo un alloggio come un appartamento per famiglie, grande o piccolo che fosse. E non era certo nella Parigi di quegli anni che si poteva ottenere un appartamento HLM. Nessuna possibilità. Ci siamo arrangiati da soli, con i nostri mezzi. Come si fa sempre nei casi d’urgenza. Dall’oggi al domani… Di più: capitava nella medesima giornata, nell’arco di una giornata, dal mattino alla sera, che dovevamo trovare una sistemazione per le due famiglie. Non eravamo i soli in quella condizione; le famiglie cominciavano ad arrivare da tutte le parti, probabilmente per le nostre stesse ragioni, ragioni di guerra, di insicurezza, di morte. Cosa avevamo come abitazione? Una camera d’hotel che condividevamo in tre o quattro, nel XVIII, XIX, XX arrondissement, a Belleville, Ménilmontant, rue de Meaux, rue Secrétan; io le ho fatte tutte, queste strade. Ed ero anche un privilegiato: eravamo solo in due a condividere mensilmente la stessa camera, abitavo con un parente del mio stesso villaggio che era mio coetaneo e la camera era sua, a suo nome. Allora me l’ha lasciata. Lui è andato a stare da altre persone che lo hanno accolto. Abbiamo deciso di radunare tutta quella gente nell’unica stanza libera – ciò, tra l’altro, permetteva a mia moglie e a mia sorella di tenersi compagnia, perché loro non conoscevano nessuno e non conoscevano niente della Francia – e la sera, quando tutto era sistemato ed erano andati tutti a letto, io e mio cognato andavamo a dormire da un’altra parte, dove trovavamo un posto. Questa situazione è andata avanti così per molto tempo: abitare in famiglia in una sola stanza, una camera d’hotel… In seguito, com’era di regola a quei tempi, abbiamo fatto una deviazione per la vecchia bidonville, le baracche di Nanterre […]. Ecco qua. In fin dei conti, ora che tutta questa storia fa parte del passato e che si comincia a guardare dietro di sé (guardare dietro di me: non faccio che questo), possiamo dire di averlo veramente voluto? Di aver voluto passare la nostra intera vita in 31


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Francia…, senza neppure che ce ne rendessimo conto, senza che ci accorgessimo che stavamo, in realtà, riempiendo la Francia dei nostri figli, mentre credevamo di averli per noi, che fossero nostri! Qualcuno lo ha veramente voluto? Qualcuno ci ha solamente pensato? Per quel che mi riguarda, confesso che all’epoca non avevo mai preso in considerazione una cosa simile. Mai. Non potevo proprio… E nessuno poteva pensare a questo. Ho davvero voluto venire in Francia e lavorare qui per tutta la mia vita? E, tuttavia, è ciò che è successo. Ho davvero voluto far venire in Francia mia moglie e i miei figli? Sinceramente, non posso dirlo, è una cosa che non posso confessare a me stesso. Ai miei tempi, ciò faceva ancora parte delle cose proibite, nessuno ne parlava; era la vergogna. Eppure, è ciò che è accaduto. È accaduto a me e a numerosi altri come me, se non addirittura a quasi tutti. Prima, erano solo casi rari; quelli che avevano con sé la propria famiglia in Francia erano delle eccezioni. […] Si accettano le cose così come vengono. Uno che sta qui, in Francia, con la sua famiglia fatta venire da laggiù – ora, invece, sono sempre più numerosi quelli che si sposano qui – non può che dire a se stesso e a tutti gli altri che ha fatto una buona cosa. (Non dicono di noi emigrati in Francia, che siamo vedovi delle nostre spose ancora vive, che siamo orfani dei nostri figli?) Quello che non ha con sé la propria famiglia, semplicemente perché il caso non ha voluto che ci fosse emigrazione familiare, si prende la rivincita sostenendo che è per sua volontà che sta in Francia da solo, poiché gli ripugna la leggerezza a cui si lasciano andare gli uomini di poco onore. Non si sente che questo tra emigrati, da quando c’è l’abitudine di far venire le famiglie: ognuno difende la propria causa, oggi come ieri; e tutti quanti fanno come se avessero realmente voluto la loro situazione, trovandovi allora solo dei vantaggi. Queste discussioni interminabili, io le sento da quando è aumentata la presenza delle famiglie in Francia, e da quando è finita la guerra in Algeria […]. Perché? Perché non c’è più, vero o falso che fosse, il pretesto della guerra e dei rischi legati allo stato di guerra. […]

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È giunto il momento di rendersi conto del fallimento Sayad. Ma che altro fare? Abbas. È vero. Anch’io sono impotente, il più impotente di tutti. Ma non mi piace chiudere gli occhi. Non mi va che ci si fabbrichi delle illusioni [delle finzioni]. La verità è innanzitutto dentro di noi (o tra di noi), la dobbiamo innanzitutto a noi stessi […]. Ed è questa verità che cerco di dire a me stesso e agli altri: a me innanzitutto – e in questo caso me la dico in silenzio – e poi agli altri – se solo potessi –, ma sfortunatamente, sono cose impossibili da dire. […] Mi considerano un “selvaggio”. È ciò che sento dire di me; quando vogliono essere gentili, dicono “è un uomo che dice la verità, che parla saggiamente, ma non si può vivere con lui, nessuno può sopportarlo!”. Ecco cosa sento dire di me… È vero. La verità fa male, e deve fare male. Quando non fa male, è sospetta. Non sono io che lo dico, è il Corano. Mio padre me l’ha insegnato, me l’ha sempre ripetuto e io lo ripeto a me stesso, continuamente… La verità fa male, è per questo, forse, che preferisco dirmela in silenzio… Così non offendo nessuno… e nessuno offende me per questo. […] Sayad. Perché dire la verità, dire all’immigrato la sua propria verità, quella che lei ha in mente, diventa un’offesa? Perché equivale a insultarlo? Abbas. La colpa non sta nell’essere emigrati per venire qui a lavorare. Sta in tutto quello che è venuto dopo, nel modo in cui ciascuno ha trascorso tutto questo tempo in Francia: in ciò che ha fatto, innanzitutto, di se stesso durante tutto questo tempo; e poi, in ciò che ha fatto della propria famiglia, dei propri figli. È tutto questo. Quando oggi ci guardiamo indietro, quando tiriamo le somme, molto tempo dopo, a cose fatte, ora che siamo alla fine della nostra vita qui in Francia, perché ci avviciniamo alla fine vera e propria della vita, ci avviciniamo alla morte, allora è giunto il momento di rendersi conto del fallimento [el khala] totale. Non è una cosa bella. Lungo la strada c’è stato disordine; nel corso del nostro cammi33


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no abbiamo deviato verso l’Occidente [abbiamo perso “l’Oriente” per l’Occidente, che è anche il significato dell’esilio].5 Sayad. Perché? Lei sembra voler dire che c’è stato come un “tradimento”, uno sbaglio, che non riguarda solo il comportamento, ma che è uno sbaglio compiuto su se stessi e contro se stessi; come un rinnegamento di sé. Abbas. Sì, è proprio così. Noi abbiamo rinnegato tutto, noi stessi, i nostri antenati, le nostre origini, la nostra religione. Abbiamo commesso apostasia. […] Quella moschea all’interno della fabbrica è una vera e propria menzogna [Quest’uomo, che ha così ben compreso la propria condizione di immigrato e gli effetti inevitabili che l’immigrazione ha prodotto su di lui e su quelli che gli sono vicino, ha compreso anche il ruolo politico che viene fatto svolgere a una religione dominata nell’operazione di “addomesticamento dei dominati”.] Abbas. Non è la moschea, né la preghiera, a fare il musulmano. Si può pregare, andare tutti i giorni alla moschea, ma la preghiera non può nulla se il cuore di una persona è nero, se ha una macchia, se tutte le sue azioni vanno di traverso. È solo un modo per mostrarsi agli altri, un’ipocrisia [elkhobth], e la religione è sempre stata piena di ipocriti. Ma c’è qualcosa di ancora più grave… se fosse solo questo, non sarebbe un grosso problema, ma il fatto è che gli “ipocriti” vengono sempre ascoltati. Mi ricordo quando lavoravo ancora, si è molto parlato di una moschea all’interno della fabbrica, è una cosa su cui si è fatto un gran chiasso. Tutti intervenivano. Ognuno aveva il suo modo di considerare il problema: certi erano a favore…, certi contro… Perché una moschea in 5. El-ghorba, “esilio” in berbero, significa letteralmente “la caduta”, “il tramontare”, “l’oscurità”, “l’Occidente”. Cfr. A. Sayad, “La colpa originaria e la menzogna collettiva”, in La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato (1999), Raffaello Cortina, Milano 2002.

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fabbrica? Non si era mai vista una cosa del genere prima. Quella moschea, in realtà, è una vera e propria menzogna. Se n’era parlato molto all’epoca. Ci serve una moschea. Non so più cosa succede oggi nella fabbrica, l’ho lasciata, ma so che tutti, a cominciare da quelli che più degli altri si ostinavano a reclamare la moschea, hanno dimenticato che c’è stata una moschea nella fabbrica. È stato un fuoco di paglia. Una volta vinta la partita – e si può dire che l’hanno vinta –, la moschea non aveva più alcuna importanza, si è scoperta la verità di tutta la faccenda che è stata montata, e montata ad arte, e cioè che la moschea, in sé e per sé, non aveva nessuna importanza: non era della moschea che si trattava in realtà, ma di qualcos’altro; e così per tutti, tutti si trovarono d’accordo su questo, tutti sono andati in quella direzione. Io conoscevo molto bene quelli che all’epoca facevano i gradassi dicendo: “Vi daremo una moschea qui; che lo vogliano o no, ci faremo dare la moschea!”. Forse pensavano che così sarebbero andati dritti dritti in paradiso. […] Che gli venisse rifiutata la moschea, questa sarebbe stata la loro vittoria, perché, in tal caso, la moschea avrebbe avuto un prezzo, il suo vero prezzo. Invece gliel’hanno gettata in faccia, come qualcosa che non vale niente; costa meno di 100 franchi di aumento al mese, un aumento per il quale sarebbe stato necessario scioperare, manifestare, fare delle agitazioni con i sindacati, negoziare per settimane intere, prima di ottenerlo. Una moschea vale di meno, ha meno importanza di pochi franchi. Ma erano in grado di comprenderlo? Né gli uni, né gli altri. Quando dicono: “Non c’è una chiesa, ma ci sarà una moschea”, non sanno che la lotta sarebbe stata durissima, se qualche matto si fosse messo a reclamare una chiesa. Ma da loro, come si sa, matti di questo tipo non ce ne possono essere. E per loro la chiesa è una cosa talmente degna di rispetto che non la infangherebbero mai mettendola dentro la fabbrica. […] Anche adesso che sono in pensione, che ho mollato la fabbrica e non so più cosa succede là dentro, mi chiedo sempre perché hanno accettato di aprire una sala e chiamarla moschea. Perché la fabbrica ha accettato questo, perché la Francia l’ha accettato? Non posso fornire la prova, non ce l’ho. Ma sono certo che è con35


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tro l’islam che la fabbrica l’ha accettato ed è contro l’islam che la Francia l’ha accettato… Sayad. Perché? Per il fatto che la Francia è un paese cristiano? Abbas. No, non è perché la Francia è cristiana. È perché la Francia se ne frega. Non è minimamente interessata. Né all’islam, né alla propria religione. […] “Quelli vogliono una moschea, l’avranno; diamo loro una moschea, l’importante è che ci lascino in pace…” Ecco come, da parte mia, ho capito questa faccenda. Si è trattato piuttosto di disprezzo. […] Sì, toccava a noi imporre il rispetto dovuto alla religione e mettere in riga gli agitatori che credevano di ottenere popolarità esigendo la moschea… Bisognava sentirli a quel tempo. Andavano in giro dappertutto a dire che avrebbero piegato i padroni, il governo, la Francia e tutti quanti. Presentavano la cosa come una sfida, una maniera per creare problemi alla direzione: o quest’ultima cedeva, e allora quelli si sarebbero creduti vittoriosi, degli eroi; oppure la direzione rifiutava, e in tal caso quelli avrebbero vinto ancora, poiché avevano dimostrato il coraggio di ingaggiare contro la fabbrica una lotta come non si era mai vista. Se si vince, tanto meglio; se no, si avrà comunque dato fastidio alla direzione. In entrambi i casi, la loro intenzione era di apparire come dei buoni musulmani, dei difensori dell’islam. Noi non potevamo andare apertamente in guerra contro tutti quanti, perché è proprio contro tutti che avremmo dovuto batterci, contro quelli che chiedevano la moschea al padrone, contro tutti gli operai musulmani o che si credono tali – saremmo apparsi allora come dei nemici della moschea e della religione –, e anche, disgraziatamente, ed è qui che la cosa dispiace, contro l’azienda che probabilmente non aveva voglia di entrare in conflitto con una parte del personale. Per quale motivo? Per una moschea! L’azienda accetta lo scontro quando si tratta dei salari, delle condizioni di lavoro, ma per una volgare moschea, cioè in definitiva per cosa? Un capannone, quindici metri quadrati… non vale la pena. E di certo intende prendersi la rivincita, rifarsi e far pagare la propria generosità, la propria tolleranza, che non le 36


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costa nulla, con qualcos’altro. Al momento giusto se ne ricorderà e dirà: “Volevate una moschea e noi ve l’abbiamo data; una moschea all’interno della fabbrica vuol dire un quarto d’ora tolto all’orario di lavoro…”. E per l’azienda ciò riguarda tutti gli operai che sono di religione musulmana, non le interessa sapere chi prega e chi no. “Un quarto d’ora, senza riduzione di salario, significa un aumento salariale dello stesso importo, e questo aumento di fatto bisogna recuperarlo prima di poter prendere in considerazione ogni altro eventuale aumento.” Ecco cosa dirà la direzione della fabbrica e avrà ragione. In altri termini, saranno alla fine gli operai che sono buoni musulmani, quelli che continuano come sempre a pregare a casa loro, e anche tutti gli altri operai non musulmani, saranno loro a pagare il conto. […] La moschea, dunque, non è la moschea, non è per la moschea e in quanto moschea che la si chiede; si tratta di altro. E questo lo sanno tutti: i sostenitori della moschea, i sindacati che li sostengono senza davvero aiutarli, tutti gli operai musulmani, la direzione della fabbrica. L’immigrato è “due volte una vergogna” Sayad. Ho l’impressione che mi spiegava cosa vuol dire essere un immigrato. Abbas. Era per dirti che l’immigrato è una vergogna. È due volte una vergogna: la vergogna di essere qui, perché c’è sempre qualcuno pronto a chiederti e a farti chiedere – a farti chiedere a te stesso, è in questo modo che l’ho percepito per tutta la mia vita – perché, per quali ragioni sei qui; tu non dovresti essere qui, sei di troppo, non è questo il tuo posto; non so se tu vivi la cosa allo stesso modo, oppure se è solamente un mio errore, se dipende soltanto da me, come una specie di follia, se dipende dal pazzo che sono, ma sono sicuro che è così per tutti, anche se varia a seconda delle persone, perché questo vuol dire essere un immigrato ed è qui, con l’esperienza acquisita qui, che lo si impara. Bisogna esserci passati […]. Sayad. Qual è la seconda vergogna? 37


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Abbas. La seconda vergogna è laggiù; è aver lasciato il paese, essere partiti da là, essere emigrati. Perché, che lo si voglia o no, emigrare rimane sempre una colpa, anche quando tutti cercano di nasconderlo, di nasconderlo a se stessi, anche quando nessuno vuole saperne niente. Si fa di tutto per farsi perdonare e per perdonare questa “colpa” necessaria, questa “colpa” utile, questa “colpa” che nessuno vorrebbe dover considerare come una “colpa”. È questa la “vergogna” dell’emigrato ed è, che lo si voglia o no, la “vergogna” di se stesso, la “vergogna” dei suoi, la “vergogna” dell’Algeria… Tutte le volte che mi insultano in quanto immigrato, in quanto algerino, è l’Algeria a essere insultata […]. Sayad. In altri termini, l’immagine dell’emigrato nel paese d’emigrazione non è migliore di quella dell’immigrato nel paese d’immigrazione. Abbas. Per niente. Anzi, è certamente peggiore. Prima non era così. Era una situazione più sana. Si emigrava per lavorare, per le nostre famiglie, era dura per tutti; ci compativano, ma era impossibile che ci accusassero di qualcosa. Se ci lanciavano delle accuse, era unicamente quando fallivamo o quando eravamo venuti meno ai nostri obblighi, quando dimenticavamo di spedire i soldi. Da una parte e dall’altra, c’era un accordo totale, si parlava lo stesso linguaggio: i nostri uomini emigravano per lavorare per noi; noi emigriamo per lavorare per le nostre famiglie! Ma non poteva continuare per sempre così. Tutto è cambiato, soprattutto da quando gli uomini, in maggioranza, sono emigrati in Francia con le proprie famiglie. Queste famiglie non potevano più dire: “I nostri uomini sono emigrati per noi” e noi, gli emigrati, non possiamo più dire: “Siamo emigrati per le nostre famiglie”. Ora succede che ci si mandi degli insulti: da una parte e dall’altra, ognuno fa il processo all’altro; ognuno dice all’altro che non vale niente. Soprattutto adesso, che ci sono di mezzo affari di soldi, quelle che tutti, qui e laggiù, chiamano le valute: ora il denaro si vende e si compra, non inviamo più i soldi alle famiglie, come facevano gli emigrati per essere degli emigrati che lavoravano per le loro famiglie. Tutti vengono in Fran38


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cia ad acquistare valuta e, qui, tutti quanti vendono valuta, ma, a causa di ciò, tutti si accusano, tutti si detestano. Si dice che la popolazione che sta laggiù, che non dispone di nulla e a cui manca tutto, mangia solo grazie a noi e vive sulle nostre spalle. Sayad. A quanto è adesso il cambio parallelo, il “mercato nero” del denaro? Abbas. Quando vuoi fare un favore, perché si tratta di un parente o di un amico, allora è di 1 a 6; altrimenti è 7. Si dice persino che salirà a 8. E perché no, non c’è ragione perché un giorno smetta di salire […]. Proprio così, 6, 7, 8 dinari per un franco francese! Ma siccome laggiù tutto è caro e tutto si compra al mercato nero, allora ci rendono il servizio. Dal momento che arrivi là, per tutto ciò che vuoi fare e per tutto quello che vuoi comprare, dicono: “È la Francia che paga!”.6 Ci guardiamo a vicenda, niente di più Sayad. Come avviene? Non se ne rammarica? I suoi figli, sia i maschi che le femmine, se la cavano bene, come va tra di voi? Abbas. […] Per prima cosa, in tutto ciò che ho detto finora, quando parlo degli altri… apparentemente degli altri, io parlo anche di me… So, sento che questo lo ha già capito ed è perché l’ha capito che posso confessarlo. E quando parlo di me, io parlo anche degli altri… Sayad. Sembra, tuttavia, che lei rimproveri agli altri e soffra del fatto che gli altri non tengono su se stessi il linguaggio che lei tiene su di loro e, quindi, anche su di lei. Abbas. Questo non importa. Noi non diciamo affatto le stesse cose, non ci diciamo le stesse e identiche cose, ma nonostante questo parliamo tutti delle stesse cose, in modo diverso forse, ma in 6. “C’est la France qui paie!” è l’espressione francese che Abbas usa.

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fondo è lo stesso: parola di verità o parola di menzogna, noi diciamo la stessa cosa, ciascuno a modo suo, perché ci troviamo tutti nella stessa condizione. Ognuno regola i suoi conti come può. Sayad. Ma lei può parlare dei suoi figli negli stessi termini in cui parla dei figli degli altri? Quando, per esempio, vediamo tutte le tragedie che colpiscono questi ragazzi, la disoccupazione, la droga, la violenza, spesso la prigione, non si può dire la stessa cosa dei suoi figli. Sono tranquilli, sembra che ce l’abbiano fatta. Abbas. Oh! Non è poi così vero… Più o meno. Ma dappertutto è la stessa cosa. In certi casi è vero, il peggio non è accaduto, ma sarebbe potuto accadere. È qualcosa che ci riguarda tutti… Ci si può chiedere: che senso ha avere dei figli in queste condizioni, dei figli come questi qui? Ci guardiamo a vicenda, niente di più; ci incrociamo in casa e, inoltre, ognuno ha il suo orario. Se ne avessero voglia, potremmo restare mesi e mesi senza vederci, anche se viviamo sotto lo stesso tetto. Sayad. E perché è così? Abbas. Perché? Perché mio padre mi ha cresciuto in modo diverso da come io ho cresciuto i miei figli. Sayad. Avrebbe voluto crescerli come suo padre ha fatto con lei? Abbas. No, non necessariamente; al contrario, perché so che non è una cosa possibile… E poi perché non sono contento del modo in cui mio padre mi ha tirato su. Ma il modo in cui sono stato cresciuto è dipeso dal fatto che i miei genitori non potevano [fare] diversamente. Né loro, né tutti gli altri. Era così e basta. Ma la situazione è cambiata – qui è completamente diverso – e perciò potevo sperare, ero in diritto di pensare che le cose potevano andare diversamente. Sayad. E invece, le cose non sono andate diversamente? […] 40


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Abbas. No, non si tratta di come occupano il tempo quelli che lavorano. Al contrario, è perché non lavorano che passano il tempo in modo diverso: dormire fino a metà pomeriggio, alzarsi e prepararsi un’abbondante colazione, uscire per rientrare solo all’una o alle due del mattino; se si ha fame, si apre il frigorifero e ci si serve, si va a dormire fino a mezzogiorno o all’una del pomeriggio del giorno dopo e si ricomincia […]. La casa non riunisce, come lei dice. E non sono soltanto le occupazioni della giornata, o il lavoro, che separano o riuniscono. Il fatto è che, in realtà, ognuno va avanti per la propria strada, ognuno segue la propria direzione. E le nostre strade non si incrociano più. E questo vale per tutto. Nei nostri modi di lavorare, nei nostri modi di vedere, nei nostri modi di guadagnare e di spendere i nostri soldi, nei nostri modi di mangiare e di bere […]. Ma questo non solo in rapporto alla religione; anche quando non commettono peccato, non è lo stesso, non hanno lo stesso modo di bere e di mangiare. Il risultato è che ci allontaniamo sempre di più gli uni dagli altri. Ci lega una sola cosa: io sono il loro padre, la loro madre è la loro madre, noi siamo i loro genitori, loro sono i nostri figli. Ma loro dicono lo stesso? Dicono di essere i nostri figli? Non è così sicuro […]. Viviamo in due mondi differenti; ciascuno secondo la propria mentalità. È normale che non ci sia niente tra di noi… Eccetto che in qualche raro caso, quando capita una catastrofe. E questo nella migliore delle ipotesi: quando, per una cosa importante, chiamo uno dei miei figli vicino e gli chiedo di ascoltarmi bene, di prestare attenzione a ciò che gli sto per dire, forse allora si ricordano che c’è qualcosa che ci unisce. Sayad. Per quello che riguarda i suoi figli, faccio fatica a immaginare che le cose vadano così male come lei dice. Abbas. Sì. È così. E questo nel migliore dei casi; come avviene con i miei figli. E tuttavia non ci sono litigi, nessuno alza la voce. Tutto viene fatto molto educatamente. Ma è così. Ogni tanto – e più con la loro madre che con me –, ogni tanto c’è uno scambio reale. Per il resto, viviamo insieme; tutto qui. […] 41


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È come se volessero lavorare soltanto quando gli fa comodo Sayad. Quanti anni ha, quindi, il primo e che cosa fa? Abbas. Il primo, è H… Adesso ha… È nato prima dell’indipendenza [dell’Algeria], quindi non ha la nazionalità francese.7 Dunque, ha trentuno, trentadue anni. È lui quello che capisco di meno. Ha tutto, abbiamo fatto tutto per lui. È in grado di lavorare. Può trovare facilmente un lavoro. E invece no. Non capisco. Non c’è alcuna ragione per questo. Non riesco a trovare una spiegazione. Non posso far altro che ammettere che è per pura pigrizia, non è che questo… è l’unica spiegazione che rimane: non gli piace lavorare, non vuole lavorare, si rifiuta di lavorare… Quindi è pigro. Non posso compiangerlo, non posso dire che non ha trovato lavoro, non ne ha mai cercato uno… Al contrario, lo ha rifiutato. Credo che siano contro il lavoro. Non è il solo, è tutta una banda che si trascina in questo modo. Sayad. E com’è allora che tutti questi giovani non lavorano, anche se, come lei dice, sono in grado di trovare lavoro? Abbas. È a loro che deve chiederlo! Che ne so io? Anch’io mi interrogo come fa lei e non sono loro che le diranno perché non lavorano. Credo che non lo sappiano neppure loro. Mi capita di ri7. Intrecciandosi inestricabilmente con le vicende della colonizzazione e della decolonizzazione, il Code de la nationalité – l’insieme di norme che definiscono i criteri per il possesso, l’acquisizione e la perdita della nazionalità francese (e dunque della cittadinanza) – ha istituito il cosiddetto fatto della “doppia nascita”, o del doppio jus soli: è francese chi è nato in Francia da una famiglia in cui almeno uno dei due genitori è nato, a sua volta, in Francia. Poiché l’Algeria, prima dell’indipendenza (1962), costituiva un insieme di dipartimenti francesi, sono diventati francesi tutti i nati in Francia dopo il 1962 da un genitore nato in Algeria prima del 1962 (quando, cioè, l’Algeria era a tutti gli effetti territorio francese)! Si è creata, così, una situazione paradossale e molto delicata, a causa della frattura che questa norma ha aperto all’interno di molte famiglie “immigrate”: nello stesso momento in cui i genitori assumevano collettivamente la nuova nazionalità, da poco conquistata (e a quale prezzo!) e smettevano di essere sujets français (non cittadini francesi a pieno titolo, ma comunque appartenenti alla nazione e alla nazionalità francesi), i loro figli venivano “annessi”, collettivamente e per decisione unilaterale della Francia, alla nazionalità francese; venivano, in un certo senso, “ricolonizzati”.

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volgere questa domanda… non ho mai ottenuto neanche l’inizio di una risposta. Il silenzio! È l’unica risposta che viene data. Mi voltano le spalle e se ne vanno. Ma, comunque, io sento quel che si dice: le cose che si dicono tra di loro, visto che, almeno, li si sente parlare; le cose che alcuni dicono ai loro genitori, poiché alcuni parlano… e parlano in modo aggressivo – non sono tutti come i nostri figli che, lo riconosco, rimangono educati. Le cose che ci diciamo tra di noi, perché non parliamo che di questo, non ho mai incontrato nessuno che non si sia messo subito a lamentarsi con me dei suoi figli: è lo stesso dappertutto, lo stesso malessere, ci lamentiamo tutti delle stesse cose, siamo tutti, più o meno e a gradi diversi, allo stesso punto, siamo colpiti da tutti questi giovani… perché, naturalmente, ci sono delle differenze tra i casi in cui c’è stato furto, scasso, interventi della polizia, carcere ecc., e i casi in cui tutto resta tra le mura di casa, in cui non c’è stata delinquenza, in cui niente si vede, niente si sente, tutto sembra andare per il meglio; ed è vero, i primi, i genitori che si trovano nel primo caso, invidiano i secondi, i genitori che si trovano nel secondo caso. Sayad. E quali sono, dunque, queste cose? Abbas. A sentir loro: noi non vogliamo lavorare, non vogliamo il loro lavoro. Suppongo che intendano dire i francesi, il lavoro che gli danno i francesi, il lavoro che gli dà la Francia… Noi, quando cercavamo lavoro, eravamo molto contenti di trovarlo, e dicevamo “il nostro lavoro”…, non dicevamo “il loro lavoro”. Ora, è il contrario: il lavoro che possono trovare, e ne trovano, non è più il loro lavoro, è il lavoro degli altri, lavorano per gli altri. Allora dicono, lo dicono a te e a se stessi, non vale la pena di lavorare per loro, per gli altri. Si lavora sempre per qualcun altro, per un padrone, c’è sempre un padrone per il quale si lavora. Questo loro non lo accettano. A me sembra che non hanno voglia di lavorare, non gli piace il lavoro, preferiscono vivere miseramente, sono sicuri di non crepare di fame, allora ripetono che “loro non lavoreranno per conto dei francesi!”. È solo in questo caso che si ricordano che ci sono dei francesi, che sono in Francia; per tutto il re43


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sto sono francesi e lo dicono, lo dicono proprio – quando è una cosa che gli conviene – che sono in Francia e che sono francesi! Ma per il lavoro, no! Sayad. Ma come fanno? Anche se sono sicuri di avere il vitto e l’alloggio che trovano a casa dei genitori, hanno bisogno di un po’ di soldi tutti i giorni per le spese. E spendono molto: sigarette, cinema, bar; hanno la macchina, quindi hanno bisogno di benzina, di fare la manutenzione della macchina. In ogni caso non vanno dai genitori a chiedere soldi come dei bambini. Abbas. Ah! Per i soldi di tutti i giorni ci sanno fare. Non gliene mancano mai. E questo senza mai doverli rubare. Lavorano il minimo necessario: un anno su due, qualche giorno alla settimana, qualche ora al giorno. Giusto di che essere in regola, avere una busta paga. Un po’ il lavoro, un po’ la disoccupazione. E il tempo passa. Sayad. Sono quelli che adesso si chiamano “lavoretti”. Abbas. Forse sono quelli che adesso si chiamano “lavoretti”.8 Ma in genere non sono dei piccoli lavori come si può pensare, non sono poi così piccoli…, gli danno o gli dovrebbero dare di che vivere e, soprattutto, “se ne riempiono la bocca” [letteralmente, “si gonfiano”: “sono professore qui, sono professore là”, per esempio]. Non so cosa c’è di vero in tutto questo. Sayad. A chi si riferisce? Abbas. Sono molti in questa situazione. Mio figlio maggiore, per esempio. Ha sempre qualche ora di corso in questa o quella scuola. Corsi di matematica o di fisica, le cose che ha imparato lui. Con lui c’è anche il figlio di mia sorella, che è ancora più grande di mio figlio, e che tiene dei corsi, non so di che si tratta esattamente, ma an8. “Petits boulots”, in francese.

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che lui dice che fa sia economia sia ragioneria. Penso anche a un altro giovane, il figlio di un parente prossimo, che avrebbe dovuto essere un ingegnere, ha seguito una scuola per ingegneri, ma che vive pure lui in quel modo. Qui, parlo solo di quelli che sono in grado di trovare un vero lavoro qualificato, non parlo di tutti quelli che, invece, non possono fare niente. Ma, poi, nessuno si trova nella condizione di non poter fare nulla; questo non si può dire di nessuno, salvo se uno ha un handicap, ma non è questo il caso. Quello che bisogna anche dire, va loro riconosciuto, è che quando è necessario, quando hanno bisogno di guadagnare dei soldi, accettano di fare qualsiasi cosa, possiedono la loro propria filiera. Non appena uno ha trovato una porta che si apre davanti a lui, molti altri lo seguono, si passano l’un l’altro le informazioni che hanno. Lavorano, ma è come se volessero lavorare solo quando gli fa comodo; dicono che andare al lavoro tutti i giorni, con lo stesso orario, per lo stesso lavoro è noioso, che non gli interessa. […] Secondo me, se avessero voluto, avrebbero potuto trovare da tempo un vero lavoro. Visto che sono in grado di trovare lavoro dall’oggi al domani, avrebbero potuto restare più a lungo in uno di quei posti di lavoro, anche se non gli piaceva. E dal momento che continuano a provare, a cambiare lavoro, a fare tutti i lavori possibili e immaginabili, dai traslochi alla verniciatura, ai lavori manuali di ogni tipo, finiranno alla fine per trovare qualcosa che gli va bene, che gli piace! Niente. Sayad. Ma ci sono pure quelli che non riescono a trovare lavoro; ci sono i veri disoccupati. Abbas. Oh, sì. Ce ne sono e, disgraziatamente, sono molto numerosi. Ma non sono gli stessi; non sono paragonabili. Credo che anche tra di loro non si frequentino, non si piacciano. La differenza, tutto ciò che li separa, la si vede subito, con un semplice colpo d’occhio. Ma, alla fin fine, il risultato è lo stesso: gli uni non lavorano perché non è di loro gusto, gli altri non lavorano perché non trovano da lavorare; gli uni e gli altri vanno d’accordo nel lavorare solo occasionalmente, nel fare quello che si può trovare qui o 45


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là. Questo nel migliore dei casi, quando tutti concordano sul fatto che il lavoro è l’unico mezzo onesto per guadagnare dei soldi, niente furti, niente scassi, niente mercato nero. Sayad. Lei ha cominciato a parlarmi del più grande. Se ho capito bene, è andato relativamente bene a scuola, visto che mi ha detto che, a volte, insegna matematica e fisica. Abbas. Sì, abbiamo fatto di tutto perché portasse a termine i suoi studi. Ci ha messo molto tempo, perché ha dovuto cambiare più volte indirizzo; è ciò che mi ha sempre detto. Io non sono in grado di sapere come funziona. Abbiamo fatto tutto, abbiamo accettato tutto per lui. Per finire, ha fatto una scuola nel nord della Francia, a Lille, una scuola da meccanico. È uscito da là con un diploma. Avrebbe potuto fare una carriera da ingegnere nell’industria; un ingegnere di basso rango, naturalmente, ma ha fatto gli studi per quello, ha i diplomi che ci vogliono. Non ha mai cercato; mi dice sempre che presto lo farà, è in attesa. E noi attendiamo con lui. Sayad. Non è sposato… Anche se facciamo finta di non vedere nulla Abbas. Ci mancherebbe solo che lo facessi sposare… Non basta che gli do da mangiare, ci mancherebbe anche dare da mangiare a sua moglie e, presto, ai suoi figli. Forse sarà questo a metterlo con le spalle al muro:9 quando gli verrà voglia di sposarsi – se ne è parlato per un momento – dovrà pure trovare un alloggio, e per questo bisogna proprio che si metta a lavorare seriamente. Sarebbe veramente ora. [Sua figlia maggiore, di trentacinque anni, ha lasciato la casa dei genitori da dieci anni.] Prima di lui, in realtà, c’è una ragazza. È lei la più grande di tutti i miei figli. Adesso ha trentaquattro o trentacinque anni. È andata via di casa, da circa una decina d’anni. Non è sposata. 9. L’espressione usata nel testo è “mettre un peu de plomb dans la cervelle”, che significa costringere a maggiore ragionevolezza e anche a maggiore risolutezza.

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Sayad. Lavora? Abbas. Sì lavora, non hai mai smesso di lavorare da quando è andata via di casa… Almeno, è ciò che sento dire. È quello che mi dice sua madre. Io non so niente di preciso esattamente su di lei. Pare persino che riesca a guadagnarsi da vivere bene, visto che dice di voler comprare l’appartamento in cui abita adesso. Sayad. Che mestiere fa? Abbas. Oh! Per quello che riguarda lei, è una storia molto lunga. È a suo proposito che sono cominciate tutte le mie riflessioni sulla nostra vita qui. In che modo essere qui, vivere qui, senza essere come si è qui, senza vivere come si vive qui? All’inizio credevo che fosse possibile; era persino necessario che fosse possibile. Doveva essere possibile, non poteva essere diversamente. Era ancora all’inizio, la miseria per il modo in cui eravamo sistemati, una vecchia casa che veniva giù […]. La scuola primaria, questo poteva andare. Era vicina, lei era una bambina. Sinceramente, non sono in grado di dire cosa è riuscita a fare a scuola. Andava a scuola, e quando la scuola per lei è finita, a sedici anni, tanto meglio. È rientrata a casa e non è più uscita. Sayad. Che vuol dire: “Non è più uscita”? Abbas. Perché dovrebbe uscire? Cosa deve fare fuori? Il suo posto è a casa. Per me, questo era del tutto normale. Non c’erano motivi perché fosse diversamente. Era così e basta. Sua madre, anche lei, non doveva uscire. Sayad. E per quanto tempo è andata avanti così? Da parte sua, non c’è stata ribellione, non ha protestato? Abbas. Non so… Forse non era contenta di quella situazione, ma che fare? Anche lei probabilmente non sapeva cosa fare.

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Sayad. Non ha chiesto di lavorare fuori casa? Eppure all’epoca, negli anni settanta, era una cosa che si faceva, era più facile trovare lavoro rispetto a oggi. Abbas. Non si è mai posto il problema, al tempo. Era escluso, questo non si fa, era una cosa che non si faceva ancora nella nostra comunità. Sayad. Lei ha rifiutato, si è opposto al fatto che lavorasse? Abbas. No, neppure questo. Non occorreva che lo facessi. A nessuno veniva in mente questa cosa. Sayad. Come ha vissuto sua figlia durante quel periodo? Abbas. Ha vissuto in casa, è tutto. Con sua madre, naturalmente, era un litigio continuo. Sayad. E con lei? Abbas. Con me, non se ne parlava proprio. Né con lei, né con gli altri. Non devo discutere di queste cose con lei. Sa quello che penso e non c’è bisogno di ritornarci sopra. Lei, come tutti gli altri, del resto; sia lei che sua madre. Sayad. Visto come stavano le cose, perché non l’ha fatta sposare? Sicuramente ci sono state delle domande di matrimonio. Abbas. Sì, ci sono state delle domande. Ma sono passate tutte per l’intermediazione di sua madre e siccome nessuna mi andava bene, né, pare, andava bene a loro… non voglio forzarle. Dopotutto, è mia figlia: lei ha il diritto di vivere a casa fino alla fine dei suoi giorni… o dei miei giorni; ha diritto che non le manchi nulla, compatibilmente con i miei mezzi. Sayad. Che non le manchi nulla, eccetto la libertà dei propri movimenti! 48


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Abbas. Credo che non abbia mai chiesto niente di più di quello che ha. Anche se, come ho detto, non faceva che tenere il muso. Evitava tutto e tutti, sua madre, i pasti, se stessa […]. Sayad. E com’è andata a finire tutta questa storia? Abbas. È finita in modo completamente opposto a quello che volevo io all’epoca… e che vorrei ancora, se il tempo non ci avesse superato, se il tempo non ci avesse vinto, se il tempo non ci avesse costretti a piegarci, ad accettare l’inaccettabile. Sayad. In altri termini, il tempo l’ha vinta ma non convinta. Abbas. No, convinto mai; bisogna dire ciò che è vero. Dio è più forte! Ci sono dei momenti in cui bisogna decidersi ad accettare ciò che non possiamo evitare; lo abbiamo contrastato, lo abbiamo respinto più che si poteva. Ma la realtà è qui: noi non possiamo vivere da soli in questo mondo; siamo in Francia: che ci piaccia o no, la Francia è qui, siamo dentro di lei ed è normale che lei finisca per essere dentro di noi, per entrare nei nostri corpi anche se non è entrata nei nostri cuori. Per quel che mi riguarda, la Francia non è mai entrata e non entrerà mai nel mio cuore, e questo io non lo nascondo, non smetto di dirlo e, soprattutto, lo vivo quotidianamente. So che morirò qui, ne ho visti molti morire, della mia età o più vecchi di me, di quelli che sono arrivati qui come me, per quanto tempo? Nessuno era in grado di dirlo, ma nessuno poteva immaginare che sarebbe stato per tutta la vita, che avrebbe trascorso qui tutta la propria vita. Sarà lo stesso per ciascuno di noi, e pure per me. Finirà per succedere, ma non potrò mai considerare questo paese come il mio paese. È per questo motivo, allora, che non serve più a niente resistere. […] Dentro di me non sono cambiato, non ho rinunciato a niente. Allora non è che devo aiutare o non aiutare. Tengo tutto per me, ora. Adesso che so che nessuno, neanche in famiglia, può approvare quello che dico, sto zitto. Che facciano tutti come si fa qui.

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Sayad. Questo vuol dire che lei si limita a non impedire ciò che, in ogni modo, non può impedire. Ma, nel caso di sua figlia, com’è andata? Abbas. Anch’io non ne so niente… C’è tutta una serie di piccole cause. Fino a che la cosa si verifica senza che si sappia come. È vero. Anche se facciamo finta di non dire nulla e, perciò, di non vedere nulla, il problema è evidente: quella ragazza era infelice. Concordavamo sul fatto che non le mancasse niente, che stesse a casa, che fosse accudita, che vivesse a casa dei suoi genitori, dunque a casa sua, era assolutamente normale. Non c’era niente da dire su questo… e lei sembrava non dire niente per opporsi a questa situazione, sembrava che non dicesse niente. Ma, in realtà, facevamo finta di non vedere nulla, tutti quei segni che tradivano il disaccordo, la protesta contro quella situazione, almeno accadeva con me, perché con sua madre le spiegazioni erano piuttosto violente. Sayad. Visto che lo sapeva, come ha reagito? Abbas. Oh, siamo abituati a cose del genere. Per quel che mi riguarda, ci sono due donne in casa, anche se una è la madre e l’altra è la figlia, ed è impossibile che non ci siano storie tra di loro; ecco cosa mi dicevo. E non ascoltavo o quasi quello che sua madre mi diceva, ogni volta rispondevo: “Sono fatti vostri, è tua figlia, sbrigatevela tra di voi, non sono io che devo immischiarmi nei vostri affari”. Dunque, era come se non succedesse nulla. Sayad. C’erano altri segni rivelatori del malessere di sua figlia, segni che lei aveva trascurato al tempo, che aveva preferito, come lei dice, non vedere? Abbas. Oh! Non tanti. Forse l’isolamento, il silenzio nel quale si rifugiava quella ragazza. Ma, dopotutto, è normale. Lei non ha niente da dire, in ogni caso, niente da dire a noi, oggi come ieri. Anche ora, quando viene a passare qualche giorno a casa, non di50


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ce niente… e non ha niente da dire. Non stiamo lì a raccontarci delle storie, noi. Ma ciò che fa riflettere, è quando in questo tipo di situazione bisogna avere a che fare con gli uffici. È lì che mi sono reso conto che ci sono molte cose che fanno parte di noi, che sono incomprensibili per gli altri, che non hanno spazio qui. Molte cose, che noi consideriamo normali, come per esempio il fatto che mia figlia abiti a casa mia, non sono ammesse qui. Mia figlia è stata a lungo malata, a più riprese, non si sa per quale motivo, ma ogni volta è stato necessario mandarla in sanatorio. E a ogni ricovero, era la stessa storia: non era assicurata e la mia assicurazione sanitaria non poteva coprirla. Non capivano come mai non fosse assicurata, perché non fosse almeno iscritta alla disoccupazione. Non capivano perché io dicessi che lei non chiedeva di lavorare. E ogni volta bisognava fare richiesta di un sussidio, di un aiuto. Ho dovuto anche farle un’assicurazione integrativa. Sayad. Di cosa era malata? Abbas. Non ne sappiamo un granché. Sono i nervi, come si dice. È quello che mi dicono ogni volta. Bisogna che cambi aria. Sayad. E allora, com’è andata a finire? Cosa è diventata oggi sua figlia? Abbas. Un po’ per volta. Ha fatto amicizia con un’assistente sociale del centro in cui stava. Andava a passare le vacanze da lei, per qualche giorno; è successo parecchie volte. Un giorno, ha detto a sua madre che si sarebbe fermata più a lungo, che non sarebbe ritornata subito, perché si sarebbe messa a cercare lavoro. Sua madre era disperata, ma non poteva credere a questo, non poteva credere che lei ce l’avrebbe fatta: una ragazza che non ha mai lavorato, che non sa fare niente, in un momento in cui è difficile per tutti trovare lavoro, anche per gente più capace e abituata di lei. Non potevamo crederci. Ce l’ha fatta. Ha trovato lavoro e sembra che non sia mai rimasta senza lavoro. Lei ora è uguale a tutti, uguale ai suoi fratelli e alle sue sorelle, e 51


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forse, persino superiore ai suoi fratelli, in particolare a quelli che vanno in giro senza meta e sono senza lavoro. Lei, piuttosto, è uguale a me: è un “uomo” come me, vale quanto valgo io. È andata via, si guadagna da vivere, bada a se stessa… Non avrei mai voluto questo né per lei, né per me, né per il nome che porto, anche se questo nome ne ha viste di ben altre da parte di tutti quelli che lo portano, e siamo in molti a condividerlo. Ma è così: meglio questo che il peggio. La colpa è dell’emigrazione Sayad. A posteriori, al punto in cui siamo arrivati oggi, visto che il risultato finale è questo, non si rimprovera per il comportamento che ha tenuto in passato, soprattutto nei confronti di sua figlia, le ha fatto perdere del tempo e, soprattutto, lei ha sofferto… gratuitamente, stando a quello che si vede oggi. Abbas. No. Non ho niente da rimproverarmi. E se mi rimprovero qualche cosa, è la situazione attuale. Mi rimprovero che mi abbia dato torto. Non ho torto, così come neanche lei [sua figlia] ha torto. Non so se conosce l’aneddoto che si racconta… noi ci troviamo nella stessa situazione. Sayad. Quale aneddoto? Abbas. Questo succedeva una volta, quando gli inverni erano freddi e il solo mezzo di locomozione erano le proprie gambe. Si racconta di un viaggiatore che fu sorpreso dalla neve che cadeva in abbondanza. Arrivato al villaggio più vicino, chiese rifugio alla prima casa che gli si aprì davanti; gli concessero ospitalità. Ma la neve continuava a cadere sempre più forte, impedendo ogni tentativo di spostamento. Un giorno, due giorni, presto si arrivò a una settimana, e mai una soluzione. I padroni di casa cominciavano a trovare troppo invadente la presenza di quello straniero. Bisogna dire che, all’epoca, tutti erano poveri, soprattutto d’inverno e, probabilmente, loro non avevano niente da dargli da mangiare. Lo sfortunato viaggiatore l’aveva capito. Un giorno, in sua 52


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presenza, scoppiò una lite tra lo sposo e la sua sposa. Non si fece ingannare. Sapeva che si trattava solo di un pretesto. Imbarazzato più che mai, guardò verso la porta bloccata dalla neve e, indirizzandosi ai suoi ospiti, disse questa frase rimasta celebre: “Lo so, non è né colpa mia, né colpa vostra, la colpa è del cielo [del brutto tempo] che mi ha portato qui e che mi trattiene ancora!”. È la stessa cosa: non è né colpa mia, una colpa di cui potermi pentire, né colpa sua, una colpa che potrei rimproverarle. La colpa è dell’immigrazione [usa la parola francese], come si dice! È per questo che, per me, non c’è nessuna ragione di infierire contro l’uno o l’altro, non ci può essere ragione per rompere, per chiudere la mia porta, per dire, come hanno fatto alcuni: “Io ti rinnego, tu non sei più mio figlio o mia figlia, tu non metterai più piede in casa!”. No, è una cosa inaccettabile.

Traduzione dal francese di Davide Durì

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Dalla “guerra delle razze” alle lotte dell’immigrazione AHMED BOUBEKER

differenza di tutti gli autori gelosi dell’autenticità della loro creazione concettuale, Michel Foucault non aveva paura delle espropriazioni della sua opera:1 considerava i suoi insegnamenti addirittura come delle piste di ricerca che i suoi uditori potevano liberamente usare. Nessuna ortodossia foucaultiana, dunque, in compenso il filosofo storico si mostrava interessato a tutto ciò che si ricollega ai suoi lavori, a tutto ciò che vi si connette, e in particolare ai concatenamenti con l’attualità. Ed è proprio in questo senso che mi riferisco alla sua opera, un po’ come a “un’eredità non preceduta da alcun testamento”, per riprendere la formula di René Char. Tuttavia, non si tratta di dire cose qualunque arraffando qua e là frammenti di questa opera aperta. E se c’è una figura foucaultiana che potrebbe servire da appoggio – il condizionale è d’obbligo in questi tempi di riconversione della “radicalità concettuale” in neoliberalismo in stile MEDEF2 – è quella dell’impegno dell’“intellettuale specifico”,3 che rinuncia ai valori universali

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A. Boubeker, De la “guerre des races” aux luttes de l’immigration. Une perspective foucaldienne des études sur l’ethnicité, “Le Portique”, 13-14, 2004. 1. Come sottolinea egli stesso: “La parola ‘opera’ e l’unità che essa designa sono probabilmente tanto problematiche quanto l’individualità dell’autore”, M. Foucault, Che cos’è un autore? (1969), in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1984, p. 5. 2. Mouvement des Entreprises de France, l’equivalente della nostra Confindustria. [N.d.T.] 3. M. Foucault, Intervista a Michel Foucault (1976), in Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino 2001, pp. 171-192.

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per parlare in nome della propria competenza e della propria situazione specifica. Un osservatore impegnato, dunque, che nella propria pratica di ricerca sottomette l’oggettività alla prova della comprensione di una prospettiva: il punto di vista a partire da cui egli osserva il mondo. Nel mio caso, molto modestamente si tratta del mondo dell’immigrazione, o piuttosto dei “mondi dell’etnicità”:4 è questo il motivo per cui ho scelto di riferirmi, in particolare, al corso del 1976 al Collège de France5 in cui Foucault sviluppa il concetto di “guerra delle razze”. 1. Un ritorno dei saperi assoggettati Foucault, di fatto, parla solo molto raramente di immigrazione. Tuttavia, vi si è impegnato nelle sue prime lotte, come per esempio la grande manifestazione della Goutte d’Or (quartiere di Parigi) nell’ottobre 1971, in seguito all’omicidio di Djillali Ben Ali, prima manifestazione dalla fine della guerra d’Algeria, che richiamò parecchie migliaia di persone contro la violenza razzista. Foucault partecipa, inoltre, assieme a Sartre e a Deleuze, alla creazione di un “Comitato di difesa della vita e dei diritti dei lavoratori immigrati”, che rende pubblica per la prima volta la situazione fuori-diritto dei lavoratori immigrati. Ma prima di esaminare più da vicino queste lotte in una prospettiva foucaultiana, vorrei inquadrare il contesto e l’orizzonte di attualità della mia esperienza di ricerca entro ciò che Foucault chiama “un ritorno di sapere”6 o anche “l’insurrezione dei saperi assoggettati”.7 Un’espressione che designa innanzitutto la comparsa di contenuti storici mascherati entro “sistematizzazioni formali” e che sono i soli che permettono di ritrovare un clivaggio delle lotte nei dimenticatoi della storia ufficiale. Mi sembra che il tema dell’immigrazione, oggi così attuale, potrebbe inscriversi in questo contesto. L’immigrazione, infatti, ha una storia che continua a essere troppo spesso assimilata alla

4. A. Boubeker, Les mondes de l’ethnicité, Balland, Paris 2003. 5. M. Foucault, “Bisogna difendere la società” (1997), Feltrinelli, Milano 1998. 6. Ivi, pp. 15-16.

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leggenda dorata del nostro crogiolo repubblicano. Ma, più radicalmente, si può pensare che l’immigrazione sia una storia: una storia vissuta, attraverso la lunga trama dell’esperienza di un soggetto umiliato che, nonostante ciò, persegue la sua lotta per il riconoscimento. Una storia colta dall’interno che smitizza la gloria senza eclissi del nostro modello nazionale di integrazione. Allontanandoci dalla leggenda dorata del “crogiolo francese”, si può così riabilitare una prospettiva nascosta in una faccia oscura della Repubblica, e ritrovare le tracce della storia dell’immigrazione come esperienza vissuta, la storia degli eterni dimenticati della storia, “braccati dalle pagine di cronaca”, e altre creature dei nostri fantasmi pubblici o della giungla delle nostre statistiche. Ritrovare le tracce di un’altra storia, dunque, attraverso gli eventi e le forme di resistenza che hanno portato l’immigrazione a costituirsi e a mantenersi come una dimensione della società francese. La nozione di “sapere assoggettato” designa, inoltre, per Foucault, un sapere squalificato, screditato dalla gerarchia delle conoscenze o a volte perfino “emarginato”:8 un sapere infame, in qualche modo. Ed è per l’appunto il caso degli studi sull’immigrazione, come ha mostrato il pioniere di questa sociologia, Abdelmalek Sayad.9 L’immigrazione resta, infatti, un oggetto sociale prima di essere un oggetto delle scienze sociali. Tutti i bilanci di conoscenza in questo ambito riconoscono il deficit teorico di una scienza ancora troppo tributaria del politico per riuscire a costituire il proprio oggetto. Un oggetto ancora imbarazzante, come un buco nero nella tradizione francese delle scienze sociali, vittima di uno “sciovinismo dell’universale”, per riprendere l’espressione di Pierre Bourdieu. Senza dubbio, riguardo all’immigrazione, non si può ancora parlare di una “insurrezione dei saperi assoggettati”, né tanto meno di un vero “ritorno di sapere”, anche se in Francia, effettivamente, si assiste a un certo rinnovamento della ricerca sulle relazioni interetniche, soprattutto a partire da una critica dell’“uni7. Ibidem. 8. Ivi, p. 16. 9. A. Sayad, La doppia assenza (1999), Raffaello Cortina, Milano 2001.

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versale astratto” del nostro sacrosanto modello d’integrazione. Nuovi orizzonti di conoscenza passano così per un’individuazione dell’esclusione sotto i concetti congelati di un corpus discorsivo del modello repubblicano, per l’esumazione di brandelli di pensieri mummificati, che fungono da pretesto per tutte le derive di un razzismo istituzionale, o per l’aggiornamento delle discriminazioni. Tanti passi avanti della ricerca per rompere con una lunga storia di silenzio e di compromissione. Ma la cosa più importante è soprattutto un legame che si costruisce tra le conoscenze uscite fuori dai dimenticatoi della storia di Francia e i saperi locali degli attori dell’immigrazione, questa “gente da poco” che fino ad allora non aveva voce in capitolo nella scrittura della propria storia. Questo legame appare essenziale, perché al di là della leggenda dorata del crogiolo francese, si scoprono ricordi di combattimento. Alcuni ricordi permettono di liberare dei frammenti di genealogie dell’immigrazione, che si oppongono all’onnipotenza di un’istanza teorica unitaria che ha sempre voluto far prendere lucciole per lanterne sotto le vecchie lune dell’integrazione. 2. La guerra delle razze come paradigma Ciò che a Foucault interessa non è il potere ma le relazioni di potere. In un saggio10 pubblicato nel libro di Dreyfus e Rabinow, propone un modello di investigazione che consiste nel prendere le forme di resistenza come una sorta di catalizzatore di queste relazioni di potere. Ciò gli permette di distinguere, storicamente, tre tipi di lotta: 1) le più antiche, che si oppongono alle forme di dominazione sociale o etnica; 2) le lotte contro lo sfruttamento del lavoro, che diventano preponderanti a partire dal secolo scorso; 3) infine, le lotte contro la sottomissione della soggettività, le più attuali. 10. M. Foucault, “Due saggi sul soggetto e il potere”, in P. Dreyfus e H. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault (1982), Ponte alle Grazie, Firenze 1989.

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Rispetto a questa tipologia, le forme di resistenza dell’immigrazione mi sembrano trasversali. Ma qui insisterò soprattutto sulla prima dimensione delle lotte, quella presa in considerazione da Foucault riguardo alla guerra delle razze, anche se, partendo dall’ultimo Foucault, ci sarebbe molto da dire sulle forme di soggettivazione degli eredi dell’immigrazione. È dunque con il suo corso del 1976, pubblicato con il titolo “Bisogna difendere la società”, che l’archivista riesuma il concetto storico di “guerra delle razze”, il quale, per la piccola storia divenuta grande, avrebbe direttamente ispirato il concetto marxista di lotta di classe. All’origine di questo discorso alla fine del Medioevo, la parola “razza” non ha un significato biologico come oggi: designa un clivaggio storico-politico tra diversi gruppi sociali. Per Foucault, il discorso della guerra delle razze risuona come la comparsa di una nuova coscienza storica in rottura con il vecchio modello di sovranità. È una controstoria che si afferma nell’ombra, la storia dei dimenticati della Storia che Foucault riassume in un appello: “Non abbiamo dietro di noi continuità alcuna e non possediamo la grande e gloriosa genealogia con cui la legge e il potere si mostrano nella loro forza e nel loro splendore. Noi usciamo dall’ombra. Non avevamo diritti e non avevamo gloria, ma proprio per questo prendiamo la parola e cominciamo a raccontare la nostra storia”.11 Questo discorso permette così di desacralizzare la gloria senza eclissi della sovranità e della legge. Decifra la permanenza della guerra in una società in cui la verità è sempre partigiana, in cui la storia, che era l’altro versante della relazione di potere, si inscrive d’ora innanzi nei rapporti di forza all’interno del corpo sociale. Conosciamo oggi la fortuna rivoluzionaria di questo nuovo sguardo storico che si aprirà con Michelet sulla storia dei popoli. Finché la nozione stessa di guerra, infine, si eclisserà dall’analisi storica attraverso il principio dell’universalità nazionale. Il tema della razza, tuttavia, non scompare (chi, nato nel XX secolo, oserebbe pretendere il contrario?): Foucault ci dice che vie11. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 65.

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ne riconvertito in un “razzismo di Stato”, un razzismo moderno, che si allontana dalla guerra delle razze e dal suo modello di intelligibilità della storia. Più che un’ideologia, questo razzismo rivelerebbe una tecnologia del biopotere, che in qualche modo apporta sangue nuovo al vecchio potere sovrano. Questa espressione della radicalità foucaultiana continua a essere molto criticata oggi, in nome dei nostri valori repubblicani, anche se il rovesciamento del discorso della guerra delle razze è evidente in casi estremi come quello della dominazione coloniale. Ma queste critiche dimenticano, inoltre, le forme di dominazione ordinaria, alcune delle quali, peraltro, eredi del colonialismo. Mi riferisco precisamente alle politiche di immigrazione, che non sono mai state altro che una polizia dell’immigrazione. I demografi che le hanno inventate non hanno mai nascosto il proprio darwinismo sociale.12 Ed è in base a ciò che hanno fissato i criteri della “razza buona” passibile di fondersi al crogiolo francese, il che spiega, peraltro, come al vertice più alto dello Stato si parli ancora di “soglia di tolleranza” e di un certo fastidio olfattivo legato a un cattivo vicinato nel corpo sociale. Ma è un’altra la dimensione su cui insiste Foucault e che mi interessa particolarmente: quella di un rovesciamento della guerra delle razze in contagio sociale, quella di una razza che si infiltra in permanenza nel corpo sociale e di una spaccatura binaria della società che ritrovo nel tema pienamente attuale della “frattura sociale ed etnica” cara a un presidente sensibile ai cattivi odori. Cito Foucault: “Non […] l’affrontamento di due razze estranee l’una all’altra, quanto lo sdoppiamento di una sola e stessa razza in una sovra-razza e in una sotto-razza”.13 E aggiunge: “A partire da una razza, la riapparizione del suo proprio passato”.14 Basta sostituire il termine razza con qualche nozione più “politicamente corretta”, come “identità”, per vedere srotolarsi il filo dell’attualità di una drammatizzazione dei rapporti della società francese con le proprie popolazioni immigrate. 12. Vedi H. Le Bras, Le sol et le sang, Editions de l’Aube, Paris 1994. 13. M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, cit., p. 58. 14. Ibidem.

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L’eterno problema pubblico dell’immigrazione, infatti, riguarda soprattutto le seconde generazioni:15 cittadini che da molto tempo non sono più stranieri rispetto alla società francese, francesi che in qualche modo continuerebbero a essere percepiti come immigrati. È il motivo per cui lo straniero non è più colui che viene da altrove, ma colui che si riproduce in permanenza nel corpo sociale. Da un’alterità all’altra. Dall’immigrazione alle banlieues, come una suddivisione sociale o etnica della società francese, una rottura radicale tra cittadini riconosciuti e cittadini di second’ordine. Evocare le banlieues, queste nuove frontiere interne, significa pensare a insicurezza, violenza, degradazioni, tutte le stimmate di una malattia cronica che si tratterebbe di circoscrivere, scegliendo tra l’amputazione e la terapia d’urto per evitare il contagio, la cancrena del corpo sociale. 3. Biopolitica e vecchia disciplina In questa relegazione sociale connessa alla segregazione urbana che si afferma attraverso politiche della sicurezza e una gestione delle popolazioni in una società del rischio, si ritrova la prospettiva foucaultiana di un potere di regolarizzazione: “Far vivere e lasciar morire” (in questo caso, meglio lasciar morire!), potere caratteristico di una biopolitica di Stato. Ma prima delle banlieues c’erano anche le città di transito o le città d’emergenza, pensate come dei “setacci” d’integrazione, e che, in virtù di un incasellamento [quadrillage] urbano sotto stretta sorveglianza della polizia, si inscrivevano piuttosto nel secondo polo del biopotere, il controllo del corpo, il potere disciplinare. Certo, Foucault stesso riconosce che nelle officine, nelle caserme, negli ospedali o nelle prigioni, le vecchie discipline non sono più quelle di una volta. Ma se si prende la definizione che egli dà di disciplina – non l’espressione di un ideale tipo ma una generalizzazione e una messa in connessione tra diverse tecniche rispondenti a obiettivi locali (apprendimento scolare, adatta15. Vedi G. Noiriel, Français et étrangers, in P. Nora (a cura di), Lieux de mémoire, Gallimard, Paris 1997.

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mento al mondo del lavoro…)16 – questa definizione concorda anche, in un certo modo, con quella di integrazione. L’integrazione individuale dei cittadini che, prima di diventare un’ingiunzione comportamentale riguardante gli immigrati soltanto, si riferiva all’insieme dei cittadini francesi sottomessi al lavoro di normalizzazione delle istituzioni. È così che delle generazioni di dannati della fabbrica o di immigrati del passato avrebbero finito per trasformarsi in buoni francesi. Con la grande eccezione dei maghrebini. I quali non sarebbero propriamente altro che “lavoratori immigrati”, uomini-macchina ridotti a bruta forza-lavoro: corpi sovraesposti, sacrificati alla catena di montaggio, corpi sofferenti, che parlano a colpi di traspirazione e somatizzazione. Vite contaminate dallo sporco lavoro, fino alla svolta della “sinistrosi” e del “male ovunque”. Non c’è patologia meno curabile di quella del corpo sospetto di un malato immaginario agli occhi dei medici e delle istanze sociali. L’immigrato non è che corpo nelle rappresentazioni sociali ma la sua sofferenza fisica è negata quando questo corpo parla troppo; la malattia è espulsa verso il campo mentale. Così, perfino i disturbi fisici sono percepiti come l’espressione di un soggetto alienato, di un difetto del soggetto, di una mente disturbata dal corpo, che delira i suoi mali perché non è in grado di formulare parole proprie. Impotenti di fronte alla malattia dell’immigrato, i nostri colti camici bianchi si impantanano nello stereotipo o nel silenzio. Anche da malato, l’immigrato resta indesiderabile. E dal campo sociale alla psichiatria passando per la medicina, ognuno si allontana dal suo caso, facendo a gara nello spezzettarlo. La malattia sospetta dell’immigrato prolunga il sospetto generalizzato sulla sua persona e il diniego della sofferenza si traduce inoltre in una progressiva perdita dei diritti e nell’esclusione sociale. La patologia diventa l’ultimo baluardo di resistenza di un soggetto che la investe di un senso, rifiutando lo statuto che gli è imposto dall’esterno e in cui si sente intrappolato, senza via d’uscita. 16. Vedi M. Perrot (a cura di), L’impossible prison. Recherches sur le système pénitentiaire au XIXe siècle, Seuil, Paris 1980, p. 49.

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Da un’istituzione all’altra, dalla fabbrica alla scuola, siamo costretti a constatare che le nostre macchine da integrazione hanno prodotto anche dei figli mostruosi, inassimilabili sembrerebbe, perché apparentemente oppongono una radicale differenza all’autorità dei nostri educatori. È il motivo per cui, malgrado il declino delle vecchie discipline, le nostre istituzioni, in linea di massima, non rinunciano all’integrazione degli immigrati, il che appare come una sorta di eccezione disciplinare che prende la dimensione di un problema pubblico. Ciò nonostante, malgrado i dispositivi locali delle politiche della città e dell’integrazione, questo problema appare più come una retorica pubblica mirante alla normalizzazione sociale che una messa in atto di vere e proprie tecniche sul campo. Dietro alla controversia dell’immigrazione-integrazione, a essere in gioco è la società della norma. La norma secondo Foucault: all’incrocio tra il corpo e la popolazione, tra il disciplinare e il regolarizzare. Aggiungiamo che l’immigrazione è un rivelatore della norma. È Michel de Certeau che sottolinea come l’immigrato sia divenuto l’antidoto dell’anonimo,17 come se la sua designazione pubblica fosse uno specchio girato verso una folla solitaria sempre più sorda agli inni nazionali. La recente polemica mediatica sul velo lo testimonia: il magniloquente proclama del vecchio schema repubblicano viene fatto sulle spalle dell’immigrazione, per riaffermare i valori comuni. Quindi, non si potrebbe concepire questa politica d’opinione come una nuova dimensione della biopolitica? Una politica le cui derive sarebbero illustrate da “parole di Stato” per riprendere l’espressione di Sayad. “Comunitarismo”, “integralismo” ecc., queste parole che non ammettono alcun dibattito sono designate all’obbrobrio pubblico senza altra forma di processo. E fanno evento per il fatto stesso di essere enunciate. Si comprende allora come l’immigrazione sia presa in trappola dalla guerra delle parole in uno spazio pubblico lungi dall’essere pacificato, come hanno immaginato i dolci sognatori del contratto sociale. 17. M. de Certeau, La presa della parola e altri scritti politici (1994), Meltemi, Roma 2007.

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Resta il fatto che questa prospettiva securitaria si sviluppa anche sulla scia del declino dello Stato-nazione. L’invettiva pubblica nei confronti dell’immigrazione funziona di fatto come un rivelatore delle ossessioni nazionali. Come se l’immigrazione, nella sua posizione periferica, fosse divenuta una finzione centrale dei discorsi pubblici, che cristallizza le scosse verbali dei movimenti generali della società francese. Forse è lo Stato che si pensa delirando l’immigrazione, come suggerisce Sayad, ma ciò non impedisce che questo Stato abbia perso il monopolio dell’enunciazione delle identità. E la disciplinarizzazione del sociale non è mai riuscita a eliminare la storia dei soggetti in lotta come un’altra faccia della coscienza politica. Ci si può allora domandare: dietro alle nuove forme di visibilità pubblica dell’etnicità, la posta in gioco non sarebbe un’attualizzazione o un ritorno del discorso della guerra delle razze nel senso originario del concetto? Un discorso dei dimenticati della storia che si svilupperebbe al limite della sopravvivenza stessa del soggetto che parla. Un discorso il cui ritorno si giocherebbe come quello degli “uomini infami” secondo Foucault, questi esseri quasi fittizi la cui vita sarebbe stata ridotta a “poche parole terribili che erano destinate a renderli indegni, per sempre, della memoria degli uomini”18 e il cui “ritorno attuale nel reale si fa proprio nella forma in cui li si era voluti cacciare dal mondo”.19 In altri termini, nessun dottor Stranamore della potenza pubblica è in grado di controllare i propri mostri mediatici, che finiscono sempre per ritorcerglisi contro. Ed è attraverso il rifiuto di una rappresentazione disincarnata nello spazio pubblico che li ha sempre lasciati in disparte, è rischiando di dire le cose con parole loro, con i loro accenti, esponendo le loro ferite, i loro bernoccoli, i loro “delitti di musi sporchi” e altre stimmate, è così che i “cattivi soggetti” dell’immigrazione giungono a credere, alla fine, che possono essere qualcun altro che non sia un’imitazione,

18. M. Foucault, La vita degli uomini infami (1977), in Archivio Foucault 2, 1971-1977, Feltrinelli, Milano 1997, p. 252. 19. Ibidem.

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qualcun altro che non sia il giocattolo della cattiva sorte politicomediatica, qualcun altro che non sia un’esistenza clonata dallo sguardo degli altri. Resta il fatto, purtroppo, che l’immigrazione non ha il monopolio dell’etnicità e che un altro discorso della guerra delle razze produce ancora delle bestie immonde proprio in seno allo spazio politico nazionale. E questo in nome di un’etnicità maggioritaria che riassumerebbe su di sé la responsabilità della litania dei subalterni e dei dimenticati della storia.

Traduzione dal francese di Deborah Borca

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La morte nell’immigrazione. La sepoltura come riferimento migratorio YASSINE CHAÏB

el dibattito sull’immigrazione l’interrogativo fondamentale, alla fine, è solo la costante preoccupazione dei vantaggi e degli inconvenienti apportati dai migranti o, in altri termini, la questione dell’utile e dell’indesiderabile. Questa istanza centrale del dibattito sull’immigrazione spiega anche le questioni “derivate”, vale a dire l’installazione temporanea o definitiva dei migranti nella società ospitante o, ancora, la loro capacità di assimilazione-integrazione in questa società. Inoltre, è con questo sfondo ideologico che il migrante, per tutta la sua vita, sarà sottoposto a tale questione, aggravata dal sospetto di mantenere un legame con la società e la cultura d’origine, quest’ultima percepita come una totalità omogenea, funzionale e trasmessa all’identico. La costituzione di una famiglia complicherà la comprensione del problema, poiché se da una parte essa non rientra nell’idea di un’immigrazione temporanea dei lavoratori, dall’altra, allo stesso tempo, rappresenta un indicatore di assimilazione-integrazione alla società ospitante. Così, giocando su questo paradosso, in passato certi immigrati diventavano cittadini nazionali (gli italiani, i polacchi, gli spagnoli), e oggi altri immigrati, di diversa provenienza forse, restano ancora degli stranieri. La questione della morte dell’immigrato rievoca questo para-

N

Y. Chaïb, “La mort dans l’immigration: l’enterrement comme repère migratoire”, in L’émigré et la mort. La mort musulmane en France, Edisud, Aix-en-Provence 2000, pp. 21-29.

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dosso, a cui la società ospitante si adegua. Così, in virtù della rappresentazione dell’aspetto temporaneo dell’immigrazione, l’ipotesi dell’immigrato malato, infortunato e soprattutto dell’immigrato morto non dovrebbe porsi, dal momento che esso può esistere soltanto vivo e pronto a offrire la sua forza lavoro. D’altronde, i segni della sedentarizzazione dell’immigrazione – come la costituzione di una famiglia – per il momento non funzionano, poiché la retorica consiste nel giocare al tempo stesso sull’aspetto permanente e temporaneo di questa realtà, e insieme sull’aspetto endogeno ed esogeno dei membri di questo gruppo rispetto alla società ospitante. Tale retorica non la vediamo, forse, pienamente in atto nel caso dei figli dei migranti, inglobati nella categoria “seconda generazione”, che vengono trattati sia come individui ancorati alla società ospitante sia al loro paese d’origine, a rischio di una schizofrenia? È evidente che lo sguardo posato sui migranti non sfugge alla questione fondamentale, per non dire originaria. La morte rivela questo paradosso, e addirittura sbatte contro una specie di tabù – il tabù legato alla morte stessa e il tabù dell’immigrazione, anch’essa una sorta di parabola della morte. La morte, infatti, è per così dire onnipresente tra gli immigrati. Innanzitutto la migrazione è una prima forma di morte: lasciare il proprio paese natale, i parenti e i legami familiari comporta una piccola morte nell’immigrato. In seguito, la vita dell’immigrato, fatta di precarietà, e la sorte a cui va incontro sono vissute come degli attacchi contro la sua sicurezza, la sua salute, che conducono alla malattia e alla morte. La morte dell’immigrato è l’apice del sentimento tragico della vita da immigrato, il fondo stesso della problematica del fenomeno migratorio. L’ultima tappa, infatti, è la scomparsa dell’immigrato, l’annichilimento completo, definitivo e irrevocabile del suo corpo e della sua coscienza individuale. Così, se da vivo l’immigrato è interrogato senza sosta, in maniera insidiosa o apertamente, è tormentato anche da una domanda che si pone lui stesso, sul ritorno al paese d’origine, che nel corso degli anni assume la forma di un mito. La questione della propria morte non si può porre per lui, o almeno non può che 66


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ravvivare la questione del ritorno – il ritorno che non ha fatto da vivo. Inoltre, che fare se la morte coglie l’immigrato senza che egli possa occuparsi del suo ritorno? “Dove mi farò sepellire?” si domanda l’immigrato, “lontano” dal proprio paese natale per ragioni “economiche”, nel paese ospitante. Ciò che accadrà al corpo dell’immigrato non esprime solo una preoccupazione individuale, ma implica l’intero gruppo: la morte è collettiva in quanto concerne il gruppo nel suo insieme (la famiglia, la comunità degli immigrati, quella del paese d’origine, quella della città o del villaggio natale ecc.) e soltanto l’esistenza delle forze di espulsione e di attrazione messe in atto dalla “comunità”, qualunque forma abbiano, presiede alla destinazione del corpo dell’immigrato. La morte è infatti una prova di verità per il gruppo perché, come sottolineano gli antropologi, nessun gruppo si disinteressa ai propri morti o li abbandona. “L’uomo è l’animale che seppellisce i suoi morti”, fa notare Louis-Vincent Thomas. Inoltre, l’immigrato conta proprio su queste forze “comunitarie” per effettuare il rimpatrio del proprio corpo (che in definitiva implica molto più di questo: la pace della sua anima), perché va da sé che, a queste condizioni, per l’individuo e il gruppo il ritorno che non si è fatto da vivi si farà da morti… La paura della morte durante l’immigrazione è dell’ordine della superstizione , perché non rappresenta affatto una conclusione – la conclusione del progetto migratorio, per non dire la conclusione della saga dell’immigrato. Anche da morto, l’immigrato subisce i tormenti della migrazione e la maledizione, per non dire l’anatema, lanciata su di essa. In realtà, la morte effettiva di un immigrato, e su cui l’informazione circola molto velocemente tra la popolazione maghrebina, non manca di alimentare la paura di morire lontano dai propri cari. Questa paura contrasta con il modo di vivere la morte in Maghreb, dove la si concepisce generalmente come una “morte voluta da Dio” e l’ultima ora come un segreto di Dio. È forse questa paura, inoltre, a condurre la maggior parte degli immigrati – come nel caso degli immigrati tunisini, verificato qui – 67


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a procedere al rimpatrio quasi sistematico dei loro morti verso il paese d’origine? Il legame simbolico del rimpatrio delle spoglie mortali Il rimpatrio delle spoglie mortali in terra islamica, sebbene non rivesta alcun carattere obbligatorio e ortodosso, costituisce nondimeno un gesto carico di simboli e di senso. Non merita dunque studiare il suo carattere dogmatico, ma il suo significato sociale, vale a dire ciò che simbolizza per coloro che utilizzano questa pratica. Il ritorno del defunto ha valore di mitema nel senso in cui lo intende Claude Lévi-Strauss – l’unità costitutiva di un mito, quello del ritorno alla terra d’origine, un patto di fedeltà plurimo: alla sacra terra islamica, alla terra degli antenati e alla terra natale. I trasferimenti di corpi tra il Maghreb e la Francia sono frequenti e sembrano riguardare sia le prime che le seconde generazioni. Oltre al vecchio mito della terra-madre, in cui si vuole riposare, la morte – così come la nascita – in condizione di immigrazione sembra tanto più comandata al giorno d’oggi dal mistero dell’“ordine genealogico”. Un corpo è innanzitutto un supporto genealogico, una prova dell’identità, e addirittura un titolo che un terzo può far valere su noi stessi. È per questo che gli italiani (calabresi), migranti in Nord America, talvolta rimpatriano delle bare vuote: per continuare l’ordine genealogico della tomba di famiglia.1 Da un punto di vista antropologico, la filiazione post mortem è una comunità di co-appartenenza, focalizzata su un antico eponimo, sulla valorizzazione di un luogo di nascita e sulla maledizione della morte in condizione di esilio. La morte è un elemento che minaccia la filiazione. Basta che un discendente scelga un luogo di sepoltura diverso da quello degli antenati perché la patrilinearità si spezzi. Sui giovani immigrati in particolare, dunque, grava a loro insaputa la responsabilità di rottura o meno con la terra na1. Vedi L. Lombardi Satriani, M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, Sellerio, Palermo 1989.

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tiva, a seconda che scelgano l’inumazione o il tradizionale ritorno dei morti verso un santuario originale. Il trasferimento delle spoglie mortali, di cui nessuno oltre al soggetto conosce i confini, è una morte senza frontiere, una passione per una certa forma di geografia che si realizza a propria insaputa. Di questo continente sempre sconosciuto, che non presenta alcun accesso immediato, resta sempre molto da riscoprire riguardo all’intrico tra il corpo e la terra d’origine. Nel contesto della scelta del luogo di sepoltura, la terra rinvia a un “dove” fondamentale, a un fondo stabile con cui si definisce precisamente la terra d’origine. In una topografia in cui ogni essere umano non smette di cercarsi, l’inumazione è interpretata come il ritorno al fondo della terra come fondo dell’essere. Perché questa ricerca necro-sociologica? Il nostro percorso di ricerca è un capovolgimento della problematica dell’immigrazione in Francia attraverso un’accentuazione e un’anticipazione, nel tempo e nello spazio, di un dato fondamentale: la negazione fisica, la morte dell’immigrato. La costruzione dell’oggetto passava per questa volontà di distruzione, di fare tabula rasa delle idee preconcette, di ritrovare, attraverso il rito della tesi, il dono della non-evidenza. Inoltre, bisognava mettere fine all’eterno immigrato. La sua morte annunciata come una sorpresa divina, specialmente nel progetto di ritorno, faceva passare sotto silenzio la morte reale in esilio. La morte è l’occasione, per l’immigrato, di riaprire il romanzo familiare, una lenta riapparizione e riappropriazione del suo itinerario biografico, che nel caso della migrazione maghrebina, è un sentimento di malinconia, un lavoro di rimaneggiamento/rinnegamento che egli effettua allo scopo di sopportare ciò che è diventato e di minimizzare ciò che avrebbe potuto essere. A prima vista, interessarsi ai morti e al posto occupato dalla morte nella popolazione immigrata potrebbe sembrare curioso. Perché studiare il modo in cui gli stranieri in Francia si rappresentano la morte e reagiscono davanti a essa? Perché osservare come si svolgono i funerali nelle condizioni di immigrazione? Il 69


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nostro studio non è certamente ispirato da un gusto più o meno morboso per le realtà macabre e tenebrose. Avviando una ricerca sul rimpatrio degli immigrati tunisini deceduti, ci siamo divisi tra momenti di apprensione, timori e momenti di forte curiosità per i ruoli successivi che abbiamo dovuto rivestire: ricercatore “classico” che consulta i registri dei decessi di un ospedale pubblico e le agende giornaliere di alcune società di pompe funebri; ricercatore-becchino pagato da una società di pompe funebri; ricercatore-coordinatore di funerali; ricercatore-pianificatore di cimiteri per conto della municipalità di Tunisi; infine, ricercatore-accompagnatore delle spoglie mortali che arrivano all’aeroporto di Tunisi. Al ritorno in Francia, le nostre ultime implicazioni avevano a che fare con la realizzazione di un bozzetto per un monumento ai morti dedicato ai “martiri musulmani” morti per la Francia, dalla Prima guerra mondiale in poi, e una consulenza sulla futura pianificazione del cimitero musulmano di Bobigny allo scopo di dare un riconoscimento durevole alle radici sotterranee dell’integrazione degli immigrati. La nostra ricerca sulla morte ha preso consistenza, in quanto progetto con una qualche validità, solo a prezzo di un lungo lavoro di distanziamento dall’oggetto, perché la morte in sé e i discorsi su di essa non significano nulla. Il fatto di lavorare come becchino per una società di pompe funebri ci ha permesso di seguire, vista l’impossibilità di vivere davvero la morte, le tappe e “l’itinerario mortifero” che segue l’immigrato deceduto. Questo itinerario ci ha condotto dall’altra parte del Mediterraneo. Laggiù abbiamo potuto osservare sulle facce della gente, attraverso i silenzi ma anche attraverso le parole, quanto la morte in esilio, e in particolare la morte di questa persona, l’immigrato, sia una maledizione, addirittura una colpa – quella di non aver rispettato l’obbligo a cui non si deve contravvenire: essere partito. Abbiamo perfino sentito un nativo lamentarsi del fatto che gli immigrati rimpatriati al villaggio natale “si mangiano le terre migliori”! Patetico? Certamente. Comprendiamo realmente, così, come la morte ci parli della vita e del modo in cui i vivi si preoccupano gli uni degli altri. Essa non riesce a mettere fine ai rapporti di forza che sono 70


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nati con l’immigrato ancora in vita… E ben presto il primo pensiero del ricercatore chiamato a constatare il decesso di un immigrato sarà di pensare subito alla morte non ancora ammessa come reale, la morte dell’immigrato da vivo, il morto vivente che egli è stato… Dalla mala-vita alla mala-morte: un guasto simbolico L’analisi delle interviste condotte da noi o da altri ricercatori fa apparire un tema che soggiace ampiamente alla vita quotidiana dell’immigrato, ovvero la “morte culturale”. Tutto il vocabolario mortifero traspare nella “mala-vita” [malvie] e nel suo doppio, la “mala-morte” [malmort]. Sia nelle interviste da noi realizzate ai vecchi immigrati, sia in quelle raccolte dagli autori di La malvie, l’analogia tra la vita dell’immigrato e quella dei morti-viventi, l’incessante oscillazione tra la vita e la morte non può non colpirci: “Questi uomini stanno consumando la loro vita in qualcosa che preannuncia la morte, qualcosa che ha espulso la vita dalle sue viscere […] e che si ostina a imitare il ricordo della vita. La mala-vita [malvie] è un’assenza dall’ombra di uccello, un’apparenza dietro una grande miseria su cui si è posato un velo, uno strappo lento, sordo, che segue il suo cammino e porta alla morte. Morte violenta nel cantiere. Morte precoce sulla strada. Morte per usura. Per difetto. Per mancanza”.2 Come un guasto simbolico, l’immagine dell’immigrato si è fissata al vocabolario della morte, è l’estremo limite raggiunto: significa che soltanto la morte lo può riportare al suo paese. “Resta ancora da sapere la morte di chi”, si domanda Noureddine, uno degli immigrati di La malvie. Uscito dalle quattro mura della fabbrica, l’immigrato ritorna nelle tenebre: “Non resta che la sera, momento difficile. Quando torno a casa, è tutto buio. È come una tomba. Il sonno non arriva. Penso all’Algeria. Tra due anni mio figlio andrà a scuola. Spero almeno di non morire qui, tutto solo”.3 2. D. Karlin, T. Lainé, La malvie, Editions Sociales, Paris 1978, p. 209. 3. Ivi, p. 218.

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Il sonno è un incubo. Lo spazio onirico stacca la mente dal corpo, la memoria dalla materia: “Quando vado a letto, lo scheletro è qui nel letto, ma il ricordo è dall’altra parte del Mediterraneo […]. Il ricordo ha preso il largo […]. Ora lo scheletro è in Algeria, ma il ricordo è in Francia”.4 L’immigrato è un moribondo circondato da immagini di morte. È un universo che si è interiorizzato, nei suoi fatti e nei suoi gesti, come una “parte di morte che ti è entrata dentro”, poco alla volta: “Morto o vivo, una sofferenza senza remissione, un punto di non ritorno […]. La morte è lì in fondo, nel momento stesso in cui si distendono le braccia, tanto l’immagine sembra vivida e vicina”.5 L’immigrato ritrova una parvenza di unità soltanto nello sforzo, in cui tutto fa blocco. Soltanto lo scheletro resta unito per costituire l’uomo nella sua corporeità fisica, l’uomo al lavoro, l’uomo dello sforzo che manda il denaro e fa vivere la sua famiglia. Qual è il luogo di riposo e di pace quando la vita dell’immigrato è parassitata dalla morte? Forse è un cimitero, l’unico posto in cui si possa stabilire una comunità profonda. “Non siamo tranquilli fino al giorno in cui partiamo per il cimitero”, confida Sadek.6 Qual è il luogo di sepoltura in condizione di immigrazione? La risposta non sembra sorprendere: “Morire laggiù, almeno per non gelare per sempre in questo silenzio, lontano dal Nome, dalla discendenza e dall’amore”, afferma poeticamente Naïmi. Lo sdoppiamento progressivo giunge al termine solo nella possibile adeguatezza tra un luogo e la morte. L’islam in/di Francia: radicarsi attraverso la tomba La costruzione di un nuovo oggetto di ricerca non avviene senza porre qualche problema. Come fa notare Jean Leca,7 “davanti 4. Ivi, p. 222. 5. Ivi, pp. 272-273. 6. Ivi, pp. 9-11. 7. J. Leca, L’Islam, l’Etat et la société en France, in B. Etienne, L’Islam en France, CNRS, Paris 1990, p. 43.

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un oggetto caldo, non ancora costruito, e la cui costruzione stessa è oggetto di conflitti, tutti prendono la parola, non soltanto i ricercatori accademici seri […]. Il ricercatore è quindi doppiamente disturbato, sia dall’oggetto in quanto tale sia dalla propria partecipazione – inevitabile, per quanto (a volte) ne possa essere consapevole – ai ‘rumori’ emessi per nominare questo oggetto”. La questione dell’islam in/di Francia (o “problema”, come si direbbe invece nelle sfere mediatico-politiche) è l’esempio emblematico di un oggetto di ricerca “caldo”. Da una decina di anni, sono numerosi gli scritti e i convegni consacrati a questo tema, che testimoniano quindi una domanda sociale forte, particolarmente da parte dei poteri pubblici intorno alle questioni del fondamentalismo/integralismo e della laicità repubblicana, vale a dire le problematiche imposte che si fondano su rappresentazioni sociali così forti che Etienne Balibar non può fare a meno di ironizzare: “Si va ripetendo che l’islam è diventata la seconda religione di Francia. Ma ci sono momenti in cui ci si potrebbe chiedere se la prima non sia l’ossessione islamica!”.8 Tutti gli interrogativi si riassumono così nella questione di sapere che cosa può essere un’identità musulmana trapiantata in terra straniera e, più precisamente, la sua compatibilità con i valori della società ospitante. L’accettazione stessa di questa problematica spiega la forma giudicata a volte partigiana di questi lavori – apologetici per gli uni, requisitori per gli altri… “Essere musulmano in Francia” significa, in sostanza, posizionarsi tra due poli: uno fondamentalista, l’altro definito “l’islam senza risalto”, l’islam domestico, per non dire “inoffensivo”, e praticato dalla maggior parte dei musulmani di Francia. Per conoscere e rintracciare un’“identità musulmana” in Francia, “l’itinerario della deviazione”9 è consistito per noi nell’analizzare l’islam in Francia attraverso il prisma della morte e lanciarci in un cammino di ricerca un po’ svalorizzante, perché 8. E. Balibar, in “Libération”, 3 novembre 1989. 9. L.-V. Thomas, Mort et pouvoir, Payot, Paris 1978, p. 9.

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tocca al tempo stesso un tabù e una realtà relegata in secondo piano, di cui gli specialisti, cioè i rappresentanti dell’islam “francese”, non si preoccupano ancora granché. Inoltre, tentare di comprendere l’oggetto “islam in Francia” ha voluto dire innanzitutto porre l’ipotesi della sua inesistenza. Proporre questa ipotesi, deliberatamente iconoclasta, non è un modo di prendere posizioni avverse nei dibattiti, ma mira piuttosto a mettere in questione alcuni artefatti, politicamente e socialmente costruiti. Gli indicatori che si danno come punto di riferimento le pratiche culturali/cultuali dei musulmani, a nostro avviso, infatti, privilegiano troppo l’artificio. A cominciare con l’artificio statistico che, partendo dalle cifre che contabilizzano la presenza degli immigrati, conclude ipso facto che esistono altrettanti “musulmani sociologici”. Ma questo artificio, applicato ad altre categorie di popolazione, verrebbe subito duramente criticato. Ci troviamo qui direttamente nel “paradosso francese”, che consiste nel valutare politicamente il “peso” di una popolazione “specifica” negando il fatto comunitario da una parte, e nel legittimare posizioni radicalmente diverse a partire da elementi sparsi di ciò che potrebbe costituire una sociologia di questa religione. Con ogni evidenza, l’analisi in profondità del processo di formazione di un’identità musulmana francese purtroppo non è ancora avvenuta. Se è fuor di dubbio che gli immigrati di origine maghrebina in Francia abbiano una religione, il criterio di appartenenza è davvero multidimensionale, cioè eretico agli occhi dei dotti saggi dell’islam. A nostro avviso, ed è ciò che abbiamo tentato di dimostrare nel nostro libro, la morte rappresenta un indicatore pertinente dell’esistenza o della formazione di un’identità religiosa. Se, da un lato, il concetto di “praticanti” applicato ai musulmani è piuttosto vago soprattutto in Francia, ma non solo (dobbiamo considerare i cinque pilastri dell’islam come unici criteri delle pratiche cultuali?), dall’altro, il modo di concepire la propria morte è un criterio che ha davvero senso per ogni individuo. Qualunque sia stata la vita dell’immigrato, non proclama davvero la sua identità 74


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di musulmano solo con il giungere della morte? La preoccupazione di una morte “giusta”, che egli manifesta distintamente, ha come origine la volontà di manifestare una “fedeltà” a se stesso, da una parte, e la paura della morte anonima, dall’altra. La volontà di morire fedele al rituale musulmano, dando un nome e un volto all’istante del morire, è un modo per lui di dare un nome alla sua morte, e di salutarla. In questo senso, il vero “corpo del reato” di un islam francese si fonda su un cumulo di ossa, prova inconfutabile da esibire un giorno davanti allo spergiuro del tempo e degli uomini. In altri termini, l’islam come religione in Francia sarà davvero impiantato e radicato sul suo suolo soltanto quando gli immigrati di confessione musulmana eleggeranno la loro ultima dimora proprio lì, un metro sotto terra, e quando le loro sepolture saranno legittimamente riconosciute e onorate. La presenza di queste sepolture sigillerà così una vera forma di religione, una unità tra un aldiqua e un aldilà. I rappresentanti dell’islam in/di Francia, infatti, non possono invocare l’esistenza di fedeli e recare la prova della loro esistenza (la frequentazione delle moschee) e al tempo stesso nascondere la loro morte. Soltanto la presenza di tombe musulmane inscrive il territorio francese nella configurazione della Dar-alIslam, mentre quella delle moschee lo colloca nella Dar-alHarb.10 Certo, il cimitero e la moschea sono luoghi che non offrono la stessa ospitalità, ma a nostro avviso il primo è un luogo più importante del secondo, poiché è il punto di ancoraggio carnale e il riferimento architetturale di una memoria individuale e collettiva, punto nodale delle altre articolazioni dell’integrazione degli immigrati di origine maghrebina nella società francese. È più semplice reclamare la creazione di moschee che quella di cimiteri, poiché essi non si improvvisano tanto facilmente come luoghi di culto quanto un appartamento (sebbene una sentenza della corte d’appello di Lione ha sancito che un appartamento non è 10. I musulmani distinguono la Dar-al-Islam (letteralmente, “la dimora dell’islam”), cioè l’insieme dei territori sottoposti alla sovranità politica e religiosa dell’islam, dalla Daral-Harb (letteralmente, “la dimora della guerra”), cioè dai territori esterni alla Dar-al-Islam. [N.d.T.]

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una moschea, per il fatto che va contro il regolamento di una comproprietà!). La morte, quindi, è un indicatore di ciò che fonda l’identità di un gruppo e dello stato delle sue pratiche culturali/cultuali. I riti di morte sono codificati, in particolar modo nell’islam. Ma la morte in condizione di immigrazione attraversa delle frontiere, che sono geografiche ma anche tra due saperi, tra due pratiche culturali, nel senso che i funerali del musulmano sono portati a negoziare tra il diritto “naturale” dell’uomo di designare il suo luogo di sepoltura e i vincoli di una legislazione internazionale che ha esigenze formali. Questa tela di fondo giuridica ha tracciato una regola razionale che realizza universalmente una “morte senza frontiere”, privilegiando il diritto a scapito del culto dei morti, e inoltre non è priva di conseguenze – a cui si aggiungono i “piccoli arrangiamenti con i morti” constatati nella società ospitante – sulle modificazioni del rituale musulmano e sulla comparsa di un sincretismo riguardante la sepoltura musulmana nella società ospitante. L’integrazione tramite la morte Dal momento che la morte costituisce un elemento simbolico rilevante in ogni società, è importante prendere in esame il morire degli immigrati nella società ospitante e il modo in cui gli immigrati percepiscono la morte in questa stessa società. Il senso che il migrante dà alla propria morte deve essere preso in considerazione dal paese ospitante, e la decisione di morire “qui” o “là” è, a nostro avviso, l’istanza fondamentale della migrazione, il “negativo” della vita dell’immigrato, che testimonia, molto meglio delle pratiche alimentari per esempio, i processi attraverso cui passano i migranti e che fanno apparire le evoluzioni o i cambiamenti che avvengono durante l’immigrazione. La morte è un indicatore molto vicino all’immigrato, perché, più di ogni altro aspetto della sua vita (il lavoro, il matrimonio ecc.), è al tempo stesso intima del monologo dell’immigrato ma riguarda anche la collettività, sebbene rientri nell’ordine del non-detto collettivo. La morte reale e simbolica rivela, più di ogni altro elemento, i complessi 76


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legami che l’immigrato intrattiene con se stesso, con la famiglia, con la comunità in senso ampio, con il paese d’origine e quello ospitante. Le circostanze del decesso degli immigrati testimoniano i rapporti fondamentali con le due società e la gestione della morte dell’immigrato porta alla luce la realtà dei legami con il luogo e dei legami familiari. Allora che cosa bisogna pensare del comportamento, sempre più frequente, che consiste nel seppellire i morti in Francia invece di farli rimpatriare, come vuole la tradizione? Il continuo incremento delle naturalizzazioni e dei matrimoni misti è un attacco all’integrità originale di un tabù? La scelta di un luogo di sepoltura diverso, a medio o a lungo termine, da parte di una popolazione di origine arabo-musulmana, rompe il tabù della filiazione al padre o all’antenato? Ai diversi parametri che giocano un ruolo nel fenomeno migratorio, possiamo aggiungere un altro fattore di integrazione, difficilmente misurabile e immensamente sensibile? La morte, insomma, come integrazione della comunità immigrata di origine maghrebina attraverso la disintegrazione dei loro corpi? Nel fatto di “interrare” i morti vicino ai luoghi della vita possiamo vedere un segno di sedentarizzazione e di integrazione? Un luogo in cui finalmente si spezza “il provvisorio che dura”? La morte, infatti, non è l’elemento naturale di una integrazione, dal momento che la sua decomposizione rifà la composizione del passato e anticipa quella del futuro? La morte, in particolare, è secondo noi il simbolo di un radicamento dei maghrebini, che si radicano, se così si può dire, attraverso i morti che essi seppelliscono in Francia. Radicamento tramite la morte, integrazione tramite la morte… Sì, sono qui per restare e, perché no, anche per morirvi…

Traduzione dal francese di Deborah Borca

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Abdelmalek Sayad: un “passeur” alle frontiere del sapere DAVIDE DURÌ Non credo in un mondo, si tratti di un mondo passato o di un mondo futuro, in cui la mente dell’uomo, attrezzata per ritrarsi dal mondo delle apparenze, possa o debba sentirsi mai confortevolmente a casa. H. Arendt, La vita della mente Oui, on est sur une terre mouvante; c’est le brouillard total. Zahoua1

a dignità intellettuale accordata a un oggetto di ricerca tende a essere direttamente proporzionale alla sua dignità sociale. Ciò vuol dire che, quanto più questo oggetto gode del riconoscimento di un certo prestigio e valore sociali, tanto più sarà considerato degno di essere pensato, cioè onorato dell’attenzione del discorso filosofico o scientifico, il quale, a sua volta, trarrà onore dalla presenza di quest’ospite autorevole. Il capitale va sempre al capitale, anche nel mercato dei valori simbolici. Ci sono, dunque, realtà che si prestano, quasi per vocazione, a quella particolare forma di trasfigurazione, che il pensiero fa loro subire, “elevandole” – come si dice – alla sfera spirituale del concetto e dell’intellezione; altre reputate indegne e risibili, se non addirittura vergognose, “come il capello, il fango, il sudiciume e altro che sia di natura vile e spregevole al massimo grado”,2 e abbandonate, perciò, all’inessenziale, all’empiria, alla chiacchiera più triviale. Nell’ambito delle scienze sociali, l’immigrazione è stata a lungo tra queste ultime (e, in parte, lo è ancora, soprattutto laddove il fenomeno è relativamente recente). Persino in un paese come la

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1. Giovane studentessa beur, intervistata da Sayad nel 1975; cfr. A. Sayad, “Les enfants illégitimes”, in L’immigration ou les paradoxes de l’altérité, De Boeck, Bruxelles 1991, p. 212. 2. Platone, Parmenide, in Opere, Laterza, Bari 1966, vol. I, p. 528.

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Francia, che in materia può vantare un’antica tradizione (antica quanto la sua storia coloniale), la cosiddetta “questione dell’immigrazione” non ha rappresentato che un oggetto minore del discorso scientifico, un semplice pretesto – nella migliore delle ipotesi – per parlare di qualcos’altro, di qualcosa di più importante e meglio definito, in seno all’ortodossia dei saperi costituiti: per parlare, cioè, della “storia nazionale”, delle vicende che hanno accompagnato la formazione della popolazione e della cultura nazionali, della “potenza assimilatrice” delle istituzioni democratiche e repubblicane. Ventriloquio dello Stato, il racconto delle umiliazioni e delle sofferenze di queste “vite infami” è solo l’ultimo tassello nella mitologia celebrativa della gloria della Nazione; la narrazione di una storia come racconto del “proprio” passato, del “già-stato” di ciò che si è.3 Perché l’immigrazione “buona”, quella “riuscita”, quella assimilata perché assimilabile (e, dunque, scomparsa in quanto tale nel “crogiolo” nazionale),4 quella dicibile, non può dirsi che al passato, un passato che spesso ci si compiace di opporre al fallimento del presente, cioè all’immigrazione “cattiva”, come è sempre quella dell’oggi: “problematica”, se non addirittura illegittima e, perciò, condannata alla clandestinità. Ma ancora più spesso, l’immigrazione non è altro che un oggetto di polemica da bassa politica, tutta interna alla società d’immigrazione, rispetto al quale ognuno può permettersi di prendere la parola, di dirsi “esperto”, spacciando per riflessione i luoghi comuni più grossolani e brandendo come un’arma il proprio pezzettino di Stato di fronte a chi, per definizione, è condannato a non avere altra parola che quella che altri hanno già formulato 3. La “museificazione” dell’immigrazione, con la recente inaugurazione a Parigi di una Cité nationale de l’histoire de l’immigration, sembra rispondere a questa esigenza di “appropriazione” di un fenomeno che, se non adeguatamente addomesticato, rischia di spezzare la trama del racconto nazionale, introducendovi, come per effrazione, la rottura e il disaccordo della sua propria temporalità; su questo punto cfr. A. Boubeker e A. Hajjat (a cura di), Histoire politique des immigrations (post)coloniales, Editions Amsterdam, Paris 2008, in particolare l’introduzione, pp. 11-18. 4. Cfr. G. Noiriel, Le creuset français. Histoire de l’immigration, XIXe-XXe siècle, Seuil, Paris 1988.

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per lui. Destino di soggetti marginali e doppiamente dominati: dominati simbolicamente – cioè privati della possibilità di costruire autonomamente la propria “rappresentazione” – perché dominati socialmente (e negati politicamente); la verità degli immigrati non potrebbe pretendere altra espressione se non quella, sgrammaticata, dei più triti deliri da stato d’assedio. Abdelmalek Sayad si è occupato per tutta la vita di questi (s)oggetti dominati e posti ai margini dello spazio sociale e del sapere. Lo ha fatto dedicandovi tutta la propria passione e intelligenza. L’impegno e l’ostinazione impareggiabili tradiscono, certo, il fatto che, per lui, si è trattato davvero dell’opera della vita, di un’opera che – senza retorica – ha finito col confondersi con la sua stessa esistenza: l’esistenza di un cabilo, che ha vissuto la colonizzazione, con la sua scia di violenze, umiliazioni, alienazioni, con gli sconvolgimenti di ogni tipo che hanno trasformato l’Algeria contadina e “tradizionale” in una società di sottosviluppo e di emigrazione (sotto)proletaria;5 che ha vissuto la guerra d’indipendenza, di cui seppe intuire presto e con una lucidità straordinaria tutte le ambiguità e le complicità oggettive con la logica coloniale; il distacco dai luoghi familiari e, infine, l’emigrazione verso la Francia (anche se nell’asilo privilegiato dell’Ecole pratique des hautes études, VI Sezione – quella che diventerà l’Ecole des hautes études en sciences sociales). Sono state queste esperienze ad avergli imposto l’“oggetto” di una ricerca che si è conclusa solo con la morte. Una ricerca sul marginale e sull’inessenziale; una ricerca su ciò che, nell’ambito del sapere, non meritava migliore considerazione di quella riservata a una manodopera immigrata a buon mercato nel paese di cui era (soltanto) “ospite”. Ma come evitare, in una simile impresa, di perdersi e cadere in un “abisso di stoltezze”?6 Come far sì che un discorso su ciò che è reputato (socialmente) piccolo, indegno, marginale, inessenzia-

5. Cfr. P. Bourdieu e A. Sayad, Le déracinement. La crise de l’agriculture traditionelle en Algérie, Minuit, Paris 1964. 6. Platone, Parmenide, cit., vol. I, p. 528.

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le, non sia, a sua volta, un discorso piccolo e marginale, un discorso minore? Come può l’immigrato passare i confini presidiati del sapere legittimo? In altri termini: come “pensare” l’immigrato, chiedendo addirittura per lui un permesso d’ingresso nella cittadella filosofica – consacrazione ultima di ciò che è degno di essere pensato? Forse, sarebbe necessario soltanto un piccolo accorgimento formale; un semplice trucco, come un travestimento; una leggera – ma decisiva – manipolazione dell’aspetto del problema. In fondo, basterebbe mettere l’immigrato “tra virgolette”, prendere una certa distanza rispetto alla sua imbarazzante contingenza e concedergli, così, tutti gli onori di uno sguardo purificato. Perché non parlare, allora, dell’immigrato, visto che sappiamo che, in realtà, attraverso e “al di là” di lui, parliamo di qualcosa di fondamentale e, senza dubbio, di adeguato all’altezza e “distinzione” del pensiero?7 Parlare dell’“immigrazione” (tra virgolette) non è un modo obliquo, forse originale, per confrontarsi con una questione centrale (e ormai “familiare”) del dibattito filosofico-politico, vale a dire dell’“alterità”, di quell’ospite inquietante che la modernità ha scoperto abitare la sua stessa dimora? Non sarebbe questo un modo appropriato per essere presenti nella realtà del nostro tempo, nelle trasformazioni che investono le nostre società, senza rinunciare, con ciò, alla serietà e alle prerogative della riflessione erudita e senza costringere il pensiero a una inopportuna torsione verso l’“empirismo” più prosaico? Eppure, se non si lascia, a sua volta, interrogare sui suoi propri presupposti, una simile maniera di nobilitare l’oggetto-immigrazione spostandolo, in certa misura, dai suoi margini, rischia di rivelarsi l’ennesima – e forse la più perniciosa – forma di censura: la rimozione dell’ambiguità costitutiva della condizione di immigrato, rispetto alla quale ogni tentativo di fissazione o di identificazione – fosse anche nella sua irriducibile alterità, nella 7. Cfr. P. Bourdieu, “Censure et mise en forme”, in Langage et pouvoir symbolique, Seuil, Paris 2001, pp. 343-377.

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sua differenza8 e separatezza – non può che risolversi in uno scacco, nella falsificazione dell’esistenza stessa del migrante e nel misconoscimento del gioco tra identità e alterità in cui è, spesso suo malgrado, impegnato.9 Come se, una volta spodestato l’identico dalle sue sovrane prerogative, fosse rimasto qualcosa come un “altro” originario, fondamentale, che andrebbe a occupare il centro della scena! Da un’essenza all’altra; e da una sedentarietà all’altra… Forte di un’eccezionale padronanza degli strumenti dell’analisi sociale, ma anche di una sensibilità acuta per le risorse di senso dell’interrogazione filosofica e, soprattutto, di una biografia personale che lo ha visto sempre assumere la posizione dell’“entre-deux”, Sayad è riuscito, invece – e ciò costituisce, a mio avviso, l’esemplarità e allo stesso tempo l’ineguagliabilità della sua opera –, nell’impresa destabilizzante (per l’insieme delle nostre categorie sociali, politiche e cognitive) di far parlare questi marginali, senza abbandonare, però, i margini in cui passano i complessi processi di “soggettivazione” che li riguardano, 8. Declinato, oggi, in termini “culturalistici”, il discorso sulla differenza costituisce, ormai, il linguaggio dominante, attraverso cui si dice la questione dell’immigrazione, sia che si tratti di denunciare la differenza inassimilabile delle popolazioni immigrate rispetto ai valori e alla cultura occidentali (si pensi, per esempio, al tema in voga in certi circoli politico-mediatici dell’incompatibilità di fondo tra islam e democrazia), sia che, al contrario, ci si compiaccia della differenza e si accolga con soddisfazione la “specificità culturale” degli immigrati. Sayad, da parte sua, ha sempre diffidato di questo tipo di discorsi (che, tra l’altro, impongono una configurazione della problematica, da cui viene, di fatto, espunta la questione dell’identità politica e civile degli immigrati) e del “feticismo” della differenza culturale, che fa della “cultura” una realtà autonoma, sostanziale, slegata dalle pratiche della vita quotidiana e dalle strategie di sopravvivenza messe in atto da agenti, i cui “riferimenti culturali” non possono che essere molteplici e non necessariamente coerenti. Una cultura che si tratterebbe di preservare, di sostenere, di mobilitare nell’affermazione di se stessi. Le persone “normalmente” (cioè nella quotidianità delle loro interazioni con gli altri e col mondo in cui sono immerse) non si occupano di preservare, né di difendere una cultura (la loro); si limitano (quando sono nelle condizioni di poterlo fare) “semplicemente” a vivere – o a sopravvivere. Cfr. A. Sayad, Les usages sociaux de la “culture des immigrées”, Centre d’information et d’études sur les migrations méditerranéennes (CIEMM), Paris 1978, e Id., La culture en question, in AA.VV., L’immigration en France, le choc des cultures, Actes du colloque “Problèmes de culture posés en France par le phénomène des migrations récentes” (maggio 1984), Dossiers du Centre Thomas More, Recherches et documents, 51, L’Arbresle, Paris 1987. 9. Su questo punto, cfr., per esempio, le “tre interviste sull’identità”, poste in appendice al capitolo “La naturalizzazione”, in A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato (1999), Raffaello Cortina, Milano 2002, pp. 299-365.

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collocandosi, così, nella frontiera che li abita e li attraversa da parte a parte, cioè nel luogo stesso di un conflitto, la cui posta in gioco è, precisamente, la definizione dell’identico e dell’altro, del simile e del dissimile, del riconosciuto e dell’estraneo, ma che è anche la loro soglia di indistinzione, di problematizzazione, di crisi permanente; il “luogo”, cioè, dove questi concetti perdono la loro abituale e rassicurante fisionomia e la possibilità di essere riconosciuti come tali, acquisendo, con ciò, un margine di pensabilità. Sayad si è stabilito in questa frontiera, per pensarla e mostrarci cosa è in gioco nel suo attraversamento. “Parlare dell’immigrazione – egli ha scritto – significa parlare della società nella sua interezza.”10 Significa pensare la società a partire dai suoi margini, dalle sue “definizioni” e, in definitiva, dalle sue “istituzioni” più fondamentali. Ogni spazio – geografico, sociale, politico, culturale – è infatti de-finito dai suoi margini, da quei bordi che lo contornano e lo racchiudono, costituendolo come tale attraverso la separazione da un “esterno”, con cui, tuttavia, continua a rimanere pericolosamente in relazione. Ciò che qui è in gioco è, allora, proprio il potere di imporre una frontiera, quel limite che introduce una partizione primaria nel reale e che ce lo rende esperibile secondo la sua legge: un nomos, come istituzione arbitraria di una certa realtà, per mezzo di una discontinuità che si fa pensare come “naturale” – che, cioè, non si fa propriamente pensare.11 La “naturalizzazione” delle differenze (e, con ciò, dell’ordine che le distribuisce e le gerarchizza) passa, insomma, attraverso quelle particolari pratiche politiche del confine che Pierre Bourdieu ha chiamato – per l’appunto – “riti di istituzione”: vere e proprie operazioni di “magia” sociale, che fanno di ogni passaggio, di ogni soglia o porta altrettanti limiti (valicabili solo a certe condizioni: iniziazione, identificazione, naturalizzazione ecc.), in modo da far esistere ciò che, così, viene separato, diviso, defini-

10. A. Sayad, L’immigration ou les paradoxes de l’altérité, cit., p. 15. 11. Cfr. P. Bourdieu, “Le démon de l’analogie”, in Le sens pratique, Minuit, Paris 1980, in particolare p. 348 sgg.

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to: un dentro e un fuori, due gruppi al di qua e al di là della linea, “noi” e “loro”.12 Tutto il nostro universo sociale, l’insieme delle categorie attraverso cui percepiamo il mondo in cui viviamo, si costituisce a partire da questa operazione “sovrana” che consiste nel tracciare delle frontiere, nel “de-finire” gli spazi e i gruppi e nel prescrivere appartenenze indefettibili.13 Un’intera visione della realtà, attraverso una di-visione dello spazio e degli uomini che lo abitano. La frontiera si impone, così, come principio costitutivo del pensabile e dell’esperibile: l’indiscussa evidenza su cui poggiano tutte le domande, tutte le ricerche (e le richieste) di senso. Interrogare la frontiera, allora, è un’operazione degna di questo Socrate d’Algeria, di chi, impertinente e sempre inopportuno come il filosofo, vorrebbe costringere gli altri a mettere in discussione ciò che ritengono sia fuori discussione, a oggettivare i presupposti più radicati del loro agire e pensare, a sospendere, anche solo per un attimo, l’adesione incondizionata a ciò che “va da sé”, alle proprie certezze, al monologo assordante della doxa. Anche se Sayad non ha mai creduto possibile affrancarsi completamente dalle categorie che informano il nostro sguardo abituale sulla realtà (dai rapporti di sapere e di potere che ne costituiscono l’intrico), gli è sempre stata chiara l’esigenza (etica e intellettuale) di sapere ciò che dobbiamo loro e ciò che la realtà, così come ce la “rappresentiamo” deve loro, a maggior ragione se si è impegnati in quell’impresa, mai esente dal rischio di manipola-

12. Cfr. Id., “Les rites d’institution”, in Langage et pouvoir symbolique, cit., pp. 175-186. 13. Atto eminentemente “sovrano” quello di tracciare una frontiera! Emile Benveniste lo sottolinea, richiamando la comune origine di due importanti termini latini, il sostantivo rex (re) e il verbo regere (“governare”, “guidare”, ma anche “stendere in linea retta”, “tracciare i confini”): “Questa duplice nozione è presente nell’importante espressione regere fines, atto religioso, atto preliminare della costruzione; regere fines significa alla lettera ‘tracciare le frontiere in linea retta’. È l’operazione che compie il grande sacerdote per la costruzione di un tempio o di una città e che consiste nell’indicare sul terreno lo spazio consacrato. Operazione di cui è evidente il carattere magico: si tratta di delimitare l’esterno e l’interno, il regno del sacro e il regno del profano, il territorio nazionale e il territorio straniero. Questo tracciato è fatto dal personaggio investito del massimo potere, il rex” (Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, 1969, vol. I, “Potere, diritto, religione”, Einaudi, Torino 1976, p. 295).

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zioni e abusi, che è la ricerca scientifica in campo sociale. Per essere all’altezza di questa responsabilità, che impegna in un costante lavoro di revisione critica di se stessi e degli strumenti cognitivi con cui ci familiarizziamo al mondo e alla società in cui viviamo (lavoro indispensabile se si vuole sfuggire, almeno in certa misura, ai determinismi e agli automatismi sociali e tecnico-politici, all’inerzia autoriproduttiva delle istituzioni), occorre saper esercitare, sui propri pensieri, le proprie azioni e condotte, quella forma di vigilanza, cui si può pervenire solo praticando una certa “doppiezza”. Fare il doppio gioco con il “reale” – e con se stessi, in quanto parte di questo –, starsene un po’ ai margini, cioè dentro e fuori contemporaneamente. Come Socrate, “straniero” in mezzo alla sua stessa città. Come l’immigrato (e l’emigrato), rispetto alle comunità nazionali, in cui è, allo stesso tempo, presente e assente… E come Abdelmalek Sayad, che ha appreso questa esperienza di un’appartenenza impossibile, tra un ordine coloniale alienante e un’“indipendenza” che non sarà mai riuscita a sbarazzarsene,14 rivivendola in Francia, nel suo rapporto con quelle istituzioni di sapere (e di potere), che si fanno carico della conoscenza delle condizioni di vita degli immigrati – agenzie pubbliche e private, centri di documentazione e di ricerca, università ecc.: un’intera batteria di strumenti atti a produrre sapere, “per avere sugli immigrati tutta la conoscenza che si può desiderare e, allo stesso tempo, il potere che dà questa conoscenza”.15 Sayad ha saputo “giocare” questo sapere, ne ha utilizzato le strutture e le risorse, ma sviandole – in certo modo –, deviandone il senso, depistandole, facendo loro dire altro da ciò che erano state preposte a dire. Ha portato questo “discorso sugli immigrati” ai margini delle proprie condizioni di possibilità, nella soglia impadroneggiabile dove gli immigrati possono, infine, prendere la parola e produrre il loro proprio discorso. 14. Sayad elabora questa esperienza “critica” in Histoire et recherche identitaire, suivi d’un Entretien avec Hassan Arfaoui, Bouchene, Paris 2002. 15. A. Sayad, “Immigration et conventions internationales”, in L’immigration ou les paradoxes de l’altérité, cit., p. 271.

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Il discorso “degli” immigrati, che Sayad è riuscito a raccogliere e a riportarci con una fedeltà che è più del rispetto di una regola metodologica, perché impegna il ricercatore in una responsabilità enorme di fronte all’altro e a ciò che è stato detto (la responsabilità di rispettare la tacita promessa di far comprendere il senso di un’esperienza incomprensibile per chi non l’abbia vissuta), spiazza un sapere, che si è accontentato, il più delle volte, di ratificare le verità di senso comune, se non addirittura della chiacchiera più disinformata e che è servito a cementificare il consenso attorno a un paralogismo infernale: l’immigrato è solo forza-lavoro di riserva, dunque revocabile in ogni momento; la sua esistenza si riduce a questa presenza (eccessiva) in un sistema produttivo, di cui deve essere utile strumento, dunque la sua vita non può avere altra forma che quella del rispetto delle regole, dell’“essere in regola” con una società di cui non fa parte, perché viene da un altrove a cui appartiene e a cui, prima o poi, è destinato a far ritorno. L’immigrato sarebbe, allora, un puro artefatto, la costruzione (sociale) di una soggettività interamente accordata alle esigenze – materiali e simboliche – della società che lo accoglie temporaneamente, fintantoché ne avrà bisogno. Lavoratore per necessità e straniero “per definizione”. Tutta la sua avventura migratoria è subordinata a questo imperativo paralizzante: rassicurare tutti – compreso se stesso – sul fatto che rimarrà identico a questa definizione, che sarà sempre riconoscibile e identificabile, attraverso la differenza che rappresenta e che dovrà esibire ogniqualvolta gli verrà richiesto (o, per meglio dire, ingiunto) di uscire allo scoperto, di farsi vedere, tradendo, così, la sua estraneità. Ma se si accettasse l’invito di Sayad, se, cioè, ci si sforzasse di ascoltare le parole che tentano di raccontare l’impossibile e inevitabile “vita da immigrato”,16 si sarebbe costretti a quella non comune esperienza di “stupore” di fronte all’inatteso, al non previsto, che costituisce la verità impensata dell’esperienza migratoria, ma che da sempre è anche ritenuta la fonte originaria di 16. Cfr. A. Sayad, La maledizione (1993), in questo fascicolo.

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ogni pensiero. Si scoprirebbe innanzitutto l’inattendibilità delle nostre più consolidate categorie di percezione di fronte al delinearsi di una figura dai contorni indefiniti, difficile da focalizzare, perché presa all’interno di un movimento incessante, che la sposta di continuo dal luogo in cui si cerca di fissarne la presenza. Questa presenza – ciò che (ap)pare dell’immigrato in quanto è (soltanto) un immigrato –, spesso così vistosa, perfino provocatoria, in realtà ci sfugge di continuo, irrimediabilmente. È come se vi fosse sovrimposta un’“inapparenza” che ne sfocasse la fisionomia abituale, rendendocela irriconoscibile e che ci forzasse a un’innaturale tensione dello sguardo. Perché un’assenza si dà nello stesso tempo e abita lo stesso luogo di questa presenza. Un’assenza che raddoppia in modo paradossale la presenza immigrata, accompagnando ogni sua manifestazione. L’immigrato, infatti – ed è una cosa che un certo realismo ingenuo (che è anche una forma di etnocentrismo, che ci priva della possibilità di immaginare un altro punto di vista) tende a farci ignorare –, è “anche” un emigrato, un assente, uno che non c’è… “L’emigrato è il doppio dell’immigrato”, la sua verità nascosta, invisibile, irrappresentabile: colui che s-fugge, appunto, che non si fa trovare dove ci si attende che sia – e dove, in realtà, dovrebbe essere. Al limite un traditore, un disertore, uno che si è perduto, perché ha perduto ogni punto di riferimento stabile. Non si sa dov’è, né se ritornerà.17 Presente e assente nello stesso tempo e nello stesso luogo, sia “qui” che “laggiù”: è come se l’immigrato/emigrato vivesse una “doppia vita” contraddittoria, che rende precario ogni equilibrio e impedisce l’attribuzione di un senso univoco alla propria esistenza. Una vita “presente”, laddove è presente effettivamente in quanto immigrato, in quella società d’immigrazione, in cui, però,

17. Vedi, per esempio, l’analisi di Sayad della figura emblematica dell’emigrato jayah, cioè di colui che, nella tradizione della migrazione cabila, viene accusato di aver rotto definitivamente con la comunità, di essere diventato un individualista, un deviante, un marginale e – per così dire – di essersi troppo “radicato” nella propria condizione di esiliato, di sradicato. Cfr. A. Sayad, “Nazionalismo ed emigrazione”, in La doppia assenza, cit., in particolare pp. 140-141.

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è contato solo come un’eccedenza e dove tutto lo richiama alla provvisorietà della sua condizione (anche quando la sua presenza provvisoria diventa, di fatto, definitiva); una vita “assente”, dove è effettivamente assente in quanto emigrato, in quel paese d’origine in cui, tuttavia, continua a essere presente affettivamente, ma presente solo in quanto “manca” ai suoi e a se stesso, al suo passato, alla sua appartenenza: Questa vita, più rammemorata e fantasticata di quanto sia vissuta, è inscritta come in sovraimpressione sull’altra vita, la vita reale, quella vissuta realmente ed empiricamente. La presenza a quest’ultima e al mondo che la sostiene è una presenza distratta, una presenza assente, una presenza distante; per contro, l’altra vita assente, la vita che si consacra all’assenza, ai luoghi lontani e al tempo passato dell’assenza, è una vita che l’evocazione del sogno rende quasi presente, ma di una presenza fantomatica, totalmente irreale, onirica, che si svolge parallelamente alla vita attiva e quotidiana. Presenza e assenza si intrecciano in tal modo, mescolando le loro caratteristiche e anche il loro potere : il potere di assentarsi dal qui e ora, da una parte e dall’altra, inversamente, il potere di rendersi presente in un altrove e in un altro tempo. Che chimera voler sottrarsi magicamente e in modo soprannaturale alla dura realtà del qui-e-ora.18 L’immigrato sarebbe, allora, presente sia “qui” che “laggiù”, sarebbe, cioè, doppiamente presente, ma solo per eccesso e per difetto, che è un modo per rivelare la sua “doppia assenza”, la sua doppia estraneità, il suo incessante “e-migrare” dal luogo che si presume abitare. Impossibile tenere lo sguardo fisso su questo “sdoppiamento” (dédoublement) vertiginoso! Occorrerebbe esercitare una sorta di strabismo mentale, saper sospendere l’a-

18. A. Sayad, “Le retour, élément constitutif de la condition de l’immigré”, in L’immigration ou les paradoxes de l’altérité (nuova edizione aggiornata), vol. I, “L’illusion du provisoire”, Editions Raisons d’agir, Paris 2006, pp. 131-192 (la citazione è a pp. 162-163).

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desione all’evidenza immediata dell’unico punto di vista, abbandonare, a propria volta, la familiarità del luogo e seguire questo vero e proprio scandalo ontologico nel movimento stesso che lo rende ovunque straniero. Esperto impareggiabile nell’arte della maieutica e maestro dell’estraniamento, Sayad è riuscito a tirar fuori la verità dell’immigrato dal fondo stesso delle contraddizioni e delle lacerazioni che costituiscono l’impossibile trama della sua esistenza, a fare della domanda che lo perseguita ovunque, fin dentro le terre apparentemente indulgenti della “scienza dell’immigrazione”, una vera domanda, una domanda che, sospesa nel proprio non-sapere, non ha alcuna risposta da anticipare. “Chi sei?” chiede il sociologo-filosofo, senza presunzione, senza intimidazione né fretta di ricevere una risposta da consegnare a chi saprà farne buon uso, ma aperto all’inaspettato, all’inatteso, all’inaudito. Disposto ad ascoltare una parola, che non può essere detta né “qui” (nel paese d’immigrazione) né “laggiù” (nel paese d’“origine”), ma solo all’orecchio di chi, come Sayad, ha imparato ad abitare la frontiera, quella “terra di nessuno”, che, con lui, diventa il luogo proprio del pensiero. È a partire da qui, da questo luogo incollocabile, lavorando sull’ambivalenza costitutiva di ogni frontiera – insieme confine presidiato e passaggio, limite fisso e invalicabile, da una parte, e soglia attraversata di continuo, violata, dislocata, “decostruita”, dall’altra – che Sayad ha costruito il suo gesto radicale, paradossale. Perché pensare l’immigrazione è un gesto letteralmente paradossale, quindi eminentemente filosofico: significa, infatti, disporsi a pensare l’“impensabile”, ad affrontare un’esperienza di sradicamento ed esilio, cioè di radicale messa in questione di tutto ciò che “si sa”, che si ritiene vero ed esente da ogni dubbio e che, quindi, è normalmente fuori questione, al di là (o al di qua) della portata del pensiero. Significa dover ripetere quella “rottura” con il mondo così com’è dato, nella sua ovvietà e immediatezza, nella sua rassicurante familiarità, che costituisce la condizione stessa dell’immigrato/emigrato, di colui, cioè, che deve faticosamente “abituarsi” a quel senso di smarrimento che deriva 89


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dalla perdita dei significati già pronti e disponibili; dalla perdita dell’evidenza; dal dubbio iperbolico da cui emerge un mondo come “questione”, come problema. La lezione di Sayad è che il doppio fatto dell’immigrazione/emigrazione, in quanto, appunto, si dà come esperienza di una “rottura” rispetto ai quadri di riferimento abituali, alle comodità e all’inerzia del “pensare come al solito”,19 dunque come esperienza di esilio e spaesamento, rappresenta una di quelle situazioni critiche in cui la comprensione del presente non può essere un “dato immediato”, qualcosa che va da sé, perché può attingere direttamente alle fonti di un senso comune già costituito in “luoghi comuni”. È una situazione, questa, che un immigrato (e, dunque, un emigrato) deve sperimentare quotidianamente, trovandosi a vivere in un universo sociale cui non può aderire in modo spontaneo e “naturale” (non è qui che ha subìto, fin dall’infanzia, quel processo di “socializzazione” – esplicita, ma soprattutto implicita – che trasforma un certo ordine culturale, quindi arbitrario, in un ordine quasi “naturale”, quindi necessario, e la relazione a quest’ordine in un’adesione irriflessa, che si fa corpo, abitudine, disposizione spontanea ecc.),20 ma rispetto al quale si tiene (ed è tenuto) a una certa distanza, anche se non può permettersi di ignorarlo, né tanto meno di disertarlo, essendovi, allo stesso tempo, immerso in quanto è un immigrato. D’altra parte, egli deve fare i conti col fatto che una certa distanza, un certo scarto, si è creato, che lo voglia o no, anche con le disposizioni acquisite prima della sua emigrazione, cioè con la sua “origine”, con quel “senso pratico” che orienta in modo sicuro le scelte e i comportamenti, e che nel nuovo contesto (quello della sua immigrazione) non ha più presa, trovandovi spesso solo sconferme, come se girasse a vuoto.

19. L’espressione è di Alfred Schutz, “Lo straniero: saggio di psicologia sociale”, in Saggi sociologici (1964), UTET, Torino 1979, pp. 375-389. 20. Su questi meccanismi di socializzazione, attraverso cui passa la “naturalizzazione” dell’“arbitrario culturale” (il processo per cui la cultura si fa natura), cfr. P. Bourdieu, “La croyance et le corps”, in Le sens pratique, cit., pp. 111-134, oltre al classico Per una teoria della pratica, con tre studi di etnologia cabila (1972 e 2000), Raffaello Cortina, Milano 2003.

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Contemporaneamente interno ed esterno a qualsiasi ordine sociale e culturale dato, egli è smarrito, e questo smarrimento è l’esatta verità di elghorba (l’esilio in lingua berbera e, più precisamente, la situazione di chi, a seguito di una maledizione, si è perduto, perdendo se stesso e gli altri, e si trova circondato dall’oscurità). “Non si emigra e non si immigra impunemente, cioè senza conseguenze”, ha scritto Sayad;21 cioè senza dover affrontare questa prova, senza dovere vivere il disorientamento provocato dalla perdita di ogni punto di riferimento stabile, di ogni definizione precisa, di ogni confine; senza, perciò, dover cominciare a pensare. Si tratta di una necessità pratica, oltre che intellettuale, cioè esistenziale e politica in senso proprio, che si impone imperativamente tanto agli immigrati/emigrati, quanto a coloro che si considerano in “casa propria” e che non possono rimanere indifferenti (e, in effetti, tutto si può dire fuorché lo siano) agli effetti di quella “rottura” che i nuovi arrivati incarnano e attualizzano nelle loro società; in quelle “società d’immigrazione” che, cercando di proiettare sui volti e suoi gesti di queste presenze incomprensibili i tratti della propria coerenza mitica (è la funzione dell’ingiunzione a integrarsi, ad assimilarsi, ma è sempre meno chiaro a chi, a che cosa…), ne ricevono come riflesso un’immagine in cui non riescono più a riconoscere se stesse. Non è questa, forse, la colpa degli immigrati? La loro colpa imperdonabile, “originaria”, quella che commettono prima ancora di rendersi responsabili di una qualche specifica colpa, la colpa che nessun codice sanziona esplicitamente ma che è la fonte di tutti i sospetti che li circondano e di tutte le accuse che vengono loro rivolte? Colpa “ontologica”, dice Sayad,22 perché la trasgressione di cui sono la prova vivente (per il solo fatto della loro presenza/assenza) costituisce un vero e proprio attentato a una certa configurazione dell’essere, che ha nello “Stato”, e nei confini che questo garantisce, la condizione della propria stabi-

21. A. Sayad, “Qu’est-ce qu’un immigré?”, in L’immigration ou les paradoxes de l’altérité, 1991, cit., p. 70. 22. Cfr. Id., “Immigrazione e ‘pensiero di stato’”, in La doppia assenza, cit., pp. 367-384.

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lità e permanenza. Perché lo Stato, in fondo, prima di essere un insieme oggettivo di istituzioni giuridico-amministrative e “politiche” in senso stretto (e per poter essere tutto questo) è anche e soprattutto l’immanenza ai soggetti di un principio di “sovranità” (cioè di visione e di di-visione del reale) generalizzato che li costituisce in quanto, appunto, soggetti sovrani (“cittadini”), intimamente certi di quelle frontiere entro cui possono esercitare il loro “diritto soggettivo”, vale a dire il loro diritto a essere. Una certezza che comincia a vacillare con l’apparire all’orizzonte di una condizione di sradicamento e non-cittadinanza, di soggettività “senza-Stato”,23 esposte alla più assoluta contingenza e vulnerabilità, che, diventando un dato sempre più diffuso e permanente della nostra contemporaneità, finisce per contestare proprio quelle frontiere entro cui ci siamo fin qui riconosciuti e pensati, e che credevamo impermeabili. Contestarle: cioè “denaturalizzarle”, rivelarne il carattere arbitrario, non necessario, revocabile.24 Riportarci alla storicità (alla contingenza) delle nostre appartenenze, delle nostre “nature”, delle categorie attraverso le quali percepiamo noi stessi, quando guardiamo gli altri. Siamo tutti (stati) naturalizzati! Sayad ha raccolto e riferito la parola di quelli che stanno al “limite” dello Stato, alle frontiere che decidono del destino degli individui e dei gruppi umani, tra l’essere e il non-essere sociali. Egli è stato, a suo modo, un passeur, un uomo del passaggio e della transizione clandestina. Ma, a differenza di coloro che fanno entrare l’immigrato rassicurante (rassicurante anche nell’alterità minacciosa che dovrebbe rappresentare), l’immigrato “definito” interamente in conformità agli “usi” (e abusi) che la società che lo accoglie saprà farne, e contrariamente anche agli intellettualipasseurs dei luoghi comuni che confortano la cultura dominante

23. Sulla figura dei senza-Stato, come prodotto originale della nostra contemporaneità politica, cfr. naturalmente H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1951), Edizioni di comunità, Milano 1967, oltre all’approfondito studio di M.-C. Caloz-Tschopp, Les sans-Etat dans la philosophie politique d’Hannah Arendt, Payot, Lausanne 2000. 24. Cfr. A. Sayad, “L’ordre de l’immigration entre l’ordre des nations”, in L’immigration ou les paradoxes de l’altérité, 1991, cit., pp. 289-311.

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(sicurezza, ghettizzazione, scontro di civiltà, islamizzazione ecc.),25 egli ha fatto passare, con l’immigrato, la sfida che questo porta con sé. Non c’è nulla di rassicurante, infatti, nella verità paradossale che possiamo cogliere nell’opera di Sayad. Come potrebbe essere diversamente, dal momento che, a essere in questione, è un intero ordine sociale, politico e cognitivo? Non ci possono essere soluzioni semplici, già disponibili. Tanto meno in termini di “politiche dell’immigrazione”, se con ciò si intende il “governo” di un fenomeno all’interno di un quadro concettuale e normativo predefinito (che è un modo per neutralizzarne, denegandola, la natura propriamente politica). Il problema non è come “gestire” l’immigrazione, ma come reagire ai cambiamenti di una società, allo stupore di fronte a una realtà in cui siamo tutti sempre più “stranieri”. Le frontiere della polis e del suo cittadino non sono garantite una volta per tutte, né garantiscono una volta per tutte. Ma è appunto per questo che possono tornare a essere pensate e agite; ri-politicizzate.

25. Cfr. P. Bourdieu e L. Wacquant, Astuzie della ragione imperialista (1998), in L. Wacquant (a cura di), Le astuzie del potere. Pierre Bourdieu e la politica democratica, ombre corte, Verona 2005, pp. 161-178.

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Archivio Enzo Paci A oltre trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso ternpo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca. L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati. Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente. L’indirizzo al quale inviare il materiale è: Archivio Enzo Paci via Beato Angelico 5 20133 Milano Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio recapito.


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I nostri conti con Basaglia ERNESTO VENTURINI

ell’ultimo libro di Giovanni Jervis e di Gilberto Corbellini e nelle interviste su alcuni quotidiani che promuovono l’uscita del libro, si esprimono giudizi severi sul movimento antiistituzionale italiano e sulla riforma psichiatrica del 1978. Tali critiche da parte di Jervis non sono nuove, ma la loro ripresa appare in sintonia con l’attuale revisionismo contro il movimento del Sessantotto e contro l’epoca delle riforme. D’altra parte Jervis si trova spesso in compagnia con idee conservatrici – la sua critica al relativismo scientifico, per esempio, si allinea in buona parte a quella espressa dal professor Pera e dal professor Ratzinger sul relativismo culturale. Non è il caso di entrare nel merito di tali analisi, se non facendo presente come questo orientamento abbia un preciso riferimento al presente, in quanto cerca di attribuire a quel periodo, certamente contraddittorio e parziale, ma indubbiamente promotore di forti istanze di libertà e di emancipazione, la responsabilità di un influsso nefasto sulla cultura e sui comportamenti delle persone. In un clima sociale di insicurezza, l’attribuzione del disordine e del disagio a istanze di libertà e di giustizia, presenti e passate, è congeniale a un progetto repressivo della società.

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Il testo è stato sottoscritto dal gruppo dei “goriziani”: Agostino Pirella, Domenico Casagrande, Lucio Schittar, Antonio Slavich, Nicoletta Goldschmidt, Bruno Norcio, Vincenzo Pastore, Renato Piccione, Paolo Serra.

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Non ci sembra nemmeno il caso di contrastare le pesanti critiche personali rivolte a Franco Basaglia da Jervis. Tali critiche vogliono comprovare la povertà morale del personaggio e affermare di conseguenza il discredito del suo operato. Ognuno ha naturalmente diritto a sostenere le proprie idee e noi non pretendiamo di “santificare” il personaggio-Basaglia, né di reclamarne l’agiografia. Ma poiché Jervis, da quarant’anni ormai, si è posto in modo ostile verso Basaglia, polemizzando pubblicamente con le sue scelte, è difficilmente credibile ogni suo tentativo di collocarsi in una sorta di distaccata neutralità, specie se narra episodi privi di oggettivi riscontri. Jervis usa la tecnica consumata del gossip: dichiara preliminarmente rispetto per la controparte in modo che le successive velenose critiche, formulate quasi controvoglia, siano avvalorate proprio dalla buona disposizione dell’autore. In ogni caso ogni giudizio sulla vita privata di una persona costituisce sempre una grave caduta di tono e diventa inqualificabile se l’interessato è scomparso e non può più controbattere. A un certo punto sorge anche il legittimo dubbio che le interviste sui giornali o alla radio, i dibattiti su Basaglia, come quello tenuto a Lodi da Jervis sul tema dell’“Invidia”, vogliano dar lustro all’autore contrapponendolo a un personaggio celebre e facciano parte di una tecnica pubblicitaria. Dare vita alle polemiche rischia pertanto di fare il gioco di questa strategia… E tuttavia non possiamo non intervenire contestando come falsa l’etichetta di “antipsichiatra”, che Jervis attribuisce a Basaglia. Probabilmente Basaglia non avrebbe speso nemmeno una parola per difendere la sua identità, considerandolo un ozioso dibattito. Ma la questione, per noi, merita una riflessione, perché non è forse del tutto accademica e si inscrive nel tentativo più complesso di liquidare la riforma psichiatrica, attribuendo ogni sua difficoltà non al modo con cui è stata ed è governata, quanto piuttosto a una sorta di peccato originale – l’antipsichiatria –, che finalmente potrà essere corretta ed eliminata. Naturalmente per noi essere definiti antipsichiatri non costituisce un’offesa! L’antipsichiatria nel panorama degli anni sessanta 96


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ha costituito un pensiero positivo, ricco di aspirazioni emancipatrici, ed è servito per squarciare il mondo oppressivo della psichiatria tradizionale. Ma le differenze tra il pensiero antipsichiatrico e il pensiero-azione anti-istituzionale di Basaglia, la differenza fra la deospedalizzazione e la deistituzionalizzazione sono state evidenti fin dall’inizio. Il rifiuto di Basaglia di essere considerato un antipsichiatra è sempre stato categorico e inequivocabile. Gorizia era nata nel ’61, molto prima del successo dell’antipsichiatria, e i punti di riferimento scientifico-culturali dei due pensieri erano profondamente diversi e soprattutto diversi sarebbero stati i loro sviluppi. Jervis non nega tutto ciò, riconosce il valore di Gorizia (naturalmente nel periodo in cui lui era presente) e afferma che l’involuzione antipsichiatrica di Basaglia avviene successivamente, negli anni settanta, quando Basaglia si appiattisce sul pensiero di un cattivo maestro – Michel Foucault – e quando considera la malattia mentale solo come una devianza sociale. Per Jervis Basaglia è sostanzialmente autoritario, dominato dal massimalismo e dalla ideologia, anche se si mostra paradossalmente plagiabile dai suoi collaboratori e asservito alle logiche del partito comunista. Basaglia in quegli anni insegue giochi di potere, è sempre più avulso dalla pratica, specie quella dei servizi territoriali, dove si va affermando invece un sano ritorno alla clinica tradizionale. L’emblema del fallimento di Basaglia è per Jervis la creazione e la storia di Psichiatria democratica… Leggendo questa ricostruzione degli avvenimenti si è presi da un senso di sbigottito stupore e viene da chiedersi quale film abbia mai visto Jervis. Poiché il suo film non è certamente quello visto da chi faticosamente lavorava in quegli anni all’interno della psichiatria pubblica. E in effetti Jervis non era più presente, poiché aveva scelto di tirarsi fuori dal sistema sanitario pubblico. Nella sua analisi dà l’impressione, a voler essere generosi, di essere rimasto fermo all’inizio degli anni settanta, quando fa un bilancio negativo sulla possibilità di realizzare a Reggio Emilia una psichiatria alternativa, svuotando il manicomio dall’esterno. In quell’occasione entra in una crisi politica, personale e professionale – come lui stesso 97


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dichiara – che lo porterà a scegliere la carriera universitaria. È disorientato dal velleitarismo dei giovani, dalla rigidità delle istituzioni politiche e dei loro apparati e considera l’irrazionalità e l’ideologia dominante profondamente deleterie per il bisogno di cura del malato mentale. Senza dubbio in quegli anni esisteva un certo rischio di cadere nel velleitarismo, nell’ingenuità, nel sociologismo assistenziale. Ma questo rischio si riduceva significativamente quando l’agire si misurava nella deistituzionalizzazione, a cui Basaglia dava concretezza a Trieste e altri in differenti contesti. In questi casi il lavoro quotidiano rendeva evidente come, smontando l’apparato istituzionale che gestiva l’artefatto-malattia, emergesse la soggettività del paziente, la sua sofferenza individuale e quella derivante dal suo contesto sociale. Questa “scoperta” richiedeva l’aderenza ai bisogni del paziente, imponeva di rispondere alla sua sofferenza, senza mistificazione. Basaglia non ha voluto trasformare, delineando solo i fini e minimizzando i mezzi: per lui era il “come”, l’“oggi”, il “per chi”, era la concretezza della pratica, che dava senso alle parole. L’impeto dell’utopia, la tensione critica si sono sempre misurate in lui responsabilmente con un soggetto che – come era solito dire – non era un’astrazione, la malattia, quanto piuttosto una persona, il malato. Contrariamente a quanto asserisce Jervis, Basaglia ha applicato il metodo della sospensione del giudizio – l’epoché di Edmund Husserl – secondo cui il cambiamento diventa possibile solo nella interruzione del tempo, nella possibilità che il pensiero pensi con la forza del negativo e dell’impossibile. Basaglia, per liberare la voce della follia, ha imposto il silenzio alla scienza. La malattia mentale è stata messa tra parentesi per consentire, a chi era ritenuto incapace, di poter esprimere i propri bisogni e la propria soggettività. Basaglia non ha voluto giocare con le parole: ha cercato di dar voce al “contenuto trasformato”, secondo il pensiero di Karl Marx. Ha rifiutato di parlare al posto dei pazienti, di ergersi a paladino dei loro bisogni, interpretandoli, dando loro nuovi contenuti. Mantenendo la disponibilità all’ascolto ha con98


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sentito l’emergere di un nuovo modo di relazionarsi e ha permesso di capire ciò che prima era impedito. Erano i pazienti che dovevano esprimersi: loro dovevano diventare i veri protagonisti della cura! La dimostrazione della ragionevolezza di quel pensiero è oggi sotto i nostri occhi: è la straordinaria vitalità dei movimenti degli utenti, dei familiari, l’auto-mutuo-aiuto, il recovery. Si obietterà che alcuni di questi movimenti si sono sviluppati nella cultura anglosassone degli anni ottanta. È vero, ma bisogna considerare che un certo ritardo nel riconoscimento delle esperienze italiane dipende anche dalla egemonia internazionale della letteratura scientifica inglese. E comunque questo nuovo modo di intendere la cura e la malattia – anglosassone o italiano che sia – affonda le sue radici nei movimenti dei diritti civili degli anni sessanta e settanta e ha certamente trovato un riferimento significativo nelle esperienze italiane di deistituzionalizzazione. L’aver intaccato radicalmente l’idea della cronicità e della irrecuperabilità del paziente psichiatrico ha costituito il terreno su cui si è potuta sviluppare l’idea del recovery. La presenza di questo orientamento rappresenta la testimonianza tangibile che è stato giusto mantenere aperte le contraddizioni e non imporre una teoria di ricambio. Ed era questa la prospettiva in cui si sono mosse, in quegli anni settanta, Trieste e le numerose esperienze che Jervis dimentica di citare – Arezzo, Città di Castello, Ferrara, Genova, Napoli, Parma, Perugia, Pordenone, Torino e certamente anche Reggio Emilia. Dalla loro esperienza e dal ricco apporto delle altre successive esperienze si è venuto definendo il nuovo paradigma della malattia mentale e della cura. Distruggendo l’istituzione e sospendendo il discorso scientifico sulla malattia mentale, i nodi del potere e del sapere, in verità, non sono stati sciolti per sempre: sono solo stati allentati. “La distruzione dell’OP, in se stessa – diceva infatti Basaglia –, non significa nulla. È tuttavia la condizione che può far emergere, finalmente, la questione psichiatrica.” La psichiatria tradizionale si è ritrovata spiazzata: una falla si è aperta nella intersezione tra po99


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tere e sapere, tra le pratiche e le teorie. Le conoscenze, i saperi tradizionali però non sono stati rifiutati o gettati via. Nel nuovo contesto liberato i saperi hanno assunto una pregnanza diversa, anch’essi sono stati “liberati”, sono diventati patrimonio di nuovi protagonisti. Le conoscenze tradizionali si sono arricchite, quando si sono confrontate con quelle che scaturivano dalle esperienze di deistituzionalizzazione. Caratteristiche fondanti di tali esperienze sono state, sia la messa in crisi di due fondamentali paradigmi clinici – quello fondato sugli antagonismi e quello basato sul principio problema/soluzione –, sia il passaggio dal percepirsi del paziente al suo realizzarsi. Non è stato negato infatti il valore dell’inconscio, né della presa di coscienza del soggetto; è stato valorizzato l’esercizio del potere personale (bene primario della persona), il riconoscimento della contrattualità sociale, la pratica dei diritti di cittadinanza, la costruzione e l’invenzione di fattive possibilità di fruire e di produrre. Prendersi cura del paziente ha significato la progressiva modifica dello statuto sociale dell’utente – da malato a cittadino portatore di sofferenza – e ha prospettato un modo altro di fare terapia. Ha proposto una metodologia innovativa basata sull’invenzione di strategie indirette, sulla messa in opera progressiva della rinuncia a ogni soluzione ottimale, sulla convivenza con contraddizioni logiche e pratiche, sulla capacità di mettere a frutto la propria competenza del residuo, producendo un’esperienza cognitiva sulla produttività della incertezza, delle contraddizioni, del non equilibrio. In sostanza considerare tutto ciò antipsichiatria e definire Basaglia un antipsichiatra costituisce una forzatura ingenua e faziosa. Il pensiero di Basaglia deve essere ricondotto piuttosto all’interno di una più vasta analisi epistemologica, che interessa le scienze umane, ed è parte di una più generale rivoluzione simbolica del pensiero. Dal successo delle esperienze di rovesciamento istituzionale, dal successo della esperienza di Trieste, che ha chiuso il manicomio e ha costruito una rete di servizi sul territorio, è nato quell’ampio consenso di cittadini e di tecnici che ha reso possibile la promul100


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gazione della legge di riforma. È logico che le leggi vengano presentate al parlamento dai politici – in questo caso da Bruno Orsini – e che siano frutto di mediazioni ed è anche risaputo che Basaglia avrebbe preferito altre formulazioni. Ma Basaglia ha fatto propria quella legge e perciò la 180 giustamente è riferibile a lui: esprime il suo realismo, la sua capacità di dare concretezza e solidità ai processi, secondo una strategia di ricerca dell’egemonia nella democrazia. “Non dobbiamo vincere – diceva Basaglia – dobbiamo solo convincere!” Jervis sorvola sugli autorevoli riconoscimenti nazionali e internazionali nei confronti della legge e del movimento anti-istituzionale, omette di menzionare che l’Organizzazione mondiale della sanità ha scelto le esperienze basagliane come suoi centri accreditati, omette di ricordare che la maggior parte dei paesi – e anche quelli di lingua anglosassone – si sono mossi, a partire dagli anni ottanta, nel solco tracciato dall’esperienza italiana. Non cita la ricca letteratura a favore delle esperienze e imputa a Basaglia il rifiuto, per partito preso, di promuovere la formazione degli operatori psichiatrici e di conseguenza gli imputa le difficoltà in cui si trovano oggi gli operatori. Queste critiche ricordano la storia di colui che scambia il proprio dito indice con la luna a cui il dito è invece rivolto. In realtà è proprio il mondo deputato alla formazione – l’università – che è rimasto chiuso ai cambiamenti. Sono proprio i gestori del potere universitario, anche se con debite eccezioni, che si sono dimostrati incapaci di cogliere la rilevanza dei processi occorsi, che sono rimasti subalterni alla psichiatria americana e che hanno permesso una certa deriva professionale degli operatori psichiatrici. Basaglia avrà avuto certamente dei limiti, avrà commesso degli errori, come ciascun essere umano, ma ha avuto ragione in molte occasioni. L’ha avuta quando ha ritenuto che l’unica strategia possibile per il cambiamento fosse decostruire prima di tutto il manicomio, arrivando alla sua effettiva chiusura, senza fughe in avanti; ha avuto ragione quando con il successo della deistituzionalizzazione avrebbe potuto proporre nuove teorie e invece ha ri101


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lanciato l’esigenza di oltrepassare la proposta politica, andando alla socializzazione della questione psichiatrica; ha avuto ragione non anteponendo la sua voce a quella dei pazienti, consentendo la presa della parola da parte di chi ne era sempre stato privato; ha avuto ragione quando nel pieno del successo ha rifiutato di andare all’università, preferendo con coerenza di rimanere nella trincea del sistema sanitario per affrontare le contraddizioni della pratica. Ma Basaglia ha soprattutto dimostrato che la trasformazione è possibile, quando il pensiero pensa con la forza del negativo e dell’impossibile e si accompagna al coraggio della determinazione e della coerenza. Altri soggetti di fronte alle difficoltà, alle contraddizioni della pratica si sono arresi al pessimismo della ragione; lui invece è andato avanti sorretto dall’ottimismo della volontà. Nell’intervista a Jervis sulla “Repubblica” del 4 settembre 2008 si parla di I miei conti con Basaglia. Non sappiamo se Jervis abbia finalmente saldato i suoi conti con Basaglia (per la sua salute e per la nostra glielo auguriamo!). Ma noi no! Noi non abbiamo saldato i nostri conti con Basaglia. Franco ci manca e noi continuiamo a pensare a lui, alla sua lucidità, al suo coraggio. E proprio in questo momento difficile noi vogliamo continuare a fare i conti proprio con il suo richiamo all’ottimismo della volontà, con il suo richiamo all’etica della responsabilità personale, al dover essere per sé, per meglio essere e per fare per gli altri.

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Ma il pollo non lo sa. Ecologia come nuovo oppio del popolo SLAVOJ ŽIŽEK

arco Cicala, un giornalista italiano di sinistra, mi ha parlato di una sua recente strana esperienza: avendo impiegato la parola “capitalismo” in un suo articolo, il direttore gli ha chiesto se l’uso di questo termine fosse davvero necessario: non avrebbe potuto sostituirlo con un sinonimo, tipo “economia”? Quale prova migliore del trionfo completo del capitalismo della virtuale scomparsa del termine negli ultimi venti o trent’anni? Nessuno parla più di capitalismo, se si eccettua un gruppetto di vecchi marxisti. Il termine è stato semplicemente cancellato dal vocabolario dei politici, dei sindacati, degli scrittori e dei giornalisti, perfino dei sociologi… ma che dire dell’aumento improvviso dei movimenti no-global negli ultimi anni? Non contraddicono chiaramente questa analisi? No: uno sguardo più attento mostra come anche questo movimento soccomba alla “tentazione di trasformare una critica del capitalismo (centrata sui meccanismi economici, forme di organizzazione del lavoro, profitti) in una critica dell’imperialismo”. In questo modo, quando parliamo della “globalizzazione e i suoi agenti”, consideriamo il nemico come esterno (generalmente nella forma di un volgare anti-americanismo). Da questa prospettiva, se oggi un problema fonda-

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S. Žižek, Censorship Today: Violence, or Ecology as a New Opium for the Masses, lezione pronunciata il 26 novembre 2007 alla Jack Tilton Gallery di New York, disponibile online all’indirizzo: <http://www.lacan.com/zizecology1.htm>.

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mentale è quello di combattere “l’impero americano”, ogni alleato va bene se è anti-americano, e quindi lo sfrenato capitalismo “comunista” cinese, l’islam violentemente reazionario, così come l’osceno regime di Lukashenko in Bielorussia possono sembrare compagni d’arme progressisti contro la globalizzazione. Siamo alle prese con l’ennesima versione del famigerato concetto di “modernità alternativa”: invece della critica del capitalismo in sé, del confronto con il suo funzionamento di base, otteniamo una critica dell’“eccesso” imperialista, con l’idea (surrettizia) di reinquadrare il meccanismo capitalista in una cornice diversa, più “progressista”. Dunque qual è il problema? È facile farsi beffe della nozione di “Fine della Storia” di Fukuyama, ma la maggioranza oggi è d’accordo con lui: il capitalismo liberaldemocratico viene accettato come la formula, finalmente trovata, della migliore società possibile. Tutto quello che possiamo fare è renderla più giusta, tollerante ecc. L’unico vero interrogativo oggi è: dobbiamo accettare questa “naturalizzazione” del capitalismo, oppure il capitalismo contemporaneo contiene anticorpi abbastanza forti da impedire la sua riproduzione all’infinito? Ce ne sono tre (o meglio, quattro) di questi anticorpi. Ecologia. Malgrado l’infinita adattabilità del capitalismo che, nel caso di una catastrofe o di un’acuta crisi ecologica, può facilmente trasformare l’ecologia in un nuovo settore di investimenti e di competizione capitalista, la natura reale di tale rischio impedisce di fatto una soluzione di mercato. Perché? Il capitalismo funziona solo in determinate condizioni sociali: prevede la fiducia nel meccanismo oggettivato/“reificato” della “mano invisibile” del mercato che, come una specie di “Astuzia della Ragione”, garantisce che la competizione degli egoismi individuali lavori per il bene comune. Tuttavia, siamo nel bel mezzo di un cambiamento radicale. Finora, la Sostanza storica ha avuto il ruolo di mezzo e fondamento di tutti gli interventi soggettivi: qualunque cosa facessero i soggetti sociali e politici, veniva mediato e in ultima analisi dominato, sovradeterminato, dalla Sostanza storica. All’oriz104


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zonte oggi si affaccia la possibilità inaudita che un’azione soggettiva intervenga direttamente nella Sostanza storica, disturbando in modo disastroso il suo corso, provocando una catastrofe ecologica, una mutazione genetica fatale, una catastrofe nucleare o qualcosa di simile sul piano sociomiliare, ecc. Non possiamo più fare affidamento sul ruolo di garanzia degli obiettivi limitati dei nostri atti: non è più vero che qualunque cosa facciamo, la storia va avanti. Per la prima volta nella storia dell’uomo, l’atto di un singolo agente sociopolitico può realmente alterare e addirittura interrompere il processo storico, cosicché, ironicamente, oggi si può davvero affermare che effettivamente il processo storico va concepito “non solo come Sostanza ma anche come Soggetto”. Questo è il motivo per cui, di fronte a singole prospettive catastrofiche (per esempio, un gruppo politico che intende affrontare i suoi nemici con armamenti atomici o biologici), non possiamo più far riferimento alla normale logica dell’“Astuzia della Ragione” che, precisamente, presuppone il primato della Sostanza storica sui soggetti agenti. Non possiamo più pensare di “lasciare che il nemico che ci minaccia mostri il suo potenziale e quindi si autodistugga”: il prezzo per poter lasciare fare alla Ragione storica il suo compito è troppo alto, perché, nel frattempo, potremmo essere morti insieme al nemico. Ricordiamo un dettaglio inquietante della crisi dei missili a Cuba: solo a cose fatte abbiamo saputo quanto fossimo stati vicini a una guerra nucleare durante la schermaglia tra un incrociatore americano e un sottomarino sovietico B-59 al largo di Cuba il 27 ottobre 1962. L’incrociatore aveva lanciato delle bombe di profondità vicino al sommergibile per cercare di costringerlo a riemergere, non sapendo che era armato con testate nucleari. Vadim Orlov, un membro dell’equipaggio del sottomarino, disse alla conferenza dell’Avana che il sottomarino era stato autorizzato a fare fuoco se tre ufficiali fossero stati d’accordo. Gli ufficiali avevano cominciato un aspro dibattito per decidere se affondare la nave o meno. Due di loro dissero di sì e un terzo disse di no. “Un tizio di nome Arkhipov ha salvato il mondo”, fu il commento amaro di uno storico a questo incidente. 105


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Proprietà privata. La proprietà privata è inadeguata alla cosiddetta “proprietà intellettuale”. La domanda fondamentale della nuova industria (digitale) è la seguente: come salvare la forma della proprietà (privata), l’unico quadro di riferimento nel quale può sussistere la logica del profitto (vedi il caso Napster, con lo scambio libero della musica)? E le complicazioni legali in materia di biogenetica non si muovono nella stessa direzione? Si presentano fenomeni che precipitano la nozione di proprietà in bizzarri paradossi: in India, le comunità locali possono improvvisamente scoprire che le pratiche mediche e i materiali che usano da secoli ora sono di proprietà di aziende americane, e sono quindi costrette a comprarli da queste; inoltre, con le aziende biogenetiche che brevettano i geni, scopriamo tutti che parti di noi stessi, i nostri componenti genetici, sono protetti da copyright posseduti da altri. La data fondamentale nella storia del cyberspazio è il 3 febbraio 1976, il giorno in cui Bill Gates ha pubblicato la sua (tristemente) famosa “lettera aperta agli hobbisti”, il documento che sancisce la proprietà privata nel campo del software: “Per quanto la maggior parte degli hobbisti lo sappia benissimo, la maggior parte di voi ruba il software […]. In modo più diretto, quello che fate è rubare”. Nuovi sviluppi tecnico-scientifici. I nuovi sviluppi tecnico-scientifici (specialmente nella biogenetica) hanno gravi implicazioni etico-sociali: lo stesso Fukuyama è stato costretto ad ammettere che gli interventi biogenetici sulla natura umana sono la minaccia più seria alla sua teoria sulla “Fine della Storia”. Con i recenti sviluppi biogenetici, siamo entrati in una nuova fase, nella quale semplicemente si sta dissolvendo la natura: la conseguenza principale delle conquiste scientifiche in ambito biogenetico è la fine della natura. Da quando conosciamo le regole della loro formazione, gli organismi naturali vengono trasformati in oggetti pronti per essere manipolati. La natura, umana o meno, è “desostanzializzata”, privata della sua densità impenetrabile, di ciò che Heidegger ha definito “terra”. Questo ci spinge a dare una nuova declinazione al titolo dell’opera di Freud Un106


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behagen in der Kultur,1 disagio, inquietudine nella cultura. Con le recenti scoperte, il disagio si trasferisce dalla cultura alla natura stessa: la natura non è più “naturale”, il rassicurante fondo “denso” delle nostre vite; oggi sembra essere un fragile meccanismo che può esplodere in qualsiasi momento in modo catastrofico. Nuove forme di apartheid. Infine, ma non ultime, nuove forme di apartheid, nuovi muri e ghetti. L’11 settembre 2001 sono state colpite le Torri Gemelle; dodici anni prima, il 9 novembre del 1989, cadeva il muro di Berlino. Il 9 novembre annunciava i “felici anni novanta”, il sogno di Fukuyama della “Fine della Storia”, l’idea che la democrazia liberale avesse, in linea di principio, vinto, che la ricerca fosse finita, che l’avvento di una comunità mondiale liberale fosse dietro l’angolo, che gli ostacoli per questo lieto fine ultrahollywoodiano fossero solo empirici e contingenti (qualche sacca di resistenza locale i cui leader non avevano capito che il loro tempo era finito). All’opposto, l’11 settembre è il principale simbolo dell’era che sta arrivando, nella quale stanno emergendo nuovi muri ovunque, tra Israele e la West Bank, intorno all’Unione Europea, al confine tra Stati Uniti e Messico. Dunque la nuova posizione proletaria è quella di coloro che vivono nei bassifondi delle nuove megalopoli? L’esplosiva crescita dei quartieri degradati negli ultimi decenni, specialmente nelle megalopoli del Terzo Mondo, da Mexico City e le altre capitali latinoamericane, attraverso l’Africa (Lagos, Chad), fino all’India, la Cina, le Filippine e l’Indonesia, è probabilmente l’evento geopolitico più importante dei nostri tempi. È davvero sorprendente come molte caratteristiche degli abitanti dei quartieri poveri corrispondano alla vecchia definizione marxista del soggetto proletario rivoluzionario: sono “liberi” nel doppio senso della parola ancor più del proletariato classico (“liberati” da tutti i legami sostanziali e abitanti di uno spazio libero, al di fuori delle norme poliziesche dello Stato); sono un’ampia collettività, messi insieme a 1. La traduzione italiana del saggio di Freud è intitolata Disagio della civiltà (1929), in Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1980. [N.d.T.]

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forza, “gettati” in una situazione in cui devono inventarsi un modo per sopravvivere, e allo stesso tempo impossibilitati a trovare una qualunque forma di sostegno nei modi di vita tradizionali, nelle loro forme di vita etniche o religiose ereditate dal passato. Mentre spesso la società contemporanea viene descritta come la società del controllo totale, i quartieri poveri sono un territorio all’interno dei confini dello Stato sul quale lo Stato (almeno parzialmente) non esercita più il suo controllo, territori che sono una macchia, un punto cancellato nella mappa del territorio dello Stato. Sebbene siano di fatto inclusi nello Stato attraverso i legami di un’economia sommersa, del crimine organizzato, dei gruppi religiosi ecc., il controllo statale è comunque sospeso, sono ambiti al di fuori del dominio della legge. Sulla piantina di Berlino ai tempi della defunta Germania Est, l’area di Berlino Ovest veniva lasciata vuota, uno strano buco nella mappa dettagliata della grande città; quando Christa Wolf, la nota scrittrice semidissidente della Germania Est, portò sua figlia minore sull’alta torre della televisione di Berlino Est, dalla quale si gode una bella vista della Berlino Ovest proibita, la ragazzina esclamò: “Guarda, mamma, non è bianco là, ci sono case con la gente come qui!”, come se avesse scoperto un quartiere proibito dei bassifondi… Questo è il motivo per cui le masse “de-strutturate”, povere e mancanti di tutto, collocate in un ambiente urbano non-proletarizzato, costituiscono uno degli orizzonti principali delle politiche future. Se il compito principale delle politiche del XIX secolo fu quello di rompere il monopolio dei borghesi liberali politicizzando la classe dei lavoratori, e se il compito del XX secolo è stato quello di svegliare politicamente la sterminata popolazione rurale dell’Asia e dell’Africa, il compito principale del XXI secolo è quello di politicizzare – organizzare e disciplinare – le masse “destrutturate” che abitano nei quartieri degradati. Il maggior risultato raggiunto da Hugo Chávez è la politicizzazione (l’inclusione nella vita politica, la mobilitazione sociale) degli abitanti dei bassifondi; nelle altre nazioni, in gran parte rimangono prigionieri di una certa inerzia politica. È stata la mobilitazione degli abitanti dei bassifondi che lo ha salvato dal colpo di Stato sponsorizzato 108


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dagli Stati Uniti: tra lo stupore generale, compreso di Chávez, gli abitanti dei bassifondi sono affluiti in massa nel centro ricco della città, facendo pesare la bilancia del potere a suo favore. Che relazione c’è fra questi quattro antagonismi? C’è una differenza qualitativa che separa l’Escluso dall’Incluso e gli altri tre antagonismi, che descrivono tre ambiti di ciò che viene definito da Hardt e Negri “bene comune”, la sostanza condivisa del nostro essere sociale la cui privatizzazione è un atto violento a cui resistere in tutti i modi, anche violenti se necessario: i beni comuni della cultura, le forme di capitale “cognitivo” direttamente socializzate, in primo luogo il linguaggio, il nostro mezzo di comunicazione e educazione (se a Bill Gates fosse stato permesso di ottenere il monopolio, ci saremmo trovati in una situazione assurda: un privato cittadino sarebbe diventato letteralmente proprietario degli strumenti software delle nostre reti di comunicazione), ma anche le infrastrutture condivise del trasporto pubblico, dell’elettricità, della posta ecc.; i beni di natura esterna minacciati dall’inquinamento e dallo sfruttamento (dal petrolio alle foreste allo stesso habitat naturale); i beni di natura interna (l’eredità biogenetica dell’umanità). Tutte queste lotte condividono la consapevolezza del potenziale distruttivo, che può arrivare fino all’autoannientamento dell’umanità stessa, che possiede la logica capitalista se le si permette di privatizzare questi beni. È questo riferimento ai “beni comuni” che giustifica la resurrezione del concetto di Comunismo, o per citare Badiou: L’ipotesi comunista rimane quella buona, non ne vedo altre. Se dobbiamo abbandonare questa ipotesi, allora non c’è niente che valga la pena di fare nel campo dell’azione collettiva. Senza la prospettiva del comunismo, senza questa Idea, non c’è niente nel divenire storico e politico che sia di qualche interesse per un filosofo. Lasciamo che ciascuno si occupi degli affari propri, e smettiamo di parlarne. Allora ha ragione l’uomo dei topi, come avviene nel caso di alcuni ex comunisti che sono attaccati alle loro rendite o che hanno perso il coraggio. Tutta109


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via, fermarsi a questa Idea, all’esistenza di questa ipotesi, non significa che dobbiamo mantenere in uso la sua prima versione, centrata sulla proprietà e sullo Stato. In realtà, ciò che ci si impone come un dovere, addirittura un obbligo filosofico, è favorire un nuovo modo di esistenza dell’ipotesi, per il suo stesso sviluppo.2 Ma che tipo di comunismo proporre oggi? Il primo passo è quello di ammettere che la soluzione non è quella di limitare il mercato o la proprietà privata attraverso interventi diretti dello Stato e delle proprietà dello Stato. L’ambito statale stesso è già in un certo senso “privato”: privato nel senso propriamente kantiano di “uso privato della ragione” negli apparati amministrativi e ideologici dello Stato: Il pubblico uso della propria ragione deve essere libero in ogni tempo, ed esso solo può attuare il rischiaramento tra gli uomini; invece l’uso privato della ragione può assai di frequente subire strette limitazioni senza che il progresso del rischiaramento ne venga particolarmente ostacolato. Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa, come studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che a un uomo è lecito farne in un certo ufficio o funzione civile di cui egli è investito.3 Bisogna aggiungere, andando al di là di Kant, che esiste un gruppo sociale privilegiato che, mancando di un posto preciso nell’ordine “privato” della gerarchia sociale, rappresenta direttamente l’universalità: è solo il riferimento agli Esclusi, a quelli che vivono nei buchi dello spazio statale, che rende possibile la vera universalità. Non c’è nulla di più “privato” di una comunità statale che percepisce l’Escluso come minaccia e si preoccupa di come tenere l’Escluso a una debita distanza. In altri termini, nella serie dei 2. A. Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom?, Nouvelles Editions Lignes, Paris 2007. 3. I. Kant, Che cos’è l’Illuminismo?, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 20.

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quattro antagonismi, fondamentale è quello tra Incluso ed Escluso, il punto di riferimento per gli altri. Senza di esso, tutti gli altri perdono la loro incisività sovversiva: l’ecologia si trasforma in un problema di “sviluppo sostenibile”, la proprietà intellettuale in “una complessa sfida legale”, la biogenetica in un tema “etico”. Si può lottare sinceramente per l’ecologia, difendere un concetto più largo di proprietà intellettuale, opporsi al copyright sui geni, anche senza mettere in questione l’antagonismo tra l’Incluso e l’Escluso: di più, si possono declinare alcune di queste lotte nei termini dell’Incluso minacciato dall’Escluso inquinante. In questo modo, non abbiamo un’universalità vera, solo interessi “privati” nel senso kantiano del termine. Industrie come Whole Foods e Starbucks continuano a riscuotere approvazione presso i liberal anche se entrambe mettono in atto azioni contro i sindacati; il trucco consiste nel vendere prodotti che riportano sull’etichetta la dichiarazione di essere politicamente progressisti. Si compra caffè fatto con chicchi acquistati nei mercati equosolidali, si guida un veicolo ibrido, si comprano prodotti dalle aziende che offrono vantaggi per i propri clienti (secondo gli standard dell’azienda), ecc. L’azione politica e il consumo sono intrecciati. In breve, senza l’antagonismo fra l’Incluso e l’Escluso, possiamo ritrovarci in un mondo in cui Bill Gates è il più grande combattente umanitario contro la povertà e le pestilenze, e Rupert Murdoch il più grande ambientalista che mobilita milioni di persone attraverso il suo impero mediatico. Quando la politica viene ridotta a un ambito “privato”, prende l’aspetto di politica della paura, paura di perdere la propria identità particolare, di venire sopraffatti. L’atteggiamento politico predominante oggi è quello delle biopolitiche post-politiche – un meraviglioso esempio di gergo teoretico che tuttavia può venire facilmente decifrato: “post-politica” è la politica che dichiara di lasciarsi alle spalle le vecchie lotte ideologiche e di concentrarsi, invece, sulla buona gestione e l’amministrazione, mentre le “biopolitiche” indicano la regolazione della sicurezza e del welfare delle vite umane come loro principale traguardo. È chiaro come queste due dimensioni si sovrappongano: quando si rinun111


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cia alle grandi cause ideologiche, rimane soltanto l’efficiente amministrazione della vita… quasi solo questo. Ovvero, con la buona amministrazione depoliticizzata, socialmente oggettiva, e il coordinamento degli interessi al livello zero della politica, l’unico modo per introdurre la passione in questo ambito, di mobilitare attivamente la gente, è attraverso la paura, un elemento fondamentale della soggettività moderna. Non ci stupisce, quindi, che la versione predominante dell’ecologia sia quella dell’ecologia della paura, paura di una catastrofe – per mano dell’uomo o naturale – che possa turbare profondamente, addirittura distruggere, la civiltà umana, paura che ci spinge a mettere a punto misure per proteggere la nostra sicurezza. Questa ecologia della paura ha tutte le carte in regola per diventare la forma predominante del capitalismo globale contemporaneo, un nuovo oppio del popolo che rimpiazzi la religione in declino: incorpora la funzione di fondo della religione, quella di incarnare un’autorità indiscutibile che può imporre dei limiti. L’ecologia continua a martellare la lezione sulla nostra finitudine: non siamo soggetti cartesiani avulsi dalla realtà, siamo esseri limitati coinvolti in una biosfera che va molto al di là del nostro orizzonte. Sfruttando le risorse naturali, stiamo prelevando dal futuro, dunque dovremmo trattare la Terra con rispetto, come qualcosa di fondamentalmente Sacro, qualcosa che non deve venir completamente svelato, che deve rimanere per sempre un Mistero, un potere che dobbiamo servire, non dominare. Pur non potendo padroneggiare completamente la nostra biosfera, purtroppo siamo in grado di danneggiarla, di sbilanciare il suo equilibrio fino a farlo deragliare, trascinandoci nel processo. Questo è il motivo per cui, anche se gli ecologisti ci chiedono in continuazione di cambiare radicalmente il nostro modo di vita, al fondo di questa domanda sta il suo esatto opposto, una profonda sfiducia nel cambiamento, nello sviluppo, nel progresso: qualunque cambiamento radicale può portare con sé la malaugurata conseguenza di provocare una catastrofe. Questa sfiducia rende l’ecologia il candidato perfetto per l’ideologia dominante, perché fa eco alla sfiducia anti-totalitarista 112


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post-politica verso tutti i grandi atti collettivi. Questa sfiducia unisce leader religiosi ed ecologisti: per entrambi c’è una specie di trasgressione, di entrata in un regno proibito, nell’idea di creare una nuova forma di vita ex novo, dal punto zero. E questo ci riporta al concetto di ecologia come nuovo oppio del popolo; il messaggio surrettizio è ancora una volta profondamente conservatore: ogni cambiamento può essere solo in peggio. C’è una bella citazione dalla rivista “Newsweek” su questo argomento: Al fondo di molte delle resistenze contro la nozione di vita sintetica c’è l’intuizione che la natura (o Dio) ha creato il migliore dei mondi possibili. Charles Darwin credeva che le miriadi di progetti della creazione della natura fossero perfettamente strutturati per fare qualunque cosa essi erano destinati a fare, fossero animali che vedono, sentono, cantano, nuotano o volano, o piante che si nutrono dei raggi del sole, splendendo di fiori colorati per attrarre gli impollinatori.4 Questo riferimento a Darwin è profondamente ingannevole. La vera lezione del darwinismo è l’esatto opposto, ovvero che la natura va per tentativi e improvvisa, accompagnando qualunque successo limitato con grandi perdite e catastrofi: il fatto che il 90 per cento del Dna umano sia “Dna spazzatura” senza alcuna funzione determinata non ne è la prova? Di conseguenza, la prima lezione da trarne è quella ripetuta più volte da Stephen Jay Gould: l’estrema contingenza della nostra esistenza. Non c’è Evoluzione: catastrofi, equilibri spezzati, sono parte della storia naturale; in molti momenti del passato la vita avrebbe potuto assumere una direzione completamente diversa. La nostra principale fonte di energia (il petrolio) è il risultato di una catastrofe del passato di dimensioni inimmaginabili. Bisognerebbe imparare ad accettare la radicale mancanza di un fondamento della nostra esistenza: non ci sono fondamenta sicure, una roccaforte nella 4. L. Silver, Scientists Push the Boundaries of Human Life, “Newsweek International”, 4 giugno 2007.

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quale essere al sicuro. “La natura non esiste”: la “natura” intesa come regno della riproduzione bilanciata, dello sviluppo organico nella quale l’umanità interviene con la sua hubris, facendola brutalmente uscire dai suoi binari circolari, è una fantasia umana; la natura è sempre in se stessa “una seconda natura”, il suo equilibrio è sempre secondario, un tentativo di negoziare un’“abitudine” che riporterebbe un qualche tipo di ordine dopo un’interruzione catastrofica. Rispetto a questa instabilità intrinseca della natura, la più coerente è la proposta di uno scienziato ecologista tedesco, formulata ancora negli anni settanta: siccome la natura cambia costantemente e le condizioni sulla Terra renderanno impossibile la sopravvivenza dell’uomo in un paio di secoli, l’obiettivo comune dell’umanità non dovrebbe essere quello di adattarsi alla natura, ma di intervenire sull’ecologia della Terra in modo ancora più deciso con lo scopo di congelare i cambiamenti della Terra, affinché il suo ecosistema rimanga sempre lo stesso, permettendo all’umanità di sopravvivere. Questa proposta estrema mostra la verità dell’ecologia. Non si può che essere d’accordo con un altro scienziato ecologista, che è giunto alla conclusione che, mentre non possiamo essere sicuri di quelli che saranno i risultati dell’intervento dell’uomo nella geosfera, possiamo stare sicuri che se l’umanità d’improvviso abbandonasse la sua immensa attività industriale e lasciasse che la natura ritrovasse il suo corso equilibrato sulla Terra, il risultato sarebbe un crollo totale, una catastrofe inimmaginabile. La “natura” sulla Terra è già così “adattata” agli interventi umani, gli “inquinamenti” umani sono a tal punto parte del fragile e instabile equilibrio della riproduzione “naturale” sulla Terra, che la loro cessazione provocherebbe uno sbilanciamento catastrofico. Questo è ciò che significa che l’umanità non ha nessun posto dove ritirarsi: non solo “il grande Altro non esiste” (l’ordine simbolico autocontrollato come garanzia definitiva del Senso); non c’è nemmeno alcuna Natura intesa come sistema di autoriproduzione in equilibrio, la cui omeostasi viene disturbata, fatta deragliare dagli interventi umani senza misura. In realtà, ab114


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biamo bisogno di un’ecologia senza natura: l’ostacolo principale nel proteggere la natura è proprio il concetto di natura a cui facciamo riferimento. The World Without Us di Alan Weisman offre una visione di quello che potrebbe succedere se l’umanità (e solo l’umanità) sparisse improvvisamente dalla Terra: fiorirebbe di nuovo la diversità naturale e la natura gradualmente si rimpossesserebbe delle opere dell’uomo. Noi, esseri umani, siamo ridotti a un puro sguardo privo di corpo che osserva la nostra stessa assenza. Come ha dimostrato Lacan, questa è la posizione soggettiva fondamentale del fantasma: venir ridotti ad a, lo sguardo che osserva il mondo nella condizione di non esistenza del soggetto, come il fantasma dell’essere testimoni dell’atto del proprio concepimento, l’atto sessuale fra i genitori, o l’atto di essere testimoni del proprio funerale, come Tom Sawyer e Huck Finn. Un bambino geloso indulge volentieri nella fantasia di immaginare come potrebbero reagire i genitori alla sua morte, mettendo in gioco la propria assenza. “Il mondo senza di noi” è dunque un fantasma allo stato puro: quello di poter assistere alla Terra stessa che riottiene il suo stato di innocenza precastrato, prima che noi esseri umani l’avessimo depredata con la nostra hubris. L’ironia è che l’esempio più importante ci viene dalla catastrofe di Chernobyl: la natura lussureggiante ricopre le rovine in disintegrazione della vicina città di Pripyat, che è stata abbandonata, lasciata nello stato in cui si trovava. Su questo sfondo bisognerebbe problematizzare la distinzione di Badiou tra l’uomo in quanto “animale umano” mortale e il soggetto “inumano” in quanto agente di una procedura di Verità: l’uomo ricerca la felicità e il piacere, si preoccupa della morte ecc., è un animale dotato dei migliori strumenti per raggiungere i propri scopi, mentre solo un soggetto fedele alla Verità-Evento si eleva davvero al di sopra dell’animalità. Il problema di questo dualismo è che ignora la lezione elementare di Freud: non esiste alcun “animale umano”. Un essere umano fin dalla nascita (e anche prima) esce dai limiti dell’animale, i suoi istinti sono “denaturalizzati”, prigionieri della circolarità della pulsione (di morte), 115


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funzionano “al di là del principio di piacere”, segnati dallo stigma di ciò che Eric Santner ha definito undeadness o eccesso di vita. Questo è il motivo per cui non c’è posto per la “pulsione di morte” nell’edificio di Badiou, per la “distorsione” dell’animalità umana che precede la fedeltà a un Evento. Non è solo il “miracolo” di un incontro traumatico con un evento che fa allontanare un soggetto umano dalla sua animalità: la sua libido in se stessa è già deragliata. Bisognerebbe dunque rovesciare la solita critica a Badiou: non è problematico il miracolo quasi religioso dell’Evento, ma l’ordine “naturale” vero e proprio, disturbato dall’Evento. Dunque, tornando alla prospettiva di una catastrofe ecologica, perché non agiamo? È troppo facile attribuire lo scarso credito dato alla possibilità di una catastrofe al fatto che la nostra mente è pregna di ideologia scientifica, portandoci a trascurare le sane argomentazioni del nostro senso comune che ci dice continuamente che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nell’atteggiamento scientifico-tecnologico. Il problema è molto più grave, risiede nell’inaffidabilità del nostro senso comune stesso che, abituato com’è al nostro mondo della vita normale, trova difficile accettare davvero che il flusso della vita quotidiana possa venire perturbato. Il nostro atteggiamento dunque è quello della scissione feticista: “So molto bene (che il riscaldamento globale è una minaccia per l’umanità) ma ciò nonostante… (non posso crederci davvero). Non basta guardare agli ambienti ai quali la mia mente è collegata: l’erba verde e gli alberi, il sibilo del vento, il sorgere del sole… si può davvero immaginare che tutto questo possa venir disturbato? Si parla tanto del buco nell’ozono, ma non importa quanto a lungo io guardi il cielo, non lo vedo, quel che vedo è lo stesso cielo, blu o grigio!”. In questo risiede l’orrore dell’incidente di Chernobyl: quando si visita il sito, a eccezione del sarcofago di cemento, le cose sembrano essere esattamente uguali a prima, la vita sembra aver abbandonato il luogo, lasciando ogni cosa com’è, e ciò nonostante siamo consapevoli del fatto che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato. Il cambiamento non è a livello della realtà visibile, ma è molto più fondamentale, riguarda la struttura della realtà. Non ci 116


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meraviglia che ci siano alcuni contadini solitari nei dintorni di Chernobyl che continuano a condurre le loro vite come prima: semplicemente ignorano tutti quei discorsi incomprensibili sulle radiazioni. Questi contadini non si comportano come il pazzo della vecchia barzelletta che circolava fra i lacaniani per esemplificare il ruolo chiave del sapere dell’Altro? Un uomo che crede di essere un chicco di grano viene portato in un istituto di cura dove i dottori fanno del loro meglio per convincerlo davvero che non è un chicco di grano, ma un uomo; tuttavia, dopo che è stato curato (convinto di non essere un chicco di grano, ma un uomo) e che gli è stato permesso di lasciare l’ospedale, egli torna immediatamente indietro tremando dal terrore: c’è un pollo fuori dalla porta e lui ha paura che voglia mangiarlo. “Mio caro,” dice il dottore, “sai bene che non sei un chicco di grano, ma un uomo.” “Certo che lo so,” risponde il paziente, “ma lo sa anche il pollo?” Il pollo della barzelletta rappresenta il grande Altro che non lo sa. Nei suoi ultimi anni di vita, Tito era proprio tale pollo: ci sono archivi e memorie che mostrano come, già a metà degli anni settanta. Le principali figure dell’entourage di Tito sapevano che la situazione economica della Jugoslavia era catastrofica; tuttavia, siccome Tito era vicino alla morte, essi presero la decisione collettiva di posporre lo scoppio della crisi a dopo la sua morte: il prezzo pagato fu la rapida accumulazione di debito estero negli ultimi anni della vita di Tito. Quando, nel 1980, Tito finalmente morì, la crisi economica si vendicò, portando a una caduta del 40 per cento del tenore di vita, a tensioni etniche e, infine, alla guerra civile ed etnica che distrusse il paese: ormai era passato il momento per affrontare adeguatamente la crisi. Si può dire dunque che il tentativo dei capi di proteggere l’ignoranza del leader, di mantenere felice il suo sguardo, ha dato il colpo di grazia alla Jugoslavia. E in fin dei conti, la cultura non è questo? Una delle regole elementari della cultura è di sapere quando (e come) simulare di non sapere (o notare), quando andare avanti e agire come se qualcosa che è accaduto non fosse mai accaduto. Quando un mio vicino accidentalmente produce un rumore sgradevole, volgare, la cosa giusta da fare è ignorarlo, non confortarlo: “So che è stato un in117


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cidente, non preoccuparti, non importa!”. Dobbiamo interpretare nel modo corretto la barzelletta sul pollo: la domanda del pazzo è una questione perfettamente pertinente in molte situazioni quotidiane. Quando dei genitori con un figlio giovane hanno relazioni extraconiugali, litigano e si rimproverano l’un l’altro, di solito (se hanno conservato un minimo di decenza) tentano di evitare che il figlio lo noti, sapendo bene che se il figlio lo sapesse ciò avrebbe un effetto devastante su di lui: perciò quello che cercano di conservare è proprio una situazione del genere di “sappiamo che ci tradiamo, litighiamo e ci rinfacciamo le cose, ma il bambino/pollo non lo sa”. Ovviamente, in molti casi, il bambino lo sa molto bene, ma semplicemente finge di non notare niente di sbagliato, consapevole di facilitare un po’ la vita ai suoi genitori in questo modo. O, a un livello più alto, pensiamo a un genitore in una situazione difficile (sta morendo di cancro, ha dei problemi finanziari), e tuttavia tenta di tener nascosto il suo segreto alle persone più vicine e a cui vuole bene. Ed è lo stesso problema dell’ecologia: lo sappiamo, ma il pollo non lo sa… Il problema dunque è che non ci fidiamo né della scienza, né del nostro buon senso: entrambi rinforzano mutuamente la cecità dell’altro. La mente scientifica difende una valutazione fredda e oggettiva dei danni e dei rischi implicati laddove una tale valutazione non è effettivamente possibile, mentre il buon senso trova difficile accettare che possa davvero succedere una catastrofe. Il difficile compito etico è dunque quello di “disimparare” le più semplici coordinate della nostra immersione nel mondo della vita: ciò che generalmente funge da accesso alla Saggezza (la fiducia di fondo nelle coordinate strutturali del nostro mondo) ora è la fonte del pericolo. Possiamo imparare ancora di più dalla teoria della conoscenza di Rumsfeld: l’espressione, evidentemente, fa riferimento al ben noto incidente del marzo 2003, quando Donald Rumsfeld si è cimentato in un pezzo di filosofia dilettantesca riguardo ai rapporti fra noto e ignoto: “Ci sono conoscenze note. Sono cose che sappiamo di conoscere. Ci sono cose ignote che conosciamo, ovvero ci sono cose che sappiamo di non conoscere. Ma ci sono anche 118


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cose ignote che non conosciamo. Queste sono le cose che non sappiamo di non conoscere”. Ha dimenticato di aggiungere l’importantissimo quarto termine: le “conoscenze ignote”, le cose che non sappiamo di conoscere, che costituiscono proprio l’inconscio freudiano, la “conoscenza che non conosce se stessa”, come soleva dire Lacan. Se Rumsfeld pensava che i pericoli più gravi nello scontro con l’Iraq fossero le “cose ignote che non conosciamo”, le minacce di Saddam di cui non sospettavamo l’esistenza, dovremmo rispondere che i pericoli peggiori, al contrario, sono le “conoscenze ignote”, le credenze e le ipotesi denegate delle quali non siamo consapevoli pur aderendovi. Nel caso dell’ecologia, queste conoscenze denegate sono quelle che ci impediscono di credere veramente nella possibilità di una catastrofe, e si combinano con “cose ignote che non conosciamo”. La situazione è come quella di un punto cieco nel campo visivo: non vediamo il buco, l’immagine ci appare omogenea. Se il nome freudiano per “conoscenze ignote” è Inconscio, il nome freudiano per “cose ignote che non conosciamo” è trauma, l’intrusione violenta di qualcosa di radicalmente inatteso, qualcosa per cui il soggetto non era per niente preparato, qualcosa che il soggetto non può in nessun modo fare proprio. Nel suo Les nouveaux blessés, Catherine Malabou propone una riformulazione critica della psicanalisi secondo queste direttrici. Il suo punto di partenza è la delicata eco tra il Reale interno ed esterno in psicanalisi: per Freud e Lacan, gli shock esterni, gli inaspettati incontri brutali o le intrusioni, devono il loro impatto propriamente traumatico al modo in cui vanno a toccare una “realtà psichica” traumatica preesistente. Malabou descrive nello stesso modo la lettura che fa Lacan del sogno freudiano del “padre, non vedi che brucio?”. L’incontro contingente esterno della realtà (la candela che cade e incendia il sudario che copre il bambino morto, e la puzza di fumo che disturba la veglia del padre) scatena il vero Reale, l’intollerabile apparizione fantasmatica del bambino morto che rimprovera suo padre. In questo modo, per Freud (e Lacan), ogni trauma esterno è “sublimato”, interiorizzato, possiede il suo impatto nella misura in cui un Reale preesistente della 119


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“realtà psichica” viene eccitato da esso. Anche la più violenta intrusione della realtà esterna – per esempio l’effetto scioccante sulle vittime delle esplosioni delle bombe in guerra – deve il suo effetto traumatico alla risonanza che trova nel masochismo perverso, nella pulsione di morte, nel senso di colpa inconscio ecc. Oggi, tuttavia, la nostra stessa realtà sociopolitica ci presenta molteplici versioni di intrusioni e traumi che non sono altro che insensate e brutali rotture che distruggono la struttura simbolica dell’identità del soggetto. Prima c’è la violenza fisica esterna brutale: gli attacchi terroristici come quelli dell’11 settembre, il bombardamento “shock and awe” degli Stati Uniti in Iraq, la violenza nelle strade, gli stupri ecc., ma anche catastrofi naturali, terremoti, tsunami ecc.; poi, c’è la distruzione “irrazionale” (senza senso) della base materiale della nostra realtà interiore (tumori al cervello, Alzheimer, lesioni cerebrali organiche ecc.), che possono cambiare profondamente e perfino distruggere la personalità delle vittime; infine ci sono gli effetti distruttivi della violenza sociosimbolica (l’esclusione sociale ecc.). È da notare come questa triade faccia eco alla triade dei beni: i beni di natura esterna, di natura interna, della sostanza simbolica. Fondamentalmente il rimprovero di Malabou è che Freud stesso cede qui alla tentazione del senso: non è pronto ad accettare la diretta efficacia distruttiva degli shock esterni. Essi distruggono la psiche della vittima (o per lo meno la feriscono in modo irrimediabile) senza trovare risonanza in alcuna verità traumatica interiore. Sarebbe ovviamente osceno collegare, per esempio, la devastazione psichica di un “musulmano” in un campo di concentramento nazista al suo masochismo, alla pulsione di morte, o al senso di colpa: un “musulmano” (o una vittima di uno stupro di gruppo, di una tortura brutale…) non è devastata da ansie inconsce, ma direttamente da uno shock esterno “senza senso” che non può in nessun modo venir fatto proprio o integrato ermeneuticamente. Per Freud, se la violenza esteriore diventa troppo forte, semplicemente usciamo dall’ambito psichico: la scelta è “o lo shock viene reintegrato in un quadro libidico preesistente, o distrugge la psiche e non rimane più niente”; non può accorgersi che la vit120


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tima in un certo modo sopravvive alla propria morte. Tutte le diverse forme di incontri traumatici, indipendentemente dalla loro natura specifica (sociale, naturale, biologica, simbolica…), portano allo stesso risultato: emerge un soggetto nuovo che sopravvive alla propria morte, la morte (cancellazione) della sua identità simbolica. Non c’è alcuna continuità per questo nuovo soggetto “post-traumatico” (che soffre di Alzheimer o di altre lesioni cerebrali ecc.): dopo lo shock, emerge letteralmente un nuovo soggetto. Le sue caratteristiche sono ben note da numerose descrizioni: mancanza di coinvolgimento emotivo, profonda indifferenza e distacco, è un soggetto che non è più “nel mondo” nel senso heideggeriano di un’esistenza incarnata e impegnata. Questo soggetto vive la morte come una forma di vita – la sua vita è morte – pulsione incarnata, una vita priva di coinvolgimento erotico; e questo vale per i carnefici non meno che per le loro vittime. Se il XX secolo è stato il secolo freudiano, il secolo della libido, per cui anche i peggiori incubi venivano interpretati come vicissitudini (sadomasochiste) della libido, il XXI secolo sarà il secolo di questi soggetti post-traumatici distaccati la cui prima emblematica figura, quella del “musulmano” nei campi di concentramento, non è forse moltiplicata nei rifugiati, nelle vittime del terrore, nei sopravvissuti alle catastrofi naturali, alle violenze familiari? La caratteristica che funge da collegamento fra tutte queste figure è che la causa della catastrofe rimane senza significato libidico, resiste a ogni interpretazione. La costellazione è davvero frustrante: anche se noi (soggetti individuali o collettivi) sappiamo che tutto dipende da noi, non possiamo mai predire le conseguenze dei nostri atti: non siamo impotenti, ma all’opposto, onnipotenti, senza però essere capaci di determinare il fine del nostro potere. La distanza che separa cause ed effetti è irriducibile, e non c’è alcun “grande Altro” che garantisca l’armonia tra i livelli, che garantisca che il risultato finale delle nostre interazioni sarà positivo. Il problema è che anche se i nostri atti (a volte pure quelli individuali) possono avere conseguenze catastrofiche (ecologiche ecc.) il grande Altro ci impedisce di crederlo, di accettare questo sapere e questa responsa121


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bilità: “Contrariamente a quel che pensano i promotori del principio della prudenza, la causa della nostra inazione non è l’incertezza scientifica. Lo sappiamo, ma non possiamo credere in ciò che sappiamo”. Questa situazione ci mette davanti al paradosso della contemporanea “società della scelta” al livello più radicale. Nella classica situazione di una scelta forzata (una situazione nella quale sono libero di scegliere a condizione di fare la scelta giusta), l’unica cosa da fare è il gesto vuoto di accettare di fare liberamente ciò che mi viene imposto in ogni caso. Qui, al contrario, la scelta è davvero libera e per questo motivo è sentita come ancora più frustrante: ci sentiamo costantemente chiamati a decidere su questioni che incideranno profondamente nelle nostre vite, ma senza una vera e propria fondazione nel sapere. Come scrive John Gray: “Siamo stati gettati in un tempo nel quale tutto è provvisorio. Le nuove tecnologie cambiano la nostra vita quotidiana. Le tradizioni del passato non possono venir salvate. Allo stesso tempo sappiamo ben poco di cosa ci riserva il futuro. Siamo costretti a vivere come se fossimo liberi”. Dunque non basta modificare il classico ritornello della critica marxista: “Anche se probabilmente viviamo in una società di scelte, le scelte che effettivamente facciamo sono banali, e la loro proliferazione maschera l’assenza di scelte vere, scelte che riguarderebbero le caratteristiche di fondo delle nostre vite”. Pur essendo vero, il problema è piuttosto che siamo costretti a scegliere senza avere a nostra disposizione il sapere che renderebbe possibile una scelta valida. È sempre la vecchia lezione lacaniana: non c’è alcun grande Altro. Il primo a impararlo è stato Giobbe: dopo che Giobbe aveva subito le sue disgrazie, vennero i suoi amici teologi, fornendogli interpretazioni che rendessero tali calamità dotate di senso, e la grandezza di Giobbe non sta tanto nel protestare la propria innocenza quanto nell’insistere sull’insensatezza di queste calamità (quando più tardi appare Dio, dà ragione a Giobbe contro i teologi difensori della fede). La funzione dei tre amici teologi è di offuscare l’impatto del trauma attraverso un’apparenza simbolica. Questo bisogno di trovare un senso è cruciale se ci rapportiamo alle catastrofi potenziali o presenti, dall’Aids e dai disastri 122


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ecologici fino all’Olocausto: non hanno “un significato più profondo”. L’eredità di Giobbe ci proibisce di trovare rifugio nella normale figura trascendente di Dio inteso come un Padrone segreto che conosce il significato di ciò che ci sembra essere una catastrofe senza senso, un Dio che vede l’intero quadro nel quale quello che noi percepiamo come una macchia in realtà contribuisce all’armonia globale. Quando siamo di fronte a eventi come l’Olocausto o la morte di milioni di persone in Congo negli ultimi anni, non è forse osceno affermare che queste macchie hanno un significato più profondo nel quale esse contribuiscono all’armonia del Tutto? Ci può essere un Tutto che giustifichi teleologicamente un evento come l’Olocausto? La morte di Cristo in croce significa che bisogna abbandonare senza esitazioni la nozione di Dio come un custode trascendente che garantisce l’esito felice dei nostri atti, il garante di una teologia storica: la morte di Cristo in croce è la morte di questo Dio, ripete l’atteggiamento di Giobbe, rifiuta ogni “significato più profondo che offuschi la realtà brutale delle catastrofi storiche”. E la lezione dell’ecologia è che dobbiamo andare fino in fondo e accettare la non esistenza del grande Altro definitivo, la natura stessa con la sua combinazione di ritmi regolari, l’ultimo riferimento dell’ordine e della stabilità. Tuttavia, questa mancanza del grande Altro non implica che noi siamo irrevocabilmente prigionieri della miseria della nostra finitudine, privi di qualsiasi momento di redenzione. Nel suo libro, La scrittura o la vita, Jorge Semprún descrive come sia stato testimone dell’arrivo di un convoglio di ebrei polacchi a Buchenwald; erano stipati nel treno merci, quasi duecento per ogni carro, viaggiando per giorni senza cibo né acqua nell’inverno più freddo della guerra. All’arrivo, tutti nel convoglio erano morti di freddo eccetto quindici bambini, tenuti al caldo dagli altri in mezzo al groviglio di corpi. Quando i bambini furono estratti dal carro i nazisti sguinzagliarono contro di loro i cani. Ben presto rimasero solo due bambini che fuggivano: “Il più piccolo cominciò a rimanere indietro, le SS gli urlavano dietro e quindi i cani cominciarono ad abbaiare, l’odore di sangue li rendeva folli, e poi il più 123


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grande dei due bambini rallentò la sua corsa per afferrare la mano del più piccolo… insieme fecero ancora pochi passi finché i colpi dei bastoni non li raggiunsero; caddero insieme, le facce al suolo, le mani unite per l’eternità”. Si può immaginare facilmente come potrebbe venir filmata la scena. Mentre il sonoro sottolinea quello che sta accadendo (i due bambini bastonati a morte), si vede il fermo-immagine delle loro mani unite, immobilizzate per sempre: mentre il suono descrive la realtà contingente, l’immagine descrive l’eterno Reale. La pura superficie di tali immagini fisse dell’eternità, senza alcun significato più profondo, permette i momenti di redenzione nella lugubre storia della Shoah. Bisognerebbe leggere questa scena immaginata assieme al finale di Thelma e Louise: il fermo immagine della macchina con le due donne che “volano” oltre il precipizio. È l’utopia positiva (trionfo della soggettività femminile sulla morte), o il mascheramento della triste fine che la macchina sta facendo in quel momento? La debolezza dell’inquadratura finale di Thelma e Louise è che il fermo immagine non è accompagnato dal sonoro che descrive quello che accade “in realtà” (l’incidente, le urla disperate delle donne morenti): stranamente, questa mancanza di realtà indebolisce la dimensione utopica di questo fermo immagine. Contrariamente a questa scena, la nostra sequenza filmata immaginata a partire da Semprún avrebbe in fin dei conti affermato la dualità platonica tra la realtà empirica contingente e l’Idea eterna. Questo significa, senza imbarazzi, che dobbiamo tornare alla concezione dell’arte di Platone. La reputazione di Platone soffre del fatto che ha affermato che i poeti debbono venir allontanati dalla città: un consiglio piuttosto acuto, a giudicare dalla mia esperienza post-jugoslava, dove la pulizia etnica è stata preparata dai sogni pericolosi dei poeti (il leader serbo-bosniaco Radovan Karadžic´ era solo uno dei tanti). Se l’Occidente soffre del complesso industriale-militare, noi, nella ex Jugoslavia soffriamo di un complesso poetico-militare. Dunque, da un punto di vista platonico, cosa può fare un poema sull’Olocausto? Può fornire una “descrizione senza luogo”: rappresenta l’Idea di Olocausto. 124


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Ripensiamo alla vecchia strategia cattolica per mettere in guardia gli uomini contro la tentazione della carne. Se ti trovi di fronte a un voluttuoso corpo femminile, immagina come sarà fra una ventina d’anni: la pelle secca, il seno cadente… (o, ancora meglio, immagina quello che si muove già adesso sotto la pelle: carne cruda e ossa, fluidi corporei, cibo mezzo digerito ed escrementi…). Lungi dal mettere in scena un ritorno del Reale destinato a rompere l’incanto magico del corpo, questa procedura equivale a una fuga dal Reale, il Reale che si annuncia nell’apparizione seducente di un corpo nudo. Ovvero, nel contrasto tra la spettrale apparizione del corpo sessualizzato e il repellente corpo in decadenza, è l’apparizione spettrale a essere il Reale, e il corpo decadente la realtà: facciamo ricorso al corpo decadente per evitare il fascino mortale del Reale che minaccia di precipitarci nella jouissance.

Traduzione dall’inglese di Damiano Cantone

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Metafore migranti. Per un’epistemologia delle frontiere CHIARA BRAMBILLA MARTINO DONI

Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano […]. Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più “terra” alcuna! Nietzsche, La gaia scienza, III, § 124

1. Pensare la frontiera Le frontiere danno a pensare. Parafrasando una celebre formula di Ricœur sul simbolo, potremmo incominciare col dire che il problema delle frontiere, dei confini, dei limiti, sia di tipo filosofico, prima ancora che geopolitico o cartografico. Oppure, se si preferisce, è un problema geopolitico, proprio in quanto filosofico. Se nell’età moderna è andata perdendosi questa consapevolezza, è perché probabilmente i confini stessi hanno mutato consistenza; se da un lato gli sciagurati scacchisti dei trattati coloniali e delle conferenze di pace hanno consegnato l’Europa e buona parte del mondo a linee di frontiera più o meno azzardate, dall’altro le questioni più gravi, scottanti, nonché foriere di guerre interminabili, si sono concentrate prevalentemente sulle forme che tali linee disegnavano, ovvero sui territori che si plasmavano sulla superficie terrestre, andando a configurare i famigerati Stati nazionali, come modello di costituzione trascendentale. Tutto ciò è stato già evidenziato da tempo dalla critica postcoloniale, ma non è certo lettera morta, se – come è evidente – il trascendentalismo del paradigma “occidentale” (qualunque cosa significhi) si rende addirittura esportabile con bombe e strumenti repressivi. Ciò su cui forse non ci si è ancora adeguatamente soffermati è una questione 126

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apparentemente di sfondo, ma in realtà cruciale, che appartiene pienamente alla tradizione del pensiero filosofico, da Platone a Wittgenstein: la questione della consistenza del limite, dell’ontologia del confine. In fondo non è altro che il passaggio dall’analisi alla sintesi, o dall’intelletto alla ragione, dal pensiero che distingue e separa, al pensiero che integra e assimila; tutta la storia della filosofia si potrebbe rileggere, e riscrivere, in chiave di confine; ma il punto non è questo. Il punto è che, se è vero che le frontiere danno a pensare, occorre pensarle. La funzione ingannatrice delle frontiere è che esse agiscono come le ombre della caverna platonica: mostrano soltanto quel che non sono. I confini rendono visibile il territorio che delimitano, ma non se stessi, anzi si nascondono con un certo pudore. Tant’è che quando invece si mostrano, lo fanno in maniera plateale, terrificante – come il muro di Berlino, la frontiera di Tijuana, o i nuovi muri di Ceuta e Melilla – ma anche un po’ ridicola, se così si può dire, per via di un certo surrealismo che connota le delimitazioni troppo umane della terra. Basti pensare alla cura certosina che certi bambini applicano nel marcare il proprio territorio rispetto ai fratelli o ai compagni, con complicate file di macchinine o altri oggetti di fortuna, momentaneamente eletti a mattoni del principio assoluto di proprietà e identificazione. L’infantilismo surreale dei muri, violento e crudele come ogni infantilismo, non permette di pensare la frontiera, ma solo di scappare, o di perire. Compito della paideia filosofica è dotare il pensatore di quel tanto di coraggio che basta per tentare la fuga dalla caverna, o il salto del muro. La filosofia, per questo, non è un elenco di istruzioni pronto per l’uso, ma la spinta che chiama a raccolta le forze, invita ad abbandonare gli indugi e a partire (via, sulle navi!). È difficile uscire dalle metafore, quando si parla di frontiera.1 1. La metafora non è una mera “introduzione” a un logos asettico e aniconico: il trasferimento di cui si fa carico è la trama stessa del “mondo-della-vita”; il che dovrebbe quanto meno apparentare le riflessioni di Gregory Bateson sul tessuto che connette, quelle di Blumenberg sulle storie che legano il tempo della vita al tempo del mondo, quelle di Derrida sulla non identità a sé che rinvia a sé…

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Metafora è il processo che mette in comunicazione una pluralità irriducibile di dimensioni semantiche – esattamente come la frontiera. Quel che è la metafora per il discorso, lo è la frontiera per la prassi storico-culturale. Esponendosi come natura monodimensionale di secante, la frontiera è la metafora dello spazio. È il modo in cui lo spazio si “racconta”, è la sua presentificazione. Tuttavia, essa si presenta, graficamente, come segno puro, come funzione meramente referenziale, “convenzionale”, se si vuole. La consuetudine del confine nasconde il suo stesso spessore, annulla la consistenza storica e fenomenica della sua pratica. Come il segno, per farsi “convenzionale”, deve desomatizzarsi, annicchilendo la sua materialità, così pure la frontiera si rende effimera, aleatoria.2 Certo è che la referenzialità di cui si fa carico è vincolata da un sistema di rapporti complessi e costitutivi, di cui l’aspetto filiforme non è che una traccia riduttiva e semplificatrice. Se per osservare il territorio occorre guardarne innanzitutto i confini – come quando si monta un puzzle cercando prima di tutto di costruirne il bordo –, a che cosa ci si deve affidare, quando si intende osservare la frontiera? Evidentemente non al territorio, perché il rapporto tra la frontiera e lo spazio che racchiude (o che esclude) non è biunivoco. In questo caso non c’è reciprocità. Qual è la condizione della frontiera? Quale luce alle sue spalle permette che essa proietti l’illusione di uno spazio “definito”? Il gioco della metafora non è per nulla leggero e fatuo; anzi, è spesso rischioso e cruento. La sua “posta” è la descrizione di un intreccio epistemologico tra pratiche politiche di inclusione-esclusione e immagini costruite per contenerle e trasmetterle sul piano culturale. Ma per illustrare meglio questo punto, forse, occorre addentrarsi ancora di più nelle metafore. 2. Per quanto riguarda la critica al convenzionalismo della linguistica classica saussuriana, cfr. in primis J. Derrida, Della grammatologia (1967), trad. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A.C. Loaldi, Jaca Book, Milano 1969; ma anche, e più perspicuamente, C. Sini, Eracle al bivio. Semiotica e filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2007 (terza versione di un lavoro pluridecennale su Segno e linguaggio in Peirce, Nietzsche, Heidegger e Foucault, come recita il sottotitolo dell’edizione del 1990, la seconda, per i tipi del Mulino); sul tema della desomatizzazione del “corpo” della scrittura alfabetica, cfr. Id., I segni dell’anima, Laterza, Roma-Bari 1989.

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2. “Gegend”: il rovescio della terra Gennaio 1958: la libera città anseatica di Brema premia il poeta apolide Paul Celan, al secolo Paul Pessach Ancel, ebreo transfuga dalla Romania, rifugiato a Bucarest, profugo a Vienna, esule a Parigi, dove finalmente era riuscito a trovare qualcosa che si avvicinasse a una casa. Tutta la lirica di Celan si impernia sulla dimestichezza con lo smarrimento, sull’intimità con l’irreparabilmente perduto. Ora, questo poeta viene premiato in un’importante città dove si parla la lingua di chi gli ha ammazzato i genitori, la lingua degli aguzzini, dei persecutori, ma anche la lingua con la quale scrive, la sua lingua-madre: Celan infatti era nato a Czernowitz, in Bucovina, per secoli estrema propaggine orientale di quello che era stato l’Impero asburgico: fino agli anni trenta il tedesco era di gran lunga la lingua più parlata in tutta la provincia, seguito dallo yiddish, dal ruteno, dal polacco, dal romeno.3 Celan era un lirico puro, solo molto raramente, e con grande pudore, concedeva incursioni “prosaiche” su di sé e sul suo modo di scrivere; le poche volte che ciò accadeva, era per rivelare qualcosa di decisivo, qualcosa che trascendesse le dimensioni occasionali dell’encomio ufficiale o dell’“etichetta” letteraria, a cui comunque si doveva rendere l’inevitabile pegno. Nell’allocuzione tenuta in occasione del conferimento del premio, il poeta evoca per la prima volta, in pubblico, la sua terra d’origine. Si tratta di un passo di importanza cruciale per il discorso che si sta delineando: Il paesaggio dal quale giungo sino a voi, probabilmente la maggior parte di voi lo ignora. È il paesaggio in cui era di casa una parte non trascurabile di quei racconti chassidici che Martin Buber ha rinarrato a tutti noi in tedesco. Era […] una contrada in cui vivevano uomini e libri. Là, in quella ex provincia

3. Cfr. H. Braun (a cura di), Czernowitz. Die Geschichte einer untergegangenen Kulturmetropole, Links, Berlin 2006.

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della monarchia asburgica, ora caduta vittima della mancanza di storia...4 Nel riportare e commentare questa frase, la studiosa Camilla Miglio sostiene giustamente che Celan “si volge verso un est da considerare dal punto di vista iconologico, più che storico-geografico”.5 Non è un caso se, nel presentarsi a un pubblico composto in gran parte da tedeschi, nel cuore di quella Germania da cui proviene il Meister della morte, come recita ossessivamente un ritornello della celebre Todesfuge, Celan rievochi la sua terra natia con il termine Landschaft, “paesaggio”, e subito dopo con un’espressione ancora più intensa nella sua apparente vaghezza, Gegend, letteralmente “zona”. Gegend contiene l’avverbio gegen, cioè “contro”, “di fronte”, così come il termine “contrada”, argutamente proposto da Giuseppe Bevilacqua nella sua versione del testo. In queste poche righe si può cogliere la figura mnestica del confine, il suo agire come sottotraccia “iconologica” della cultura. “Contrada” è la terra che non c’è più, che è stata cancellata, che non appartiene più al novero della storia: geschichtlichslos. Celan, da Parigi, da Brema, da Occidente, guarda sempre a est, a un Oriente che non esiste. L’assenza è la cifra specifica della configurazione di una “zona” che orbita attorno a un vuoto: le macerie lasciate dopo il pogrom, la porta sbarrata dall’esterno dopo la retata. La “contrada” di cui parla Celan non è un luogo abitabile, è un paesaggio di parole, la traccia di una memoria che si affaccia sull’oblio. La tensione verso l’origine non coincide con un luogo fisico, topograficamente isolabile secondo coordinate precise. Non ci sono confini in grado di delimitare una Gegend, e non perché si tratta di un territorio vago e indistinto – o meglio, non solo. L’impossibile 4. Ansprache bei Verleihung des Bremer Literaturpreises an Paul Celan, DeutscheVerlagAnstalt, Stuttgart 1958, citato in P. Celan, Gesammelte Werke, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1983, vol. III, p. 185; trad. (qui parzialmente modificata) di G. Bevilacqua, “Allocuzione di Brema”, in La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, Einaudi, Torino 1993, p. 34. 5. C. Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan, Quodlibet, Macerata 2005, p. 27. Sul rapporto di Celan con la terra d’origine e con l’Oriente (Israele in particolare), cfr. I. Shmueli, Di’ che Gerusalemme è. Su Paul Celan: ottobre 1969-aprile 1970 (2000), trad. di J. Leskien e M. Ranchetti, Quodlibet, Macerata 2000.

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confinamento della Gegend è determinato soprattutto dal fatto che quella terra non c’è. In quanto continuo differimento dalla presenza, essa può fungere da condizione essenziale per il confine, ma a quel punto il confine non la definisce già più, definisce altro. In una poesia del 1960, Celan parla di una terra che si chiama Perduta (Verloren).6 L’assenza del luogo delle origini è di per sé presente, proprio perché luogo di parole: l’attributo diviene sostantivo. 3. “Sunugaal”: la parte del mare Non si rende giustizia alla metafora semplicemente “traducendola” in concetto. Quanto vi sia di “inconcettuale” nel gioco delle immagini va preservato dalla definizione. Dare il concetto è uno dei compiti più ardui e necessari della teoria filosofica; ma ciò non significa uscire una volta per tutte dalle trame immaginifiche e narrative che costituiscono l’esperienza. Non si tratta di semplificare, ma, al contrario, di complessificare, cogliere quel tanto di significatività che abita nelle costellazioni metaforiche che si riescono a individuare. E dunque: un’altra metafora, un’altra storia. Luglio 2006: il cantante rapper senegalese Dj Awadi incide e diffonde sul web la canzone Sunugaal, che in wolof significa “la nostra piroga”. È una canzone di protesta, un atto d’accusa contro il governo senegalese, che con la sua politica sconsiderata costringe i giovani a rischiare la vita per cercare fortuna in Europa. La versione web della canzone, oltretutto, è accompagnata da fotografie che scorrono come rinforzo iconico per descrivere le terribili condizioni di una traversata oceanica verso le Isole Canarie, con una piroga di legno.7 6. La poesia è Eis, Eden, cfr. P. Celan, Die Niemandsrose, Fischer, Frankfurt a.M. 1963, ora in Gesammelte Werke, cit., vol. I, p. 224; trad. di G. Bevilacqua, “Ghiaccio, Eden”, in Poesie, Mondadori, Milano 1998, p. 377. Cfr. C. Miglio, Vita a fronte, cit., pp. 40-42. 7. Cfr. <http://www.studiosankara.com/sunugaal.html>. Pare significativo, peraltro, che l’autore o chi per lui abbia sentito la necessità di corredare il testo e la musica con una sorta di carrellata della pietà migrante: come se il messaggio, così corredato, fosse più potente, più incisivo; come se non bastasse la parola e la melodia. Non si rifletterà mai abbastanza sul fatto che l’ossessione multimediale ipertrofica a cui è sottoposto il mondo in cui approdano i migranti, il mondo delle “possibilità”, abbia svuotato le immagini (le metafore) di significatività emotiva: è una sorta di nuova figura dialettica, un superamento della sintesi per eccesso; qualcosa che, forse, nemmeno lo spirito assoluto di Hegel saprebbe contenere.

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Anche in questo caso si parla di una terra che si chiama Perduta; e non mancano assonanze del tutto involontarie con le immagini di Celan: due dimensioni infinitamente distanti l’una dall’altra per spazi, tempi e contenuti e modalità comunicative, si scoprono, invece, presupposti di una stessa interrogazione, quella delle migrazioni forzate e delle vite migranti che le alimentano. È una questione, questa delle migrazioni, dove ricorre il tema della frontiera, come un basso continuo: la frontiera è la sostanza stessa dell’esperienza migrante. La frontiera che si controlla, si pattuglia, si militarizza nel tentativo di conferire a essa una sostanzialità osservabile e per questo rassicurante; la frontiera che, tuttavia, ineluttabilmente, non si interroga. Ed è qui che sta il problema, nell’ostinarsi a non interrogarla, finendo così per precluderci la possibilità di comprendere la storia, come già denunciava Franz Rosenzweig, sul finire della Prima guerra mondiale: Il primo uomo che delimitò per sé e per i suoi un pezzo del suolo terrestre per farne una proprietà inaugurò la storia mondiale. […] Tra quell’alba e questo tramonto si muovono i confini sul suolo terrestre, confini che forniscono a colui che li interroga una risposta sull’altezza del sole nel cielo della storia.8 Ecco, di nuovo, un affastellamento di immagini. La metaforica quasi apocalittica di Rosenzweig, con il suo sole che segna l’ora cruciale nella storia; la piroga stracolma di disperati al largo delle Canarie; la terra che si chiama Perduta. Questo significa, in fondo, interrogare i confini: significa tornare sempre alle metafore, al loro gioco sinuoso al confine – appunto – tra la plasticità del simbolo e la consistenza effimera dell’ideale. D’altra parte è con questo genere di oggetti che abbiamo a che fare: se si decide di volgere l’attenzione alle frontiere, occorre abbandonare fin da subito l’aspettativa di incontrare alcunché di sostanziale. Le frontiere non sono oggetti inerti che stiano “contro” – Gegen-stände – dei soggetti dina8. Cfr. F. Rosenzweig, Globus. Per una teoria storico-universale dello spazio (1917), trad. di S. Carretti, Marietti, Genova-Milano 2007, p. 35.

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mici. Sono il simbolo dell’autocomportamento transnazionale, che in quanto tale è costitutivo sia degli Stati nazionali, sia dei cittadini che li abitano, sia dei clandestini che ne violano i confini.9 La Gegend di Celan si integra nella sunugaal. La “nostra piroga” esprime sia il senso di identità – rivendicato in quel possessivo agglutinato – sia quello dello smarrimento; allo stesso modo la terra di uomini e di libri che rappresenta la “patria” di Celan, è la stessa terra che si chiama Perduta, con i suoi pozzi, l’elemento “liquido” che vanifica ogni tentativo di sostanzializzazione del ricordo.10 La Gegend descrive alcune peculiarità della paradossale spazialità liquida: la presenza è continuamente differita all’interno di uno spazio che non può essere definito: la terra, in quanto tale, non c’è. E giustappunto nel non-esserci, nell’impossibilità del suo (de)limitarsi – e quindi (de)finirsi –, la Gegend può fungere da condizione per la frontiera. Come nella piroga dei migranti, il problema principale che apre la questione della Gegend è la fragilità dell’approdo. Se si vuole, è il procedimento metaforico opposto rispetto a quello – per certi versi fondativo – del “naufragio con spettatore”.11 Il testimone, in quanto tale, è un sopravvissuto: ma non se ne sta lieto sulla spiaggia a contemplare il tumulto degli elementi. L’attraversamento della frontiera distrugge, in lui, ogni Geborgenheit, ogni senso di sicurezza nei confronti del mondo. La “patria” sbiadisce: quel che resta dell’attraversamento è la sua funzione “iniziatica” di apertura verso la vaghezza del presente; il naufragio è continuamente rivissuto, ripresentificato. La frontiera, il mare da 9. Sulla nozione di autocomportamento, cfr. H. von Foerster, Sistemi che osservano, a cura di M. Ceruti e U. Telfner, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1987, pp. 179-190. Occorre quanto meno accennare al fatto che, così considerata, la frontiera cessa di essere una linea astratta, e penetra nell’esperienza di chi la varca. In tal senso la simbologia antropologica del mondo antico e in generale delle cosiddette ritualità iniziatiche è altamente eloquente. 10. Il paesaggio rurale della Bucovina è caratterizzato dalla fittissima diffusione di fontane e pozzi, attorno ai quali si organizzano i nuclei abitativi e le memorie culturali del sat, il villaggio tradizionale romeno; sulla presenza della metafora dell’acqua in Celan, cfr. ancora C. Miglio, Vita a fronte, cit.; sulla configurazione del sat come “microcosmo”, cfr. A. Oişteanu, Ordine şi Haos. Mit şi magie în cultura tradiţională românească, Polirom, Iaşi 2004. 11. Cfr., ovviamente, H. Blumenberg, Naufragio con spettatore (1979), trad. di F. Rigotti e B. Argenton, il Mulino, Bologna 1991.

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attraversare, o l’aria – nuovo elemento da considerare tra i “fluidi” della confinabilità umana – da varcare su chiatte volanti gremite di fiduciosi o disperati nomadi del visto turistico, la frontiera, appunto, non serve più a delimitare un luogo, ma a rendere permanente la sua cancellazione. Sembrerebbe di avere a che fare con un ennesimo non-luogo della contemporaneità; ma forse la frontiera del mondo di oggi, più che eclissi ou-topica delle aggregazioni umane è un’eterotopia, nel senso foucaultiano: la Gegend, infatti, non si limita a contestare la sostanzialità del luogo che evoca; è piuttosto la contestazione della localizzazione tout court.12 La piroga nella canzone di protesta non sancisce la soglia terminale dei centri di socializzazione della modernità, come l’ipermercato o gli aeroporti internazionali (o i giardini pubblici delle capitali europee). Il mistero della frontiera alberga nell’indeterminatezza “subatomica” che lo impone al mondo: come nel modello quantistico, anche la frontiera è disposizione di un’imprevedibilità che vanifica il controllo del principio di noncontraddizione. La “liquidità” della metafora marca l’impossibilità di stabilire il “qui” e il “là” come dati naturali, e dunque li impone come decisioni poliziesche, rivendicazioni neo-mitologiche di un’autoctonia che – quando si parla di attraversamenti marittimi – raggiunge livelli di paradossalità tragicomica.13 “Nostra” è la piroga, non l’acqua; il “noi” è deciso dal solco che di volta in volta si crea e si distrugge, approda o naufraga nella contingenza delle av12. Sul concetto di non-luogo, cfr. M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità (1992), trad. di D. Rolland, Elèuthera, Milano 2005. Per chiarimenti o approfondimenti sull’eterotopia, cfr. M. Foucault, Des espaces autres (conferenza tenuta al Centre d’études architecturales il 14 marzo 1967), “Architecture, Mouvement, Continuité”, 5, 1984, pp. 46-49; trad. “Eterotopie”, in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 307-316. Una traduzione italiana dello stesso testo è stata pubblicata anche in: Id., Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, trad. di T. Villani, Mimesis, Milano 2001. Cfr., inoltre, Id., Utopie, Eterotopie (2004), trad. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2006. 13. Si pensi al “rumore” mediatico che ha causato la recente missione di conquista artica compiuta dalla repubblica russa, con tutto l’allarme che ha suscitato la bandiera della federazione incastrata negli abissi glaciali, con tanto di rivendicazione territoriale calcolata sulla base di una presunta “continuità continentale”. È curioso ed eloquente che, per stabilire la proprietà sul mare, si ricorra a metafore terrestri, come nell’ossimoro giuridico delle “acque territoriali”.

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venture e delle tragedie migranti; il “territorio” è stabilito dalle onde radar che intercettano o trascurano per noncuranza o connivenza le migliaia di scialuppe della frontiera globale. Quella dell’acqua è una “geografia” instabile, rimanda a un elemento “naturalmente” poco controllabile. La canzone di Dj Awadi, che parla degli attraversamenti oceanici dei migranti dal Senegal verso le coste spagnole delle isole Canarie, è emblematica anche di altre geografie dell’acqua come, per esempio, quella del mar Mediterraneo, del canale di Sicilia e dei migranti africani e asiatici che lo solcano, cercando approdo sulle coste europee, di cui Lampedusa rappresenta, per il contesto italiano, la meta più agognata, nominata, finanche assunta a simbolo di un fallimento permanente nella storia della migrazione umana.14 Rispetto alla frontiera, la metafora del mare rivela tutta la sua valenza ossimorica: il mare è, infatti, l’articolazione della spazialità geografica che segna l’impossibilità del confine o di qualsivoglia genere di delimitazione, essendo esso a sua volta metafora e luogo originario dell’illimitatezza e dell’infinito.15 Ma proprio la liquidità della spazialità marittima può essere eletta a cornice dalla quale indagare l’autocomportamento della frontiera, che, lo abbiamo detto, è invece negato dalla spazialità terrestre; quest’ultima, nell’ossessione tutta moderna per la territorializzazione, trova giustificazione nel tracciare confini lineari, insensibili. La spazialità terrestre – che è metafora e luogo originario della finitezza, della divisibilità e della delimitabilità, a loro volta generative di separazione e di confine – non è in grado di cogliere la “cosa” della frontiera, poiché la riduce a mera linea divisoria voluta e “inventata” dalla logica moderna per legittimare un mondo-mosaico di territori.16 Sulla terra non c’è reciprocità tra terri-

14. Lampedusa è tra i contesti studiati e descritti nel volume di F. Sossi, Migrare. Spazi di confinamento e strategie di esistenza, il Saggiatore, Milano 2006, pp. 53-65. Oltre a Lampedusa, la riflessione dell’autrice considera due altri contesti significativi per il discorso sulle migrazioni contemporanee, chiamandoli “Teatri del Sud”: le isole Canarie e le spiagge del Marocco. 15. Cfr. F.P. Ciglia, “Fra eurocentrismo e globalizzazione”, in F. Rosenzweig, Globus. Per una teoria storico-universale dello spazio, cit., pp. 155-156. 16. Ibidem.

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torio e frontiera: il territorio trova legittimazione nei suoi confini, è nominato e identificato proprio grazie a limiti certi, protetti; ma proprio per questo i territori offuscano le frontiere, le trasformano in convenzione astratta, segno perfetto della semiotica della globalizzazione, o dell’esclusione. Per cogliere le dimensioni della frontiera, occorre affidarsi al mare! Occorre prendere le distanze dai territori, se si vuole riflettere sul paradosso epistemologico delle frontiere. Il mare, infatti, non è un territorio: esso non presuppone l’abitare o lo stare, la sedentarietà, la staticità che, certamente, riflette interessanti assonanze linguistiche con il nome dato ai territori della modernità, Stato appunto.17 Forse, una chiave possibile di lettura potrebbe essere quella di pensare a nuovi modi di chiamare il mare, che non è un territorio, appunto, non è un luogo, non è un “posto”, ma un dis-posto. Nel pensare al mare come dis-posto, con il prefisso dis- non si intende evocare tanto una valenza negativa, quanto distributiva; nel senso di un posto dove si compiono continue disposizioni di persone che possono essere dunque definite a ragione persone dis-poste.18 Ciò consente di porre al centro della scena il movimento, gli spostamenti che caratterizzano la spazialità marittima, distinguendola: il mare non si abita, si attraversa. Tuttavia, il mare come dis-posto porta anche un altro significato, vale a dire la dis-posizione (l’essere dis-posti a), nel senso dell’attitudine, della disponibilità a fare qualcosa o a essere qualcuno. Insomma, è anche una questione di identità e, in questa seconda declinazio17. Cfr. la raccolta di un’ampia scelta di saggi inediti o contenuti in riviste oggi difficilmente trovabili di G. Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Milano 2005. I saggi raccolti interessano il periodo dal 1980 al 2005 e sono ordinati in tre sezioni distinte: linguaggio, storia, potenza. Inoltre, dello stesso Agamben, si veda il testo in inglese dell’intervento intitolato Movement e pubblicato in <http://makeworlds.net/node/160>, pagina Internet di un sito dove sono contenuti gli scritti raccolti e discussi in occasione di NeuroNetworking Europe, convegno tenutosi a Monaco di Baviera dal 26 al 29 febbraio 2004. 18. Questa terminologia presenta dei tratti comuni con il vocabolario germanico costruito sul verbo setzen. Più precisamente, tra i significati di questo verbo troviamo, infatti, “mettere a sedere”, “mettere, posare, porre”, mentre l’uso del prefisso ver- attribuisce al verbo versetzen un significato ulteriore, “spostare”, e il sostantivo Versetzung vuol dire “trasferimento”. Con il gioco linguistico della dis-posizione si vorrebbe alludere anche al campo semantico postcoloniale del dis-placement. Vale la pena sottolineare che il significato del termine greco metaphoré combacia perfettamente con queste considerazioni.

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ne di significato, la dis-posizione si pone in contrasto con le regole su cui si fonda l’organizzazione dei territori degli Stati; perché essi implicano un ordinamento politico-giuridico (Ordnung) che si radica in una localizzazione spaziale (Ortung) rispetto a cui ogni dis-posizione costituisce una minaccia, aprendo spazi di contestazione riguardo a un posto assegnato conformemente all’unico ordine riconosciuto e riconoscibile.19 In tal senso si rende percepibile la costellazione metaforica che accomuna il mare alla frontiera in quanto, entrambi, dis-posti. Essi infatti si costruiscono intorno all’idea di attraversamento, che rinvia a un continuo muoversi in spazi dove l’esercizio del potere totalizzante della Terra(ferma) perde in concretezza e in applicabilità giuridica. Ciò si deve al fatto che il potere territoriale trova origine nel tracciare limiti: è nella retta che si definisce la norma, il nomos della terra si origina nell’atto di delimitare; mentre il mare e la frontiera o – seguendo fino in fondo l’accostamento – il mare-frontiera esprime l’impossibilità di ogni delimitazione.20 La dis-posizione a fuggire il nomos della terra consente – e questo è forse uno degli aspetti più intriganti – di scoprire la complessità e il carattere plurale delle identità. La Gegend del marefrontiera si offre, allora, quale punto di vista privilegiato per guardare e guardarsi criticamente; le identità poste, assegnate dai territori, sono, in realtà, complesse e mutevoli, rivelano la pre-

19. Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum” (1950), trad. di E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991. 20. Sul rapporto tra potere e limiti, ha parole decisive Emile Benveniste, quando indaga l’origine dell’istituzione della regalità: “La ‘retta’ rappresenta la norma; regula, è ‘lo strumento per tracciare la retta’ che fissa la regola. Ciò che è diritto si oppone nell’ordine morale a ciò che è contorto, curvo […]. Bisogna partire da questa nozione tutta materiale all’origine […], per ben intendere la formazione di rex e del verbo regere. Questa doppia nozione è presente nell’espressione regere fines, atto religioso, atto preliminare della costruzione; regere fines significa letteralmente tracciare in linea diritta il confine. È l’operazione alla quale procede il sommo sacerdote per la costruzione di un tempio o di una città e che consiste nel determinare sul terreno lo spazio consacrato. Operazione il cui carattere magico è ben visibile: si tratta di delimitare l’interno e l’esterno, il regno del sacro e il regno del profano, il territorio nazionale e il territorio straniero. Questa operazione è effettuata dal personaggio investito dei poteri più alti, il rex. […] Nel rex, più che il sovrano bisogna vedere colui che traccia la linea”. Cfr. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee (1969), trad. di M. Liborio, Einaudi, Torino 2001, vol. II, p. 295.

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gnanza delle storie identitarie di coloro che si dis-pongono nella liquidità di uno spazio in movimento. Si tratta evidentemente di un nodo centrale della contemporaneità, nel quale emerge la relazione tra migrazioni, frontiere e identità. La lettura che ne offriamo si discosta dai discorsi istituzionali che, iscritti in una logica moderna, negano le storie della complessità identitaria dei dis-posti e, con essi, delle persone che li attraversano. Ciò accade perché i discorsi stato-centrici si costruiscono attraverso un linguaggio della quantità e della geometria, dove tutto si articola su opposizioni binarie che impediscono di cogliere l’autocomportamento delle distinzioni, il loro spessore, la loro “dimensionalità”. Così, si perde la dimensione del mare-frontiera, rivelatrice di plurime identità, e le storie dei migranti sono ridotte alla linearità delle frecce che partono da un punto X e arrivano a un punto Y; mentre la pregnanza della spazialità che sta in-between è ignorata nella sua valenza euristica, concettuale ed empirica.21 In questo modo, il disconoscimento della spazialità di-mezzo della Gegend produce il rifiuto delle storie di dis-posizione, che alla luce della civiltà europea divengono o lettera morta o tetra mitologia televisiva. Queste storie sono ridotte a numeri, a masse di cadaveri che invadono le isole d’Europa, le quali da luoghi tradizionalmente d’evasione e meraviglia alla Robinson Crusoe, diventano gli avamposti della spazialità terrestre stato-centrica nella liquidità del mare-frontiera.22 4. Il coraggio di dis-porsi “Border thinking is the epistemology of the future, without which another world would be impossibile.”23 Attraverso le metafore, abbiamo cominciato a interrogare le frontiere e a svelarne la portata 21. Un interessante tentativo di decostruire la geometria delle frecce, restituendoci l’umanità delle storie dei migranti è in F. Sossi, Autobiografie negate. Immigrati nei lager del presente, manifestolibri, Roma 2002. 22. Cfr. M. Delle Donne, Un cimitero chiamato Mediterraneo, DeriveApprodi, Roma 2004. 23. Cfr. W.D. Mignolo, M.V. Tlostanova, Theorizing from the Borders. Shifting to Geoand Body-Politics of Knowledge, “European Journal of Social Theory”, 2, 2006, p. 207.

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sostanziale (del resto, già Deleuze e Guattari avevano assegnato alla metafora il potere di dare nuova forma alle configurazioni spaziali tradizionalmente assunte dalla politica).24 Questa nuova forma si discosta dalle geometrie del moderno, proponendo inedite forme non misurabili, quantificabili, definibili dal linguaggio geometrico. Occorre pensare in modo non-euclideo, per comprendere le nuove regole globali. Se è vero che non può esserci scienza senza epistemologia, occorre un’epistemologia delle frontiere in grado di superare l’epistemologia stato-centrica delle rivendicazioni possessive. Tuttavia, bisogna ammetterlo, la razionalità stessa ha una proceduralità e una “natura” prevalentemente topologica.25 Ed è qui che si traccia la stretta relazione che essa intrattiene con la geografia, contribuendo a spiegare, più chiaramente, perché le frontiere sono una questione filosofica, prima ancora che geografica e cartografica.26 Più precisamente, il pensiero si basa su metafore spaziali che fanno capo a una logica di opposizioni binarie (dentro/fuori, qui/là…). Tali opposizioni essenzializzate ed essenzializzanti accomunano il pensiero e la geografia, basandosi entrambi su proprietà fisse, costanti e durature. Ciò determina che sia il pensiero sia la geografia tendono a negare il divenire, finendo col rappresentare il mutevole come fisso. È la storia dell’oblio del valore verbale dell’essere, per dirla con il Lévinas lettore di Heidegger.27 Ma è anche ciò che è accaduto alle frontiere che, all’ombra dei territori che definiscono, sono ridotte a mere linee che separano due differenze mutuamente esclusive.28 In altre parole, si è a lungo assunto un punto di riferimento 24. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (1980), trad. di M. Guareschi, Castelvecchi, Roma 2000. 25. Cfr., in particolare, V. Vitiello, Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992: “La parousia del sapere assoluto è […] la navigazione in mare aperto. I ponti sono tagliati da quando il fondamento è andato a fondo, zu Grunde gegangen ist” (p. 15). Tra l’altro, in apertura, Vitiello cita l’aforisma 124 della Gaia scienza che qui è posto in epigrafe. 26. Cfr. D. Reichert, Das Denken: Der Raum der Geographie,“259003 - Subjektivität und Cyberspace” (Institut für künstlerische Gestaltung der TU, Wien), 2, 1999, pp. 14-21. 27. Cfr. E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger (1949), trad. di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1998. 28. Cfr. D. Reichert, On boundaries, “Environment and Planning D: Society and Space”, 1, 1992, pp. 87-98.

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assoluto, quello che potremmo definire un punto di vista uni-versale – un universale astratto –, il quale è coinciso con la logica cartografica della modernità.29 L’epistemologia delle frontiere, invece, implica un movimento verso un punto di vista pluri-versale che, in grado di cogliere la complessità delle dis-posizioni e dei disposti contemporanei, propone un mondo nel quale più mondi possono coesistere.30 L’epistemologia stato-centrica della modernità è un vuoto di senso che va “rioccupato” con un’epistemologia delle frontiere, portatrice di uno sguardo non più monotopico e territorializzato ma pluritopico, policentrico e relazionale. Insomma, dis-posto esso stesso. In altre parole, l’epistemologia delle frontiere mette in crisi la topologia/topografia moderna del potere, proponendo il superamento della concezione tradizionale del realismo basato sui principi di separabilità, località e rappresentabilità. Il mondo non è più concepito come un mosaico composto di più parti, dove l’uomo sia chiamato a tracciare linee di demarcazione nette e precise, impermeabili e invalicabili in modo da garantire l’identità delle spazialità terrestri così (de)limitate. Nella costellazione che stiamo tracciando, si possono a questo punto individuare due importanti riferimenti: il primo è il libro di Silvano Tagliagambe, Epistemologia del confine (1997), il secondo è Local Histories/Global Designs. Coloniality, Subaltern Knowledges, and Border Thinking (2000) di Walter D. Mignolo, professore di Letteratura romanza e Antropologia culturale presso la Duke University negli Stati Uniti, tra i più riconosciuti esponenti degli studi postcoloniali.31 Apparentemente distanti 29. Cfr. F. Farinelli, I segni del mondo. Immagine cartografica e discorso geografico in età moderna, La Nuova Italia, Firenze 1992. 30. Sul concetto di pluri-versale, cfr. E. Morin, Il pensiero ecologizzato. Filosofia e politica (1989), “Oikos”, 1, 1990, pp. 71-89; Id., “Al di là della globalizzazione e dello sviluppo: società-mondo o impero-mondo” (2002), in Quale altra mondializzazione?, trad. di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 3-20; W.D. Mignolo, M.V. Tlostanova, Theorizing from the Borders. Shifting to Geo- and Body-Politics of Knowledge, cit.; sulla critica dell’universalismo della modernità “hegeliana” (sulla base storico-filosofica), cfr. R. Guha, La storia ai limiti della storia del mondo (2002), trad. di R. Stanga, Sansoni, Milano 2003. 31. È bene chiarire meglio le peculiarità di ciascuna delle due riflessioni citate, prima di definire ciò che le accomuna nel seguito del nostro discorso. Tagliagambe propone un’epistemologia del confine come risposta alla sfida del pensiero scientifico, il quale si è trovato

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per formazione e aderenze teoriche e concettuali, i due autori trovano un linguaggio comune nel riferirsi all’opera rivoluzionaria di Humberto Maturana e Francisco Varela.32 Ciò che Tagliagambe e Mignolo traggono dall’opera dei due scienziati è una prospettiva che cambia radicalmente il modo di guardare al mondo: il punto di vista oppositivo tra dentro e fuori, proprio della concezione tradizionale del realismo, è sostituito da uno sguardo relazionale che vede l’osservatore localizzarsi all’interno di tale spazio di relazione. L’osservatore non può più porsi su sempre più spesso a fare i conti con fenomeni che si verificano in zone di confine, dove forme e strutture sorgono e si dissolvono. La sfida dell’epistemologia del confine è, per Tagliagambe, pensare in maniera congiunta le forme e gli eventi, tradizionalmente visti come separati e contrapposti. Attraverso un’analisi di ciò che si intende oggi, sulla base delle teorie scientifiche e delle concezioni filosofiche più accreditate, per “oggetto reale” e per “soggetto della conoscenza”, l’autore esplora la possibilità di lavorare sul concetto di confine. Gli studi di Mignolo, invece, tracciano un’epistemologia delle frontiere che si colloca a pieno titolo nel contesto della migliore critica postcoloniale. In particolare, Mignolo imbastisce la sua riflessione a partire dall’analisi del sistema-mondo di Immanuel Wallerstein che, a detta sua, esclude la “differenza coloniale” essenzializzandosi intorno alle categorie di centro, semiperiferia e periferia. Al contrario, il border thinking, che Mignolo formalizza, vorrebbe superare tale visione del mondo, proponendone una nuova che si avvalga di uno sguardo mobile e complesso, il quale può essere ricondotto, nel suo discorso, solo agli spazi di frontiera di un sistema mondo che è definito non semplicemente moderno, ma moderno e coloniale. Una “coincidenza”, del tutto involontaria, e per questo squisitamente illuminante, si può trovare nelle pagine che Peter Brown dedica alla “densità” culturale delle frontiere dell’Impero romano, cfr. P. Brown, La formazione dell’Europa cristiana. Universalismo e diversità: 2001000 d.C. (1995), trad. di M. Sampaolo, Laterza, Roma-Bari 2006. 32. Maturana e Varela hanno formalizzato una teoria sistemica in ambito biologico, proponendo un cambiamento radicale nel modo di pensare l’identità del vivente; cfr. H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza (1976), trad. di G. Melone, presentazione di M. Ceruti, Garzanti, Milano 1987; Idd., Autopoiesi e cognizione (1980), trad. di A. Stragapede, Marsilio, Venezia 1985. Il testo scientificamente più integrale rispetto a questo ambito di ricerche è probabilmente F. Varela, Principles of Biological Autonomy, North Holland, New York 1979. Il riferimento a Maturana e Varela è esplicito nell’opera di Tagliagambe, che rivendica la centralità della teoria dei sistemi autopoietici dei due autori cileni per la costruzione di una nuova epistemologia del confine. Cfr. S. Tagliagambe, Epistemologia del confine, il Saggiatore, Milano 1997, in particolare il cap. 8, “La riformulazione del rapporto organismo/ambiente”, pp. 64-78. Per quanto riguarda, invece, l’opera di Mignolo, egli si riferisce all’“autonomia biologica” in quanto linea guida teorico-metodologica di importanza decisiva nel corso degli anni settanta e ottanta, anni che hanno segnato profondamente le evoluzioni successive della sua riflessione. Cfr. W.D. Mignolo, Local Histories/Global Designs: Coloniality, Subaltern Knowledges, and Border Thinking, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2000. Un’importante riformulazione dell’epistemologia vareliana è M. Ceruti, La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell’epistemologia genetica, Feltrinelli, Milano 1989, che collega l’autonomia biologica alla cibernetica foersteriana e alla scienza del mutamento piagetiana.

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una prospettiva privilegiata dalla quale guardare al “fuori”, attribuendo a esso un solo significato possibile, conseguente al suo sguardo monofocale. Infatti, come sostengono Maturana e Varela, tra il dentro e il fuori vi è indecidibilità; questi due spazi non possono essere chiaramente demarcati: le identità sistemiche si costruiscono processualmente.33 Detto altrimenti, tali identità sono continuamente costruite e ricostruite lungo delle (di)visioni incerte, che si mostrano come campi di dialogo, dove le relazioni di differenza tra sistemi sono definite in termini dialogici e non oppositivi. Adottando una prospettiva relazionale, che attraversa le dicotomie, l’epistemologia delle frontiere vuole segnare la svolta verso la decostruzione degli essenzialismi che caratterizzano il pensiero moderno, il cosiddetto “monolinguismo” inospitale dell’Occidente, mostrando la centralità della frontiera e delle sue continue dis-posizioni come nuovo spazio di riflessione, che apre a un approccio filosofico dinamico e relazionale come descritto, per certi versi, già da Michel Foucault e Pierre Bourdieu.34 Insomma, l’epistemologia delle frontiere racchiude una duplice dimensione epistemologica e geopolitica che presuppone un pensiero dialogico, piuttosto che un ordinamento, come quello della modernità occidentale, che imposta il mondo su dicotomie, la cui sintesi coincide assai spesso con l’eliminazione o la trascuratezza della parte più debole. In conclusione, queste considerazioni aprono nuovi spazi di riflessione teorica, metodologica ed empirica che, assumendo la frontiera come dimensione autonoma del pensiero, si costruiscono intorno a una sorta di doppia coscienza, prendendo a prestito un concetto “visionario” elaborato dal filosofo W.E.B. DuBois all’inizio del secolo scorso.35 Una doppia coscienza come la consapevolezza del “dentro” e del “fuori” di un dato sistema di ordi-

33. A conclusioni analoghe era giunta anche la cibernetica dei sistemi auto-organizzatori: cfr. H. von Foerster, Sistemi che osservano, cit. e M. Ceruti, La danza che crea, cit. 34. Cfr. P. Bourdieu, Ragioni pratiche. Sulla teoria dell’azione (1994), trad. di R. Ferrara, il Mulino, Bologna 1995; M. Foucault, “Bisogna difendere la società” (1997), trad. di M. Bertani e A. Fontana, Feltrinelli, Milano 1998. 35. Cfr. W.E.B. DuBois, The Soul of Black Folks (1904), Penguin, New York 1995.

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namento del mondo, contemporaneamente e sotto il medesimo rispetto, mentre non si appartiene pienamente né all’uno né all’altro. Questo sguardo è possibile solo nella frontiera e a partire dalla frontiera. Ecco allora che la questione delle migrazioni si rende urgentemente pensabile anche all’interno di un discorso filosofico. Potremmo dire, infatti, che tale doppia coscienza costituisce un tratto dell’esperienza comune a tutti i migranti che si dis-pongono nelle acque del mare-frontiera.36 In questo senso, l’epistemologia delle frontiere è, a sua volta, un’epistemologia migrante, dove lo spazio del pensare nella e dalla frontiera è anche lo spazio del migrante nella sua fragile sunugaal là “fuori”, in mare aperto, capace di cogliere, seppur inconsapevolmente, la pluri-versalità dello spazio relazionale, dove le identità sono continuamente inventate e re-inventate in un ambiente comunicativo che le rende commiste e difficilmente essenzializzabili. Le frontiere non si fanno più descrivere come linee rigide di discontinuità nello spazio-tempo ma come spazi perforati da molteplici configurazioni reticolari e frutto di un’interazione continua. Le potremmo chiamare, come direbbe Etienne Balibar, degli oggetti transazionali o, ancora, delle dischiusure, nel senso che viene proposto da Jean-Luc Nancy, dove dischiudere significa togliere una chiusura e, ancora più eloquentemente, togliere la recinzione che segna la proprietà di un campo.37 Tuttavia, la fissazione territoriale del pensiero è ancora lungi dall’esaurirsi; filosofia e geografia sono ancora strettamente lega36. Conviene forse precisare – per evitare fraintendimenti – che il mare-frontiera non riguarda soltanto l’elemento acqua, ma qualunque elemento transitorio che si presti a essere attraversato dai canali di migrazione, anche e soprattutto nella misura in cui, come è noto, la maggior parte dei flussi migratori verso l’Europa percorre vie diverse da quelle, tragicamente celebri, del canale di Sicilia. 37. Cfr. E. Balibar, Noi cittadini d’Europa? Le frontiere, lo stato, il popolo (2001), trad. di A. Simone e B. Foglio, manifestolibri, Roma 2004, specialmente pp. 23-36; Id., Europe as Borderland, The Alexander von Humboldt Lecture in Human Geography, University of Nijmegen (disponibile su Internet), ora in Id., Europe Constitution Frontière, Editions du Passant, Bègles 2004; trad. di M. Montanari e I. Scarcelli, in Europa paese di frontiere, Pensa Multimedia, Lecce 2007; J.-L. Nancy, La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo (2005), trad. di R. Deval e A. Moscati, Cronopio, Napoli 2007, vol. I.

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te alla loro eredità topologica, trovando espressione nella violenza di una lingua che pretende di essere unica, mentre è al servizio di un’ideologia o di un potere determinati e determinanti.38 Forse solo il canto può accennare direttamente al nuovo, solo la poesia e la musica sono in grado di mostrare l’infondatezza delle rivendicazioni monolinguistiche della modernità, con la sua grammatica dell’esclusione: la poesia di Paul Celan e la musica di Dj Awadi, per esempio.39 In ogni caso, il compito che impone la domanda sulla frontiera è arduo: occorre una buona dose di temerarietà per dis-porsi, e il prezzo sarà alto per il pensiero, la geografia, la lingua. Poiché non v’è luogo al restare […]. Certo è strano non abitar più la terra, non usar più di costumi appena imparati, a rose e a cose diverse che sono chiara promessa non dar più il senso di umano futuro; ciò che si era in tanto trepide mani non esserlo più, e abbandonare anche il nome come un giocattolo rotto. Strano non aver più desiderio dei desideri. Strano veder sventolare tanto sciolto nel vuoto tutto ciò che si univa. E l’essere morto è fatica,

38. Cfr. J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro o la protesi d’origine (1996), trad. di G. Berto, Raffaello Cortina, Milano 2004. 39. “La poesia non si impone più. Si espone”, recita un frammento celaniano, che sembra fatto apposta per sollecitare ulteriori intensificazioni del verbo “porre”. Il canto ci rimanda al libro di Bruce Chatwin, Le vie dei canti (1987), trad. di S. Gariglio, Adelphi, Milano 1995, dove si racconta la tradizione aborigena dei canti rituali, tramandati di generazione in generazione come conoscenza iniziatica e segreta. Il libro sviluppa l’idea che i canti aborigeni siano tanto rappresentazione di miti di creazione, quanto mappe del territorio. Il titolo si riferisce, infatti, alle migliaia di linee immaginarie, le “vie dei canti” appunto, che, secondo le conclusioni di Chatwin, attraversano l’intero continente australiano; ogni canto tradizionale sarebbe la rappresentazione musicale delle caratteristiche socio-territoriali di un tratto di una di queste vie. Proprio dall’analisi del concetto di “via dei canti” aborigena Chatwin arriva a trattare i temi ricorrenti della sua opera, in particolare la tesi del nomadismo come condizione originaria dell’umanità. Un invito a dis-porsi…

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saturo di lento recupero, che mano a mano si senta un poco l’eterno. – Ma i viventi fanno tutti l’errore che troppo forte distinguono. Gli angeli (si dice) di sovente non sanno se vanno tra vivi o tra morti. L’eterna corrente trascina sempre con sé attraverso i due regni tutte le età, e le sovrasta in entrambi col suono.40

40. R.M. Rilke, Elegie duinesi (1912), trad. di A.L. Giavotto Künkler, Einaudi, Torino 2000, “Prima Elegia”, pp. 280-283.

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Letture

Nella sezione presentiamo due lezioni magistrali (una di Jean-Luc Nancy e una di Judith Butler) tenute in occasione delle giornate di “pordenonelegge� nel settembre 2008. Ringraziamo gli organizzatori di questa manifestazione e gli autori per averci concesso il permesso di pubblicarle.


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Strani corpi stranieri JEAN-LUC NANCY

1. Si chiama “corpo estraneo”1 qualsiasi specie di oggetto, di pezzo, di frammento o di sostanza introdotta in modo più o meno fortuito all’interno di un insieme o di un ambiente, se non propriamente organico, considerato per lo meno omogeneo e dotato di una regolazione propria alla quale il “corpo estraneo” non può essere sottomesso. Una putrella in cemento è un corpo estraneo in una foresta, così come lo è un tamburo di latta in un fiume. Ma l’esempio canonico è sempre quello dell’ago o del pezzo di vetro ingeriti accidentalmente o, meglio ancora, dello strumento chirurgico dimenticato sotto l’incisione ricucita. In quest’ultimo caso, in realtà, l’intervento invasivo – come si dice in gergo medico – vede la sua finalità terapeutica trasformata in aggressione, per di più a causa di una disattenzione che macchia l’immagine del medico, della sua perizia e della sua deontologia. La “pinza” scordata (è questo l’utensile che fa da stereotipo) diventa due volte corpo estraneo: al corpo proprio del paziente e al corpo morale della medicina. Ma il caso più esemplare, senza dubbio, è quello, ancora una volta in ambito medico, del tumore maligno: ospite Lectio magistralis pronunciata a “Pordenonelegge” il 21 settembre 2008. 1. Etranger in originale. La gamma di significati del termine è molto ampia in francese, sia che venga impiegato come aggettivo che come sostantivo: è lo straniero, ciò che viene dall’esterno, ma anche l’estraneo, lo strano. Nella traduzione abbiamo quindi optato per i termini “straniero” e “estraneo”, riportando di volta in volta l’originale francese. L’aggettivo étrange, dati i diversi contesti nel quale viene utilizzato, è stato tradotto con “strano”. Per la serie dei sostantivi associati a étranger, abbiamo optato per “stranezza” invece di “singolarità” per tradurre étrangeté, e “estraneità” per étrangèreté. [N.d.T.]

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ostile all’organismo che si accinge a minare, la cellula cancerosa serba ancora per noi il segreto della sua esatta provenienza. Viene dal corpo stesso o da altrove? Quand’anche la sua provenienza esterna appaia chiara, il suo sviluppo non lo è altrettanto (non tutti i fumatori contraggono il cancro alla gola o ai polmoni). Il “corpo estraneo” [étranger] – sia per la sua espressione che per l’immagine imprecisa a cui essa induce – unisce la violenza di un’intrusione alla malignità, se non di un’intenzione, per lo meno di una disposizione. Ma l’intrusione di per sé è già portatrice di una malignità potenziale. In modo più generale, anche la penetrazione è sospetta, o può diventarlo: difficilmente si parla di penetrare in un corpo, in un territorio o in un pensiero senza fare aleggiare attorno alle parole un’aria di minaccia o di aggressione. Che lo straniero [étranger] sia minaccioso, o almeno inquietante, è storia vecchia, vecchia quanto la nozione stessa di straniero, risalente al primo clan, al primo gruppo e quindi, prima ancora dell’umanità, a ogni specie di vita comune, di affinità data o elettiva e, conseguentemente, a quasi ogni specie di vita, se la vita si vive raramente senza dividersi da sé in relazioni, correlazioni, lignaggi, frazionamenti e spartizioni. Ciò che l’espressione “corpo estraneo” [étranger] rende sensibile è la consistenza stessa dello straniero, dell’estraneo. Non è solo la sua differenza, è anche, ed è soprattutto, che la differenza è un corpo – e questo termine prende allora tutta la sua valenza di concretudine resistente, di durezza autonoma, se non addirittura trincerata in una sufficienza che non può che rivelarsi, presto o tardi, ostile a tutti gli altri corpi. Corpo [corps] suona come “fuori” [hors] e come “forte” [fort]: tende a mettere alla prova la forza dell’esteriorità reale, fisica, quella che ha il suo termine di paragone solo nell’impenetrabilità materiale. Un corpo è penetrabile solo secondo una delle due logiche opposte, quella dell’assimilazione e quella della distruzione. O la materia estranea viene assimilata dal corpo – ingerita, assorbita, metabolizzata – o al contrario intacca l’integrità del corpo: la ferisce, la strappa, la lacera, la 148


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mutila. (Quando si parla di penetrazione senza designare la minaccia invasiva, militare o medica, significa che si parla di amore. Nell’amore c’è lo scontro senza assimilazione né lacerazione. C’è corpo l’uno nell’altro e l’uno all’altro senza incorporazione né decorporazione. “Amore” significa scontro di due che eludono le trappole dell’uno.) Nel corpo estraneo [étranger], il corpo – in generale – assume il suo pieno valore di esclusione: un corpo è ciò che si separa. Un corpo è ciò che con l’esterno non ha che un rapporto di esteriorità, di distinzione, di isolamento, qualunque siano gli scambi nei quali può trovarsi allo stesso tempo implicato. Nel momento in cui si mostra come corpo straniero [étranger] non è in alcun rapporto che risponda alle sue proprietà. Esso allora rivela al meglio la sua proprietà nuda: quella di fare corpo con se stesso. Un corpo fa corpo: non si tratta di una tautologia. È l’attribuzione al soggetto del suo attributo essenziale. Se l’anima è la forma del corpo (di un corpo organizzato, dice Aristotele, ma noi dobbiamo considerare che l’inorganico – la res extensa – è coessenziale all’organico: ogni corpo è prima di tutto minerale, liquido, gassoso, tendineo ecc.), allora il corpo è anche l’impenetrabilità dell’anima. È la durezza, la consistenza, la trincea dell’anima. Un’anima senza trincea, senza bastione, si dissolve inanimata. 2. E dunque anche il corpo stesso, quello che si dice “proprio”, anche il “mio” corpo è straniero. Ogni corpo è straniero agli altri corpi: l’essere-straniero è inerente alla sua corporeità. Prima di tutto, un corpo si estende e tale estensione lo sottrae alla condizione irreale del punto. Esso non può essere espresso senza dimensioni. Ma la sua dimensione, tutte le sue dimensioni, costituiscono altrettanti distanziamenti: gli altri corpi devono scostarsi. Tale scostamento apre la condizione dei loro rapporti – dei loro contatti, dei loro confronti, dei loro sguardi, ascolti, gusti e interessi. Le mie mani si toccano, il mio corpo si riconosce, giungendo a sé da un esterno che è esso stesso, riammettendo in sé il mon149


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do fuori di lui. Questo chiasmo della carne così ben descritto dal più perspicace fenomenologo del corpo – questo chiasmo che ci fa percepire, attraverso una risonanza anagrammatica delle parole carne [chair] e chiasmo [chiasme], quanto siamo intrecciati al mondo – non deve farci dimenticare che il nostro intreccio all’esterno ci ha esposti sempre, da subito, al più intimo. Il “dentro” non si trova altrimenti che fra il fuori e il fuori, e questo fra [entre] – il fra [entre] del suo antro [antre], della sua caverna dei miti e dei fantasmi dell’interiorità – non è che un altro fuori. Isolato da ogni esterno e tuttavia senza tornare mai al punto senza dimensione (perché la psiche è estesa: è l’analista, questa volta, che ritiene di saperlo), il “dentro” o l’“in sé” non può mai essere dato se non all’esterno, fuori dall’interno e non nel cuore dell’interno. Il corpo non è il contenitore di nulla, né di uno spirito che nulla saprebbe contenere dal momento che è senza luogo, dimensione e consistenza, né di un’interiorità propria del corpo, dato che esso stesso non è altro che la superficie dalle pieghe multiple dell’es-posizione [ex-position] o dell’es-istenza [ek-sistence] che esso è. Anche l’anima in quanto sua forma indica questo: l’intera superficie esposta, senza recto e verso, senza double-face, senza rivestimento interno, ma esposta in ogni sua parte, come quelle entità topologiche che non ammettono contrasto fra dritto e rovescio. Nelle profondità delle viscere, fra le fibre dei suoi muscoli e lungo i suoi canali di irrigazione, il corpo si espone, espone fuori il dentro che non cessa di fuggire sempre più lontano, più in fondo dell’abisso che esso è. Ora, tale è anche la verità del mondo: traente origine da nulla, creato, ossia non prodotto, non formato, non costruito, ma alterazione e spasmo del nihil, il mondo è l’esplosione e l’espansione di un’esposizione (che ci è permesso chiamare “la verità”, oppure “il senso”). Il chiasmo del corpo e del mondo espone l’esposizione a se stessa – e con essa, l’impossibilità infine di ricondurre il mondo a uno spirito e il senso a un significato. Il mondo è l’estraneità che nessuna familiarità ha preceduto. 150


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3. Stranieri sono i corpi: sono fatti del fuori, dell’extraneitas che forma l’estraneità [étrangèreté] dello straniero. Il fuori sembra sempre venire dopo il dentro, come un contesto, un elemento in seno al quale il dentro preesisterebbe, distaccato, raccolto su di sé. Ma questo raccoglimento, questo avviluppamento nel dentro non può avere luogo se non attraverso lo stacco che sviluppa il fuori. Quest’ultimo non si riduce a rappresentare un “non-sé”: al contrario, forma la possibilità dell’esposizione senza la quale il “sé” da solo non saprebbe semplicemente essere, nel senso di essere in rapporto con sé. Con ogni evidenza, il fuori e il dentro sono condizioni l’uno dell’altro, e il dentro non può definirsi che in due modi: come pura concentrazione in sé – e allora viene definito spirito – oppure come rapporto a sé, e si definisce anima. Ma lo spirito, estraneo a ogni dimensione, espansione e forma, non ha alcun di fuori. È l’inglobante assoluto o l’auto-avviluppamento tale da sopprimere in sé ogni distinzione, fino a quella di un recto e di un verso dell’inviluppo. In questo senso, lo spirito è lo straniero assoluto, l’estraneità al mondo di una negazione radicale di ogni esteriorità. Extraneus extremus, interior intimo meo – lo straniero uguale all’intimità insondabile, l’altro in quanto più stesso dello stesso, la medesimezza, l’identità fusa nell’identico e l’identico immerso in sé. È anche perché lo spirito – che trafigge tutto con la sua punta, attraversa tutto con il suo soffio o la sua fiamma e si trapassa dapprima esso stesso, pura ignizione, pura combustione, esalazione che perde fiato, inspirazione di una espirazione, spirito che è uguale solo alla morte – si riduce, infine, nella concentrazione e nella contrazione ultime che lo legano, allo sprizzante desiderio di uscire da sé. Questo desiderio rende l’anima possibile. Lo spirito si slancia in desiderio del fuori, l’anima risponde formandosi: corpo rivolto all’esterno, che espone il desiderio. Ora, questo desiderio non procede da nient’altro che dalla stranezza [étrangeté] assoluta dello spirito. Al mondo c’è un’estraneità del mondo. Il senso del mondo è fuori dal mondo, e questo fuori è esso stesso fuori da tutto, privo di luogo, fuori senza dentro. Ecco perché lo spirito – il senso, il senso in quanto soffio – 151


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balza fuori dall’assenza di luogo, facendo scoppiare il punto che è (la sua nullità essenziale), aprendo la dimensione, lo spazio delle forme, lo scarto dei corpi. 4. I corpi sono stranieri [étrangers] gli uni agli altri a causa dell’estraneità [étrangèreté] dello spirito che li anima. Tale estraneità [extranéité] crea anche la loro stranezza [étrangeté]: non solo i corpi sono estranei [étrangers], ma non si riconoscono e si avvicinano solo con difficoltà, obbligati a superare come minimo una diffidenza, a volte un timore, se non addirittura una repulsione. Un corpo non tocca facilmente un altro corpo, perché sa che questa prossimità minaccia di folgorarli insieme in una nuova scintilla del desiderio dello spirito. In un certo qual modo, tutti i corpi si toccano: il mondo è intessuto della contiguità di tutti i corpi fra i quali l’aria, la luce, il suono, gli odori e tutte le altre modulazioni della materia tessono incessantemente il tessuto sottile e serrato dell’universo. Quest’ultimo deve il suo nome solo all’unità di tale tessuto, unità dell’estensione intrecciata a se stessa, unità che non si risolve né in unificazione, né in uniformità, unità per sua essenza distanziata da sé ed esposta a se stessa: corpi fra loro, condividenti il loro fra, il loro con, il loro contro – gli uni contro gli altri vicini e mischiati senza risoluzione. Nulla risolve il mondo in spirito: non è un difetto né un’assenza, al contrario, perché l’Uno non è il bene di cui gli esseri avrebbero bisogno o da cui sarebbero separati (povera logica e povera morale di mutilazione, di castrazione necessaria, di rassegnazione all’essere separato). L’Uno è esso stesso un’assenza, l’assenza a sé per eccellenza; l’Uno sprofonda nella sua solitudine, privo di tutto, anche di posizione, privo di unità e sussistenza. Non sussistono che i corpi distinti e la variazione indefinita, sempre rigiocata, della loro distinzione. Anime rivolte le une verso le altre, a toccarsi, fianco a fianco o faccia a faccia, spalla a spalla e circonferenza a circonferenza. Forme che si sfiorano e che si evitano, che si conformano le une alle altre o che si deformano, che si piegano, si sposano e si disa152


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morano. Non si fondono né si confondono mai, tuttavia a volte spariscono, prendono forma di molecole o di sbavature, sempre rianimando contorni distinti, allontanando o dilatando le macchie e le tracce, i bordi, le frange, le estremità tremanti sulle quali i corpi raggiungono il culmine della loro esposizione: pellicole fragili, sfilacciature o svasature, cicatrici delle nascite e di altre distinzioni, ammutolirsi delle sostanze. Foglia contro foglia e granello fra i granelli, fili d’acqua che dividono qualche zolla di terra, gemelli di un medesimo ovulo riacciuffato, masse rocciose e voli di gipeti, mano destra e mano sinistra, fumo riflesso nel lago, pesce lanterna delle grandi fosse oceaniche, reni spaccati di mondina, e tu, e tu ancora, o io, tu che dici “io” e io che dico “tu”, e le nostre labbra grandi o sottili, e le composizioni in contrasto dei nostri volti, che così senza posa raccolgono la sfida dell’attribuzione di essenze individuali. Più lontano ancora più singolarmente la stranezza [étrangeté] da un momento all’altro di un presunto soggetto, i calli e le rughe, le stimmate, le vene che sporgono, le macchie, le linee di fuga. 5. Le essenze singolari sono essenze mobili, volatili, sempre diverse da se stesse e differenti dalla loro essenzialità – senza pertanto smettere di promettere una medesimezza, una proprietà ultima dotata dello splendore di un’Idea: questa pietra, questa felce, questa donna. Questa Idea deve il suo splendore all’affermazione sempre ripresa della sua necessità secondo lo spirito – ma come abbiamo detto, lo spirito non cessa di fare esplodere il suo desiderio del fuori: che questa pietra, questa felce, questa donna possa accadere solo uscendo da sé, offerta ai venti, ai fuochi, agli incontri. In questa esposizione, un corpo non è solo straniero, estraneo [étranger] agli altri. Non lo è se non essendolo anche a se stesso. Un corpo si estrania [s’extranée], si stranierizza [s’étrange]. È l’estraneità [étrangèreté] e la stranezza [étrangeté] a sé di un’anima sprigionata, gettata da non-luogo dello spirito. Un corpo è il ripiegamento di sé che riconduce un sé a se stesso esponendolo al mondo. Il mio corpo non è solo la mia pelle volta153


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ta all’esterno: è già esso stesso il di fuori rispetto a me, il di fuori in me e per me – da me a me stesso opposto per distinguermi dall’unità. Straniero agli altri e innanzitutto a quest’altro che io divento grazie a lui. Dove sono io nel mio piede, la mia mano, il mio sesso, il mio orecchio? Dove sono in questo volto, i suoi tratti, segni, difetti e tremori? Chi sono io sui contorni di questa bocca che dice “io”? Corpo proprio – si dice per distinguerlo dal corpo straniero: ma proprio di che proprietà? Non è un attributo della mia sostanza, non è un possesso di mio diritto, anche se per alcuni aspetti posso identificarlo in uno di questi ruoli. È proprio in quanto è me più che in quanto è mio. Se fosse mio come un attributo o come un possesso, potrei abusarne fino a sopprimerlo. Sopprimendomi dunque da me, dimostrerei che lui è me e non mio. È me stesso, sì, ego extraneus. Me stesso all’esterno, me stesso fuori, in quanto fuori di me, me stesso in quanto divisione di un dentro e di un fuori, il dentro in sé conficcato fino al punto di concentrazione oscuro, opaco e abissale dove lo spirito si lacera fra un “io” astratto “che deve accompagnare tutte le mie rappresentazioni”, come esige Kant, soggetto logico-grammaticale privo di consistenza, e un “io” proferito, un ego grande aperto in due labbra che si arrotondano attorno alla colonna d’aria che gola, palato e lingua si adoperano a far risuonare secondo le frequenze richieste dalla fisica singolare della mia lingua. Dentro dunque ripiegato su se stesso, stravasato, esograstrulato, esclamato, espresso e gettato – non “al di fuori” ma “in quanto fuori”. Sì, io-fuori. Non “fuori di me”, perché in realtà il solo dentro non è “me”, ma è l’apertura nella quale tutto un corpo si riunisce e si stringe per farsi voce e dichiararsi “sé”, reclamarsi e chiamarsi, desiderarsi desiderando l’eco che altri corpi attorno a lui forse manderanno. Straniero a sé nel suo richiamo di sé; altrimenti non si chiamerebbe, non esprimerebbe con tutta la sua estensione la richiesta di incontrare questo straniero. 6. Facendo corpo si estrania [s’étrange] – lui, il punto dello spirito. Prende forma, prende anima, si anima estraniato [étrangé] a 154


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lui stesso. Meglio ancora, ciò che lo anima è questa estraneità [étrangèreté], questa stranezza [étrangeté] che gli viene dal fondo del suo abisso. Senza di essa resterebbe senz’anima, spirito puro ridotto in pezzi d’osso, in fibre, umori, schiume… Corpo in marea ascendente e discendente, flusso e riflusso, mascheretto e bassa marea, mare scavato, sollevato da una profondità anteriore alla vita, anteriore alla prima divisione cellulare di questo corpo stesso, anteriore all’intera moltiplicazione dei corpi a partire dal denso nihil. Lo strano [étrange] che lo occupa e che lo stringe tende i suoi palmi e le sue labbra, la sua fronte, le sue pupille, tutte le sue nascite e tutte le cadute delle sue membra, le sue difficoltà e i suoi agi, i suoi modi, i suoi velli, i suoi bordi, i suoi spigoli, i suoi angoli e le sue unghie. Avanza e si propone, si avventura verso le luci e verso i profumi, verso i grani, le rugosità, le solidità e le mollezze, si arrischia agli stridori e ai boati, alle collisioni, alle vibrazioni. Si incorpora, corpo cavernoso visitato d’ombre, e diviene esso stesso odore di rosa o lana di tappeto, stridio di gesso, colate di nuvola o di lava. Poi si ritira e si spoglia, schizzo immateriale di cui le acque cullano un riflesso. Torna al mare e alla sabbia, incerto dei suoi contorni dilatati dallo sforzo o dalla noia, scivolando fuori da se stesso come da una pelle morta. Sempre più straniero [étranger] a se stesso, tatuato dall’età e dalle passioni, spiegazzato e macchiato dal movimento dei suoi gusti, disgusti, slanci e rifiuti – tutto questo macchinario di attrattive e ripiegamenti che lo espone, galassia fra le galassie, all’esplosione o all’implosione delle forze che lo assemblano e che lo agitano – si riconosce, infine, per ciò che è: il visitatore venuto da lontano, il rettile e roditore, l’uccello, l’insetto trapiantato sull’embrione nervoso sorto all’improvviso da una scossa del nulla. La sua scossa, il suo spasmo, è lui stesso: nient’altro che uno scossone in più in una morsa fra due corpi, che diviene corpo del fra aprendo un nuovo spazio, un nuovo fuori da lui agli altri e prima di tutto da lui a lui stesso, nient’altro che un’apertura in più, che uno straniamento [étrangement] in più fra tutti i corpi, getta155


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ti stranieri [étrangers] al mondo e a loro stessi, moltitudine febbrile e riflesso cangiante delle nostre polveri. 7. Corpo che nuota è galleggiante, pinna e squama luccicante, si fa corrente e massa liquida, si fa alga e trasparenza glauca. Corpo che mangia diventa sapore e succo, masticazione di fibre e spezie, succhi spremuti, espansione gustosa. Corpo che gode si esaspera nel suo spasmo, muta in fremito indurito, parte in colatura e in rottura. Ogni volta corpo è altro e un altro dallo stesso che è in tutti i suoi avatar, in tutte le sue metamorfosi divine secondo le quali lui visita se stesso, angelo o demone venuto dai luoghi più lontani. Corpo è venuta in sé dell’ignoto, irruzione e intrusione di altri corpi, ingestioni, intussuscezioni, incarnazioni, riconoscimenti e gratitudini, repulsioni e rifiuti. Corpo è grande battito di corpi stranieri [étrangers], inspirati ed espirati, ansimati, inghiottiti e sputati. È cinghia tesa o pugno allentato, massa sepolta di sonno, palmo contro fronte, eco della voce nella testa, stordimento, generosità e traspirazione, impercettibile escoriazione, indurimenti e crampi, irritazioni, disturbi, extrasistole, starnuti, tutto un macchinario troppo sensibile, troppo suscettibile a ciò che è solo e sempre nuovamente, l’eccesso di ogni cosa – e di se stesso – sulla semplice manutenzione della sua macchina. Perché non c’è macchina, non c’è che desiderio e attesa, timore e fame, bisogno, voglia, slancio, abbattimento. Non ci sono che tormenti e costrizioni fra forze che tirano e premono da ogni parte, da tutte le estremità della pelle e del mondo. Corpo non è esso stesso nella sua integrità se non quando è dissezionato, anatomizzato, ma non quando è animato, visitato, inspirato, travolto, accarezzato. Allora esso è pensiero, desiderio, slancio, virtù, inclinazione e declinazione. È oriente e occidente, zenit e nadir, frazionamento e fusione, regione dell’aria, e infine straniero [étranger] al mondo di cui porta il segreto – ogni corpo ripiegato e dispiegato in segreto del mondo. 8. Corpo non è altro che la perturbante stranezza [étrangeté] di essere. Ma corpo non è corpo che del desiderio che va verso di es156


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so – senza il quale è semplice contrazione locale di forze, ma la sua forma gli sfugge velocemente. La forma di un corpo, questa forma che esso è, risponde a un desiderio, a un’attesa, a un bisogno stesso o a una voglia: forma del frutto che voglio mangiare, della mano che spero di tenere. La perturbante stranezza [étrangeté] di essere deriva dunque da questo desiderio. Nulla è se non per il desiderio che sia. Questo desiderio viene da nessun luogo, o dall’essere esso stesso. Meglio ancora, viene da essere, è di essere, è essere. Senso dell’essere, senso di essere: desiderare essere, essere desiderio di essere. Straniero [étranger] dunque, perché il desiderio si estrania [s’étrange] da sé. Ontologia o creazione sono stati i termini classici per dirlo. Noi d’ora in poi lo diremo diversamente, e tuttavia allo stesso modo, con i nostri corpi estranei/stranieri [étrangers]. Forse non diremo mai più “essere”, ma solo “desiderio”.

Traduzione dal francese di Laura Pagliara

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Capacità di sopravvivenza, vulnerabilità, percezione JUDITH BUTLER

resupporre una precarietà generalizzata che mette in dubbio l’ontologia dell’individualismo implica determinate conseguenze normative, sebbene tali conseguenze non ne siano una derivazione diretta. Non basta dire che la vita è precaria e per questo motivo deve essere preservata. La posta in gioco riguarda le condizioni di vita sostenibili, perciò le divergenze morali si incentrano invariabilmente su come e se è possibile migliorare le condizioni di vita e la precarietà. Ma se una tale visione comporta una critica dell’individualismo, come possiamo iniziare a riflettere su come assumerci la responsabilità di minimizzare la precarietà? Se l’ontologia del corpo serve quale punto di partenza per un tale ripensamento della responsabilità, lo è proprio per il fatto che, nella sua stessa superficie e nella sua profondità, il corpo è un fenomeno sociale: è esposto agli altri, vulnerabile per definizione. La sua stessa persistenza dipende dalle condizioni sociali e dalle istituzioni, il che significa che per “essere” nel senso di “persistere” deve contare su ciò che è al di fuori di sé. Come può essere pensata la responsabilità sulla base di questa struttura socialmente estatica del corpo? Essendo qualcosa che, per definizione, cede alla forza sociale, il corpo è vulnerabile. Ma non è solo una superficie sulla quale vengono scritti dei significati sociali. Il corpo è una superficie che soffre, gioisce e reagisce all’esteriorità del

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Lectio magistralis pronunciata a “Pordenonelegge” il 21 settembre 2008.

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mondo, un’esteriorità che ne definisce disposizione, passività e attività. Certamente, l’oltraggio è uno dei pericoli a cui è esposto un corpo vulnerabile (e non esistono corpi invulnerabili), ma ciò non significa che la vulnerabilità del corpo possa essere ridotta alla dimensione dell’essere oltraggiato. Che il corpo debba fare i conti con ciò che si trova all’esterno è il difficile presupposto della prossimità volontaria e involontaria (o semivolontaria), ed è ciò che determina la reazione, la capacità di rispondere a quel mondo. E tale capacità comprende un’ampia gamma di reazioni al contatto volontario, semivolontario e involontario: piacere, rabbia, sofferenza e speranza, solo per citarne alcune. Le diverse percezioni emozionali [affects] diventano non solo la base, ma la sostanza stessa dell’ideazione e della critica. In questo modo un determinato atto interpretativo prende implicitamente il controllo al momento della risposta affettiva principale. L’interpretazione non emerge come atto spontaneo di una sola mente, ma come conseguenza di un determinato campo di intelligibilità che aiuta a creare e a modellare la nostra reattività al mondo che ci investe (un mondo dal quale dipendiamo, ma che ci urta contro, rendendo necessaria una reattività dalla forma complessa, talvolta ambivalente). Quindi, qualunque siano le conseguenze normative derivanti dalla considerazione di precarietà come condizione generalizzata, esse si basano su un concetto di corpo quale essenzialmente condizionato e sostenuto agli scopi della sopravvivibilità, e collocano la reattività – e quindi, in ultima analisi, la responsabilità – nelle reazioni affettive a un mondo che ci sostiene e che ci investe. Dal momento che queste risposte affettive sono invariabilmente mediate, esse interrogano e adottano determinate griglie interpretative; possono anche mettere in dubbio la natura scontata di tali griglie e in questo modo forniscono le condizioni affettive per la critica sociale. Come ho già sostenuto in altra occasione, la teoria morale deve diventare critica sociale se vogliamo conoscerne l’obiettivo e agire su di esso. Per comprendere lo schema che ho proposto nel contesto della guerra, è necessario considerare come la responsabilità debba concentrarsi non solo sul valore di questa o quella vita, o sul problema della 159


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capacità di sopravvivenza in astratto, ma sulle condizioni sociali di vita da sostenere, specialmente quando esse falliscono. È un compito che diventa particolarmente grave in un contesto di guerra. Non è facile trattare la questione della responsabilità, dal momento che il termine è stato utilizzato per finalità e intenzioni contrarie a quello che è invece il mio scopo qui. Per esempio, in Francia e in altri paesi europei, come ben sapete, hanno ridotto i sussidi sociali per i poveri e i nuovi immigrati. Il governo esige un nuovo senso di “responsabilità”, intendendo con ciò che gli individui non dovrebbero contare sul governo per i sussidi, ma solo su se stessi. Esiste addirittura una parola creata per descrivere il processo di produzione di individui che fanno affidamento su se stessi – “responsabilizzazione”. Ora, non sono certo contraria alla responsabilità individuale, e ci sono casi in cui, indubbiamente, dobbiamo tutti assumerci la responsabilità di noi stessi. Ma si presentano alcune domande per me cruciali alla luce di questa formulazione: sono responsabile solo verso me stesso? Ci sono altri verso cui sono responsabile? E come faccio, in generale, a determinare le dimensioni della mia responsabilità? Sono responsabile verso tutti gli altri o solo nei confronti di alcuni, e su che base potrei tracciare questo limite? Questo, tuttavia, non è che l’inizio delle mie difficoltà. Confesso di avere problemi con i pronomi personali. È solo come “io”, cioè, in qualità di individuo, che sono responsabile? Potrebbe essere che quando assumo la responsabilità, ciò che diventa chiaro è che chi sono “io” è legato inevitabilmente agli altri? Sono forse immaginabile senza il mondo degli altri? Di fatto, è possibile che attraverso il processo di assunzione di responsabilità l’“io” dimostri di essere, almeno parzialmente, un “noi”? Chi è incluso in quel “noi” che io, apparentemente, sono o di cui sembro essere parte? E, infine, per quale “noi” sono responsabile? Non è lo stesso che chiedersi: a quale noi appartengo? Se identifico una comunità di appartenenza nel concetto di nazione, territorio, lingua e cultura, e se poi baso la mia responsabilità su quella comunità di appartenenza, allora implicitamente sostengo 160


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la teoria che sono responsabile solo verso coloro che riconosco come me. Ma qual è la nostra responsabilità nei confronti di chi non conosciamo, verso quelli che sembrano mettere alla prova il nostro senso di appartenenza? Forse apparteniamo a loro in modo diverso, e la nostra responsabilità verso di loro non si basa sul concetto di similitudine. Prima di suggerire un modo di riflettere sulla responsabilità globale in questi nostri tempi, che sono indubbiamente tempi di guerra, voglio prendere le distanze da alcuni modi erronei di affrontare il problema. Per esempio, quelli che intraprendono una guerra nel nome del bene comune, quelli che uccidono nel nome della democrazia e della sicurezza, quelli che invadono le terre sovrane altrui in nome della sovranità, ritengono tutti di “agire globalmente”, se non addirittura di adempiere a una certa “responsabilità globale”. In questi ultimi anni negli Stati Uniti sentiamo parlare di “portare la democrazia” a paesi dove apparentemente manca; udiamo espressioni come “insediare la democrazia” e in questi frangenti dobbiamo chiederci: cosa significa democrazia se non si fonda sulla decisione popolare e sulla regola della maggioranza? Può una potenza “insediare” o “portare” la democrazia a un popolo sul quale non ha giurisdizione? Se si impone una forma di potere a un popolo che non sceglie quella forma di potere, allora quello è, per definizione, un processo antidemocratico. Se la forma di potere imposta viene chiamata “democrazia”, allora ci si presenta un problema ancora più grande: può essere “democrazia” il nome di una forma di potere politico imposto in modo antidemocratico? La democrazia deve definire i mezzi con cui viene realizzato il potere politico così come il risultato di quel processo. E questo crea una certa difficoltà, dal momento che una maggioranza può certamente eleggere una forma non democratica di potere (come fecero i tedeschi quando elessero Hitler nel 1933), ma le potenze militari possono anche cercare di “insediare” la democrazia ignorando o sospendendo le elezioni e altre espressioni della volontà popolare, e avvalendosi di mezzi palesemente antidemocratici. In entrambi i casi manca la democrazia. 161


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Come possono influire queste brevi riflessioni su quelli che sono i pericoli della democrazia sul nostro modo di pensare alla responsabilità globale in tempo di guerra? Innanzitutto, penso che dobbiamo diffidare di quegli appelli alla “responsabilità globale” fondati sul presupposto che un paese abbia una particolare responsabilità per portare o insediare la democrazia in altri paesi. Sono certa che ci sono casi in cui l’intervento sia importante per prevenire un genocidio, per esempio. Ma sarebbe un errore paragonare un simile intervento a una missione globale o, anzi, a una politica arrogante in cui vengono attuate con la forza forme di governo che rispondono all’interesse politico ed economico del potere militare artefice di quell’attuazione. In questi casi, probabilmente, ci viene voglia di dire – quantomeno, a me – che questa forma di responsabilità globale è irresponsabile, se non apertamente contraddittoria. Potremmo dire che qui la parola “responsabilità” è usata impropriamente o abusata. E io sarei d’accordo. Ma questo, forse, può non essere abbastanza, dal momento che le circostanze storiche ci richiedono di dare nuovi significati alla nozione di “responsabilità”. In effetti, ci troviamo davanti a una sfida, quella di ripensare e di riformulare un concetto di responsabilità globale che possa controbattere questa appropriazione imperialistica o ciò che abbiamo descritto come politica di imposizione. Per fare questo, voglio prima ritornare alla questione del “noi” e pensare a cosa accade a questo “noi” in tempo di guerra. Quali sono le vite considerate degne di essere salvate e difese, quali non lo sono? In secondo luogo, voglio chiedere come possiamo ripensare il “noi” in termini globali con criteri che confutino la politica di imposizione che ho appena descritto. Da ultimo, considererò perché opporsi alla tortura è obbligatorio e come possiamo derivare un importante senso di responsabilità globale da una politica che è contraria all’uso della tortura in ogni sua forma. Dunque, possiamo cercare un modo di porre il quesito su chi siamo “noi” in questi tempi, cominciando col domandarci: quali vite stimiamo degne di considerazione, quali vite piangiamo, e 162


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quali riteniamo indegne di lutto? Potremmo pensare alla guerra come a qualcosa che crea una divisione fra popolazioni da compiangere e popolazioni da rinnegare. Una vita indegna di lutto è una vita che non può essere compianta perché non ha mai vissuto, cioè, non è mai stata considerata una vita. Possiamo vedere questa divisione del mondo in vite degne o indegne di lutto dalla prospettiva di coloro che fanno la guerra per difendere le vite di certe comunità e per difenderle contro le vite di altri. Dopo gli attacchi dell’11 settembre sui media ci siamo imbattuti nelle immagini di coloro che sono morti: i loro nomi, le loro storie, le loro famiglie. Il lutto pubblico era destinato a fare di queste immagini icone per la nazione, il che significava, naturalmente, che per le vittime non americane il lutto pubblico era considerevolmente minore, e addirittura inesistente per i lavoratori clandestini. La distribuzione differenziale del lutto pubblico è una questione politica di enorme implicazione. Lo è fin dal tempo di Antigone, se non prima, quando lei scelse di piangere manifestamente la vita di uno dei suoi fratelli, anche se questo significava infrangere la legge sovrana. Perché accade che così spesso i governi cerchino di tenere sotto controllo e di regolare la concessione o il divieto al lutto pubblico? Nei primi anni della crisi dell’Aids negli Stati Uniti, le veglie pubbliche e il Names project1 hanno sfondato il muro della vergogna pubblica della morte per Aids, una vergogna a volte associata all’omosessualità, specialmente al sesso anale, a volte alla promiscuità. Ha avuto un certo significato dichiarare e mostrare i nomi, mettere insieme i pochi residui di una vita, rivelare pubblicamente e riconoscere quelle perdite. Cosa succederebbe se coloro che vengono uccisi in queste guerre fossero ricordati in questo modo, pubblicamente? Perché non ci vengono dati i nomi dei caduti in guerra, quelli uccisi dagli Stati Uniti, e perché non avremo mai un’immagine, il nome, la storia, mai una testimonianza di quelle vite – qualcosa da vedere, da toccare, da conoscere? Naturalmente, non è possibile indicare una per una 1. Cfr. A. Turney, P. Margolies, Always Remember: the Names Project AIDS Memorial Quilt, Fireside, New York 1996. Cfr. anche <http://www.aidsquilt.org/>.

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tutte le vite che sono andate distrutte durante la guerra, e perfino chi ottiene un nome e un volto viene presentato in questo modo a scopo di immagine.2 Il lutto pubblico è legato all’indignazione e l’indignazione di fronte all’ingiustizia, o meglio, di fronte a una perdita che è insopportabile, ha un enorme potenziale politico. Dopo tutto, è una delle ragioni per cui Platone voleva bandire i poeti dalla Repubblica. Pensava che se i cittadini fossero andati troppo spesso a vedere le tragedie, avrebbero pianto per le vittime, e che una tale manifestazione pubblica del lutto avrebbe sconvolto l’ordine e la gerarchia dello spirito e, di conseguenza, anche l’ordine e la gerarchia dell’autorità politica. Quando parliamo di dolore pubblico o di indignazione, parliamo di reazioni affettive strettamente regolate dai regimi di potere, a volte soggette alla censura esplicita. Nelle guerre contemporanee in cui sono direttamente coinvolti gli Stati Uniti, quelle in Iraq e Afghanistan, possiamo vedere come la percezione emozionale venga regolata per sostenere lo sforzo bellico e, in particolare, l’appartenenza nazionalistica. Quando le foto di Abu Ghraib furono rese note per la prima volta negli Stati Uniti, gli esperti della televisione conservativa dichiararono che mostrarle era antiamericano. Non avremmo dovuto avere le prove inconfutabili della tortura perpetrata dagli Stati Uniti. Non dovevamo sapere se gli sforzi bellici americani avevano violato i diritti umani, diritti riconosciuti a livello internazionale. Era antiamericano mostrare quelle foto ed era antiamericano ottenere da esse informazioni sulla conduzione della guerra. Secondo il signor O’Reilly le foto avrebbero determinato un’immagine negativa degli Stati Uniti e noi avevamo l’obbligo di difendere quell’immagine.3 Il signor 2. D. Simpson, 9/11: The Culture of Commemoration, The University of Chicago Press, Chicago 2006. 3. “Ma Abu Ghraib era interessante. Sono stato criticato dal ‘New York Times’ per non avere mandato in onda le immagini. E ho detto al pubblico: adesso vi racconto perché. Non ho intenzione di farle vedere perché io so – lo sapete, noi trasmettiamo in tutto il mondo. E so che non appena le mostrerò, Al-Jazeera le prenderà da The Factor, le diffonderà là e desterà una reazione antiamericana – e verranno uccise altre persone. Quindi non ho intenzione di farlo. Volete vederle? Bene, potete vederle da qualche altra parte. Non qui”, The O’Reilly Factor, Fox News Channel, 12 maggio 2005.

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Rumsfeld disse qualcosa di simile, e suggerì anche lui quanto fosse antiamericano esibire quelle foto.4 Ovviamente, nessuno dei due riteneva che il popolo americano potesse avere diritto a conoscere l’operato del suo esercito, né che la capacità del popolo di conoscere e giudicare la guerra sulla base di quelle prove fosse parte della tradizione democratica di partecipazione e deliberazione. Dunque, cos’è stato detto in realtà? Mi sembra evidente che chi ha tentato di limitare il potere dell’immagine, in questo caso specifico, ha anche tentato di limitare il potere della percezione emozionale, dell’indignazione, ben consapevole che una tale indignazione avrebbe potuto e avrebbe sicuramente sollevato l’opinione pubblica contro la guerra. Come in effetti è avvenuto. Tuttavia, chiederci quali siano le vite considerate degne di lutto, meritevoli di protezione e appartenenti a soggetti con diritti da rispettare, ci riporta alla domanda su come venga regolata la percezione affettiva e su ciò che intendiamo per controllo di tale percezione. L’antropologo Talal Asad ha scritto di recente un libro sugli attentati dinamitardi suicidi e la prima domanda che si pone è: perché proviamo orrore e repulsione morale di fronte a un attentato suicida, mentre non sempre proviamo lo stesso orrore e la stessa repulsione morale di fronte alla violenza sponsorizzata dallo Stato?5 Egli non si pone la domanda per rispondere che le due forme di violenza sono uguali, e neppure per dire che dovremmo provare la stessa indignazione morale per entrambe. Ma trova curioso, e su questo punto sono d’accordo con lui, che le nostre reazioni morali, reazioni che inizialmente appaiono in forma di percezione emotivo-affettiva, siano tacitamente regolate da determinate griglie interpretative. La sua tesi è che il nostro orrore e la nostra repulsione morale sono maggiori di fronte a vite perse brutalmente in determinate condizioni e in certi modi piuttosto

4. Cfr, per esempio, G. Mitchell, Judge Orders Release of Abu Ghraib Photos, “Editor and Publisher”, 29 settembre 2005. Disponibile online all’indirizzo: <http://www.editorandpublisher.com/eandp/news/article_display.jsp?vnu_content_id=1001218842>. 5. T. Asad, On Suicide Bombing, Columbia University Press, New York 2007.

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che altri. Se qualcuno uccide o viene ucciso in guerra, in una guerra sponsorizzata dallo Stato, e noi investiamo lo Stato di legittimità, di certo consideriamo quella morte dolorosa, triste, sfortunata, ma non radicalmente ingiusta. Al contrario, se la violenza viene perpetrata da forze controinsurrezionali ritenute illegittime, allora la nostra percezione cambia invariabilmente, o almeno così ritiene Asad. Sebbene Asad ci chieda di pensare all’attentato suicida – cosa che non è mia intenzione fare ora – è altrettanto chiaro che sta dicendo qualcosa di importante sulla politica della reattività morale, sta dicendo che ciò che sentiamo è in parte condizionato da come interpretiamo il mondo che ci circonda, e che il modo in cui interpretiamo ciò che proviamo può realmente alterare, e in effetti altera, lo stesso sentire. Accettare che la percezione emozionale sia strutturata secondo schemi interpretativi che non comprendiamo appieno, può forse aiutarci a capire perché possiamo provare orrore di fronte ad alcune perdite e poi indifferenza, o meglio, senso di legittimità, nei confronti di altre? Nella situazione attuale di guerra e di crescente nazionalismo, noi immaginiamo che la nostra esistenza sia legata ad altri con i quali possiamo trovare un’affinità nazionale, altri che ci sono riconoscibili e che si conformano a certe nozioni culturali specifiche su ciò che è culturalmente riconoscibile come umano. Questa griglia interpretativa funziona distinguendo tacitamente fra popolazioni da cui dipendono la mia vita e la mia esistenza, e popolazioni che rappresentano per esse una minaccia diretta. Quando una popolazione sembra rappresentare una minaccia diretta alla mia vita, essa non mi appare come un insieme di “vite”, ma come minaccia alla vita. Osservate come la cosa funzioni nel modo di considerare l’islam, ossia barbarico o pre-moderno, non ancora conformatosi a quelle norme che rendono l’umano riconoscibile. Coloro che uccidiamo non sono propriamente umani, e non sono propriamente vivi, il che significa che di fronte alla perdita delle loro vite non sentiamo lo stesso orrore e indignazione che proviamo per la perdita di quelle vite che possiedono un’affinità nazionale o religiosa con la nostra. 166


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Asad, invece, si domanda se la comprensione dei modi di affrontare la morte avviene con criteri diversi, se per esempio ci opponiamo con più forza e con maggiore indignazione morale alle morti causate da attentati dinamitardi suicidi di quanto non facciamo per le morti causate da un bombardamento aereo. Ma a questo punto viene da chiedersi se non esista anche una diversa scala di valutazione delle popolazioni, tale per cui alcune di esse vengono giudicate, fin dall’inizio, molto vive, mentre altre più discutibilmente vive, forse addirittura socialmente morte (espressione formulata da Orlando Patterson per descrivere lo status degli schiavi).6 Ma se la guerra o, piuttosto, le attuali guerre, si basano, perpetuandolo, su un modo di distinguere fra vite degne di essere protette, apprezzate e compiante, quando e se vengono perdute, e vite non del tutto vite, prive di valore, non sufficientemente riconoscibili o degne di lutto, allora la morte di vite immeritevoli di compianto causerà sicuramente enorme indignazione fra coloro che comprendono che le proprie vite non sono considerate vite in senso pieno e significativo. Dunque, sebbene la logica dell’autodifesa assegni a queste popolazioni il ruolo di “minaccia” alla vita, si tratta di popolazioni anch’esse viventi e la nostra coabitazione su questo globo comporta una certa dipendenza reciproca fra di noi. Voglio insistere su questa interdipendenza per il preciso motivo che quando nazioni come la nostra affermano che la nostra sopravvivenza è legata alla guerra, o nazioni come Israele sostengono che la loro sopravvivenza dipende dalla guerra, viene commesso un errore sistematico. Perché la guerra cerca di negare che siamo tutti esposti gli uni agli altri in modo costante e irrefutabile, che siamo vulnerabili alla distruzione da parte dell’altro e bisognosi di protezione attraverso accordi bilaterali basati sul riconoscimento di una precarietà comune. Penso si tratti, tutto sommato, di un’idea hegeliana, che comunque è mia intenzione riproporre qui. La ragione per cui non sono libero di distruggere un al6. O. Patterson, Slavery and Social Death: A Comparative Study, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1982.

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tro – e, infine, la ragione per cui le nazioni non sono libere di fare lo stesso – non è solo perché ciò porterebbe a ulteriori conseguenze distruttive. Questo è vero, senza dubbio. Ma quello che forse è ancora più vero è che il soggetto che io sono è legato al soggetto che non sono io, che ciascuno di noi ha il potere di distruggere e di essere distrutto, e che in questa precarietà siamo legati gli uni agli altri. In questo senso, noi tutti siamo vite precarie. Dopo l’11 settembre abbiamo assistito allo sviluppo di una prospettiva secondo la quale la “permeabilità del confine” rappresenta una minaccia nazionale, o meglio, una minaccia alla propria identità. L’identità, tuttavia, non è pensabile senza un confine permeabile, così come non lo è senza la possibilità di dovere rinunciare a una frontiera. In un caso si teme l’invasione, l’usurpazione, la violazione, e si avanzano rivendicazioni territoriali in nome dell’autodifesa. Ma, nell’altro caso, un confine viene ceduto o vinto proprio per stabilire una certa relazione al di là delle pretese territoriali. In entrambe le azioni può essere presente il timore per la sopravvivenza, e se è così, questo spiega come il nostro senso di sopravvivibilità sia inevitabilmente legato a coloro che non conosciamo, e che potrebbero non essere pienamente riconoscibili, secondo quelle che sono le nostre norme nazionali o parrocchiali. Se Melanie Klein ha ragione, noi sviluppiamo le risposte morali come reazione a domande sulla capacità di sopravvivenza.7 La mia scommessa è che Klein in questo abbia ragione, perfino quando si oppone alla sua stessa intuizione, insistendo sul fatto che il punto in questione, in ultima analisi, è la capacità di sopravvivenza dell’ego. Perché proprio l’ego? Dopo tutto, se la mia capacità di sopravvivenza dipende dalla relazione con gli altri, con un “tu” o con un insieme di “tu”, senza i quali non posso esistere, allora la mia esistenza non è soltanto mia, ma deve fondarsi al di fuori di me, in questa serie di relazioni che precede e va oltre i li-

7. M. Klein, A Contribution to the Psychogenesis of Manic-Depressive States, “International Journal of Psycho-Analysis”, 16, 1935; trad. in Scritti, 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978.

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miti del mio io. Se ho un confine, o se posso dire che un confine mi appartiene, è solo perché mi sono separato dagli altri, ed è solo a condizione di questa separazione che posso mettermi in relazione con loro. Dunque il confine è una funzione della relazione, un’intermediazione di differenza, una negoziazione in cui sono legato a te nella mia separatezza. Se cerco di preservare la tua vita, non è solo perché cerco di preservare la mia, ma perché chi sono “io” non è niente senza la tua vita, e la vita stessa deve essere ripensata come questa rete di relazioni con gli altri, una rete complessa, appassionata, antagonistica e necessaria. Posso perdere un “tu” in particolare e un qualsiasi numero di altri specifici tu, e posso anche sopravvivere a queste perdite. Ma ciò può accadere solo se non perdo la possibilità di un “tu” in assoluto. Se sopravvivo, è solo perché la mia vita non è niente senza la vita che mi eccede, che fa riferimento a un tu deittico, senza il quale io non posso essere. Ma prima di avanzare questa mia proposta su come pensare al di là dell’ego individuale e dei confini del corpo, vorrei tornare per un momento a quello che ritengo giusto in ciò che Klein ha da offrire alla nostra tesi. Se la colpa è collegata a una paura relativa alla sopravvivibilità, ciò indica che, in quanto reazione morale, essa si riferisce a un insieme pre-morale di paure e di impulsi legati alla capacità di distruzione e alle sue conseguenze. Se la colpa solleva un quesito per il soggetto umano, il problema in questione non è, principalmente e innanzi tutto, se la vita che sto conducendo sia buona, oppure no, ma se la vita che sto conducendo sia affatto vivibile. Che sia concepita come emozione o sentimento, la colpa ci dice qualcosa su come avviene il processo di moralizzazione e su come tale processo devii dalla crisi della stessa capacità di sopravvivenza. Se ci si sente in colpa alla prospettiva di distruggere l’oggetto/l’Altro a cui si è legati, l’oggetto di amore e di affetto, ciò potrebbe accadere per motivi di autoconservazione. Se distruggo l’altro, allora distruggo colui da cui dipendo per sopravvivere, di conseguenza, col mio atto distruttivo minaccio la mia sopravvivenza stessa. Se Klein ha ragione, dunque, è probabile che non mi importi un granché dell’altra 169


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persona in quanto tale; gli altri non vengono messi a fuoco da me come altri, come esseri separati da me che “meritano” di vivere e la cui vita dipende dalla mia capacità di controllare quella che è la mia stessa spinta distruttiva. Per Klein, la questione della sopravvivenza precede la questione della moralità; effettivamente, sembrerebbe che il senso di colpa non sia indice di una relazione morale con l’altro, quanto di un incontenibile desiderio di autoconservazione. Secondo Klein, io voglio che l’altro sopravviva solo perché io possa sopravvivere. L’altro è strumentale alla mia stessa sopravvivenza e la colpa, perfino la moralità, sono semplicemente le conseguenze strumentali di questo mio desiderio di autoconservazione, desiderio minacciato principalmente dal mio stesso impulso distruttivo. La colpa, quindi, sembrerebbe caratterizzare una particolare capacità umana, quella di assumersi la responsabilità di determinate azioni. Sono colpevole perché ho cercato di distruggere un legame di cui necessito per vivere. Il che, all’inizio, appare essenzialmente come un impulso all’autoconservazione, un impulso che potrebbe essere legato proprio all’ego, anche se, come sappiamo, Klein non è una psicologa dell’ego. Una persona potrebbe intendere il proprio impulso all’autoconservazione come desiderio di preservare se stesso in quanto umano, ma dal momento che è la mia sopravvivenza che viene minacciata dal mio stesso potenziale distruttivo, sembra che la colpa si riferisca meno a una qualche forma di condizione umana che alla vita e, precisamente, alla capacità di sopravvivenza. Quindi, solo in quanto animale che può vivere o morire, ciascuno di noi sente la colpa; solo per uno la cui vita è legata a quella degli altri e deve negoziare il potere di colpire, di uccidere e di mantenere in vita, la colpa diventa un problema. Paradossalmente, il senso di colpa, che viene spesso concepito come paradigma di emozione umana, un’emozione che generalmente si pensa attivi il potere della riflessione di sé e, quindi, distingua la vita umana da quella animale, è determinato non tanto dalla riflessione razionale, quanto dalla paura della morte e dalla volontà di vivere. Dunque, la colpa non solo mette in discussione l’antropocentrismo che spesso sostiene i senti170


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menti morali, ma più enfaticamente fa vedere come umani gli animali per i quali la capacità di sopravvivenza è una funzione di una socialità di mediazione. Se noi accettiamo il punto di vista di Klein in base al quale è la capacità distruttiva a costituire il problema per il soggetto umano, sembrerebbe che la capacità distruttiva sia anche l’elemento che collega l’umano e il non umano, e ciò appare più acutamente vero in tempo di guerra, quando ogni tipo di vita senziente viene esposta a rischi più elevati. E mi sembra acutamente vero per coloro che si trovano in posizione di potere per intraprendere le guerre, per diventare soggetti il cui potere distruttivo minaccia intere popolazioni e territori. Se in questo studio conduco un certo tipo di critica all’impulso distruttivo del primo mondo, è dovuto sicuramente al fatto che sono cittadina di un paese che sistematicamente idealizza la propria attitudine all’assassinio. Penso fosse in una scena del film Rush Hour – Missione Parigi:8 i nostri criminali americani preferiti prendono un taxi nella capitale francese. Il tassista capisce che sono americani e manifesta il suo entusiastico interesse per l’imminente avventura americana. Durante il tragitto offre un esempio di grande perspicacia etnografica. “Americani!” dice, “Quelli uccidono la gente senza motivo!” Ora, naturalmente, il governo degli Stati Uniti fornisce ogni tipo di motivazione per i suoi omicidi e, allo stesso tempo, non definisce affatto quegli assassinii come tali. Se mi accingo a indagare il problema della potenza distruttiva, per poi dedicarmi, come spero di fare, alla questione della precarietà e della vulnerabilità, è proprio perché penso che una certa dislocazione di prospettiva sia necessaria per ripensare la politica globale. La nozione di soggetto prodotta dalle recenti guerre condotte dagli Stati Uniti, incluse le sue operazioni di tortura, è una nozione in cui il soggetto Stati Uniti cerca di presentare se stesso come impermeabile, di definirsi come stabilmente protetto contro le incursioni e radicalmente invulnerabile agli attacchi. Il nazionalismo funziona in parte nel produrre e sostenere una certa versione del soggetto – 8. Rush Hour – Missione Parigi, 2007, regia di Brett Ratner.

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possiamo chiamarla immaginaria, se desideriamo. Ma dobbiamo ricordare che quella determinata versione viene prodotta e sostenuta attraverso le potenti forme dei mezzi di informazione, e che ciò che dà potere alle versioni del soggetto è proprio il modo in cui esse riescono a rendere legittima la capacità distruttiva del soggetto e impensabile la sua stessa distruttibilità. Il problema di ciò che limita quelle relazioni è quindi legato al fatto se possiamo o no estendere il nostro senso di dipendenza politica e di impegno a uno scenario globale che va oltre i confini di una nazione. Alla luce degli attacchi dell’11 settembre 2001, il nazionalismo degli Stati Uniti è naturalmente incrementato, ma ricordiamoci che stiamo parlando di un paese che estende la sua giurisdizione oltre frontiera, che sospende gli obblighi costituzionali all’interno dei propri confini e che non si ritiene vincolato da alcun accordo internazionale. Sostiene il proprio diritto all’autoprotezione sovrana e allo stesso tempo invade legittimamente altri paesi sovrani o, come nel caso della Palestina, rifiuta di onorare qualsiasi principio di sovranità. Ciò che voglio suggerire è che l’atto di affermare il senso di dipendenza e di vincolo al di fuori dello Stato-nazione deve essere distinto da quelle forme di imperialismo che avanzano pretese di sovranità al di fuori dei confini dello Stato-nazione. Non è una distinzione facile da fare o da difendere, ma ritengo che rappresenti una sfida improrogabile e attuale per questi tempi. Quando mi riferisco a una scissione che struttura (e destruttura) il soggetto nazionale, mi riferisco a quelle modalità di difesa e dislocazione affettiva, per prendere in prestito una categoria psicanalitica, che ci inducono, nel nome della sovranità, a difendere un confine da un lato e a violarlo dall’altro. Il richiamo all’interdipendenza, allora, è anche un richiamo a superare questa scissione e a muoversi verso il riconoscimento di una condizione di precarietà generalizzata. Non è credibile che l’altro sia distruttibile e io non lo sia; e non può essere che io sia distruttibile e l’altro no, ma solo che la vita, concepita come vita precaria, sia una condizione generalizzata e che in certe condizioni politiche venga radicalmente esacerbata o radicalmente rinnegata. Si trat172


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ta di una scissione in cui il soggetto rivendica la propria legittima potenza distruttiva e al tempo stesso cerca di immunizzarsi contro il pensiero della propria precarietà. Appartiene a una politica guidata dall’orrore di fronte all’idea di distruttibilità della nazione o delle nazioni sue alleate. Costituisce una sorta di irragionevole incrinatura nel cuore del soggetto del nazionalismo. Il punto non è opporsi alla capacità distruttiva in sé, contrastare questo soggetto scisso del nazionalismo americano con un soggetto la cui psiche voglia sempre e solo la pace. Io accetto che l’aggressione sia parte della vita e che quindi sia anche parte della politica. Ma l’aggressione può e deve essere separata dalla violenza (la violenza è una delle forme che assume l’aggressione) ed esistono modi per dare forma all’aggressione che operano al servizio della vita democratica, fra cui l’“antagonismo” e il conflitto discorsivo, gli scioperi, la disubbidienza civile e perfino la rivoluzione. Hegel e Freud convergono fra loro nel comprendere giustamente che la repressione della distruzione può avvenire solo trasferendo la distruzione nell’azione stessa di repressione. Sembrerebbe dunque che qualsiasi pacifismo basato sulla repressione non faccia che trovare semplicemente un altro luogo per il potere distruttivo, senza riuscire in alcun modo ad annientarlo. Sembrerebbe che la sola alternativa possibile sia quella di trovare dei criteri per modellare e frenare la spinta distruttiva, conferendole una forma vivibile, e questo sarebbe un modo per affermare che essa continua a esistere e per assumersi la responsabilità delle forme sociali e politiche in cui appare. Un’operazione diversa sia dalla repressione che dall’espressione “liberata” e senza limiti. Se richiedo il superamento di un certa scissione nel soggetto nazionale, non è in favore della riabilitazione di un soggetto coerente e unificato. Il soggetto è sempre al di fuori di sé, altro da sé, poiché la sua relazione con l’altro è essenziale per ciò che esso è (qui, chiaramente, resto perversamente hegeliana a tutt’oggi, nel 2008). A questo punto, si delinea la seguente domanda: come facciamo a comprendere cosa significhi essere un soggetto costituito dalle sue relazioni o come le sue relazioni, la cui capacità di 173


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sopravvivenza è funzione e conseguenza dei modi della sua relazionalità? Con queste intuizioni in mente, ritorniamo ora al problema che pone Asad a proposito della reazione morale. Se una violenza giusta o giustificata viene esercitata da alcuni Stati e una violenza ingiustificabile viene esercitata da attori che non sono Stati o da attori che si oppongono agli Stati esistenti, allora abbiamo un modo per spiegare perché affrontiamo alcune forme di violenza con orrore e altre forme con un senso di approvazione, se non addirittura di legittimità e trionfalismo. Le reazioni emozionali sembrano essere primarie, non hanno bisogno di alcuna spiegazione, precedono il lavoro di comprensione e di interpretazione. Nei momenti in cui reagiamo con orrore morale di fronte alla violenza, siamo, per modo di dire, contro l’interpretazione. Tuttavia, fintanto che in questi momenti restiamo contro l’interpretazione, non saremo in grado di dare una spiegazione del perché l’orrore venga percepito in modi diversi, e non solo procederemo sulla base di questa irrazionalità, ma la considereremo quale segno dei nostri encomiabili e innati sentimenti morali, forse anche della nostra “fondamentale umanità”. Paradossalmente, la scissione non ragionata della nostra capacità di reagire rende impossibile rispondere con lo stesso orrore alla violenza perpetrata contro popolazioni di ogni genere. In questo senso, se consideriamo il nostro orrore morale come segno della nostra umanità, non riusciamo ad accorgerci che, così facendo, l’umanità in questione viene divisa implicitamente fra coloro nei cui riguardi nutriamo una sollecitudine pressante e irrazionale e coloro la cui vita e la cui morte semplicemente non ci toccano o non ci appaiono affatto come vite. Come possiamo comprendere il potere regolatore che crea questo differenziale a livello di capacità di reazione affettiva e morale? Forse è importante ricordare che la responsabilità richiede reattività, capacità di reazione, e che la reattività non è un semplice stato soggettivo, ma un modo di rispondere a ciò che ci sta di fronte con le risorse che abbiamo a disposizione. Quando proviamo orrore o quando non lo proviamo affatto, siamo già esseri sociali che operano al174


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l’interno di elaborate interpretazioni sociali. La nostra percezione affettiva [affect] non è mai esclusivamente nostra: fin dall’inizio, essa ci viene comunicata da un altrove. Ci induce a percepire il mondo in un determinato modo, a farne entrare alcuni aspetti e a lasciarne fuori degli altri. Ma se la reazione è sempre una reazione a una condizione percepita del mondo, cos’è che rende percepibili alcuni aspetti del mondo e altri no? Come dobbiamo riconsiderare questo problema di risposta affettiva e di valutazione morale tenendo conto di quelle griglie di valutazione già in atto, secondo le quali alcune vite vengono considerate come vivibili, degne di protezione, vite per cui battersi, mentre altre non meritano protezione proprio perché non sono reputate “vite” vere e proprie. Siamo già inscritti in un circuito di percezioni sociali prima ancora di riuscire a sentire e a rivendicare una percezione come propriamente nostra. Si potrebbe credere, per esempio, nella santità della vita oppure aderire a una filosofia generica improntata sulla non violenza, una filosofia contraria a qualsiasi tipo di azione violenta. Ma se ci sono vite che non vengono percepite come tali, e ciò includerebbe gli esseri senzienti non umani, allora il divieto morale contro la violenza verrà applicato solo in modo selettivo. La critica della violenza deve iniziare dalla domanda della rappresentabilità della vita stessa: cosa consente a una vita di diventare visibile nella sua precarietà e bisognosa di protezione, e cos’è che ci impedisce di vedere o concepire alcune vite in questo modo? A livello generale, il problema riguarda i media, dato che solo a condizione che una vita risulti percepibile le può essere concesso un certo valore. Ed è solo a condizione di certe strutture di valutazione radicate che una vita può diventare percepibile. Percepire una vita non è la stessa cosa che imbattersi in una vita cogliendola nella sua precarietà. Incontrare una vita come precaria non rappresenta un vero incontro, in cui la vita viene spogliata da tutte le sue abituali interpretazioni, e si presenta a noi al di fuori di ogni relazione di potere. Un atteggiamento etico non sopraggiunge spontaneamente una volta che le abituali griglie interpretative vengono distrutte, e non emerge nessuna coscien175


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za morale pura, dopo che ci si è liberati dalle catene dell’interpretazione comune. Al contrario, è solo attraverso una sfida ai media dominanti che alcuni tipi di vita diventano veramente visibili o conoscibili nella loro precarietà. Non è solo, o esclusivamente, la comprensione visiva di una vita che forma la precondizione necessaria per una comprensione della precarietà della vita. Un’altra vita è quella che viene assimilata attraverso i sensi, se viene assimilata del tutto. Il tacito schema interpretativo che divide le vite degne di considerazione da quelle indegne opera fondamentalmente attraverso i sensi, differenziando il pianto che riusciamo a sentire da quello che non udiamo, ciò che riusciamo a vedere da ciò che non vediamo, e funziona anche a livello di tatto e perfino di odorato. La guerra si compie e persegue le proprie prassi agendo sui sensi, lavorandoli con cura affinché comprendano il mondo selettivamente, smorzando la percezione in reazione a determinati suoni e immagini e rafforzando la risposta affettiva verso altri. Ecco perché la guerra riesce a indebolire una democrazia sensata, limitando ciò che sentiamo e inducendoci a provare sgomento e indignazione di fronte a un’espressione di violenza o legittima indifferenza di fronte a un’altra. Per incontrare la precarietà di un’altra vita i sensi devono essere operativi, il che significa che si deve intraprendere una lotta contro quelle forze che cercano di regolamentare la percezione in modi differenziali. Non si tratta di celebrare una completa deregolamentazione della percezione, ma di esprimere dubbi sulle condizioni di reattività, offrendo matrici interpretative per la comprensione della guerra che sollevino domande e si oppongano alle interpretazioni dominanti, le quali non solo condizionano la percezione affettiva, ma prendono forma – e diventano operative – come percezione stessa. Se consideriamo l’intuizione in base alla quale la nostra stessa sopravvivenza non dipende dal controllo di un confine – la strategia adottata da una determinata sovranità in relazione al suo territorio – ma nell’identificare i modi in cui siamo dipendenti dagli altri, siamo portati a riconsiderare il modo in cui concettualizziamo il corpo in ambito politico. Dobbiamo pensare se sia giusto 176


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definire il corpo come un tipo delimitato di entità. Ciò che rende un corpo distinto non è una morfologia stabilita, come se potessimo considerare determinati aspetti o forme fisiche paradigmatici dell’umano. In effetti, non sono per nulla sicura che si possa identificare una forma “umana”, né penso che ciò sia necessario. Una tale considerazione implica anche il ripensamento di genere [gender], disabilità e discriminazione razziale, solo per nominare alcuni dei processi sociali che dipendono dalla riproduzione di norme fisiche. E come la critica della normatività di genere, della discriminazione nei confronti dei disabili e della percezione razzista hanno dimostrato chiaramente, non esiste una forma umana singolare. Possiamo pensare di rappresentare il corpo umano demarcandone i confini, per mezzo della forma che lo delimita, ma ciò significa non accorgersi del fatto importantissimo che, per certi modi e perfino inevitabilmente, il corpo è libero, lo è nelle sue azioni, nella ricettività, nella parola, nel desiderio e nella mobilità. È fuori da sé, nel mondo degli altri, in uno spazio e in un tempo che non controlla, e non solo esiste nel vettore di queste relazioni, ma esiste in quanto vettore stesso.9 In questo senso il corpo non appartiene a se stesso. Ritengo che il corpo sia il luogo in cui incontriamo una serie di prospettive che possono essere le nostre o possono non esserlo. Come mi si viene incontro e come vengo sostenuto, dipendono fondamentalmente dalle reti sociali e politiche in cui questo corpo vive. Da esse dipende il modo in cui vengo considerato e trattato e come questa considerazione e questo trattamento facilitino la mia vita o ne ostacolino la vivibilità. Quindi, le norme di genere 9. Una data morfologia prende forma attraverso una specifica negoziazione spaziale e temporale. È una negoziazione con il tempo, nel senso che la morfologia del corpo non rimane la stessa; invecchia, cambia forma, acquisisce e perde capacità. Ed è una negoziazione con lo spazio nel senso che nessun corpo esiste senza esistere in qualche luogo; il corpo è la condizione dello stare in un luogo, e ogni corpo necessita di un ambiente per vivere. Sarebbe un errore dire che il corpo esiste nel suo ambiente, solo perché una tale formulazione non è abbastanza forte. Se non esiste corpo senza ambiente, allora non possiamo pensare all’ontologia del corpo senza pensarla in un qualche luogo, senza una qualche reale collocazione, un “trovarsi là”. E con questo non voglio tentare di rendere un’idea astratta, ma di considerare i modi di materializzazione attraverso i quali un corpo esiste e per mezzo dei quali quell’esistenza può essere sostenuta e/o messa in pericolo.

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attraverso cui giungo alla comprensione di me stesso, o meglio, della mia capacità di sopravvivenza, non sono create solo da me. Quando cerco di fare il punto su chi sono, mi trovo già nelle mani dell’altro. Di conseguenza, alcuni tipi di corpi appariranno più precari di altri, a seconda di quali versioni del corpo, della morfologia in generale, confermano o sottoscrivono l’idea di vita umana meritevole di protezione e di riparo, degna di vita e di lutto. Si tratta di griglie normative che stabiliscono in anticipo quale vita sarà meritevole di vivere, quale vita sarà degna di essere protetta, e quale vita, infine, meriterà di essere compianta. Queste convinzioni riguardo a quali vite siano degne di essere vissute, protette e compiante, condizionano e implicitamente giustificano la guerra attuale. A questo punto siamo in grado di formulare la domanda critica: in base a quali criteri vengono divise le vite, quali vite rappresentano certi tipi di Stati e quali vite rappresentano una minaccia alla democrazia liberale incentrata sullo Stato, tale da giustificare una guerra a favore di alcune vite e difendere, considerando legittima, la distruzione di altre vite? Questa scissione ha diverse funzioni: costituisce la sconfessione della dipendenza e cerca inoltre di escludere, di mettere fuori gioco il riconoscimento del fatto che la condizione generalizzata di precarietà implica, socialmente e politicamente, una condizione generalizzata di interdipendenza. Sebbene non tutte le forme di precarietà siano il prodotto di accordi sociali e politici, spetta alla politica il compito di minimizzare la condizione di precarietà su basi egalitarie. La guerra è esattamente un’iniziativa per minimizzare la precarietà di alcuni e massimizzare quella di altri. La nostra capacità di rispondere con l’indignazione dipende dalla tacita consapevolezza che una vita degna di considerazione è stata ferita o perduta nel contesto della guerra, e nessun calcolo utilitaristico può fornirci quella norma. Ma se noi siamo esseri sociali, e la nostra sopravvivenza dipende da un riconoscimento di interdipendenza, allora io non sopravvivo come essere isolato e limitato, ma come essere il cui confine è la condizione del collegamento. Il confine di chi sono io è il confine del mio corpo, ma il confine del corpo non appartiene mai completamente a me. La so178


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pravvivenza dipende meno dal confine che si dà al sé che dalla socialità costitutiva del corpo. Ma la condizione di sopravvivenza è come il corpo, considerato sociale sia nella sua superficie che nella sua profondità; esso è anche ciò che, in determinate circostanze sociali, mette a rischio le nostre vite e la nostra capacità di sopravvivenza. Le forme di coercizione fisica sono precisamente l’imposizione non voluta della forza sui corpi: essere legato, imbavagliato, esposto forzatamente, abitualmente umiliato. Ci si potrebbe chiedere, allora: cosa spiega, se c’è qualcosa, la capacità di sopravvivenza di coloro la cui vulnerabilità fisica è stata sfruttata in questo modo? Naturalmente, che il corpo di una persona non sia mai del tutto sua proprietà, delimitato e autoreferenziale, è la condizione dell’incontro appassionato, del desiderio, dell’attesa e di quei modi di relazionarsi da cui dipende il sentimento dell’essere vivi. Ma l’intero mondo del contatto indesiderato deriva anche dal fatto che il corpo trova la sua capacità di sopravvivere in uno spazio e in un tempo che sono sociali; è proprio questa esposizione o spossessamento ciò che viene sfruttato nel caso della coercizione non voluta, della costrizione, della lesione fisica, della violenza. Vorrei riflettere sul problema della capacità di sopravvivenza in condizioni di guerra, rifacendomi brevemente a una raccolta pubblicata di recente, Poesie da Guantánamo, che include ventidue poesie sopravvissute alla censura del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti.10 Infatti, quasi tutti i versi scritti dai detenuti di Guantánamo sono stati distrutti o confiscati e non era certo previsto che alcuni di essi finissero nelle mani degli avvocati e degli operatori umanitari che sono riusciti a realizzare questo sottile volume. Sembra che il personale militare abbia distrutto ben 25.000 versi scritti da Shaikh Abdurraheem Muslim Dost. Nell’esporre le sue ragioni per la distruzione e la censura delle poesie, il Pentagono ha affermato che esse “costituivano un rischio parti-

10. M. Falkoff (a cura di), Poems from Guantánamo. The Detainees Speak, University of Iowa Press, Iowa City 2007; trad. Poesie da Guantánamo. La parola ai detenuti, Ega, Torino 2008. Tutti i successivi riferimenti si rifanno all’edizione italiana.

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colare” alla sicurezza nazionale a causa “della loro forma e del loro contenuto”.11 A questo punto bisogna chiedersi: cosa c’è nel contenuto e nella forma delle poesie da apparire così incendiario? Come può essere che la sintassi o la forma di una composizione poetica vengano percepite come una minaccia alla sicurezza della nazione? Perché le poesie sono testimonianza della tortura? Perché le poesie criticano attivamente gli americani, le loro false dichiarazioni di essere “i protettori della pace”, il loro odio irrazionale nei confronti dell’islam? Quelle affermazioni potevano essere fatte negli editoriali o in prosa, allora cosa c’è nella poesia che la fa sembrare particolarmente pericolosa? C’è un componimento che si intitola Umiliato in catene di Sami al Haj, torturato nelle prigioni americane di Bagram e di Kandahar prima di essere trasferito a Guantánamo, da dove è stato rilasciato di recente. Ecco due strofe della sua poesia: Sono stato umiliato in catene come posso adesso comporre versi? Come posso scrivere? Dopo le catene e le notti e la sofferenza e le lacrime come posso scrivere poesie?12 Al Haj afferma di essere stato torturato e chiede come può ancora creare parole, fare poesia, dopo una tale umiliazione. Eppure, è proprio il verso in cui mette in dubbio la sua capacità di fare poesia che diventa poesia. Il verso mette in scena ciò che al Haj non riesce a comprendere. Scrive la poesia, ma la poesia non può fare altro che mettere in discussione esplicitamente la condizione della sua stessa possibilità. Come può un corpo torturato dare forma a queste parole? Al Haj si chiede anche come può una poesia venire da un corpo torturato e come fanno le parole ad affiorare e a sopravvivere. Le

11. M. Falkoff, “Appunti su Guantánamo”, in M. Falkoff (a cura di), Poesie da Guantánamo, cit., p. 19. 12. M. Falkoff (a cura di), Poesie da Guantánamo, cit., p. 56.

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sue parole si muovono dalla condizione di tortura, una condizione di coercizione, per dare vita a un discorso. È lo stesso corpo quello che subisce la tortura e che crea le parole sulla pagina? La formazione di quelle parole è legata alla sopravvivenza, alla capacità di sopravvivere, o sopravvivibilità. Ricordiamo che all’inizio della loro detenzione, i prigionieri di Guantánamo incidevano brevi componimenti sulle tazze in polistirolo in cui venivano serviti loro i pasti. Alcuni usavano piccole pietre o sassi per incidere le loro parole sulle tazze, passandosele di cella in cella. Quelle tazze erano in polistirolo, e dunque un materiale non solo economico, emblema stesso dell’economicità, ma anche morbido, così che i prigionieri non avessero accesso a vetro o ceramiche che avrebbero potuto facilmente utilizzare come armi. A volte usavano anche la pasta dentifricia come mezzo di scrittura. Sembra che in seguito i detenuti fossero forniti di carta e penna, come segno di trattamento umano, ma quegli scritti furono per la maggior parte distrutti. Alcuni dei componimenti sono duri commenti politici. Per esempio, la poesia di apertura di Shaker Abdurraheem Aamer: Pace, dicono. Pace della mente? Pace sulla terra? Che genere di pace? Li vedo parlare, discutere, combattere – Che genere di pace vanno cercando? Perché uccidono? Cosa hanno in testa? Sono solo parole? Perché discutono? È così facile uccidere? È questo il loro piano? Sì, certo! Loro parlano, loro discutono, loro uccidono – Loro combattono per la pace.13 13. Ivi, p. 34.

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È con sagace ironia che Aamer conclude dicendo: “Loro combattono per la pace”. Ma ciò che caratterizza questo componimento è il numero di domande che l’autore mette in forma poetica, che formula ad alta voce, e la miscela di orrore e ironia nella domanda che sta al centro della poesia: “È così facile uccidere?”. I versi di Aamer si muovono fra confusione, orrore e ironia e terminano con la denuncia dell’ipocrisia dell’esercito americano. La sua poesia mette a nudo la scissione nella razionalità pubblica dei suoi aguzzini: torturano in nome della pace, uccidono in nome della pace. Ovviamente, noi non sappiamo quali potevano essere “la forma e il contenuto” dei versi che hanno subìto la censura, ma questo componimento sembra incentrarsi sulla domanda schietta e reiterata, su un orrore insistente, su un impulso alla denuncia. (In realtà, sono poesie che utilizzano generi lirici appartenenti alla scrittura coranica e tratti formali della poesia nazionalista araba, il che significa che sono citazioni e dunque, quando un poeta parla, evoca una tradizione di parlanti che in quel momento, anche metaforicamente, vengono riconosciuti come suoi compagni.) L’irragionevole scissione che struttura l’ambito militare della percezione è tale da non riuscire a spiegare il suo stesso orrore di fronte al danno subito e alla perdita della vita di quelle popolazioni che rappresentano lo Stato-nazione legittimo e il suo stesso legittimo piacere nel vedere l’umiliazione e la distruzione di quelle popolazioni che non sono organizzate sotto il segno dello Stato-nazione. Le vite dei reclusi a Guantánamo non vengono neppure considerate “vite umane” protette dal discorso sui diritti umani. Le poesie rappresentano un tipo diverso di risposta morale, una sorta di interpretazione che, in determinate circostanze, può contestare e fare esplodere la scissione dominante che attraversa l’ideologia nazionale e militare. Le poesie costituiscono ed esprimono la capacità morale di reagire a un fondamento logico militare che ha limitato la propria reattività morale alla violenza in modi che sono incoerenti e ingiusti. Dunque, possiamo chiederci: qual è l’emozione che viene comunicata verbalmente da queste poesie, e che insieme di interpretazioni viene trasmesso 182


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attraverso questi componimenti in forma di percezione emozionale, desiderio e rabbia compresi? Il potere travolgente del lutto, della perdita e dell’isolamento diventa uno strumento poetico di insurrezione e perfino una sfida alla sovranità individuale. Ustad Badruzzaman Badr scrive: “Il vortice delle nostre lacrime / si sta dirigendo veloce verso di lui. / Nessuno può resistere alla forza di quest’onda”.14 Nessuno può sopportare, eppure queste parole giungono a noi, come segni di un’insondabile sopportazione. Nella poesia intitolata Scrivo il mio desiderio segreto di Abdulla Majid al Noaimi, ogni strofa è strutturata attraverso il ritmo della sofferenza e dell’appello: “Ho una costola rotta, e non posso trovare nessuno che mi guarisca. / Il mio corpo è fragile, e non riesco a vedere nessun sollievo davanti a me”. Ma forse il verso più singolare è quello al centro della poesia, che dice: “Le lacrime del desiderio di qualcun altro mi stanno toccando; / Il mio petto non può contenere l’immensità dell’emozione”.15 Di chi è il desiderio che sta toccando colui che parla? Si tratta delle lacrime di qualcun altro, dunque le lacrime non sembrano essere le sue o, almeno, non solo le sue. Forse appartengono a ognuno dei prigionieri del campo, o forse a qualcun altro, ma stanno toccando lui; egli trova dei sentimenti altrui dentro di sé a suggerirgli che persino nell’isolamento più radicale sente ciò che sentono gli altri. Non conosco la sintassi dell’originale arabo, ma in inglese “il mio petto non può contenere l’immensità dell’emozione” suggerisce che l’emozione non è la sua soltanto, ma è un’immensità e una magnitudine emozionale che può originarsi da sé, senza bisogno di una persona. “Le lacrime del desiderio di qualcun altro” – è come se fosse spossessato da queste lacrime che sono in lui, ma che non sono soltanto le sue. Cosa ci dicono, dunque, queste poesie sulla vulnerabilità e sulla capacità di sopravvivenza? Si interrogano su quali siano i tipi di espressione possibili al limite del dolore, dell’umiliazione, del de14. Ivi, p. 42. 15. Ivi, p. 74.

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siderio e della rabbia. Le parole sono incise sulle tazze, sono scritte su carta, sono schiacciate sulla superficie, uno sforzo di lasciare un segno, una traccia di un essere umano, addirittura, direi, un segno tracciato da un corpo, un segno che contiene la vita del corpo. E anche quando ciò che accade a un corpo è qualcosa a cui non si può sopravvivere completamente, le parole sopravvivono, per dirlo. Questa è anche poesia testimonianza, poesia appello, dove ogni parola è alla fine destinata a un altro. Le tazze vengono passate di cella in cella; le poesie vengono fatte uscire dal campo clandestinamente. Le poesie sono appelli. Sono tentativi di ristabilire la socialità del mondo, anche quando non c’è nessuna ragione concreta per pensare che una cosa del genere sia possibile. Nella postfazione alla raccolta Ariel Dorfman paragona gli scritti dei poeti di Guantánamo agli scrittori cileni sotto il regime di Pinochet. Sebbene sia conscio dei modi in cui la poesia trasmetta le condizioni del campo, egli richiama l’attenzione a qualcos’altro riguardo alle poesie. Scrive: Quello che avverto è che la fonte suprema di queste poesie da Guantánamo è la semplice, quasi primordiale, aritmetica dell’inspirare ed espirare. L’origine della vita, della lingua, della poesia è tutta lì, nel primo respiro, in ogni respiro come se fosse il primo, l’anima, lo spirito, ciò che inspiriamo, ciò che espiriamo, ciò che ci separa dall’estinzione, attimo dopo attimo, ciò che ci tiene in vita mentre inspiriamo ed espiriamo l’universo. E la parola scritta non è altro che il tentativo di rendere quel respiro permanente e sicuro, di scolpirlo nella roccia, di marcarlo su un pezzo di carta, di segnarlo su uno schermo, in modo che la sua cadenza resista oltre noi, duri più del nostro stesso respiro, spezzi le catene della solitudine, trascenda il nostro corpo transeunte e tocchi qualcuno con le sue acque.16 Il corpo respira, respira se stesso nelle parole e vi trova una qualche provvisoria sopravvivenza. Ma quando il respiro si trasforma 16. Ivi, p. 87.

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in parole, allora il corpo viene affidato a un altro, sotto forma di appello. Nella tortura si sfrutta la vulnerabilità del corpo alla sottomissione; si abusa del fatto dell’interdipendenza. Il corpo che esiste nella sua esposizione e nella sua prossimità agli altri, alla forza esterna, a tutto ciò che può soggiogarlo e sottometterlo, è vulnerabile alle lesioni; l’oltraggio è lo sfruttamento di tale vulnerabilità. Ma ciò non significa che la vulnerabilità può essere ridotta alla dimensione dell’essere oltraggiato. In queste poesie, il corpo è anche ciò che continua a vivere, che respira, che cerca di scolpire il proprio respiro nella pietra; il suo respiro è precario – può essere arrestato dalla forza della tortura di un altro. Ma se questa precarietà può diventare condizione di sofferenza, può anche diventare condizione di capacità di reazione, di una formulazione di emozione, intesa come atto radicale di interpretazione di fronte alla soggiogazione non voluta. Nelle poesie sentiamo la capacità di sfondare le ideologie dominanti che giustificano la guerra attraverso il ricorso a legittime invocazioni di pace; la poesia cerca di confutare e denunciare le parole di chi tortura in nome della libertà e uccide in nome della pace. In queste poesie noi ascoltiamo “il ritmo precario della solitudine”. Questo ci dice due verità distinte sul corpo: come corpi noi siamo esposti agli altri, e ciò può essere la condizione del nostro desiderio, ma anche la possibilità di una soggezione alla crudeltà e alla sottomissione; deriva dal fatto che i corpi sono legati agli altri, attraverso i bisogni materiali, attraverso il tatto, la lingua, attraverso una serie di relazioni senza le quali non possiamo sopravvivere. Ma che la sopravvivenza del singolo sia legata agli altri in questo modo è un rischio costante di socialità – è la sua promessa e la sua minaccia. Il solo fatto di essere legato agli altri determina la possibilità di venire asserviti e sfruttati, sebbene non determini la forma politica che assumerà tale asservimento. Il solo fatto di essere legato agli altri determina anche la possibilità di essere liberati dal dolore, di conoscere la giustizia e perfino l’amore. Le poesie sono piene di desiderio; danno voce al corpo carcerato mentre fa il suo appello; il suo respiro è ostacolato, ma continua a respirare. L’appello della poesia è un appello alla vita, una richiesta e uno strumento di 185


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sopravvivenza, ma è anche un appello a un altro senso di solidarietà, di vite interconnesse che portano avanti le parole le une delle altre, soffrono le lacrime le une delle altre e formano reti che presentano un rischio incendiario non solo alla sicurezza nazionale, ma alle forme di sovranità globale difese dagli Stati Uniti. Forse queste reti di affetti transitivi prodotte dalle poesie costituiscono “la forma e il contenuto” della loro sfida alla sicurezza nazionale e alle sue probabili rivendicazioni di sovranità. Dire che le poesie si oppongono a quella sovranità non significa che le poesie cambieranno il corso della guerra o che alla fine si dimostreranno più potenti del potere militare dello Stato. Tuttavia, le poesie emergono da scene di straordinaria vulnerabilità all’assoggettamento, e quasi ogni poeta sottolinea con stupore che le parole della poesia emergono da una tale condizione. Ma eccole, dimostrazioni di una vita ostinata, vulnerabile, sopraffatta, poesie che appartengono a qualcuno e a nessuno – poesie spossessate, furiose, acute. Sono anche, e questo è interessante, forme di emozione che hanno chiare conseguenze politiche. Le emozioni vengono comunicate, sono comunicabili e formano un tipo di rete di emozioni transitivo che produce un’alleanza emotivamente e politicamente pregnante nel mezzo dell’isolamento fisico. Questi scritti esprimono chiaramente orrore e rabbia di fronte a un ingiusto potere distruttivo militare. In questo senso, sono atti appassionati di interpretazione resi come linguaggio, atti che denunciano come l’esercito americano trasformi le espressioni omicidio e tortura gratuiti in legittima difesa di pace e libertà. In questo senso, le poesie sono atti critici di resistenza, di interpretazioni insurrezionali, atti incendiari che in qualche modo, incredibilmente, vivono attraverso la violenza a cui si oppongono, anche se la domanda sulla loro finale sopravvivenza rimane ancora senza risposta.

Traduzione dall’inglese di Laura Pagliara

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Supplemento d’anima

Sino ad anni recenti, l’idea che le nostre società si fossero laicizzate, avendo accolto e incorporato i risultati del processo storico di secolarizzazione sia nelle condotte ordinarie di vita sia nelle regole del sistema democratico, sembrava pacifica. Per quanto declinato in modi diversi – pensiamo a espressioni come “morte di Dio”, “disincanto del mondo”, fine del “teologico-politico”, “laicizzazione” ecc. – l’affievolirsi dell’autorità di una visione “cattolica” del mondo sulle cose della terra sembrava assodato. Considerata giuridicamente come una faccenda privata cui non spetta l’onere di giustificare la strutturazione dello spazio politico, la religione sembrava tutt’al più suggerire un cammino personale di salvezza, senza che le venisse accreditato un valore di esemplarità per i non (o diversamente) credenti. Oggi però assistiamo a un cambio di prospettiva, che induce non pochi a parlare di una nuova stagione del post-secolarismo. Lo spettacolare ritorno della religione nel discorso pubblico sembra restituire alle dottrine profetiche della religione biblica un ruolo nuovamente intramondano – non tanto (o non più) nel loro richiamarsi a “beni salvifici” ricavabili dal messaggio della Rivelazione, ma attraverso la precettistica e la dottrina sociale. La posta in gioco non riguarda tanto la via della salvezza, quanto il ruolo che le Chiese e le loro agenzie intendono assumersi nella determinazione dei legami sociali e dei vincoli morali: per fungere da fondamento pubblico, da “fonte di normatività” delle decisioni che concernono i temi considerati “eticamente sensibili”. Da religione personale a religione civile, come se le società democratiche


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non fossero in grado di giustificare in maniera autonoma il senso di validità delle norme che ne regolano il funzionamento, quasi vi fosse bisogno di un sostegno religioso alla stessa democrazia. È come se le ragioni e le interpretazioni che nelle società secolarizzate investono questioni controverse avessero bisogno di un “supplemento d’anima”, dovuto all’insufficienza delle risorse morali cui le società secolarizzate sono in grado di attingere. L’etica cristiana e la precettistica morale della Chiesa diventano così strumenti di azione politica. Quando però la norma e il precetto, più che il Credo e il Vangelo, vengono invocati a fondamento della decisione pubblica e proposti come una sorta di supplenza di religione civile, è evidente che i confini tra teologia e ideologia, tra dottrina e politica, tra legge delle creature e legge del Creatore, cominciano a divenire indistinguibili. E se ciò avviene, quali sono le conseguenze che ne derivano per la società e per la costituzione degli Stati democratici? La rivista comincia ad affrontare questo complesso di problemi prendendo in considerazione due diversi tentativi di ridefinire il concetto di laicità, quello di Rawls e soprattutto quello di Habermas, che chiede alla ragione secolare di mantenersi sensibile alla forza di articolazione del linguaggio religioso, per valutare se e in quale misura il ruolo pubblico della religione sia tale da costringere la ragione laica a interrogarsi sui propri presupposti.

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Autocritica della ragione laica? Religione, sfera pubblica e integrità etica EDOARDO GREBLO

1. Ragioni religiose e ragioni secolari L’espressione “società post-secolare” è divenuta da un po’ di tempo la formula ricorrente per indicare l’inaspettata vitalità delle tradizioni e delle comunità religiose all’interno di un Occidente (che si credeva) sempre più secolarizzato. Le religioni tradizionali e le comunità della fede non hanno infatti riguadagnato terreno soltanto negli ambiti vitali che aderiscono a una richiesta di orientamento che permette al credente di concepire se stesso come il ricettacolo di un’essenza fondativa divina e trascendente. Esse hanno anche nuovamente iniziato a penetrare gli ambiti extrareligiosi della vita mondana che si sedimentano nei vari ambiti della sfera pubblica e istituzionale. Si tratta di una tendenza, definita da alcuni come “desecolarizzazione” del mondo,1 che sembra dissolvere il rapporto osmotico tra laicizzazione e modernità sociale.2 In effetti, il termine “post-secolare” non allude alla nascita di nuove forme di religiosità non istituzionale e non differenziata – a quella “nebulosa mistico-esoterica” fiorita a partire dagli anni settanta che mescola temi cristiani a concezioni che non devono nulla al cristianesimo e che anzi, sotto molti aspetti, se ne allontanano. E neppure alla rinascita delle tradizionali “po1. P.L. Berger (a cura di), The Desecularization of the World. Resurgent Religion and World Politics, William B. Eerdmans Publishing Co., Grand Rapids (Mich.) 1999. 2. Sul rapporto ambivalente tra umanesimo secolare ed esperienza religiosa, cfr. C. Taylor, La modernità della religione (2002), a cura di P. Costa, Meltemi, Roma 2002 e Id., A Secular Age, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2007.

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tenze della fede” in cui traspare la volontà esplicita di ripristinare forme premoderne riguardo ai comportamenti richiesti ai credenti. Il termine allude piuttosto al fatto che nessuna desacralizzazione del sacrale può interamente dissolvere quell’“esperienza performativa” che è propria di un “atto di fede elementare” senza il quale “non ci sarebbe né ‘legame sociale’, né un indirizzarsi all’altro, né, in generale, alcuna performatività: né convenzione, né istituzione, né Costituzione, né Stato sovrano, né legge”.3 È come se, in altre parole, all’origine dell’esperienza religiosa vi fosse qualcosa che, pur rimanendo ostinatamente impermeabile all’universo cognitivo della razionalità articolata discorsivamente, può servire ad alimentare contenuti normativi suscettibili di convertirsi, una volta depurati dal loro incastonamento dogmatico, in fonti ispiratrici di senso capaci di contrastare la progressiva entropia del “legame sociale” e di trasformare l’intesa religiosa di fondo in energie di solidarietà sociale suscettibili di irradiarsi alla società nel suo complesso. Anche se il nucleo arcaico-sacrale della cooperazione sociale si è dissolto nei livelli, tra loro differenziati, della cultura, della società e del sapere oggettivante delle scienze, non è detto, cioè, che debba continuare a rimanere circoscritto a quella sfera privata della persona destinata a presentarsi unicamente come un’esperienza intima di fede. Naturalmente a certe condizioni: affinché le religioni possano svolgere un ruolo nella formazione dell’opinione pubblica non è soltanto necessario che rinuncino a imporre con la forza, e tanto più con la forza dello Stato, le loro pretese di verità, ma che riconoscano anche ulteriori condizioni. Esse devono anzitutto prendere atto degli enunciati concorrenziali delle altre confessioni religiose e, senza relativizzare i propri contenuti di fede, relativizzare il proprio punto di vista nella prospettiva di un autentico dialogo interreligioso. In secondo luogo, riconoscere le pretese di validità avanzate dal sapere scientifico-profano. E infine accettare come legittime le basi se3. J. Derrida, Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione, in J. Derrida e G. Vattimo (a cura di), La religione, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 48.

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colari che stanno a fondamento dello Stato democratico di diritto. Solo quando vengono egualmente soddisfatte tutte queste condizioni, le religioni possono allora contribuire al processo discorsivo di formazione dell’opinione e della volontà che caratterizza il processo democratico in un contesto sociale contraddistinto, per dirla con Rawls, dal “fatto del pluralismo”. In una “società post-secolare” l’universalismo egualitario esige un cambio di prospettiva egualmente valido per tutti: per partecipare ai dibattiti che infiammano la sfera pubblica politica non è necessaria alcuna relativizzazione delle convinzioni religiose o eticamente controverse, ma soltanto la loro “traduzione” in argomentazioni secolari egualmente valide per tutti. Nel saggio La religione nella sfera pubblica,4 con il quale ha innescato una querelle che non accenna a spegnersi,5 Habermas ha osservato che la concezione liberale della cittadinanza democratica si fonda sull’idea che la “ragione naturale” (ossia la ragione comune a tutti gli esseri umani) rappresenti un presupposto sufficiente per pretendere il riconoscimento razionalmente motivato di procedure decisionali giuridicamente vincolanti. Essa perciò offre la base epistemica per giustificare la neutralizzazione ideologica di uno Stato secolare la cui sussistenza si è ormai sganciata da dottrine o orientamenti di vita aderenti ai potenziali di legittimazione offerti dalle immagini religiose e metafisiche del mondo. A questo presupposto, Rawls ha associato l’aspettativa di un “consenso per intersezione”6 (oppure una “sovradeterminazione vincolante”7) intorno a una base di convinzioni comuni in grado di sostenere il peso di vincoli politici capaci di trascen4. J. Habermas, “La religione nella sfera pubblica. Presupposti cognitivi dell’‘uso pubblico della ragione’ da parte dei cittadini credenti e laicizzati”, in Tra scienza e fede (2005), Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 19-50. 5. Per una prospettiva equilibrata sull’intera questione, cfr. A. Ferrara, “La religione entro i limiti della ragionevolezza”, in La forza dell’esempio. Il paradigma del giudizio, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 223-243. 6. J. Rawls, Liberalismo politico (1993), Edizioni di Comunità, Milano 1994, pp. 123154. 7. R. Audi, “Liberal democracy and the place of religion in politics”, in R. Audi e N. Wolterstorff, Religion in the Public Square, Rowman & Littlefield Publishers, London 1997, p. 12.

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dere i singoli orizzonti particolari pur in presenza di un conflitto tra norme sostantive controverse, pur in presenza cioè di differenze anche profonde tra le dottrine comprensive ragionevoli sostenute dai cittadini sulla base delle rispettive appartenenze identitarie. L’idea è pertanto che la valenza universalistica degli obblighi politici non impedisca di fare appello a fonti che possono essere tanto di matrice religiosa quanto di natura secolare. La possibilità di creare un consenso per intersezione tra obblighi politici “impregnati” dall’autocomprensione religiosa di una determinata collettività di credenti e obblighi politici aderenti alla laicizzazione della società e al pluralismo delle forme di vita risulta possibile a condizione che sia possibile pervenire ai medesimi risultati pur attraverso differenti percorsi epistemici. Questa prospettiva, associata alla tesi relativa all’asimmetria tra ragioni secolari e ragioni religiose – nel senso che mentre le ragioni secolari sono accessibili a chiunque quelle religiose sono invece destinate a rimanere estranee o inaccessibili ai cittadini non credenti o ai seguaci di altre fedi – permette di attribuire una forza generativa di legittimità al principio di neutralità che va ascritto all’uso pubblico della ragione. Nello spazio politico definito dal “consenso per intersezione” non solo è possibile che vi sia convergenza tra concezioni comprensive ragionevoli, ma nulla esclude che vi sia continuità tra motivazioni politiche e motivazioni prepolitiche ricavabili dalla immagine di sé acquisita dalle comunità confessionali. Ciò sembra trasformare in un’esigenza ragionevole la richiesta, indirizzata ai cittadini credenti che ricavano la propria idea etica di sé da dottrine religiose di salvazione, di limitarsi all’uso pubblico di ragioni generalmente accessibili e di evitare ogni ricorso, a fondamento delle decisioni pubbliche, a “verità” di fede che pretendono validità universale. Se l’uso pubblico della ragione deve astenersi da ogni cedimento nei confronti dell’atteggiamento dogmatico proprio delle comunità confessionali, lo si deve alla necessità di differenziare il ruolo di chi è membro di una collettività di fede dal ruolo di chi è membro della società civile. E questa, in fondo, è una richiesta coerente con l’obiettivo politico di mantenere in192


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tatta la base di mutuo rispetto delle persone giuridiche. Quando, nelle società moderne, i cittadini intendono realizzare le loro pretese come titolari di diritti soggettivi e assumersi idealmente il ruolo di colegislatori, debbono addurre ragioni generalizzabili, ossia egualmente valide per tutti. Ciò impone, come afferma Rawls, che “siano a tempo debito presentate ragioni politiche – e dunque non ragioni date esclusivamente da dottrine comprensive – sufficienti a sostenere ciò che si dice sostenuto dalle dottrine comprensive introdotte. Chiamo questa ingiunzione a presentare ragioni propriamente politiche clausola condizionale”.8 È difficile, a meno di non deludere i principi normativi cui spetta di accollarsi gli oneri della legittimazione democratica, sottrarsi alla “clausola condizionale” di Rawls, che permette alle concezioni comprensive di contribuire alle decisioni del legislatore politico a condizione di elaborare, nel corso del processo deliberativo, ragioni propriamente politiche. Se cioè il processo legislativo risulta legittimo solo quando dipende dalla formazione inclusiva di ragioni che ogni cittadino può ragionevolmente accettare, la necessità di offrire “ragioni politiche”, anche se può apparire “astratta” dal punto di vista etico, diviene il punto di riferimento per una soluzione regolativa volta ad assicurare una coesistenza giuridicamente equiparata tra cittadini credenti, non credenti e diversamente credenti. Naturalmente, questa necessità si presenta solo “a tempo debito” – il che, al più tardi, significa: quando si tratta di attuare l’istituzionalizzazione giuridica delle procedure di politica deliberativa. Ciò nonostante, l’interpretazione di Rawls in merito all’“uso pubblico della ragione” come imposto da un “dovere di civiltà” suggerisce di introdurre una prassi discorsiva improntata a modalità consultive e dibattimentali non solo nella forma istituzionalizzata delle discussioni parlamentari, ma anche nella rete comunicativa delle sfere pubbliche politiche. Ora, il proposito di Habermas di interpretare la “clausola condizionale” di Rawls nel senso restrittivo di una “riserva isti8. J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, in Il diritto dei popoli (1999), Edizioni di Comunità, Milano 2001, p. 203.

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tuzionale di traduzione” è coerente con l’idea che la legittimità democratica non verte sulle opinioni politiche, ma riguarda piuttosto le decisioni collettivamente vincolanti assunte dalle autorità legislative e giurisdizionali. Il dovere di fornire “traduzioni secolari” non si applica cioè a tutti i cittadini, ma solo ai pubblici ufficiali “oltre la soglia istituzionale che separa la sfera pubblica informale dai parlamenti, tribunali, ministeri e amministrazioni”.9 Questa prospettiva non chiede ai cittadini credenti di rompere i ponti con i potenziali semantici custoditi dal discorso religioso o dall’intuizione teologica e non ancora tradotti nel linguaggio di ragioni pubbliche presuntivamente capaci di persuadere chiunque. La forza di articolazione dei linguaggi religiosi può anzi essere incorporata nell’agenda deliberativa della sfera pubblica informale per contrastare la tendenza del linguaggio di mercato a instradare i rapporti interpersonali sui soli binari delle preferenze individuali più o meno egoisticamente illuminate. Il fatto che la stessa legittimazione giusrazionalistica di diritto e politica si alimenti di fonti religiose prova, secondo Habermas, “che il confine tra ragioni religiose e ragioni secolari è in ogni caso fluido”.10 Una sfera pubblica realmente “polifonica” si realizza soltanto se alla definizione di questo “confine” mobile e instabile vengono chiamati sia i cittadini credenti sia i cittadini secolari disponibili ad accogliere anche la prospettiva della parte avversa. Con il vantaggio che lo Stato secolare, apparentemente sempre meno capace di ricavare dalla sua storia di origine il proprio fabbisogno di legittimità, può trovare nell’appropriazione critica di contenuti religiosi ormai largamente profanizzati una risorsa suscettibile di impedire che la trama di valori comuni che sta alla base dei legami sociali finisca per atrofizzarsi alle sole qualità formali dei discorsi compatibili con i principi di una costituzione democratica. Il senso dell’interpretazione restrittiva della “clausola condizionale” di Rawls, per cui “oltre la soglia istituzionale […] conta9. J. Habermas, “La religione nella sfera pubblica”, cit., p. 33. 10. Id., “Fede e sapere”, in Il futuro della natura umana (2001), Einaudi, Torino 2002, p. 107.

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no soltanto le ragioni laiche”,11 nasce in Habermas dalla volontà di contrastare le conseguenze ineguali generate da un modello di pacificazione del pluralismo ideologico che si propone di assicurare la tolleranza religiosa. L’istituzionalizzazione di uno Stato neutrale presenta infatti un rovescio della medaglia: mentre le ragioni dei cittadini non credenti sono già per così dire “sintonizzate” con i criteri che presiedono all’istituzione e all’intreccio dei discorsi politici, la stessa cosa non vale per i cittadini credenti. Questi infatti devono “tradurre” in discorsi giustificabili davanti al foro del discorso argomentativo intuizioni che appartengono, per certi aspetti, a una dimensione inassimilabile e inaccessibile alla sfera delle ragioni pubbliche. Ai cittadini devoti viene così richiesta una sorta di ristrutturazione cognitiva che non impone soltanto un’ovvia rinuncia all’esclusività premoderna dei comportamenti di fede, ma anche una scissione tra un’identità pubblica, che per esprimersi deve assimilarsi alle pratiche correnti nell’arena intramondana dei fori pubblici e riconoscere la fallibilità delle ragioni avanzate sul piano secolare, e un’identità privata, improntata al senso dell’incondizionato e alla salvaguardia della propria verità religiosa. Sono solo i credenti che, per accedere alla sfera pubblica politica e intervenire in maniera collettivamente vincolante sulle forme istituzionali della società laica, devono staccarsi criticamente dalle proprie tradizioni e tradurre il senso esistenziale della promessa salvifica in ragioni accessibili anche ai non credenti. Ciò non solo addossa ai credenti un onere supplementare che viene invece risparmiato ai non credenti ma, dal momento che esige da loro e soltanto da loro una suddivisione dell’identità che impone di differenziare la componente pubblica da quella privata, può mettere a repentaglio la loro integrità etica, assicurata dal senso performativo di una fede vissuta in tutta la sua pienezza. Con il risultato, tra l’altro, di privare la società secolare di risorse importanti nella fondazione del senso. Il problema, allora, è il seguente: se, in una società a maggioranza laica, i credenti sono inevitabilmente intrappolati nella tensione che 11. Id., “La religione nella sfera pubblica”, cit., p. 33.

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oppone, da una parte, le norme la cui origine non può non risiedere al di fuori dei processi discorsivi argomentabili alla luce di “ragioni pubbliche” e, dall’altra, esperienze che trovano articolazione adeguata solo nel linguaggio religioso, la proposta di Habermas, che consiste nello spostare la “clausola condizionale” di Rawls dalla sfera pubblica informale al quadro istituzionale, ristabilisce davvero le condizioni di equità partecipativa e di reciprocità egualitaria che possono permettere a laici e credenti di accogliere anche la prospettiva della parte avversa? 2. Asimmetrie Nelle condizioni di vita moderne, nessuna delle tradizioni in concorrenza può pretendere di essere immediatamente vincolante per tutti. Ciò vale naturalmente anche per le tradizioni religiose, che devono fare i conti con il pluralismo di credenze religiose diverse e con un senso comune ormai secolarizzato. In una situazione che costringe la fede a prendere atto di partecipare a un universo discorsivo che tende ad allontanare la religione dalla vita pubblica e a esiliarla nella sfera privata di ogni cittadino, non è difficile immaginare uno scenario in cui il “consenso per intersezione” ipotizzato da Rawls fallisce. Quando le scelte politiche compiute in base a ragioni secolari e istituzionalizzate in forme giuridiche si scontrano con l’autocomprensione di persone per le quali la religione è “la fonte ultima e assoluta della morale, più ultima e assoluta persino dello stato”,12 è difficile che i destinatari del diritto che aderiscono a nuove (e vecchie) religioni, a nuove (e vecchie) Chiese, a nuove (e vecchie) forme di devozione e preghiera possano contemporaneamente concepire se stessi come i loro autori. In situazioni di questo genere, il solo modo ragionevole con cui possono appagare il senso categorico di un imperativo religioso ed esistenziale che impedisce loro di scendere a compromessi con scelte legislative che considerano inaccettabili è quello che attinge alle ragioni che non contraddicono l’istituzio12. G. Baumann, L’enigma multiculturale. Stati, etnie, religioni (1999), il Mulino, Bologna 2003, p. 59.

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ne liturgica o l’esperienza della fede. Ai cittadini credenti, in queste circostanze, il “dovere di civiltà” inteso in termini rawlsiani non può che sembrare inaccettabile, dal momento che esclude proprio la possibilità di poter competere con pretese laiche alternative – se non sulla base di ragioni secolari. Quando perciò finisce per dissolversi il contesto di inserimento ideologico-religioso, a suo tempo creatore di consenso, non è più possibile ricorrere al contenuto normativo che conferisce senso e significato all’agire complessivo. Sia il “consenso per intersezione” di Rawls, sia la meno esigente “riserva istituzionale di traduzione” di Habermas, sembrano così dover ridimensionare le proprie pretese e trasformarsi in una proposta di semplice modus vivendi, che si limita a impedire effetti di coercizione sul piano giuridico delle libertà di culto. Anche il modello della “traduzione”, che traspone la forza soggiogante del sacro sublimandola nella forza vincolante di argomenti pubblicamente convincenti e che mantiene le distanze dalla religione senza rendersi insensibile alla sua prospettiva, presuppone che i cittadini, i laici ma anche i credenti, considerino autocriticamente le proprie esigenze e trattino i valori degli altri dal punto di vista di una prospettiva che risulta loro estranea. La “traduzione” implica cioè che sia possibile pervenire a un consenso di fondo su principi esistenzialmente dissonanti attraverso differenti mezzi epistemici. Se ciò non accade, la “riserva istituzionale di traduzione” di Habermas sembra collocarsi al di qua di una prassi argomentativa in grado di collegarsi a un processo legislativo capace di incontrare l’adesione motivata di tutti i cittadini non diversamente da come accade con la “clausola condizionale” di Rawls. In altre parole, l’onere asimmetrico che graverebbe sui cittadini credenti quando partecipano alle pratiche discorsive che si sviluppano nella sfera pubblica informale, e che sarebbe dovuto alla necessità di sacrificare orientamenti di valori costitutivi per la loro autocomprensione di credenti, si ripresenta immutato anche nelle istituzioni politiche che convertono in forma giuridica la volontà politica della maggioranza secolare. Habermas sembra avere presente una osservazione di questo genere quando afferma 197


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che i cittadini “dovrebbero quindi poter esprimere e motivare le loro convinzioni in un linguaggio religioso anche quando non trovano per esse ‘traduzioni’ laiche”.13 Se però l’impossibilità di giustificare orientamenti di valore con ragioni laiche e indipendenti da premesse ideologico-religiose rappresenta una buona ragione per concedere alle persone devote il diritto di appellarsi alla prospettiva che è costitutiva della loro appartenenza religiosa, non c’è ragione di negare questa eventualità quando ai cittadini credenti capiti di esercitare il ruolo di legislatori politici. Che cosa succede quando non sia possibile individuare una qualche “traduzione” secolare suscettibile di convertire in valori generalizzabili le ragioni religiose a cui sia i cittadini devoti, sia i loro rappresentanti politici che si collocano “oltre la soglia istituzionale”, ritengono di dover attribuire una pretesa di validità incondizionata? Se all’origine delle sue decisioni vi è una reale discrepanza tra ragioni secolari e ragioni religiose, non è affatto scontato che il legislatore politico sia in grado di ottemperare al proprio obbligo di convertire le proprie convinzioni religiose in un linguaggio secolare semplicemente ottemperando al dovere imposto dalla “riserva di traduzione”. Quale infatti può essere la matrice capace di generare le procedure di traduzione quando il credente attinge in linea di principio a un nucleo immodificabile di verità assolute ritenute infallibili, che si sottraggono alla giustificazione discorsiva senza riserve prescritta invece per gli altri orientamenti di vita? E quale può essere la praticabilità di questo modello quando, in linea di fatto, gran parte dei conflitti attuali, spesso fomentati da quelle forme di fondamentalismo e di settarismo che hanno indotto intellettuali e politici a esprimersi in termini di “scontro di civiltà”, derivano proprio dalla impossibilità di tradurre in termini accessibili alla ragione pubblica quello che i credenti considerano come il potenziale di verità contenuto nelle immagini religiose del mondo? Nonostante la “riserva di traduzione”, il verificarsi di circostanze in cui viene meno la possibilità che le ragioni religiose possano emergere nella forma mutata 13. J. Habermas, “La religione nella sfera pubblica”, cit., p. 34.

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di argomentazioni universalmente accessibili non può che portare, a meno che non si vogliano risvegliare conflitti di valore ormai pacificati, a un’esclusione delle ragioni religiose che non è sostanzialmente diversa da quella che si verifica con la “clausola condizionale” di Rawls. Aggiungere che l’esclusione opera soltanto “oltre la soglia istituzionale”, cioè a quel livello d’astrazione superiore che prevede l’introduzione di una soglia tra la coscienza privata e il pubblico rendiconto, finisce oltretutto per rendere politicamente irrilevante la correzione in senso restrittivo della clausola rawlsiana, dal momento che l’argomento religioso esaurisce ogni potenziale di validità proprio quando il legislatore politico deve garantire la vita collettiva come totalità, e non soltanto la legittima coesistenza tra valori cognitivamente dissonanti. Il senso di queste controversie sembra perciò riassumibile nella risposta, positiva o negativa, che si intende dare alla domanda: la divisione istituzionale tra Stato e Chiesa ripartisce davvero in maniera asimmetrica gli oneri della tolleranza tra cittadini credenti e cittadini non credenti e introduce, di conseguenza, un vulnus esistenziale che viola l’integrità etica delle persone devote? Stando all’argomento dell’“asimmetria” invocato da Habermas, il “dovere di civiltà” richiesto da Rawls potrebbe occasionalmente imporre ai cittadini devoti oneri incompatibili con la percezione religiosa di sé che impronta le loro condotte esistenziali. Nel caso di un conflitto di valori su fattispecie eticamente controverse tra ragioni laiche e ragioni religiose, l’approccio di Rawls violerebbe quella dimensione dell’integrità etica che impone ai cittadini religiosi di opporsi a decisioni legislative contrastanti con la loro fede ogniqualvolta le ragioni della loro opposizione fossero condotte nella prospettiva dell’autocomprensione religiosamente articolata che è propria delle diverse fedi. Il “dovere di civiltà” teorizzato da Rawls, tuttavia, non si limiterebbe a imporre oneri discutibili dal punto di vista morale. Esso escluderebbe illegittimamente dalla proceduralizzazione democratica delle controversie tutta quella gamma di visioni, ragioni e convinzioni che risultano impregnate dall’autocomprensione etica di una determinata forma di vita religiosa. Si tratta di un’imposizio199


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ne che urta contro il principio di legittimità democratica, che impone soluzioni egualmente valide per tutti rispetto all’obiettivo di una coesistenza giuridicamente equiparata. E secondo il quale non spetta ad alcun gruppo particolare di cittadini il diritto di delimitare in maniera aprioristica lo spettro della discussione pubblica riguardo a quali siano i principi a cui si intende dare seguito e quali no, in quanto le fattispecie eticamente controverse non possono che presentarsi come l’espressione di un’autocomprensione particolare, fosse pure l’autocomprensione della cultura che è propria della maggioranza secolare. Il legislatore democratico dovrebbe pertanto vincolarsi a un’idea della ragion pratica in modo tale che tutti i destinatari del diritto possano contemporaneamente immaginare se stessi come i suoi autori. Secondo Habermas, tuttavia, l’obiezione più consistente a un modello liberale impostato à la Rawls è quella che rileva gli oneri cognitivamente eccessivi che verrebbero addebitati in maniera asimmetrica ai cittadini religiosi. Da un punto di vista cognitivo, il “dovere di civiltà” richiamato da Rawls costringerebbe i cittadini religiosi a sopportare una pretesa di astrazione che confligge con gli stili e le forme di vita che formano le loro identità e che si radicano sin nel profondo delle strutture della loro personalità. In altri termini, essi possono vedersi costretti a difendere pubblicamente scelte politiche, giuridiche e amministrative servendosi di ragioni che sono in realtà estranee o dissonanti rispetto alle loro più intime convinzioni. Ciò potrebbe costringere le forme della credenza religiosa a una ristrutturazione cognitiva suscettibile di investire le convinzioni dei cittadini credenti al punto da minacciare la loro integrità etica e da “mettere in gioco la loro esistenza di devoti”.14 Dal momento però che non è possibile assumere un atteggiamento meramente strategico e compromissorio nei confronti delle proprie credenze o delle proprie posizioni cognitive, la richiesta, rivolta ai credenti, di escludere le ragioni au14. Ivi, p. 31. Tesi analoghe sono state sostenute anche da T. McCarthy, Kantian Constructivism and Reconstructivism: Rawls and Habermas in Dialogue, “Ethics”, 105, 1994, pp. 44-63 e da M. Cooke, Five Arguments for Deliberative Democracy, “Political Studies”, 5, 2000, pp. 947-969.

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tentiche che stanno alla base di orientamenti di valore da loro profondamente sentiti li obbliga ad argomentare in una prospettiva che può essere dissonante rispetto alla salvaguardia delle proprie verità religiose. Va osservato che la logica interna dell’obiezione non è riconducibile a osservazioni di natura empirica, come potrebbero essere eventuali riscontri fattuali suscettibili di evidenziare l’incapacità materiale dei cittadini religiosi di reperire ragioni secolari alternative. La sua sostanza normativa coincide invece con un’idea di principio, e cioè con la tesi secondo cui sarebbe sbagliato chiedere ai cittadini credenti prestazioni argomentative tali da implicare una qualche forma di “dissonanza cognitiva”. Quando cioè il senso illocutorio del discorso religioso (la credenza in un certo assunto) viene convertito in motivazioni laiche che sono indipendenti dalle autentiche convinzioni dei fedeli, la loro identità viene a scindersi artificialmente tra una parte pubblica e una parte privata, e ciò trasforma il “dovere di civiltà” invocato da Rawls in “un eccesso laicistico di generalizzazione”.15 Poiché, diversamente da Rawls, Habermas non chiede che tutti i cittadini motivino le proprie scelte politiche a prescindere dalle rispettive visioni del mondo, la coscienza del credente, che vive negli ambiti laicamente differenziati della società moderna, non è tenuta a sopportare alcuna dissonanza cognitiva. A condizione, naturalmente, che la possibilità di esprimere e motivare convinzioni aderenti a un nucleo inviolabile di verità rivelate non superi la soglia istituzionale in cui debbono poter valere unicamente ragioni laiche. Ai credenti e alle comunità religiose è invece permesso, quando partecipano alle controversie che hanno luogo nella sfera pubblica informale, di avvalersi in via esclusiva di ragioni che attingono alle proprie convinzioni esistenziali anche se queste dipendono in maniera lineare dalle rispettive certezze di fede. In questo senso, non sono tenuti ad avvalersi di ragioni secolari indipendenti da un’idea etica di sé improntata a verità di fede che reclamano validità universale. Sono però tenuti a farlo nell’eventualità che intendano trasporre i propri orienta15. Ivi, p. 32.

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menti valoriali sul piano di una civitas terrena che prevede una soglia istituzionale destinata a fare in modo che il contenuto delle voci religiose possa “contare” a livello legislativo solo quando assume la forma di argomenti universalmente accessibili. Alla domanda: “In che modo è possibile soddisfare le premesse cognitive stando alle quali l’accordo tra parti di estrazione eticamente diversa non deriverà più da ciò che è ‘buono’ per noi, in quanto appartenenti a una comunità contrassegnata da un ethos determinato, ma da ciò che è ‘giusto’ per tutti, credenti, non credenti e diversamente credenti?”, Habermas propone di rispondere promuovendo un accertamento autocritico dei limiti della ragione laica. In altre parole, è necessario che neppure agli illuminati cittadini laici venga risparmiato l’onere cognitivo che impone il dovere di riconoscere il potenziale di verità delle immagini religiose del mondo, oltre che il pubblico riconoscimento per il contributo funzionale recato dalle comunità religiose alla riproduzione di comportamenti socialmente desiderabili. Si tratta di ben altro che di un appello politico e morale alla tolleranza religiosa: sono adesso i cittadini laici, a cui viene chiesto di procedere al “superamento autoriflessivo di una nozione di sé laicisticamente sclerotizzata della modernità”,16 a doversi sensibilizzare ai dettati salvifici delle dottrine religiose concorrenti. La vera differenza tra il modello teorico di laicità proposto da Rawls e quello propugnato da Habermas è quella che passa tra una concezione della vita pubblica (Rawls) nella quale le parti possono convergere sulle stesse soluzioni di principio anche per ragioni rispettivamente diverse e una (Habermas) nella quale si chiede ai laici un “allargamento di orizzonte” che li metta in condizione di aprirsi al contenuto cognitivo che i concittadini religiosi apportano al pubblico dibattito. La revisione cui Habermas sottopone il concetto di laicità finisce così per dare luogo a un problema di “asimmetria inversa”, per così dire, nel senso che sono i cittadini secolari a vedersi addossati oneri cognitivi inversi e complementari a quelli che gra16. Ivi, pp. 41-42.

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vano sui cittadini credenti. Nella sua prospettiva, sono i cittadini non sensibili alla religione coloro sui quali incombe l’esigenza, dovendo fare i conti con la vitale sopravvivenza della religione e con la necessità a ciò correlata di attivare processi complementari di apprendimento, di limitare, circoscrivere o persino censurare i propri “atteggiamenti secolari”. In una società post-secolare ciò dovrebbe tradursi, per esempio, nel divieto di adottare pubblicamente una posizione epistemica che priva la religione della sua autentica “sostanza cognitiva” e che “si astiene dall’arrogante pretesa razionalistica di decidere che cosa nelle dottrine religiose sia o no razionale”.17 Così, in aperta contraddizione con i concittadini devoti, i cittadini secolari devono astenersi dal servirsi pubblicamente delle loro credenze più radicate se queste risultano ascrivibili a un “laicismo fondato scientisticamente” che ritenga impraticabile il progetto di recuperare il potenziale semantico del pensiero salvifico nell’universalità del discorso argomentativo. Sono perciò i laici a vedersi addossare l’onere della dissonanza cognitiva, dal momento che finiscono per ritrovarsi nella condizione di dover proporre ragioni alternative indipendenti dalle loro credenze più autentiche – come quelle, per esempio, che si fondano su un sapere scientifico-profano che deve la sua autorevolezza sociale al riconoscimento della propria fallibilità. Se nessuno può avvalersi di una determinata posizione cognitiva in senso meramente strategico e strumentale senza incappare in una qualche forma di dissonanza cognitiva suscettibile di ledere la sua identità, trasferire i vincoli intellettuali e politici che ne derivano dai credenti ai laici non contribuisce certo a rendere gli oneri che ne derivano più sopportabili dal punto di vista normativo. E tuttavia, l’“asimmetria inversa” è davvero inevitabile? Alla domanda, è possibile rispondere con due argomenti distinti. Anzitutto, è opportuno distinguere tra integrazione politica, basata sull’aspettativa dell’inclusione e delle pari opportunità nell’utilizzo dei diritti, e integrazione culturale (o transcultura17. Ivi, p. 46.

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le), basata su pratiche comunitarie di preghiera, confessione e fede. Per quanto riguarda l’integrazione culturale, è vero che le comunità di tipo confessionale sono unificate intorno a contenuti semantici irrinunciabili che non si lasciano arbitrariamente sostituire o rimuovere dai discorsi argomentativi e che presentano un carattere prescrittivo per l’identità di coloro che ne fanno parte. Ed è altrettanto vero che eventuali ostacoli frapposti a una volontaria adesione alle “potenze di fede” possono portare la coscienza del credente a smarrire il proprio senso di appartenenza e integrazione. Tuttavia, come dimostrano le plurisecolari controversie intorno ai contenuti della fede, l’unità dei credenti raccolti intorno al dogma si accompagna con una certa frequenza a divergenze interpretative che possono trasformarsi in divisioni intestine e manifestazioni settarie. Non solo, pertanto, ogni “annuncio” di fede è associato a processi di interpretazione e reinterpretazione, appropriazione e sovversione, ma non è neppure scontato, e in realtà nemmeno auspicabile, che la religione di un individuo debba essere la sua identità esclusiva e onnicomprensiva. “La nostra identità religiosa […] può essere molto importante, ma è soltanto un’appartenenza tra tante.”18 Trasformare l’affiliazione religiosa nel prototipo di un’identità priva di linee di frattura interne è indubbiamente diventato un metodo piuttosto diffuso, in questi ultimi anni, nel campo dell’analisi culturale, ma si tratta di una finzione le cui conseguenze sul piano politico possono essere disastrose. Per quanto riguarda l’integrazione politica, questa riposa sulla fiducia nella legittimità dell’autorità razionale-legale dello Stato moderno, che per districarsi nella massa delle questioni valutative deve individuare quei conflitti d’azione che possono essere risolti in riferimento a un interesse generalizzabile. Ciò significa che i principi dell’inte-

18. A. Sen, Identità e violenza (2006), Laterza, Roma-Bari 2006, p. 67. Continua Sen: “La domanda che dobbiamo porci è […] in che modo un musulmano religioso (o un induista, o un cristiano) possa combinare le sue convinzioni o le sue pratiche religiose con altri aspetti della sua identità personale, altri impegni e valori (come l’atteggiamento nei confronti della pace e della guerra). Considerare la religione […] di un individuo come un’identità onnicomprensiva è una diagnosi altamente discutibile”.

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grazione politica, che afferiscono alle procedure della formazione razionale della volontà, sono necessariamente più astratti dei principi che presiedono all’integrazione etico-religiosa. Nello Stato moderno, pertanto, l’identità è plurale e scissa per tutti, credenti e non credenti, laici e persone devote, dal momento che “la vita politica è una sfera di esistenza tra molte altre, ciascuna con le proprie pretese nei nostri confronti; la disgiunzione tra identità e fedeltà personali, scelte pubbliche e coinvolgimenti privati, è costitutiva della libertà dei cittadini nelle democrazie liberali”.19 La piena partecipazione al processo democratico non impone perciò ai cittadini che vivono fino in fondo la loro fede religiosa alcun “onere aggiuntivo” rispetto ai cittadini non credenti. Chiedere ai cittadini credenti di distinguere la loro identità in una componente pubblica e in una componente privata non impedisce loro di partecipare alle controversie sulle questioni morali ed etiche che travagliano un ambiente sociale prevalentemente laico. L’universalismo egualitario dell’ordinamento giuridico, infatti, non impone la diversificazione delle appartenenze unicamente ai cittadini credenti. Essere “laico”, in fondo, significa riconoscere la possibilità di un’asimmetria legittima tra le proprie convinzioni personali, che possono indurci a disapprovare pratiche altrui giuridicamente consentite e comportamenti che dal nostro punto di vista rimangono censurabili, e le norme imposte da un’etica pubblica che serve a garantire il diritto a una coesistenza pacifica tra le diverse forme di vita. In questo senso, la “dissonanza cognitiva” di cui parla Habermas tocca l’appartenenza di chiunque, anche se con un’estensione a “geometria variabile” e secondo modalità diversamente onerose. Ora, è indubbio che la proposta di Habermas presenti un vantaggio importante rispetto a molte prospettive concorrenti: dal momento che non richiede ai cittadini religiosi alcuna forma di autocensura e permette che la sfera pubblica informale sia og19. S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini (2004), Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 96.

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getto di dibattiti dall’esito aperto, cittadini laici e cittadini devoti possono aprirsi a processi complementari di mutuo apprendimento. Stando così le cose, sorprende non poco che i cittadini laici siano invitati a osservare delle “regole bavaglio”, come se un discorso pubblico condotto in base a ragioni interamente profanizzate potesse avere unicamente il senso irriguardoso di un cieco indifferentismo. Se si vogliono favorire i processi di reciproco apprendimento, è incoerente prendere sul serio i contributi religiosi ai dibattiti politici ed escludere dall’agenda deliberativa della sfera pubblica informale i contributi secolari che negano un possibile valore cognitivo al nucleo profondo dell’esperienza religiosa. Incoerente, soprattutto, nel quadro di un approccio discorsivo che esige la creazione di discussioni pubbliche in relazione alle questioni normative controverse e alle quali tutti possano partecipare adducendo pubblicamente buone ragioni. Habermas giustifica l’esigenza di promuovere l’autocritica della ragione laica come una conseguenza della necessità di permettere ai cittadini devoti di avvalersi di ragioni religiose nella sfera pubblica informale. A quale alternativa potrebbero far ricorso i credenti se i laici non prendono sul serio le ragioni religiose? Nella prospettiva di Habermas, prendere “sul serio i contributi religiosi ai dibattiti politici” richiede anzitutto che i cittadini secolari non escludano “un possibile valore cognitivo di questi contenuti” e, in secondo luogo, che siano disponibili a valutare “un possibile contenuto esprimibile in termini laici e giustificabile nel linguaggio della motivazione”.20 Certo: sarebbe poco sensato riconoscere ai cittadini religiosi il diritto di introdurre le loro concezioni religiose nella sfera pubblica informale se non vi fosse, in via complementare, il dovere degli altri cittadini di prenderle “sul serio”. E, tuttavia, è davvero necessario che la libertà di apportare contributi religiosi al dibattito pubblico ponga restrizioni all’agenda della conversazione pubblica tali da indurre i laici a praticare forme di autocensura?

20. Ivi, p. 42.

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3. Doveri di civiltà Il dibattito infinito – e per certi versi inconcludente – che periodicamente si riaccende nel nostro paese intorno alle questioni della “vita” può servire da esempio riguardo a ciò che potrebbe significare “prendere sul serio” le ragioni religiose. Secondo Habermas, l’inclusione delle enunciazioni religiose negli spazi deliberativi delle democrazie liberali ha senso solo quando “si richiede a tutti i cittadini di non escludere un possibile valore cognitivo di questi contenuti”,21 in modo che ai contenuti delle tradizioni religiose venga riconosciuto, dal punto di vista del sapere laico, uno status epistemico che non sia semplicemente irrazionale. Tuttavia, è davvero necessario che, per centrare l’obiettivo di soddisfare il criterio dell’equità che deve orientare l’inclusiva partecipazione al processo deliberativo, si debba garantire a tali contenuti una presunzione di razionalità in molti casi sottratta, non solo di fatto ma anche in linea di principio, alla discussione pubblica corrente, dal momento che rinvia a un apparato dottrinale precostituito, a una “parola rivelata” che si presenta in forma dottrinaria e dogmatica, come capita per i discorsi religiosi sulla “natura umana” e, in generale, per ciò che è “naturale” e “innaturale”? Non sarebbe forse più opportuno limitare la cauzione di “fiducia” alla disciplina di un processo argomentativo in cui ciascuno sia disponibile a offrire argomenti e controargomenti destinati a contribuire alla preparazione discorsiva delle (eventuali) decisioni? In fondo, anche quando, da un punto di vista laico, si difende un’etica della “qualità della vita” da cui traspaiono pochi dubbi riguardo alla mancanza di validità cognitiva che sta a fondamento degli assunti improntati a un’etica della “sacralità della vita”, non per questo si evita di ammettere il pari diritto al rispetto morale degli interlocutori dialogici che professano credenze religiose. A questo proposito, può tornare utile la distinzione tra la sintassi e la semantica delle ragioni pubbliche proposta da Benhabib.22

21. Ibidem. 22. S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’età globale (2002), il Mulino, Bologna 2005, p. 186.

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Mentre la sintattica delle ragioni rinvia alle precise caratteristiche strutturali che tutti gli enunciati in cui si articolano le ragioni pubbliche devono possedere, la semantica rimanda invece agli assunti e alle prospettive specifiche in cui si articola una determinata autocomprensione etica o esistenziale. In questo caso, ciò significa che se dal punto di vista sintattico le procedure discorsive improntate all’etica della “qualità della vita” devono accollarsi l’onere di riscattare discorsivamente le proprie pretese di validità, non per questo devono condividere, dal punto di vista semantico, un’etica della “sacralità della vita” che sottopone a forti tensioni i canoni riconosciuti di evidenza e validazione scientifica. Osservare la struttura sintattica delle ragioni pubbliche significa attuare un’etica della cittadinanza in cui si esprime la ricerca di modi reciprocamente accettabili di convivenza anche quando si è in presenza di sistemi di credenza fortemente divergenti, e forse persino incommensurabili. Ma proprio per questo non è necessario scendere a patti con i contenuti semantici che si sottraggono alla forza espressiva del linguaggio filosofico o che rimangono inaccessibili alla logica di un discorso giustificativo capace (presuntivamente) di persuadere chiunque. Non solo: chi ha promosso e difeso la riflessione sulla qualità della vita ha rispettato la sintattica delle ragioni, che prescrive di partecipare al flusso della conversazione pubblica osservando certe condizioni formali di giustificazione discorsiva, quelle cioè richieste dagli obblighi politici che ognuno ha nei confronti degli altri e che sono il prodotto dell’appartenenza a una società improntata al pluralismo dei valori. E ciò, cosa ancora più importante, a prescindere dalle personali posizioni epistemiche circa il valore cognitivo della semantica religiosa. Ciò non esclude, naturalmente, che si possa sostenere un’etica della qualità della vita praticando uno stile diverso di riflessione, ricavato direttamente da un’immagine di sé e del mondo che porta a negare ogni possibile valore cognitivo alla religione, da considerare come una sorta di reliquia arcaica “miracolosamente” sopravvissuta nel mondo moderno e che andrebbe apertamente combattuta. Anche sotto questo profilo, non è comunque chiaro né perché si dovrebbe mettere a tacere la voce di 208


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un ateo dichiarato, prigioniero delle rifrazioni prospettiche dei propri “pregiudizi” e affetto da una certa radicata parzialità cognitiva, né perché l’insensibilità ai contenuti della fede può rappresentare una seria minaccia alla sua capacità di assumere un abito mentale idoneo a una cittadinanza democratica e di contribuire alla continua ridefinizione di uno spazio pubblico di intesa e confronto. È sufficiente che chi ragiona etsi Deus non daretur eserciti le proprie libertà comunicative articolando una prospettiva improntata al principio dell’“addurre pubblicamente buone ragioni”, il quale sta a fondamento di quella struttura sintattica del dialogo discorsivo che rappresenta il punto di riferimento imprescindibile (se l’obiettivo è la convivenza giuridicamente equiparata fra tutti i cittadini) per una soluzione regolativa che possa essere accettata da tutti – anche se non per le stesse ragioni. Ciò significa che l’obbligo di “prendere sul serio” interlocutori dialogici che professano convinzioni nei cui confronti è legittimo nutrire dubbi anche profondi riguardo alla mancanza di validità cognitiva dei loro contenuti semantici non va inserito in un orizzonte epistemico ma, piuttosto, in un orizzonte politico. Il solo obbligo che in questo contesto spetta ai cittadini democratici è che un principio, una legge o un corso d’azione destinati a essere collettivamente vincolanti per gli organi legislativi rispondano a convinzioni ottenute argomentativamente, affinché sia il contributo più convincente sul tema rilevante a imporre le norme coercitive d’azione valide per tutti gli interessati. Di conseguenza, l’obbligo di introdurre proposte, temi e contributi, informazioni e ragioni orientati in senso favorevole o contrario rispetto a posizioni di fede che pretendono validità universale non deve necessariamente essere vincolato alla possibilità cognitiva che in queste stesse posizioni possa essere contenuta una qualche verità. Non è necessaria alcuna autocritica della ragione laica: i cittadini secolari hanno tutto il diritto di rimanere cognitivamente insensibili a una concezione sacrale della “vita” o della “natura” o di altre concezioni religiose. Ciò che debbono ai loro concittadini credenti è lo sforzo cognitivo di intraprendere una conversazione in cui si impegnano a offrire argomenti, rispondenti alla 209


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struttura sintattica di ragioni pubbliche legittime, ritenuti capaci di invalidare gli assunti altrui. Sono i convincimenti sostenuti dalla parte avversa che suggeriscono ai cittadini secolari ciò che va “preso sul serio” e che va incluso nell’agenda deliberativa della sfera pubblica informale. È dal principio generale secondo cui la legittimità di una decisione è assicurata solo quando non si stabilisce in via preventiva né quali “reti di interlocuzione”23 dovrebbero essere normativamente privilegiate, in quali circostanze e da chi, né si determina in anticipo quali ragioni debbano valere come pubbliche e quali come non pubbliche, che deriva la spinta a “prendere sul serio” modalità eterogenee di ragionamento eticamente specifico che altrimenti potrebbero essere circoscritte alla sfera privata e precluse alla conversazione pubblica. Questa prospettiva può forse contribuire a chiarire perché gli argomenti che possono essere legittimamente addotti a sostegno della tesi secondo cui anche le concezioni religiose debbano avere, nel discorso pubblico e nella sfera pubblica informale, lo stesso diritto di quelle laiche ai vari atti discorsivi, non possano invece essere impiegati per contrastare l’esclusione delle ragioni religiose “oltre la soglia istituzionale”. Come si è visto, il richiamo alla dissonanza cognitiva investe direttamente l’idea stessa di ragione pubblica proposta da Rawls, secondo la quale i cittadini sono tenuti a offrire ragioni pubblicamente accessibili a sostegno delle politiche che intendono promuovere. Chiedere a tutti i credenti di motivare le loro scelte politiche a prescindere dalle rispettive convinzioni religiose equivale, secondo Habermas, sia a porre restrizioni ingiustificate all’agenda della conversazione pubblica, sia a caricare i cittadini devoti di un onere risparmiato invece ai cittadini laici, dal momento che impedisce ai credenti (ma non ai laici) di avvalersi della loro posizione cognitiva ogniqualvolta partecipano ai processi deliberativi e dibattimentali cui spetta il compito di disciplinare particolari conflitti di valore. Il cittadino credente sarebbe così co23. C. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna (1989), Feltrinelli, Milano 1993, p. 54.

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stretto a sopportare in modo asimmetrico, rispetto al cittadino laico, l’onere della tolleranza verso visioni del mondo concorrenti o alternative rispetto alla propria. Persino nell’eventualità che concezioni e ragioni religiose vengano ammesse nel “foro politico pubblico”, che Rawls distingue dalla “cultura di sfondo” che coincide con la cultura della società civile e a cui non si applica l’idea di ragione pubblica,24 a esse verrebbe imposto l’obbligo addizionale di fornire argomenti e motivi che siano ragionevolmente accettabili da tutti i punti di vista. In questo modello, le religioni possono contribuire ai dibattiti che maturano nella sfera pubblica solo a condizione che la forza soggiogante del sacro venga sublimata o secolarizzata nella forza vincolante di argomenti pubblicamente convincenti, in modo che il senso sociale delle loro pretese di validità venga “tradotto” in termini secolarizzati. Solo quando, per esempio, le religioni si prestano a tradurre nel linguaggio secolare delle costituzioni l’idea di una creatura umana fatta a immagine e somiglianza di Dio, esse possono impedire una ingiustificata esclusione dalla sfera pubblica e tentare di condizionare la formazione dell’opinione e della volontà. Può anche darsi che questa “traduzione cooperativa di contenuti religiosi”, una sorta di fluidificazione comunicativa della semantica del sacro, possa permettere alla componente secolare di rimanere sensibile alla forza di articolazione dei linguaggi religiosi e di avvalersene per incrementare il potere comunicativo della sfera pubblica. Ciò però non impedisce che la separazione istituzionale tra religione e politica si trasformi in un peso mentale e psicologico che lo Stato liberale finisce per imporre ai suoi cittadini credenti, minacciandone l’integrità etica di persone devote dal momento che la loro esistenza si lascia guidare, sotto ogni aspetto, dalle proprie convinzioni di fede. Ora, seguendo questa linea argomentativa, si potrebbe arrivare a sostenere che se il ruolo che la religione assume nella vita del credente è tale da imporgli di modellare l’intera esistenza, inclusa la sua dimensione sociale e politica, obbedendo alla Parola di 24. J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., pp. 178-179.

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Dio, alla Torah o all’esempio di Gesù, non sarebbe incoerente sostenere che le convinzioni religiose abbiano diritto di essere inserite nell’agenda pubblica come tali, anche quando non trovano traduzioni o argomenti di ordine secolare. Una volta però che i cittadini devoti vengano dispensati dall’offrire ragioni laiche a prescindere dalle parallele motivazioni religiose, si dovrebbe concludere che le sole norme destinate a “contare” oltre la soglia istituzionale possano essere unicamente quelle che si configurano come l’esito di trattative o di formazioni di compromesso, poggianti più sul precario equilibrio di una moratoria o di un modus vivendi provvisorio che su condivisi presupposti normativi. La questione non si gioca pertanto sulla possibilità che le posizioni dei cittadini credenti trovino ammissione negli anonimi circuiti della sfera pubblica, ma sulla eventualità che ciò si verifichi sulla base di una sorta di “extraterritorialità” discorsiva che rimane insensibile al “‘richiamo’ di alcuna ragione laica”,25 e cioè anche quando le ragioni religiose si dimostrino impermeabili a ogni procedura discorsiva capace di farle emergere nella forma modificata di argomentazioni universalmente accessibili. Quando Habermas prevede, a questo proposito, che i cittadini, credenti e non credenti, si affidino a operazioni cooperative di traduzione, è ragionevole pensare che preveda situazioni e circostanze particolari tali da consentire ad alcune voci religiose, ma non a tutte, il diritto di sottrarsi all’obbligo di rinunciare all’uso politico di ragioni che si presumono private. In questo senso, potrebbero essere esentate dalla “riserva di traduzione” le religioni che hanno rinunciato a ogni pretesa rivolta “al monopolio dell’interpretazione e alla totale strutturazione della vita” e hanno saputo adeguarsi “alla laicizzazione del sapere, alla neutralizzazione dell’autorità statale e alla generalizzata libertà di culto”26 – come per esempio le religioni protestan25. P.J. Weithmann, Religion and the Obligations of Citizenship, Cambridge University Press, Cambridge 2002, p. 157 (citato in J. Habermas, “La religione nella sfera pubblica”, cit., p. 31). 26. J. Habermas, “Fondamenti pre-politici dello Stato di diritto democratico?”, in Tra scienza e fede, cit., p. 16.

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ti, che si sono sottoposte a una ristrutturazione cognitiva capace di promuovere una modalità riflessiva della fede. Non però le religioni le cui dottrine e forme di vita continuano ad aderire a posizioni che risalgono a origini anteriori alla laicizzazione dello Stato e della società, e nelle quali trova espressione la volontà di fare ritorno all’esclusività premoderna dei comportamenti di fede e di ripristinare i nessi che si credevano superati tra consenso normativo, immagine del mondo e sistema istituzionale. Ciò però significa violare il principio che assicura la pari equiparazione giuridica di tutti i cittadini, credenti, non credenti e diversamente credenti. L’onere della giustificazione in termini di ragione pubblica non può essere considerato esterno rispetto allo stesso diritto egualitario e ripartito in maniera asimmetrica a seconda della diversa capacità delle religioni di adattarsi all’ethos e alle procedure imposti dalla modernizzazione. Se vi è qualcosa di illegittimo in merito all’“uso pubblico della ragione” come imposto da un “dovere di civiltà”, perché ne dovrebbero essere esentati solo i cittadini credenti che vivono nella consapevolezza riflessiva della propria “non esclusività”, e non anche i membri di confessioni religiose a cui la cultura democratica non sarebbe in alcun modo disposta a riconoscere il predicato di “ragionevole”? In questo caso, il modello di democrazia deliberativa promosso da Habermas porrebbe restrizioni ingiustificate all’apertura dell’agenda del dibattito pubblico e l’impossibilità di uscire dal guscio delle rispettive concezioni del bene renderebbe necessario attingere unicamente a convinzioni comuni capaci di reggere il peso di un “accordo sul disaccordo”. In realtà, non vi è nulla di illegittimo nel “dovere di civiltà” introdotto da Rawls. Né, soprattutto, esso sovraccarica con indebiti pesi mentali e psicologici i cittadini, credenti e diversamente credenti. Lo scrupolo morale che porta i cittadini a “prendere sul serio” visioni del mondo che rappresentano, tanto per gli uni quanto per gli altri, una vera e propria sfida esistenziale, non richiede, come si è visto, alcun sacrificio delle rispettive posizioni cognitive. Il solo obbligo generalizzato che sono tenuti a rispettare in una sfera pubblica priva di limitazioni riguarda la necessità 213


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di sottoporre le questioni normative controverse al vaglio di un processo pubblico aperto a tutti i cittadini. Articolare una prospettiva civica improntata a una mentalità laica e secolare aperta alle ragioni altrui non significa però condividerle: significa piuttosto mettersi alla ricerca di una soluzione che, facendo entrare in gioco la forza razionalmente motivante dell’argomento migliore, possa risultare egualmente “buona” per tutti rispetto all’obiettivo di procurare legittimità al diritto statuito. Se perciò non è affatto necessario che le ragioni di cui è necessario avvalersi nel “foro politico pubblico” vengano ricavate dalle rispettive posizioni cognitive, non vi è neppure alcuna ragione per addossare ai cittadini devoti l’onere di un dissenso cognitivo che alla lunga potrebbe essere insanabile. Di più: non sono i cittadini devoti, sono piuttosto i cittadini laici a dover coltivare l’abito mentale coerente con il “richiamo” delle ragioni secolari ogniqualvolta intendano rendersi disponibili a ratificare una decisione, raggiunta discorsivamente e razionalmente motivata, improntata all’orizzonte delle verità di fede. Dal canto loro, i cittadini devoti non possono pretendere che le convinzioni esistenziali radicate nella religione siano di per sé sufficienti a fornire una base di legittimazione adeguata a prese di posizione assunte con intento politico, dal momento che nelle società moderne non è più possibile fondare le ragioni convincenti sull’autorità di tradizioni indiscutibili. A meno che non intendano rimanere, per citare l’espressione di Habermas, “monoglotti”, spetta anche a loro l’onere cognitivo e il “dovere di civiltà” di “prendere sul serio” le ragioni e gli argomenti della controparte secolare, sia per sollevare obiezioni nei confronti delle pretese di validità difese dalla controparte laica o di altra fede, sia per riscattare discorsivamente questioni che assumono, dal punto di vista delle certezze della fede, valore di principio. Se partecipare allo scomodo processo dell’intesa discorsiva non equivale a rendersi vulnerabili a una possibile compromissione della propria integrità etica, non vi è alcuna linea argomentativa diretta che trasformi il diritto di impiegare argomentazioni religiose nel diritto supplementare di essere esonerati dal recupero discorsivo delle giu214


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stificazioni che le devono supportare. Né il diritto dei cittadini democratici di inserire nei loro contributi alla sfera pubblica le rispettive posizioni cognitive equivale al diritto supplementare di vedersi riconosciuta una protezione addizionale della loro integrità. La deliberazione pubblica servirebbe a ben poco se i cittadini potessero partecipare alle consultazioni e alle discussioni politiche servendosi dei contenuti cui attribuiscono una forza ispiratrice valida per l’intera società senza, al contempo, soddisfare il principio che impone di verificare se le loro pretese di validità possano essere difese con successo alla luce dei migliori argomenti disponibili. Eventuali dissonanze cognitive possono nascere soltanto nella eventualità di una collisione normativa con pretese alternative di validità. Dal momento però che ogni singola fede deve misurarsi con il (necessario e inevitabile) pluralismo di credenze religiose diverse e con lo scetticismo del sapere scientifico-profano, non è la discussione pubblica a imporre una qualche (eventuale) forma di dissonanza cognitiva: la discussione pubblica può contribuire piuttosto a risolverla – un’eventualità forse migliore rispetto a quella che cerca semplicemente di evitarla. Lo statuto particolare di cui godono le ragioni secolari quando superano la soglia istituzionale non è uno speciale “privilegio” che debba essere compensato accordando una riserva di extraterritorialità alle certezze religiose. Più semplicemente, è la forma positiva che assicura a tutti i cittadini una via di scampo quando le circostanze che innescano i conflitti di valore corrono il rischio di trasformarsi in ostilità radicali.

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