Prospettiva EP gennaio agosto 2012

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Anno XXXV n. 1-2 Gennaio - Agosto 2012

prospettiva EP Protagonismo a scuola Studenti Genitori Docenti


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Quadrimestrale di Educazione permanente Rivista fondata da Mario Mencarelli gennaio - agosto 2012 - n. 1-2 Direttore: SIRA SERENELLA MACCHIETTI Comitato Scientifico: FERDINANDO ABBRI, GIUSEPPE ACONE, GABRIELLA ALEANDRI, SERGIO ANGORI, WINFRIED BÖHM, ROSSANA CUCCURULLO, FABRIZIO D’ANIELLO, ANNA GLORIA DEVOTI, JUAN GARCIA GUTIERREZ, JOSÉ ANTONIO IBÁÑEZ-MARTIN, ROSETTA FINAZZI SARTOR, FERDINANDO MONTUSCHI, LANFRANCO ROSATI, GIUSEPPE SERAFINI, BIANCA SPADOLINI, GIUSEPPE VICO Redazione: NICOLETTA BELLUGI, FRANCA PUGNALINI Redazione e direzione: c/o Mencarelli – Via F.lli Bimbi, 20 – 53100 Siena Amministrazione: Armando Armando Editore Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Tel. (06) 5894525 Fax. (06) 5818564 ABBONAMENTI 2012 Abbonamento annuo per l’Italia Un fascicolo Un fascicolo doppio Abbonamento annuo per l’estero

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I manoscritti e i libri vanno inviati alla redazione. I manoscritti, anche se non pubblicati, non si restituiscono. Alla redazione vanno inviate anche le riviste in cambio.

Autorizzazione del Tribunale n. 70/94 del 23.2.1994 ISSN-1125-39-75


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Quadrimestrale di Educazione permanente Rivista fondata da Mario Mencarelli gennaio - agosto 2012 - n. 1-2

Protagonismo a scuola. Studenti Genitori Docenti Protagonismo e responsabilità (s.s.m.) Studi C. SIRNA, Protagonismo a scuola: studenti, genitori, docenti S.S. MACCHIETTI, Il protagonismo tra persona e comunità G. SERIO, Il protagonismo dei giovani: il ruolo della famiglia e delle associazioni F. PULVIRENTI, Scuola, protagonismo e responsabilità: aspetti epistemologici e linee d’intervento M. PICCINNO, Scuola e partecipazione dalla funzione al bene comune A. MICHELIN SALOMON, Il protagonismo anomalo dei bulli: che fare? B. GRASSELLI, Il protagonismo dei soggetti con problemi. Ricomporre e comprendere la relazione d’aiuto nel processo di integrazione

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Gruppi di lavoro: 1. Protagonismo e Scrittura F. BONGIORNO, Protagonismo e scrittura in classe A. VERSACE, Protagonismo tra scrittura e narrazione di sé A. CARAPELLA, La scrittura come valorizzazione della persona I. GIUNTA, Giovani epistemologi: nuove forme di protagonismo a scuola. Riflettere con Morin sulla necessità di porsi al centro del mondo 2. Protagonismo e materiali didattici A. LENZO, Progetto G.I.O.CO. cone costruzione dei materiali di lavoro P. CASSALIA, Laboratorio OpenLab system, L.I.M. e sport: mediatori del protagonismo scolastico D. DE SALVO, Protagonismo e materiali didattici


3. Protagonismo dei docenti T. GARAFFO, Contesto educativo e metacognizione. Riflettere sull’esistente per progettare il futuro

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4. Protagonismo e ambiente partecipativo S. D’ARRIGO, A. DE DOMENICO, La didattica informale del laboratorio scientifico Exhibit e Origami A. TIGANO, Laboratorio filosofico e didattica orientativa: strumenti del protagonismo scolastico

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5. Protagonismo nell’ambiente locale V. MUNAFÒ, Scuola e territorio nell’emergenza: condivisione e collaborazione M. QUARTARONE, Protagonismo del terzo settore. Una prospettiva di pedagogia solidale

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Ricerca C. CELAIA, Considerazioni pedagogiche sulla teoria della mente

Recensioni Aa.Vv., Volti e cuori della Divina Provvidenza - Don Orione e alcuni benefattori tra Milano e Genova (Elena Valli) » M. Venza, C’era una volta il cielo… (Elena Valli) » A. Bobbio, Pedagogia dell’infanzia e cultura dell’educazione (Nota redazionale) » R. Deluigi, Animare per educare… (Lorena Milani) » R. Sani, D. Simeone, a cura di, Don Lorenzo Milani e la Scuola della Parola (Erika Nocentini) » Aa.Vv., Barbara Micarelli, attualità del carisma (Alessandro Cesareo) » A. Artini, a cura di, Formazione tra scuola e impresa. Formazione e sviluppo di un consorzio di scuole come agenzia formativa (Nota redazionale) »

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PROTAGONISMO E RESPONSABILITÀ

Questo fascicolo di «Prospettiva EP» presenta gli Atti del XXVI Congresso Nazionale dell’Associazione Pedagogica Italiana (As.Pe.I.) sul tema Protagonismo a scuola. Studenti genitori docenti, che è stato celebrato a Noto nei giorni 14-16 aprile 2011. Nel corso di questo Congresso è stata affrontata costruttivamente e da diverse prospettive una questione di grande attualità e di notevole importanza agli effetti della ricomprensione del significato della scuola, della sua natura educativa, culturale e comunitaria. La scelta del tema, come scrive Concetta Sirna, Presidente Nazionale dell’As.Pe.I., è dovuta alla volontà di verificare come questa istituzione è consapevole delle problematiche e delle logiche che supportano il protagonismo, di «comprendere se e come tiene conto delle sue implicazioni sul piano operativo e apprenditivo» e, soprattutto, come e se riesce ad interpretarlo «pedagogicamente, traducendolo nell’esperienza didattica, fino a farlo diventare un punto di forza per le persone che al suo interno operano e interagiscono». Pertanto il protagonismo è la parola chiave di tutti i contributi pubblicati in questo fascicolo i quali si collocano in prospettive diverse e complementari e, comunque, grazie anche alla varietà dei loro contenuti, riescono a far chiarezza sui significati del protagonismo, sulla responsabilità che domanda, sulle sue espressioni, sui suoi rischi, sulle opportunità di crescita personale e comunitaria che offre. Il primo segmento del fascicolo, che raccoglie le relazioni presentate all’inizio del Congresso, ha un carattere prevalentemente teorico e fondativo e si pone in un rapporto di coerenza con un’antropologia pedagogica attenta alla natura relazionale ed alla vocazione comunitaria dell’essere umano. In particolare riflette sull’etica della responsabilità, che sollecita gli educatori a prendersi cura delle nuove generazioni, a far fronte al “protagonismo anomalo dei bulli”, a ravvivare il coraggio di educare. Sottolinea inoltre la necessità di onorare l’identità culturale ed educativa della scuola, tenendo presenti i problemi emergenti di questa istituzione, quelli della famiglia e quelli dei giovani. Gli altri segmenti del volume presentano i lavori effettuati dai vari gruppi di studio che hanno consentito di approfondire questioni e temi già affrontati dalle relazioni, di conoscere materiali, esperienze e laboratori didattici innovativi. Inoltre rivolgono l’attenzione al protagonismo dei docenti…, al rapporto che intercorre tra il protagonismo, l’ambiente partecipativo e l’“ambiente locale” e propongono una “prospettiva di pedagogia solidale”.

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In effetti tutti i contributi, anche se non esplicitamente, fanno appello alla solidarietà educativa, alla corresponsabilità, all’impegno condiviso la cui realizzazione esige la presenza di motivazioni di carattere intrinseco ed etico le quali sono indispensabili per onorare la natura comunitaria e formativa dell’istituzione scolastica. Si tratta quindi di contributi che testimoniano una notevole consapevolezza pedagogica dei problemi, delle risorse, dei compiti e delle finalità della scuola, un’autentica passione educativa ed anche il possesso di competenza e creatività didattica. «Prospettiva EP» pertanto ringrazia l’As.Pe.I. e in particolare Arturo Carapella, che ha collaborato all’organizzazione di questo fascicolo, e gli autori dei vari articoli che, con le loro narrazioni, con le loro riflessioni e con le loro proposte, hanno scritto pagine significative di pedagogia della scuola ed hanno offerto motivi di speranza, di quella speranza che, quando è affidabile, è l’anima dell’educazione. s.s.m.

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PROTAGONISMO A SCUOLA: STUDENTI, GENITORI, DOCENTI Concetta Sirna Abstract: The text presents and discusses the socio-cultural and psycho-educational implications of the “protagonism”. It emphasizes the ambivalence of this term and exposes many problems involved in this phenomenon. It would be desirable that students, teachers and families have opportunities for participation in school life as protagonists. Unfortunately, there are also some forms of protagonism that are not acceptable, as bullying and arrogance. The misuse of the protagonism has negative effects not only on personal growth but also on social, educational and teaching innovation processes. Instead, if everyone contributes positively and in original way to school life, it is possible to start a real school improvement and learning enhancement that enriches all participants. This new form of participation, both choral and diversified, can be called “intercultural protagonism”: it is a great relevance project for the present and the future. Riassunto: Presentando la tematica del protagonismo nei suoi risvolti socio-culturali e nelle implicanze psico-educative, il testo ne evidenzia le ambivalenze e le numerose problematicità connesse con la percezione che di esso prevale nei contesti attuali. I rischi connessi ad un uso distorto del protagonismo, sia sul piano della crescita personale che in termini di processi innovativi in campo sociale, educativo e didattico, inducono a riconoscere la necessità di una più corretta definizione di questo principio che, se opportunamente interpretato ed efficacemente coniugato in sede operativa, può diventare invece strumento ed occasione di rinnovamento e di crescita. L’Associazione Pedagogica Italiana, che ha assunto questo tema come fulcro di una riflessione articolata per i suoi lavori congressuali, può ritrovare in esso un valido spunto per rileggere la propria tradizione e per proiettarsi verso nuove forme di “protagonismo interculturale” che rappresentano, allo stesso tempo, un segno di continuità ideale con i principi statutari ed un progetto ideale attualissimo per il presente e per il futuro.

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Parole chiave: protagonismo e partecipazione, attività scolastiche, emergenza educativa, autonomia scolastica, valorizzazione delle diversità. Ogni volta che l’accelerazione dei processi trasformativi rende più visibili i mutamenti culturali in corso, torna alla ribalta il tema dell’educazione e si parla di emergenza educativa. Significa che la coscienza collettiva percepisce l’esistenza di una frattura da ricomporre, quasi una ferita da risanare. Non sempre, tuttavia, si riescono a leggere con lucidità e lungimiranza i processi in atto cogliendone la complessa dinamica: prevale piuttosto la tentazione di negare valore alle novità e di contenere e comprimere le inevitabili trasformazioni, giudicandole come elementi degenerativi. Ma, anche quando ci si convince della necessità di accettare ed introdurre elementi di novità, si rischia spesso di enfatizzare eccessivamente il peso delle tecniche, ritenendole taumaturgiche e risolutorie. In realtà non è possibile evitare il peso e la fatica connessi con la introduzione e gestione di trasformazioni culturali che coinvolgono globalmente e profondamente la persona in tutti i suoi aspetti, da quelli più estrinseci e superficiali a quelli che la strutturano nel profondo e che regolano le sue convinzioni ed il suo stile di vita. Ecco perché si rischia di fallire sia che si diffidi pessimisticamente di tutte le innovazioni sia quando si pensa, troppo ottimisticamente, di poter gestire le trasformazioni limitandosi a cambiare soltanto i supporti tecnici, senza sforzarsi di comprendere ed interpretare gli eventi ed i contesti e senza modificare anche le logiche e le finalità d’uso dei nuovi strumenti disponibili. Non è così che si evitano gli effetti problematici né si può allontanare l’emergenzialità ma, piuttosto, la si rende ingestibile perché ci si incammina con i paraocchi su percorsi tortuosi e pericolosi. Quando l’attenzione è incentrata sulle tecniche piuttosto che sulle relazioni, il soggetto tende a sottovalutare la forza della pluralità di nessi che lo collegano e lo vincolano alla realtà: egli è tentato, invece, a concentrarsi esclusivamente su se stesso e sull’obiettivo da raggiungere, indotto a guardare con diffidenza gli altri, a difendersi ed a cercare capri espiatori sui quali scaricare le tensioni negative e gli eventuali insuccessi. Non proiettare più all’esterno il focus dei processi e recuperare la “soggettività”, come locus of control di primaria importanza, è invero una delle conquiste più rilevanti del secolo che abbiamo appena trascorso. La cultura del soggetto, che si è affermata e diffusa nel mondo occidentale e nella quale siamo tutti immersi, ha prodotto il protagonismo come via maestra di umanizzazione e di conquista del mondo. Ne è espressione, in primo luogo, la società della comunicazione multimediale nella quale viviamo, dove siamo tutti pronti a dichiarare,

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sottoscrivere, firmare: tutti aspiriamo ad essere presenti, in prima fila, attori ed autori di quanto succede, vogliosi di renderci visibili a tutti e di affermarci come soggetti. Quello del protagonismo è un messaggio esplicito, ormai ampiamente e capillarmente diffuso, soprattutto tra le nuove generazioni, tanto più pervasivo perché alimentato nella pratica quotidiana dall’affermarsi di un antiautoritarismo libertario, accompagnato da voglia di trasgressività e di avventura. L’enfasi sulla scelta soggettiva come motore della realtà fa sì che ciascuno rivendichi il suo diritto al protagonismo indipendentemente, e spesso anche in contrapposizione, con le istanze della vita comunitaria, con la normatività che questa pretende di affermare e con l’autorità che intende esercitare. La connessione tra i soggetti sembra rispecchiare quindi, come dice Bauman, una nuova struttura sociale “a sciame”, dove non ci sono più vincoli gerarchici e costrittivi espliciti che regolano il movimento comune ma soltanto segnali, che ciascuno è libero di interpretare e seguire. I contesti all’interno dei quali ci muoviamo inducono, di fatto, le persone ad illudersi di poter giocare il proprio protagonismo in assoluta libertà, al di fuori della definizione di “doveri” comuni e seguendo soltanto il proprio istinto e il proprio piacere1, mantenendo comunque e in ogni caso una positiva connessione con gli altri. Forse è venuto il tempo di chiedersi cosa sia e come funzioni questo nuovo protagonismo che tutti ricerchiamo e che, più o meno inconsciamente, in vario modo agiamo nei territori della quotidianità. Sono da analizzare con lucidità e accortezza costi e benefici individuali e sociali dei nuovi modelli relazionali, dei vissuti e degli stili di vita e di pensiero che con esso si sono andati affermando. Definire il protagonismo, connotarlo nelle sue valenze ed implicazioni umane e sociali, riscriverne le caratteristiche secondo l’ottica pedagogica ci è sembrato un compito attuale e di non poco conto, particolarmente nel nostro tempo complesso ed incerto. Siamo convinti che assolvere ad esso può evitarci di oscillare pericolosamente, come tuttora continuiamo a fare, tra il rischio dell’omologazione nell’anonimato di un mondo globalizzato e la ricerca di un’autoaffermazione oppositiva e trasgressiva, tra l’affievolirsi dell’esigenza di senso comunitario e l’affermarsi della follia distruttiva di tanti nuovi comunitarismi ossessivi e fondamentalisti. Anche l’educazione e le istituzioni che maggiormente la incarnano e ad essa sono vocate non rimangono indenni da queste problematiche: sono sfidate da questo principio il cui valore, proprio per la sua plurisemanticità, risulta particolarmente ambivalente e la cui attuazione potenzialmente rischiosa. I pedagogisti e gli educatori non possono non interrogarsi sulle caratteristiche di questo protagonismo spesso auspicato e ambito, a volte rifiutato e negato, più spesso disconosciuto e ignorato.

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È importante capirne le caratteristiche e le influenze sulla crescita, il valore di cui è carico ma anche i pericoli che lo accompagnano: urge comprendere, cioè, se e come esso entri nelle realtà educative e nei processi sociali. È doveroso verificare, soprattutto, come la scuola oggi sia consapevole delle problematiche e delle logiche che lo supportano e l’accompagnano, comprendere se e come essa tenga conto delle sue implicazioni sul piano operativo e apprenditivo e, soprattutto, se e come riesca ad interpretarlo pedagogicamente, traducendolo nell’esperienza didattica, fino a farlo diventare un punto di forza per le persone che al suo interno operano e interagiscono. Rendere gli studenti, i genitori e i docenti protagonisti a scuola significa costruire una comunità di lavoro che si corresponsabilizza e potenzia le proprie risorse creando sinergie positive. Significa attivare energie, spesso sopite o trascurate, interne ed esterne alla scuola, e riuscire ad utilizzare le capacità professionali ed umane di un territorio creando nessi e strutturando reti che possano valorizzare l’intero patrimonio disponibile. Ecco perché abbiamo pensato che questo tema dovesse essere esplorato e dibattuto a più voci nel Congresso nazionale dell’Associazione Pedagogica Italiana, Associazione che dell’agire riflessivo sui processi e sulle pratiche educative ha fatto il suo compito. E crediamo lo debba fare, a maggior ragione, in un momento storico di grande fibrillazione sociale e politica, come è quello che stiamo attraversando nel mondo, in particolare nel Mediterraneo orientale, con il sommovimento di intere popolazioni alla ricerca di libertà e protagonismo. Lo facciamo in un anno particolare, dedicato alle celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia, ricordandoci come i processi di unificazione e di integrazione tra diversi non siano mai semplici, perché accompagnati da aspirazioni, speranze, paure, conflitti che esigono e suscitano protagonismi di varia natura, non sempre facili da gestire. La riflessione che facciamo è utile anche per valutare come abbia contribuito ad incentivare il protagonismo, non soltanto delle istituzioni scolastiche ma di tutta la società, nelle sue varie componenti, la legge 59 del 1997 sull’autonomia delle pubbliche amministrazioni e la successiva normativa sull’autonomia scolastica. Capire, cioè, cosa sia maturato nella coscienza e nella cultura collettiva dei vari soggetti che variamente si interrelano nelle istituzioni scolastiche e sociali di oggi, dopo oltre un decennio in cui è stato affermato formalmente il principio di sussidiarietà e di inclusione. Diventa utile, infatti, evidenziare in che modo e con quali esiti nel nostro Paese siamo stati capaci di ottimizzare le risorse comuni individuando, riconoscendo e potenziando le capacità individuali. Siamo tutti convinti che, nel tempo della comunicazione, la scuola

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non possa disconoscere le forme positive di leading role, che debba anzi saperle saggiamente e proficuamente potenziare, producendo convergenza solidale e responsabile di scuola, famiglia e comunità sociale. Ma, soprattutto, crediamo che essa debba sapersi opporre alla tentazione suggestiva ed accattivante dello pseudo-protagonismo massmediale, spesso degradante, trasgressivo e violento, che tanto fascino ha sui giovani. Il Congresso diventa, quindi, un luogo dove è possibile documentare quante e quanto varie siano le possibilità di protagonismo positivo ed arricchente che, fortunatamente, ancora tanti valorosi docenti, educatori, formatori e dirigenti riescono ad attivare, sfruttando la forza dirompente e creativa dei loro compagni di viaggio e dei loro allievi. Partire da queste realtà positive equivale a mettere in luce il potere, forte e silenzioso, dei tanti “operai del bene comune” che prestano la propria testa e le proprie braccia per costruire e migliorare la vita quotidiana di tutti. Essi, grandi e piccoli, rappresentano quel volto positivo sul quale si fonda la speranza di un futuro più degno di essere vissuto e costituiscono il perno su cui fare leva. Le buone prassi, smentendo nei fatti il disfattismo di tanti facili profeti di sventure, testimoniano l’impegno ed il sano protagonismo dei tanti docenti, genitori e allievi che hanno a cuore ancora l’educazione e la crescita della persona e della comunità umana. Ringrazio sentitamente tutti i relatori partecipanti a questo XXVI Congresso dell’As.Pe.I. per aver accettato di rileggere questo tema, che rappresenta anche per l’Associazione una occasione di riflessione che l’aiuterà a capire meglio come essa possa reinterpretare nella società attuale quel protagonismo che l’ha caratterizzata da sempre. Già la sua rinascita nel 1950, sotto la guida di Giovanni Calò e la collaborazione di Ernesto Codignola, aveva rappresentato infatti un modo per contribuire a ricostruire la società e la scuola italiana dopo la tragedia, i lutti e le fratture lasciate dal conflitto mondiale e da un clima ideologico e politico esasperato. Voleva essere, e allora ci riuscì, un modo per essere protagonisti della ricostruzione di una nuova società democratica, capace di realizzare quei fondamentali valori di libertà, di giustizia e di solidarietà, sprezzati e soffocati dal fascismo e messi in forse dal clima di conflittualità e di disperazione imperanti nel dopoguerra. Altrettanto protagonisti di crescita umana e sociale sono stati, ognuno in modo originale e aderente ai bisogni del proprio tempo, gli illustri pedagogisti che si sono succeduti nella presidenza dell’Associazione, da Cecilia Motzo Dentice di Accadia ad Aldo Agazzi, Mauro Laeng, Mario Mencarelli, Lamberto Borghi, Claudio Volpi, Serenella Macchietti, Giuseppe Zanniello. Ognuno è stato protagonista e innovatore e, con uno stile proprio, ha sostenuto e segnato il percorso dell’Associazione, traghettandola verso nuovi lidi e dando un contributo originale alla cultura pedagogica del proprio tempo (es. apertura all’educazione permanente,

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rinnovamento delle istituzioni scolastiche e formative, valorizzazione dell’innovazione tecnologica nei processi di apprendimento, accreditamento della dimensione formativa dell’Associazione, valorizzazione e recupero della memoria storica, facilitazione del dialogo associativo interno e rinnovamento statutario, ecc.). Anche oggi l’As.Pe.I., allacciandosi alla operatività e fecondità della sua gloriosa tradizione, può e deve riprendere il cammino e rinnovare il suo protagonismo continuando ad adempiere alla sua vocazione speciale di Associazione senza fini di lucro, che persegue scopi di natura culturale. Essa può contribuire, attraverso il lavoro dei suoi soci, a diffondere e rafforzare la cultura pedagogica e sostenere il cammino delle necessarie trasformazioni istituzionali, sociali e culturali di cui oggi il Paese e le persone tutte sentono il bisogno. Lo può fare raccordandosi con tutte le forze positive in campo proprio perché, non avendo carattere sindacale né collocazione ideologica, politica o religiosa, si avvale del dialogo fra persone di diverso orientamento culturale e valoriale per promuovere forme di cittadinanza attiva e solidale. Ringrazio, a nome dell’Associazione, l’Università di Messina e il CUMO (Consorzio Universitario del Mediterraneo Orientale) che, mettendo a disposizione la bella e prestigiosa sede universitaria di Noto, hanno consentito che il Congresso dell’As.Pe.I. tornasse in Sicilia dopo 20 anni (l’ultimo Congresso è stato a Vittoria, curato dal compianto socio prof. Cavallo, di cui si ricorda questo anno il decennale dalla morte). Vogliamo festeggiare questo ritorno nella terra siciliana, da sempre crocevia di popoli e di culture, come l’occasione per rileggere in modo nuovo il compito dell’As.Pe.I. Auspichiamo, soprattutto, che il Congresso possa prendere l’avvio di un nuovo percorso e rappresenti la prima tappa di un inedito e oggi quanto mai necessario “protagonismo interculturale”, che veda l’Associazione sempre più impegnata a potenziare il dialogo tra diversi e l’interscambio arricchente. In un mondo sempre più globalizzato ed interconnesso, ma che continua ad essere attraversato da tante diversità e da numerosi e variegati conflitti che mettono a rischio la governance e la coesione sociale, in una realtà bisognosa di sempre più articolate interpretazioni e di nuove complesse mediazioni, l’Associazione Pedagogica Italiana deve accogliere la sfida e ridiventare protagonista e partecipe dello sforzo educativo di progressiva ricostruzione ed umanizzazione. Essa può e deve offrirsi ancora, come ha sempre fatto, come luogo di confronto continuo di culture e di esperienze, laboratorio di nuove riflessioni e nuove pratiche interculturali nella convinzione che, come recita il suo motto, “educarsi è crescere insieme”.

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Presentazione dell’Autore: Concetta Sirna, Ordinaria di Pedagogia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Messina, Coordinatrice del Dottorato in Pedagogia e Sociologia interculturale, dirige le collane “Agorà” e “Intercultura” presso l’editrice Pensa Multimedia di Lecce e la rivista online «Quaderni di Intercultura». I suoi interessi di ricerca gravitano attorno ai temi della comunicazione linguistica, dell’educazione interculturale, della formazione docenti e dei fondamenti epistemologici dell’operatività didattica. Tra le pubblicazioni si ricordano: Pedagogia interculturale. Concetti problemi, proposte (Guerini, 1996); Postcolonial education e società multiculturali (Pensa Multimedia, 2003); la curatela di diversi volumi: Tempo formativo e creatività, 2007; (assieme a Michelin Salomon) Operatività, ludicità, cooperazione. Idee percorsi e buone pratiche a scuola (2005) e Bullismo, protagonismo anomalo (2009); (assieme a F. Hamburger) Intercultura come progetto politico e come pratica pedagogica (2008); numerosi contributi su riviste scientifiche e su volumi collettanei.

Note 1

Z. Bauman (2007), Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Trento, Erickson.

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IL PROTAGONISMO TRA PERSONA E COMUNITÀ Sira Serenella Macchietti Abstract: The article is placed in a relationship of coherence with “the education of the person”, it is articulated in three segments and reflects on the identity, the specificity and schools tasks and on the cultural nature, relational, educational and communal. In this perspective the school is shaped like a place of educational reciprocity in which (teachers, pupils, parents) are all called for being protagonists and responsibles of the community’s construction and to realize an increase process on the ethical plan, then on both cultural and social. Riassunto: L’articolo si colloca in un rapporto di coerenza con la “pedagogia della persona”, si articola in tre segmenti e riflette sull’identità, sulla specificità e sui compiti della scuola e sulla natura culturale, relazionale, educativa e comunitaria. In questa prospettiva la scuola si configura come un luogo di reciprocità educativa in cui tutti (docenti, alunni, genitori) sono chiamati ad essere protagonisti e responsabili della costruzione della comunità e a realizzare un processo di crescita sul piano etico, su quello culturale e su quello sociale. Parole chiave: scuola, individuo, uomo, persona, comunità. Il Congresso Protagonismo a scuola. Studenti Genitori Docenti è una testimonianza dell’attenzione dell’As.Pe.I. per la scuola e della volontà di onorare le sue potenzialità educative e democratiche. In questa prospettiva il termine protagonismo non ha un significato negativo1 ma viene usato con l’intento di sottolineare che gli studenti, i genitori e i docenti sono chiamati ad essere protagonisti della vita della scuola e ad onorare, rinnovare e ricostruire la sua identità in coerenza con la sua natura istituzionale e con la sua vocazione educativa e culturale. Questo contributo si colloca in un rapporto di coerenza con la prospettiva in cui si pone il Congresso e, confrontandosi rapidamente con la pedagogia della persona, prospetta alcuni traguardi formativi personali e comunitari e si articola in tre segmenti: Ripensare la scuola alla luce della pedagogia; Individuo, uomo, persona e comunità; Per costruire la comunità.

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Ripensare la scuola alla luce della pedagogia La scuola è un’istituzione educativa, nella quale, come avviene per ogni istituzione, sono presenti una componente “passiva” ed una “attiva”. Ha infatti strutture, norme, compiti specifici da accettare e far accettare, è un’istituzione “culturale” “socialmente riconosciuta” ed anche “giuridicamente regolata”, alla quale è affidato il compito di consentire a coloro che la frequentano di concretizzare il diritto all’educazione (Nanni, 2008, 614). Ha una componente “attiva” perché non può non essere attenta ai modelli culturali che cambiano, ai comportamenti degli alunni che sono influenzati da questo cambiamento, all’ampliamento della cultura, alle nuove “conoscenze”, alla situazione multiculturale che stiamo vivendo, agli emergenti bisogni di educazione e alle istanze di democratizzazione… Oggi nella scuola, come d’altronde in altre istituzioni educative e in particolare nella famiglia, è possibile rilevare qualche segno di disorientamento dovuto forse alla frammentarietà che caratterizza la cultura della post-modernità, alla multiculturalità, alla globalizzazione, alle trasformazioni determinate dalla diffusione delle tecnologie, dal cambiamento delle condizioni sociali, economiche, occupazionali e soprattutto dalla “rivoluzione antropologica” alla quale si collega la mancanza di coraggio e di speranza nel futuro. Si avverte inoltre la presenza di quel relativismo che nella nostra società e nella nostra cultura è diventato “una sorta di dogma”, il quale induce a rinunciare alla ricerca di ciò che è bene, della verità, del senso della vita e del significato dell’educazione che rischia di ridursi alla trasmissione di determinate conoscenze e di alcune abilità… Talvolta si può anche constatare quasi una rinuncia a pensare pedagogicamente cioè ad interrogarsi sulla natura, sull’identità, sulle finalità dell’istituzione scolastica e sul significato dell’educazione e del suo rapporto con la cultura che gli alunni hanno il diritto e il dovere di conquistare e di produrre. Pertanto nel lessico che viene comunemente usato nella scuola non frequentemente sono presenti parole ed espressioni di natura pedagogica ed abbondano termini che provengono dal mondo dell’azienda, da quello del commercio, dell’economia e dal parlare “comune”. In questo clima culturale talvolta i docenti sono tentati di abdicare ai propri compiti educativi e fanno fatica a comprendere quale è il loro ruolo e rischiano di essere vittime della diffusione di una cultura che subdolamente li esorta ad essere insegnanti e non educatori e che identifica l’azione scolastica con l’attività di insegnamento-apprendimento. Questa cultura ha facilitato il trionfo di un didatticismo che spesso induce ad

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imitare “modelli” pensati, elaborati e sperimentati da altri piuttosto che ad impegnarsi per costruire e realizzare progetti educativi adeguati alle situazioni in cui si opera ed ai soggetti per i quali e con i quali si opera. Viene quindi banalizzato anche il significato dell’“apprendimento” e si dimentica che le discipline insegnate a scuola non sono un insieme di informazioni ma contesti organici di conoscenze che facilitano la “lettura” della realtà e la conquista di strumenti necessari per diventare capaci di procedere in modo autonomo alla sua interpretazione. Infatti promuovere “correttamente l’apprendimento”, come afferma il Bruner (il quale considera le discipline come particolari metodologie di pensiero applicabili a determinate categorie di fenomeni), significa consentire agli alunni di essere in grado di impossessarsi progressivamente delle strategie, dei metodi, dei linguaggi della scienza e di assimilare conoscenze funzionali ai processi cognitivi di natura scientifica. Quando ciò accade la scuola non tradisce il suo compito educativo ma non lo assolve completamente perché l’uomo vale non soltanto per le conoscenze che può conquistare e per la cultura che può produrre ma perché è una persona. Pertanto è doveroso non dimenticare che «lo scopo essenziale dell’istituzione scolastica è la promozione dell’educazione e della formazione della persona» e che il suo compito è quello di «renderla capace di vivere in pienezza e di dare il proprio contributo al bene della comunità» (Benedetto XVI, 2007). A questo proposito è opportuno precisare che spesso si parla di persona senza identificarla con l’essere umano in sé, testimoniando tuttavia attenzione per la sua dignità e per la sua identità personale (Xodo, 2003, 45 e segg.). Si può anche rilevare che nella cultura dell’educazione non mancano convergenze ampie nel riconoscere all’uomo (anche quando non si usa il termine “persona”) attributi ed aspetti qualitativi essenziali. Infatti è fortemente condivisa la considerazione dell’uomo come “un essere attivo”, che vale, che tende verso un fine ed esperisce la propria esistenza non come un agglomerato di singole attività ma in una prospettiva di integrazione unitaria. Si tratta di una concezione olistica, positiva e, sotto certi aspetti, ottimistica dell’essere umano, che è considerato nella sua unitarietà somato-psico-noetica in relazione con il contesto socio-culturale (Macchietti, 2008, 69-70). In questa prospettiva dell’uomo vengono valorizzate le qualità umane pertanto all’educazione e quindi anche a quella scolastica si chiede un impegno inteso a sviluppare tutto il potenziale ad esso “inerente”, facendo leva sulle virtù o le virtualità che gli vengono accreditate (speranza, volontà, fermezza di propositi, competenza; fedeltà; amore, cura e saggezza) (Macchietti, 2005, 5-16).

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Si tratta di una concezione dell’essere umano che la scuola è chiamata ad assumere e che chiede all’insegnante di pensare pedagogicamente cioè di non limitarsi a chiedersi “come posso insegnare?” ma anche di porsi questi interrogativi: chi educo? Come educo? Perché educo? Per rispondere alla prima di queste domande il docente dovrà confrontarsi con un’antropologia che riconosca il valore di ogni essere umano e poi dovrà cercare di conoscere ogni alunno. Dovrà dunque far ricorso all’osservazione, al dialogo, al rapporto ravvicinante e ai contributi delle scienze umane che studiano “l’educabilità dell’uomo”. In coerenza con una positiva visione dell’uomo il docente potrà dare una risposta alla domanda “perché educo?” e quindi individuare le finalità dell’educazione in cui dovranno convergere tutti gli obiettivi e i traguardi educativi che gli alunni conseguiranno durante il loro percorso scolastico. Inoltre il docente dovrà porsi la domanda “come educo?” alla quale dovrà dare delle risposte adeguate al soggetto “educando” per personalizzare gli interventi didattici e realizzare un’educazione personalizzata. La risposta a questa domanda postula la ricerca e la scelta delle tecniche, dei metodi di insegnamento, di verifica e di valutazione, delle modalità organizzative e soprattutto relazionali, del materiale didattico da utilizzare… Infine è perfino superfluo ricordare che soltanto chi pensa ed agisce “pedagogicamente” è in grado di educare gli studenti ad essere protagonisti della loro formazione, di aiutarli a realizzare un processo di educazione integrale ed a costruire una comunità della cui vita tutti si sentono responsabili.

Individuo, uomo, persona e comunità Una condizione indispensabile per educare ed anche per autoeducarsi è il possesso di una visione positiva dell’essere umano che non può non essere concepito come un individuo chiamato a costruirsi come uomo e come persona. Infatti quando l’essere umano nasce è un individuo che si trova a vivere in un “mondo particolare”, anche limitato, ristretto ed autoreferenziale, di cui acquisisce abitudini, costumi, modelli comportamentali e cresce seguendo questo ordine: si muove inizialmente nell’orizzonte dell’esperienza concreta, delle cose, del fare, poi si apre all’universo dell’intelligenza («con l’inclusione dell’attività intellettuale della comunità, della stirpe, della famiglia e dei popoli») e diviene uomo. Infine, mirando agli altri e in alto…, va verso il mondo “delle esperienze e delle

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aspirazioni spirituali” (Flori, 1997, 3) e diventa persona2, realizza cioè la sua vocazione, inserendosi in un ambito comunitario, e diventa capace di conquistare e di produrre cultura grazie alle sollecitazioni provenienti dalla cultura di altre persone. È la sua costituzione relazionale infatti che gli consente di costruirsi come persona, permettendogli di diventare se stesso solo dal “tu” e dal “noi” perché, come scrive Benedetto XVI nella Caritas in Veritate (CIV), «la creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali». Pertanto l’uomo più “vive in modo autentico” le relazioni più matura “la propria identità personale…”. L’uomo è infatti creato per il dialogo (Benedetto XVI, 2009, 53)3, per fare comunità, per la comunione sincronica e diacronica (Macchietti, 2008, 224-236)4. E solo l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’“io” a se stesso. L’educazione è autentica quando mira all’attivazione “integrale” della persona, ad orientarla “verso il senso globale di se stessa e della realtà”, a coltivarsi integralmente come soggetto in relazione, evitando il rischio della separazione tra le sue dimensioni costitutive e particolarmente tra la “razionalità” e l’“affettività”, la “corporeità” e la “spiritualità” e favorendo “l’armonia e la loro reciproca fecondazione”. Quando si realizza questa educazione l’essere umano diviene cosciente e padrone di sé, conquista la cultura e si impegna per arricchirla e per produrla, si sente responsabile nei confronti della natura, di se stesso e degli altri. È disponibile nei loro confronti ed è in grado di progettare la propria esistenza. A questo proposito assume una particolare importanza l’educazione morale preferibilmente ispirata all’etica delle virtù, la quale è chiamata a promuovere: – la fiducia nella propria realtà personale; – la conquista della competenza etica; – la capacità di cogliere nell’ambito in cui si opera significati buoni per sé e per la comunità e nei confronti delle istituzioni; – la disposizione a testimoniare la responsabilità personale e comunitaria; – la forza d’animo, il coraggio, la volontà di solidarietà e di sussidiarietà. Questa educazione costituisce la base di quella alla cittadinanza, la quale oggi non può non essere attenta alla multiculturalità, alla cittadinanza plurima, alla capacità di saper vivere da cittadini responsabili nella città, nel Paese, in Europa, nel mondo cioè nell’intera famiglia umana. Il conseguimento di questo traguardo domanda agli educatori di testimoniare attenzione, cura e premura per ogni soggetto umano e di considerarlo come un “valore” da custodire e da coltivare, di conoscere le condizioni che rendono possibile l’educazione, la quale «non si risolve in una didattica, in un insieme di tecniche e nemmeno nella trasmissione di principi aridi» (Benedetto XVI, 2010). Infatti l’educazione è autentica

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quando è illuminata dalla ragione ed è capace di allargare gli orizzonti della razionalità, tenendo desta la sensibilità dell’uomo per la verità e per il bene, orientandolo alla conquista della “libertà responsabile”. Si tratta di un’educazione che, come si legge nella Lettera alle famiglie del Beato Giovanni Paolo II, è “una comunicazione vitale”, che “costruisce un rapporto profondo tra educatore ed educando”, che si configura come un’elargizione di umanità e che non può non essere personalizzata. Il vero educatore tuttavia è cosciente del fatto “che la propria umanità è insieme ricchezza e limite”. Questa coscienza lo rende umile e quando educa nella scuola lo sollecita a mirare alla conquista e al potenziamento delle competenze relative alla disciplina che insegna, di quelle culturali, di quelle pedagogiche, didattiche e relazionali per rendere più efficace la sua azione educativa. Inoltre il vero educatore rispetta i propri simili e i suoi alunni, tiene conto delle loro esperienze personali, li accompagna con premura e disponibilità ricordando che “anima dell’educazione, come dell’intera vita, è una speranza affidabile”. Quindi il vero educatore nella scuola accoglie, ascolta, orienta con solerzia e discrezione con l’intento di promuovere nell’alunno la capacità di essere «costruttore attivo, anzi co-costruttore insieme con la comunità dei compagni di classe e di tutti gli adulti che, a diverso titolo e con compiti diversi, entrano in contatto con lui» (Rossi, 2004, 273-275), dei suoi percorsi educativi (Macchietti, 2004, 288). In questa prospettiva gli insegnanti-educatori sono chiamati «ad adoperarsi in ogni modo affinché si realizzi un’alleanza con i propri alunni e tra tutti coloro che hanno responsabilità nell’ambito dell’educazione e della vita sociale…». Infatti se si vuole che l’educazione «ottenga il suo scopo, è necessario che tutti i soggetti coinvolti operino armonicamente verso lo stesso fine» e che condividano valori comuni per educare, per educarsi reciprocamente, per autoeducarsi e per essere protagonisti della vita della comunità scolastica. È comunque indispensabile tener presente che la scuola «è anzitutto una “comunità di apprendimento”, nel senso che la sua natura relazionale si qualifica in rapporto al processo centrale che la caratterizza, quello di apprendimento-insegnamento». La scuola è anche una comunità “che si prende cura”, chiamata a dimostrare “attenzione, ascolto, vicinanza all’altro” e «un forte senso di responsabilità perché le sue componenti si sentono compartecipi di un’opera comune, quella dell’educazione». Inoltre è una comunità “inclusiva” perché «non rifiuta le differenze, non le ritiene un impedimento, ma anzi vi vede una ricchezza da valorizzare». È una comunità «“guidata da una leadership condivisa e che serve”, in quanto opera per costruire una collegialità elevata fondata su

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relazioni umane amichevoli, sulla condivisione dei valori e sulla collaborazione “di professionisti che apprendono” anche attraverso una riflessione costante sulla pratica svolta» (Comoglio, 2003, 7-31). A questo proposito tuttavia giova precisare che la comunità è una realtà da costruire e che si costruisce con l’apporto e il consenso di tutti. La costruzione della comunità educante postula pertanto la presenza di alcune “disponibilità” e di alcune condizioni capaci di favorirla, tra le quali assume un particolare significato la condivisione convinta e profonda della visione dell’uomo come persona, capace di andare oltre il riconoscimento formale della sua dignità e della sua identità e di testimoniare la volontà di impegnarsi per onorare il valore e tutti i diritti di tutti, tra i quali emerge quello all’educazione in cui si “assommano e si sintonizzano” tutti gli altri (Macchietti, 2008, 224-225).

Per costruire la comunità Le pur rapide considerazioni fatte sul contributo che la scuola può offrire all’essere umano per costruirsi come persona sottolineando il significato e il valore della relazionalità consentono di comprendere che il conseguimento di questo traguardo è legato alla conquista del senso del “noi” e quindi della comunità. Questa parola, che deriva da cum-munus (partecipazione ad un compito), nel lessico quotidiano assume diversi significati (Bertagna, 2008, 23-45; Scurati, 2008, 46-59; Macchietti, 2008, 224-236) ma sostanzialmente indica un’unione di persone capaci di decentrarsi, per rendersi disponibili agli altri per comprenderli, per condividere impegni e responsabilità (Giugni, 1983, 15). In questa prospettiva i membri della comunità non possono non caratterizzarsi per la disponibilità a conoscersi, a confrontarsi, a coltivare nel corso del tempo rapporti e relazioni ed a crescere insieme. Quando esiste questa disponibilità i soggetti che costruiscono la comunità soddisfano il bisogno di appartenenza, di comunanza, di solidarietà, di identificazione e di partecipazione. A questo proposito è opportuno ricordare che nella scuola il confronto con gli alunni, l’apertura alle loro famiglie e il confronto con i genitori possono offrire agli insegnanti significative opportunità di educazione continua, favorendo il potenziamento «delle loro competenze professionali, delle loro capacità organizzative, della loro cultura», esigendo «capacità di ascolto e di condivisione, un rapporto alla pari e di partenariato, nonostante i diversi ruoli e compiti» (Macchietti, 2002, 45). I genitori infatti possono offrire ai docenti il contributo dalla loro esperienza di educatori che educano in un contesto “naturale”, informa-

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le, svolgendo un compito essenziale, originale, primario, insostituibile e inalienabile, realizzando un’educazione che si configura come scambio reciproco di doni «che arricchisce, sostiene, gratifica e sorregge la speranza» (Macchietti, 2003, 108-109). Inoltre possono avere l’opportunità di conoscersi, di confrontarsi tra loro e con i professionisti dell’educazione impegnati nella scuola e di far tesoro delle loro competenze e della loro disponibilità a condividere la responsabilità educativa. Infine gli alunni che chiedono ai genitori attenzione, cura e un impegno costante, quando sono bambini li sollecitano con la loro semplicità e con la loro ingenuità e più che con le loro domande con il loro stupore, con la loro meraviglia, per la fiducia che ripongono in loro e con la loro gioia di vivere, e, quando sono più grandi con i loro interrogativi, con le loro inquietudini e con le loro attese, ma anche con le loro “sfide”, con la loro apertura “a ciò che è nuovo”, con le loro “fughe” e con il loro bisogno di avere “accanto” adulti significativi, autorevoli, capaci di “orientarli”, di sorreggerli nello sforzo, di educarli al senso di responsabilità, all’autonomia, al coraggio della testimonianza. Bambini, fanciulli ed adolescenti, in gran parte, rivolgono ai loro maestri, pur non sempre esplicitamente, richieste analoghe a quelle che rivolgono ai loro genitori, offrendo doni, suggestioni e stimoli per la riflessione. Quando gli insegnanti sanno accogliere questi doni e valorizzarli sono facilitati nella qualificazione della scuola come luogo di reciprocità educativa… Infatti già nella scuola dell’infanzia si mira a far sì che «i bambini si stimolino a vicenda ed esperimentino la reciprocità sociale che nasce dal lavoro condiviso, dall’accordo delle intenzionalità progettuali, dalla partecipazione operativa e produttiva ad una comunità in cui l’apprendere è il risultato del collaborare» (Perucca, 2002, 19). Considerazioni analoghe possono essere fatte per la scuola primaria e per quella secondaria in cui gli studenti sono chiamati «alla partecipazione attiva e responsabile alla vita della comunità scolastica»5, vista come comunità di dialogo in cui gli alunni hanno l’opportunità di effettuare un tirocinio di responsabilità, di esprimersi, di proporre, di confrontarsi, di collaborare, di apprendere a stare insieme (Macchietti, 2006, 244-245). Inoltre è opportuno tener presente che molte sono le esperienze che possono favorire la costruzione della comunità e che significative sono quelle che possiamo definire (anche un po’ genericamente) culturali, compresi i “viaggi” e in particolare quelli che si riconducono al turismo, la partecipazione a manifestazioni artistiche, a conferenze, a corsi, a convegni, a dibattiti, possono consentire non soltanto agli alunni ma a tutti i membri della comunità di realizzare il loro diritto all’educazione permanente e facilitare l’instaurarsi di rapporti di “condivisione” e di amicizia. Queste opportunità sono offerte anche dalle esperienze di volontariato

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e da tutte quelle che si collegano all’impegno sul piano sociale, alla partecipazione attiva alla vita della scuola (vista come luogo di vita in cui accanto ai momenti delle attività educative e della riflessione si collocano i momenti del gioco, della festa, degli incontri informali…) ed a quella più ampia della comunità umana (ivi, 246). La comunità educante nella scuola è chiamata a collocarsi in questa prospettiva, anche se la sua realizzazione costituisce una difficile conquista particolarmente per quei genitori e per quegli alunni che non vogliono e non sono in grado di comprendere e di condividere i loro “doveri” nei confronti di se stessi, degli altri e dell’istituzione scolastica. A questo proposito ai docenti non può mancare la chiarezza di idee sulla natura comunitaria della scuola che è chiamata, con il contributo di tutti, a realizzare i suoi compiti cioè ad impegnarsi per far sì che gli alunni possano conseguire traguardi “buoni” per ciascuno e che costituiscono un bene comune. Giova inoltre tener presente che nella scuola accogliere gli alunni (e particolarmente i bambini) significa accogliere anche i loro genitori e l’immagine (non necessariamente da condividere) che essi hanno dei loro figli e prendere in carico le loro preoccupazioni e loro attese e che a qualificare l’accoglienza concorrono diversi elementi “coesistenti e cooperanti”, uno dei quali è l’ambiente, che dovrà essere gradevole e facilitare gli “incontri” (ivi, 240). Un’altra condizione che facilita la costruzione della comunità è l’impegno rivolto a favorire l’interazione tra i vari soggetti con la volontà di facilitare i rapporti e di promuovere un insieme di relazioni e un intersecarsi di azioni: – degli educatori; – degli educandi; – dei genitori; – dei dirigenti; – di coloro che a vario titolo, direttamente o indirettamente, personalmente o istituzionalmente, si interpongono od intervengono come variabili concomitanti dell’attività educativa (Nanni, 1992, 98-99). Il conseguimento di questo traguardo può consentire di valorizzare le competenze e le attitudini di ciascuno perché tutti possano concorrere a «costruire nella scuola, come afferma T.J. Sergiovanni, una “comunità di pensiero”, cioè come una situazione “in cui le persone sono sollecitate l’una dall’altra, si aiutano a vicenda, si dedicano al loro lavoro e ad una vita di ricerca e di apprendimento”, in cui il sistema normativo viene interiorizzato ed inteso come base per la vita di tutti i giorni ed in cui la motivazione sorge da una fonte interiore capace di aprirsi fino all’orizzonte della speranza» (Sergiovanni, 2004, 33-38). La scuola quindi diviene un luogo di reciprocità formativa in cui tutti possono conquistare il senso di appartenenza ad una comunità che educa e si educa, in cui possono formarsi e consolidarsi rapporti di integrazione e svilupparsi sentimenti di solidarietà, di amicizia e la capacità di negoziazione “agapica”, la quale non può non essere sorretta dalla

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convinzione dell’importanza del confronto e dalla stima degli altri e negli altri e «quindi nell’uomo (alunno, genitore o collega che sia) e da una altrettanto ferma fiducia nel mondo e nella storia» (Angori, 2003, 155). Quando ciò avviene le dinamiche interpersonali vengono vissute con intensa partecipazione emotiva e può essere condivisa la volontà di lavorare per il bene di tutti e gli insegnanti sono sollecitati a rendere più efficace l’azione della scuola, vista come una comunità in cui si può provare il piacere di crescere insieme, di apprendere delle professioni e in professione, di sentirsi sicuri e di essere sereni nel confronto con gli altri, con gli alunni e con i loro genitori (Macchietti, 2006, 242-243). Inoltre i docenti possono sentirsi “protagonisti” del processo di crescita comunitario e quindi possono vivere, progettare, gestire la propria professione. Gli studenti a loro volta possono sentirsi responsabili del percorso formativo che stanno effettuando e cooperare per fare dell’ambiente scolastico un ambiente “comunitario” in cui è rilevante sia il loro ruolo che quello delle loro famiglie e dei docenti perché si passa infatti dall’io al noi e ci si può aprire ad altre comunità anche extrascolastiche. Presentazione dell’Autore: Sira Serenella Macchietti, già Professore ordinario di Pedagogia Generale presso l’Università degli Studi di Siena, ha effettuato un lungo percorso di ricerca, che ha preso avvio nel 1959 con alcuni studi storico-pedagogici ed ha successivamente affrontato le questioni di pedagogia scolastica e particolarmente quelle relative all’educazione dell’infanzia, alla formazione degli insegnanti e all’educazione permanente. La sua ricerca fin dagli inizi si è collocata nella prospettiva della persona alla quale ha dedicato numerose pubblicazioni (Pedagogia del personalismo italiano, 1982; Appunti per una pedagogia della persona, 1998; Persona e persone come problema educativo, 2007; La scuola delle persone, 2008; Dal personalismo alla pedagogia della persona, 2008; Una teoria della persona, 2009).

Note 1 Nel lessico comune ricorre frequentemente l’espressione “è malato (o malata) di protagonismo” con la quale si indica chi ha l’ambizione di proporsi con ogni mezzo e ad ogni costo all’attenzione generale. 2 Agli effetti della formazione della persona assume un particolare significato l’azione della scuola in cui gli alunni fin da quella dell’infanzia incontrano un’alterità istituzionale, dotata di regole e caratterizzata da rapporti di tipo sociale, in cui «è presente, accanto al calore della relazione intersoggettiva, anche il volto del “diverso”, dell’autorità, della legge, del rapporto asimmetrico» e del “gruppo classe”. In coerenza con la sua natura istituzionale la scuola pone regole e limiti, propone

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Studi doveri, chiama alla responsabilità, alla collaborazione e alla contemperanza delle esigenze, stimolando ad aprirsi ad un’alterità… forse problematica ma necessaria per realizzare un processo educativo integrale. 3 Alla costituzione relazionale dell’uomo si collega la costruzione della comunità degli uomini la quale «non assorbe in sé la persona annientandone l’autonomia […] ma la valorizza ulteriormente, perché il rapporto tra persona e comunità è di un tutto verso un altro tutto». 4 Per approfondire la conoscenza della costituzione relazionale dell’essere umano, della sua disponibilità a fare comunità e della sua capacità di comunione. 5 Cfr. D.P.R. 24 giugno 1998, n. 249, Regolamento recante lo Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria, art. 2, c.4.

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IL PROTAGONISMO DEI GIOVANI: IL RUOLO DELLA FAMIGLIA E DELLE ASSOCIAZIONI Giuseppe Serio Abstract: From patriarchal to nuclear and light, family is a structure of society. Whatever is its structural form, it is important that its pervading emotional climate represents the precondition of the personality development of the younger against the background of interpersonal relationships between parents. The contemporary Italian family does not have a homogeneous structure nor can always set out a future to children. The scientific literature agrees on considering that the development of child’s personality takes place against an emotional background of inter-personal relationship between parents and it reveals itself in psychodynamics of family life that depends on couple relationship and of this with phratry. Social, economical, cultural conditions are the other cause of harmonious or disordered behaviour in family life. Today, in Europe, family dynamics varies from country to country. In Italy, the families with young adults find hard to learn to live as active citizens. The Italian model of light family is distressing: the number of couples without children is increased and decreased the number of nuclear families, from 47% in 1990 to 40% in 2010, with a forecast of appalling demographic imbalance. Thirty years after, 1950/80, the youth of the country, consisting of ten millions of very young children, has deep roots in the family that is the beating heart of firm Italian society. At the end of the following thirty years (1980/2010) it is already evident the collapse of the core generation, broken premise of people who project themselves towards future. As is well known, family lives in society and culture of its time and its path is still in tune with both, reaching the amount of 4 million regular permanent residents. Riassunto: La famiglia da patriarcale a nucleare, a leggera è una struttura della società. Qualunque sia la sua forma strutturale, è importante che il clima emotivo che la pervade rappresenti la condizione basilare dello sviluppo della personalità del minore sullo sfondo delle relazioni interpersonali dei genitori. La famiglia italiana contemporanea non ha una struttura omogenea né può sempre prospettare ai figli un futuro. La letteratura scientifica concorda nel ritenere che lo sviluppo della personalità del figlio si svolge sullo sfondo del clima emotivo delle relazioni interpersonali tra i genitori e si manifesta nella psico-dinamica della vita familiare che dipende dal rapporto di coppia e di questa con la fratria; le condizioni sociali, economiche, culturali sono l’altra causa del comportamento – armonico

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o disturbato – in ambito familiare. Oggi, la dinamica della famiglia in Europa varia da Paese a Paese. In Italia, nella famiglia del giovane adulto, si fa fatica ad imparare a vivere come cittadino attivo. Il modello italiano di famiglia leggera è desolante, aumenta il numero di coppie senza figli e diminuiscono le famiglie nucleari che passano dal 47% del 1990 al 40% del 2010 con una previsione di squilibrio demografico spaventoso. Dopo trent’anni, 1950/80, la base giovanile del Paese, costituita da 10 milioni di giovanissimi figli, ha radici profonde nella famiglia, cuore pulsante della solida società italiana; alla fine del successivo trentennio (1980/2010), è già evidente il crollo della generazione di base, mancata premessa del popolo che si proietta verso il futuro. Com’è noto, la famiglia vive nella società e nella cultura del suo tempo e il suo cammino è pur sempre in sintonia con l’una e l’altra che hanno raggiunto la quota di 4 milioni di residenti stabili regolari. Parole chiave: protagonismo, giovani, famiglia, associazioni, dono dell’educare. 1. Famiglia da patriarcale a nucleare, ora leggera. La famiglia è una struttura della società (agricolo-artigianale; industriale) rispettivamente con molti figli, con uno della coppia o adottivo e con nessuno dell’attuale famiglia leggera o all’italiana. Qualunque sia la sua forma strutturale, è importante che il clima emotivo che la pervade rappresenti la condizione basilare dello sviluppo della personalità del minore che cresce sullo sfondo delle relazioni interpersonali dei genitori che sono gli attori del cambiamento che s’innesca nel processo d’inclusione della fratria (se e quando c’è). La coppia che agisce in forma armonica – anche in rapporto ad altri soggetti del territorio – crea spazi di confronto sociale per il figlio che fruisce di opportunità per esprimersi al meglio. N.W. Ackerman (Ackerman, 1978) sostiene che la vita è cambiamento continuo, sempre orientato dall’unità d’azione della coppia e con variabili di originalità dovute alla presenza della fratria (sempre più assente nella famiglia italiana). Il cambiamento continuo è promosso dall’amore dei genitori che è un’energia gratuita e inesauribile. Indubbiamente, il cambiamento è anche determinato da fattori biologici, etici e sociali. Bisogna sapere che il figlio non può essere scisso dall’appartenenza alla coppia né da quella del gruppo etnico e, soprattutto, dalla sua crescente vita interiore. Ritengo che la teoria della libido sia incompleta perché abolendo la dicotomia tra psiche e corpo collega quella alla struttura biologica di questo senza considerare che la persona è una struttura integrale oltre che irripetibile (Serio, 1984). L’ambiente sociale, perciò, è il luogo di confronto e di riferimento

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mediante l’informazione e lo scambio per la formazione continua: scambio, informazione e formazione permanente sono i punti di forza per la cittadinanza attiva della famiglia e, dunque, dei loro figli, i giovani, che si trasformano in agenti del cambiamento. Per la Familiaris Consortio, è una comunità d’amore veramente originale in cui la coppia svolge il ruolo prioritario, insostituibile, inalienabile che è la trasmissione della vita umana – o procreazione – che non può essere delegata ad altri né da altri può essere usurpata. 2. La famiglia italiana contemporanea non ha una struttura omogenea né può sempre prospettare ai figli un futuro sereno, sicuro, salutare… come accade in altri Paesi europei in quanto non ha un ruolo politico che le consente di partecipare alla vita pubblica attivamente proponendo di realizzare progetti per l’accoglienza solidale. La famiglia italiana – nel periodo tra le due guerre mondiali – ha avuto una struttura mista con tendenza alla forma nucleare, nel centronord e patriarcale nel centro-sud1. La differenza della forma è di natura socio-economica che risulta chiaramente dal fatto che, se la produzione della ricchezza è esclusivamente collegata all’agricoltura e all’artigianato, la famiglia ha una struttura costituita dalla forza lavoro della prole; però, patriarcale o nucleare, è pur sempre una struttura che è funzionale alla società in cui si trova storicamente collocata. La letteratura scientifica concorda nel ritenere che lo sviluppo della personalità del figlio si svolge sullo sfondo del clima emotivo delle relazioni interpersonali tra i genitori e si manifesta nella psico-dinamica della vita familiare che dipende dal rapporto di coppia e di questa con la fratria; le condizioni sociali, economiche, culturali sono l’altra causa del comportamento – armonico o disturbato – in ambito familiare. Questi rapporti, in ogni modo, esercitano un’influenza particolare sulla formazione della personalità di ciascun membro della comunità familiare a cui si riconducono i legami più intimi della persona e le aspirazioni profonde della trama di relazioni, armoniche o conflittuali. In ambito familiare vi sono delle persone originali e irripetibili e con riferimento alla società in cui si trovano a vivere la loro storia esistenziale. La società agricolo-artigianale, per esempio, implica che nella famiglia (estesa o allargata) ogni membro sia consapevole e responsabile del proprio ruolo, vissuto secondo una forma primordiale di cittadinanza familiare. È noto, per esempio, che le leggi piemontesi, all’atto della fondazione dello Stato italiano, frammentarono inevitabilmente la forma di famiglia allargata. Infatti, l’estensione a tutto il regno del servizio di leva obbligatorio, della durata di sei anni, impoveriva le famiglie meridionali a cui venivano a mancare le braccia lavoro dei figli e quindi le risorse eco-

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nomiche indispensabili alla sopravvivenza della famiglia-azienda agricola costretta a cedere contemporaneamente allo stato sei figli indispensabili come forza-lavoro e come sostegno ai bisogni degli anziani. 3. Oggi, la dinamica della famiglia in Europa varia da Paese a Paese. In Austria, per esempio, i figli, raggiunta l’età legale, lasciano la famiglia per affrontare la vita con le proprie forze, morali e materiali. Pertanto, le famiglie austriache in breve tempo si riducono al minimo dei membri. Le loro associazioni di famiglia auspicano che i figli maggiorenni escano da casa proprio per imparare la vita nella vita, senza protezione diretta e per formare altre famiglie snelle e funzionali. In Germania, com’è noto, vi sono 600 associazioni di famiglie che coinvolgono 55 milioni di persone e 13 mila partner. Ciò consente alle famiglie tedesche di promuovere una rete di rapporti che agevolano un sano e bipolare protagonismo di genitori e di figli realmente attivi nella società contemporanea. Da noi, invece, c’è la famiglia del giovane adulto che fa fatica ad imparare a vivere come cittadino attivo, protagonista del futuro. Resta prigioniero nella casa paterna o molto solitario, attendendo… il lavoro! La famiglia italiana è diversa. Il nuovo diritto di famiglia del 1975 affida ai genitori di concordare l’indirizzo educativo dei loro figli fino al diciottesimo anno d’età. Con riferimento alle macro-aree regionali, vi sono famiglie di tipo nucleare (nel centro-nord) e altre con un arco di parenti esteso (nel sud); l’indirizzo non è proprio o sempre uniforme a causa dell’influenza di molteplici soggetti. Forse, per questa ragione, i grandi problemi sociali della scuola italiana hanno, tra tante, una causa esterna che ha le radici nella famiglia povera di protagonismo e povera di cittadinanza attiva o volontariato, fenomeno tipico della società civile dove s’impara veramente la vita e dove ci si prepara meglio al futuro (Corradini, 2010). Inoltre, in Europa, come in Italia, convivono famiglie appartenenti a razze, culture, fede religiosa diverse. In alcune città del centro-nord vi sono classi di scuola primaria i cui alunni non sono d’etnia omogenea, come nelle precedenti società agricole e industriali; sono, invece classi variopinte e non solo e non tanto per il colore della pelle. «Il senso della famiglia è tutt’altro che morto […] anche se la società contemporanea ambiguamente apprezza e ostacola le idee, gli atteggiamenti, i comportamenti, le virtù che consentono alle coppie e alle famiglie di avviarsi sui nuovi sentieri della democrazia affettiva e della responsabilità sociale» (Corradini, 2011, 57). A mio parere, la famiglia è stata, ma continua ad essere ancora uno dei centri di autentico apprendistato della vita che, tra l’altro, è un’opportunità esistenziale per spenderla con gioia e con dolore guardando

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oltre i confini del tempo e dello spazio e realizzandola nella pienezza di questi limiti con un attivismo sano e decoroso. La democraticità della famiglia si manifesta nelle possibilità di prendere iniziative condivise e responsabili che rendono ciascun membro protagonista attivo, creativo e capace di realizzarle con successo che è un rinforzo delle capacità basiche naturali. 4. Il modello italiano di famiglia leggera purtroppo è drammaticamente desolante perché, mentre aumenta il numero di coppie senza figli diminuiscono le famiglie nucleari che passano dal 47% del 1990 al 40% del 2010 con una previsione di squilibrio demografico spaventoso; il cardinale Camillo Ruini l’ha definito un disastro antropologico. La famiglia italiana è in difficoltà che riassumerei in questi termini: fra 150 anni potrebbe verificarsi la celebrazione dei 300 anni dell’unità dello Stato, non più italiano, salvo che cambi la politica per la famiglia e si rinforzi la presenza di giovani che, com’è facilmente intuibile, sono la garanzia demografica oltre che quella del lavoro sicuro. Il superamento di detta difficoltà sarebbe possibile a due condizioni; ne accenno solo due per ricordare che la diminuzione delle nascite di figli in Italia è iniziata, a cominciare dal nord, e a partire dall’epoca del nostro miracolo economico. La prima riguarda il superamento delle difficoltà relazionali interne della famiglia italiana. Questo è possibile se la politica si pone al servizio della società civile – a cui spetta il diritto di proposta – per sconfiggere l’attuale società liquida la cui instabilità e inafferrabilità delle relazioni sono la causa dell’esercizio del potere politico che non si pone adeguatamente al servizio delle persone. La seconda si riferisce al lento e ormai consolidato invecchiamento del popolo italiano che si è rilevato pericoloso (dagli inizi degli anni ’70). Basta leggere con attenzione questi dati (Serio, 1984) (arrotondati al migliaio):

1952

bambini nella scuola dell’infanzia

1.022.000

1980

1.902.000

1952

alunni nella scuola elementare

4.446.000

1980

4.507.000

1952

ragazzi nella scuola media

964.000

1980

2.900.000

Dopo trent’anni, 1950/80, la base giovanile del Paese, costituita da 10 milioni di giovanissimi figli, ha radici profonde nella famiglia, cuore

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pulsante della solida società italiana; alla fine del successivo trentennio (1980/2010), è già evidente il crollo della generazione di base, mancata premessa di un popolo proiettato attivamente verso il futuro. Com’è noto, la famiglia vive nella società e nella cultura del suo tempo e il suo cammino è pur sempre in sintonia con l’una e l’altra. L’inquietante solitudine della famiglia odierna è causata dall’erroneo esercizio del potere gestito da una classe auto-referenziale – non scelta dai cittadini – incapace d’inventarsi una sana politica per la famiglia, responsabile d’aver sfaldato i rapporti intra-interfamiliari, di non aver ascoltato le proposte dei laboratori di solidarietà familiare e, soprattutto, di non aver capito il senso del messaggio della rivoluzione culturale di cui parla giustamente Pieretti. Il rapporto IARD del 2007 evidenzia che l’88% dei giovani sceglie la famiglia come valore esistenziale. Secondo tale rapporto, però, le difficoltà materiali della famiglia italiana sono causate anche dall’attuale clima culturale che si riflette sulle famiglie per mezzo di media e Tv commerciali. Non si può trascurare nemmeno il dato fornito dall’ISTAT per l’anno 2010 secondo il quale sono più di un milione i minori stranieri che vivono nel nostro Paese e che c’è inoltre un numero crescente di bambini che nascono da noi e non sono “cittadini italiani” – secondo la legislazione vigente – e che molto difficilmente sono soddisfatti sul piano dei loro diritti sanciti nelle carte internazionali2. Non si può nemmeno trascurare che il divario tra famiglie stra-ricche, ricche, povere; il senso d’insicurezza del lavoro, la paura del futuro; il primato del denaro gradatamente fanno precipitare la dignità dell’uomo nella periferia di un’esistenza senza valore. La crisi finanziaria è vissuta da molti come una forzata rinunzia al mondo dell’effimero e del consumismo sregolato, non come la perdita della vita dignitosa, lontana dall’imbroglio, dalla furbizia e dall’erotizzazione del costume. Secondo il rapporto ISTAT del 2009, il 10.8 delle famiglie residenti in Italia, circa nove milioni di persone, il 13% dei residenti, vivono in povertà (nel sud sono circa il 27%, nel nord quasi il 6%). Il protagonismo della famiglia, pertanto, potrebbe essere la risposta giusta alla frammentazione del tessuto sociale, all’impossibilità di generare benessere per tutti, a sviluppare coesione nell’intera comunità. La famiglia, oggi, deve essere un soggetto culturale di auto-tutela, di autopromozione delle risorse incominciando dalla più importante che è la risorsa umana, particolarmente dell’uomo giovane. 5. Aiutare il figlio demotivato ad essere attivo (nella famiglia, nella scuola e nella società) teoricamente è molto difficile. Come può la famiglia trasformare un figlio demotivato, senza interessi sociali, in un ragazzo gio-

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iosamente impegnato? Direi che lo può anche se non è semplice. I genitori possono motivarlo a condizione che la coppia sia capace di promuovere il clima emotivo necessario per instaurare all’interno della famiglia rapporti interpersonali armoniosi fondati sull’esempio o sulla testimonianza che motivano concretamente i figli. L’uno o l’altra è ciò che Luciano Corradini chiama familiarità che si rivela come “principio antropologico insostituibile” (Corradini, 2011, 62). La complessità di questi rapporti – la psico-dinamica della vita familiare – è lo sfondo della familiarità dove nasce una prima forma di protagonismo attivo che riguarda i processi educativi e crea le opportunità che spesso si trasformano in itinerari per coltivare l’educazione alla legalità. I genitori disimpegnati, al contrario, vorrebbero la ricetta che trasforma i figli da indifferenti in attivi come se si trattasse di un avvenimento magico e indolore; sono genitori che non sanno che il loro ruolo educativo è gratuito e faticoso come tutto ciò che si ottiene camminando nell’amore. Non è facile; non si realizza senza sacrifici, ma con l’esempio silenzioso e concreto della loro vita quotidiana ordinaria. Senza il loro esempio di persone impegnate nella società civile o nelle associazioni di famiglie, i regali diventano inutili ed anche le coccole. Molti genitori pensano di aiutare i figli a risolvere i tanti problemi del comportamento o del profitto aiutandoli nei compiti di scuola invece di rafforzare il senso d’orientamento e di sicurezza che è un loro compito specifico ed anche insostituibile. Il successo – nella famiglia e nella scuola – è possibile se i genitori testimoniano con la loro condotta di vita ordinaria uno stile esemplare. L’amore per il figlio non consiste, credo, nel ricevere in dono il telefonino o la paghetta; se fosse vero ciò, le famiglie povere, che sono tante, non potrebbero amare i loro figli. Amarli significa trascorrere una parte del tempo libero con loro; i figli lo sanno e lo capiscono se i genitori li amano in considerazione del tempo che trascorrono insieme (anche senza coccole e regali). Il tempo che dedicano loro è l’energia psichica che alimenta il protagonismo (di cui mi occuperò appresso in modo specifico). I genitori, oggi, hanno un punto di debolezza – la loro fragilità – e uno di forza che Corradini definisce maggiore disponibilità «a cercare ragioni profonde per la costruzione del nucleo familiare» (ivi, 63). È necessario che i soggetti cointeressati – genitori, docenti, sacerdoti, ecc. – facciano squadra, si mettano in rete per servire al meglio il figlio/alunno in una associazione mista – genitori, docenti, altri – evitando la confusione dei compiti, prendendo coscienza ciascuno del proprio ruolo e, nello stesso tempo, dando più voce alla società civile di cui fanno parte e a cui spetta di indicare alla politica il quadro valoriale incentrato sull’educazione all’onestà che è un vero protagonismo e un preferibile

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strumento della rivoluzione culturale che sa trasformare la società globale, che sembra essere una follia, in una società solidale, inclusiva e attiva. La famiglia, dunque, è protagonista se sa proporsi la meta alta da raggiungere, l’onestà, che può sconfiggere corruzione, ingiustizia e violenza in questo mondo capovolto che mette al primo posto il mercato e i beni negoziabili, e non l’uomo, la sua intelligenza, bene non negoziabile né esauribile! Invece, partecipa inutilmente al processo virtuoso d’interazione politica, amministrazione pubblica, associazionismo dove, però, il protagonismo è quello del primo attore, la politica, non della società civile (potenziale protagonista della rivoluzione culturale) (Pieretti, 2011, 35-43). In Germania, le iniziative provengono da alleanze locali, non dalla politica che perde tempo o ignora il bisogno di protagonismo della famiglia3. In Italia non è così perché il futuro dei ragazzi, purtroppo, dipende pur sempre dalla politica, non dalla comunità di base (certamente e veramente più vicina ai soggetti interessati per i quali sa anche guardare molto lontano). 6. Il punto famiglia e il protagonismo civico sono la proposta dell’Associazione cristiana dei lavoratori italiani (ACLI); questa proposta merita una riflessione. Nel 2009 si è svolto alla LUMSA un convegno organizzato dal gruppo di 61 Punti famiglia italiani (nord 20, centro 21, sud 20). L’iniziativa delle ACLI si fonda sull’autogestione del contributo del 5x 1000. Secondo Mons. Mariano Crociata, i centri di promozione familiare cercano di dare una giusta risposta «alla cecità del sistema sociale italiano verso la famiglia»4. S.E. Crociata sostiene che la società italiana si sta indebolendo proprio in assenza di una sana politica per la famiglia, che è il luogo dove si coltiva il senso ultimo della vita e dove si promuovono i valori della reciprocità, della socialità, del bene comune. Per Andrea Olivero, presidente delle ACLI, il protagonismo della famiglia è una preziosa risorsa della comunità e il protagonismo civico è la cellula primaria che opera come linfa nelle esperienze maturate nella società civile. In questa prospettiva «può apparire idealmente significativo e realisticamente percorribile […] la teorizzazione del sistema educativo integrato, elaborata in sede di pedagogia e di politica sociale per superare la frammentazione e l’anarchia che spesso caratterizza gli enti intenzionalmente educativi, come le famiglie, le scuole, le chiese, le associazioni giovanili, i mass media e gli enti locali» (Corradini, 2011, 64). In particolare, dall’ultimo decennio del secolo scorso al primo di questo terzo millennio, in Italia le famiglie con una sola persona, che spesso vive in solitudine, sono circa un milione e mezzo, mentre le famiglie nucleari con figli sono 500 mila in meno di quelle dello stesso periodo.

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In 20 anni, la società civile italiana ha avuto una trasformazione in negativo che colloca l’Italia al primo posto in Europa in crescente invecchiamento, misurabile anche dalla scomparsa della classe giovanile (10/14 anni) che nel 1950 era il 26% dell’intera popolazione. Aumentano, invece, gli ultra ottantenni (l’11%), mentre il lieve aumento demografico registrato lo si deve alla presenza dei migranti che hanno raggiunto la quota di 4 milioni di residenti stabili regolari. 7. Il welfare italiano – conviene ribadirlo – non ha una politica per la famiglia e nemmeno una per la società civile in grado di dialogare con la politica e ispirarla a valori alti della vita. Incomincia ad esserci ora scoprendo le virtù che trasformano il popolo in comunità di persone oltre che di cittadini attivi dello Stato (anche con la presenza di gente diversa per cultura, razza, religione). Da noi, dunque, manca un’autentica politica per la famiglia, fatto salvo il volontariato. È stato modificato con scarso successo il titolo V della Costituzione affidandone alle Regioni e agli Enti locali le competenze esclusive. Bisognava, invece, coinvolgere la società civile e il volontariato com’è stato fatto nei Paesi scandinavi, in Germania e Francia. Il nostro modello di welfare è frammentato, disarticolato, non integrato; perciò, poco efficace nei confronti di famiglie che, alla luce della cultura dell’effimero e del provvisorio, vanno scomparendo e cedendo il passo alle unioni che non hanno la stessa funzione della struttura sociale di base su cui si costruisce il successo di un popolo, non quello degli individui come tali. La funzione della famiglia è la proliferazione e lo sviluppo… Rendiamoci conto che, se non funzionano le strutture naturali della società, la vita si spegne5. La famiglia è una struttura sociale che crea coesione, si articola pluralisticamente in bisogni e funziona come laboratorio sociale nella quotidianità di vita ordinaria dove i figli si preparano ad affrontare il futuro nella pienezza dell’orientamento esistenziale. Il protagonismo dei figli nasce, s’irrobustisce nella comunità delle persone che sono intimamente articolate nell’amore. In Italia, l’impegno concreto delle ACLI è supportato dall’elaborazione culturale, quella condivisa che concerne le offerte di servizi alla persona. «Non è giusto generare figli senza impegnarsi ad educarli e non si può educarli senza offrire loro un passaggio sufficientemente sicuro verso l’esterno» (ivi, 67). Ma non è nemmeno giusto che la politica non assicuri alle famiglie le condizioni e i mezzi essenziali per adempiere ai suoi doveri e realizzarsi al meglio. Il compito della politica, perciò, deve consistere nell’individuare gli strumenti che consentono ai cittadini di fruire dei servizi garantiti dallo Stato. Una società, infatti, è democratica non già se è una società civile al

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servizio della politica, ma se la società politica si pone al servizio di quella civile che trasforma i principi e le norme giuridiche in azioni concrete per la persona. La società diviene competitiva, giusta, inclusiva, integrata se le opportunità offerte dalla politica alle famiglie sono riconosciute come valore aggiunto e se il capitale umano è coinvolto nel potenziare il welfare della rete territoriale. 8. Il protagonismo nel centro di aggregazione giovanile è un’ipotesi sperimentale della suddetta proposta. La politica potrebbe e dovrebbe delegare la società civile ad auto-gestire il protagonismo giovanile affidandole il compito, all’interno degli stessi spazi del centro, di svolgere attività riguardanti l’arte, la musica, lo sport e, dunque, il tempo libero dalle obbligazioni scolastiche o di lavoro dei giovani. In Italia, per esempio, i docenti laici considerano le famiglie nel loro interagire con la scuola; quelli cattolici le considerano anche con riferimento al progetto della comunità d’amore, luogo privilegiato del protagonismo per la vita. Tali centri sono degli spazi idonei ed autonomi per la creatività e la socializzazione. Ritengo, pertanto, che nel territorio sia possibile far sperimentare ai ragazzi le loro passioni naturali. «La conquista della capacità e della volontà di esercizio della cittadinanza attiva appare in tal modo il frutto di azioni educative fra gli enti da cui dipendono la vita, la salute, la cultura, in sintesi la crescita umana e sociale dei ragazzi» (ivi, 66). Ritengo anche che il centro di aggregazione giovanile, nel quartiere, può essere affidato ad un’associazione di famiglie o nel caso specifico al volontariato che opera nella circoscrizione con le garanzie richieste dalla normativa vigente. I centri si caratterizzano per l’offerta d’ospitalità ai diversi, per i linguaggi con cui i giovani comunicano tra loro (musica, poesia, pittura, teatro, danza, sport, videografica, animazione…) e con la comunità delle persone esterne. Nei centri di aggregazione è possibile programmare corsi di lingua, fotografia, laboratori, spettacoli, concerti concomitanti con gli eventi locali, nazionali e internazionali; diffondere l’informazione (internet, intranet, network, blog, siti) che riguarda il mondo del lavoro, le cooperative sociali, le associazioni di volontariato, ecc. Questi centri si stanno diffondendo perché i giovani li percepiscono come luoghi in cui si sentono a casa, grazie agli spazi di dialogo e di osmosi con il territorio partecipando ai vari percorsi responsabilmente, vivendoli come se si trattasse del cantiere della cittadinanza attiva. La famiglia italiana, però, ancora non è in grado di gestire il centro di aggregazione proprio per le ragioni che ho cercato di mettere in luce nel discorso pedagogico che fa da guida a questa proposta complessiva.

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9. La famiglia italiana, oggi, è in crisi. Già Corrado Alvaro affermava che la disperazione più grande che possa colpire una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. Purtroppo, sembra che oggi stia vincendo la cultura dell’effimero e che alla morale stanno subentrando le morali modulate a seconda dell’inclinazione personale; sembra, cioè, che non ci sia certezza del diritto, sicurezza del lavoro, garanzia della giustizia. Il nostro è un Paese da rifondare, ricostruire, soprattutto, unificare: mi dispiace dirlo nel centocinquantesimo anno della fondazione dello Stato italiano (o dell’espansione del regno sabaudo nel resto d’Italia). Non esiste un’equa imposizione fiscale per la famiglia sin da allora né un equilibrato rapporto tra istituzioni e cittadini. Non basta a mio parere la buona politica ispirata ai valori alti della nostra Costituzione per fare dello Stato italiano un Paese democratico; è necessario proporre una cultura alta che metta in movimento la società civile dove nasce il rispetto per la dignità della persona e il senso pratico della solidarietà. Le virtù – che fanno della comunità di persone un popolo e, poi, uno Stato, dovrebbero continuare a nutrirsi di cultura della vita, non solo di quella della semplice appartenenza all’uomo corporale. In Italia, purtroppo, la politica è una forma di occupazione appetibile perché ha introdotto meccanismi di cooptazione diretta che non richiedono il consenso dei cittadini che non hanno la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Per questo, non credo alla nobiltà dell’agire politico inteso come servizio alla persona proprio perché si tratta solo di mero esercizio del potere. Ritengo, pertanto, che l’Associazione Pedagogica Italiana non può soltanto limitarsi a denunciare l’ineluttabilità degli esiti dell’attuale deriva storica; propongo, invece, che offra indicazioni, strategie, opportunità al fine di tutelare l’importante istituzione naturale dei popoli civili che è la democrazia. Corradini ritiene che la famiglia «sia come soggetto impegnato nella relazione educativa, sia come valore da proporre ai figli» (ivi, 53), anche «se travolta dal cambiamento sociale e culturale» (ibidem), è l’istituzione che, nonostante tutto, può avviare i figli nel mondo globalizzato per vivere come persone ricche nella loro dignità.

Nota conclusiva I politici si rimpallano vicendevolmente la responsabilità di quanto accade, ma non propongono in che modo è possibile dissipare il clima di apatia dei giovani costretti a vivere in famiglia come dei disoccupati senza futuro, perché «il nostro paese non è ancora riuscito ad adottare una vera politica per la famiglia» (ivi, 54). A ciò si aggiunge l’indecente spettacolo

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dei furbi che la fanno da padroni; per questo è inevitabile chiamare in gioco l’onestà intellettuale di ciascuno sperando che si possa mettere un freno a questo declino. La lungimiranza è un antidoto che non può essere sottovalutato: dà prestigio agli uomini che vi s’ispirano orientandone le decisioni e indirizzando le azioni. L’onestà è sufficiente a colmare le mancanze della politica? Pieretti propone una rivoluzione culturale che promuova la società civile per invertire la rotta, squarciare la nebbia in cui è immerso questo Paese (Pieretti, 2011, 35-43) e coinvolgere le persone facendo leva sul senso di responsabilità, restituendo il primato alla società civile, al volontariato, realizzando finalmente il bene comune costituito dalla dignità. Il compito della politica potrebbe consistere nell’individuare gli strumenti che garantiscono al cittadino il dono dell’educazione. Questo compito importante non spetta certamente agli intraprendenti, in quanto una società è democratica non già se la società civile è al servizio della politica, ma se questa è al servizio di quella. Presentazione dell’Autore: Giuseppe Serio ha esercitato la professione di insegnante per 43 anni (maestro elementare, 1950-1966; professore di filosofia, storia, pedagogia, psicologia nei licei e negli istituti magistrali e docente delle stesse materie negli Istituti Superiori di Scienze Religiose) e vanta diverse attività culturali, congressuali e giornalistiche. È fondatore e presidente della Fondazione Gianfrancesco Serio, Centro Studi e ricerche per la promozione della cultura di pace, che ha realizzato 56 convegni e 16 incontri di studio nazionali e internazionali. Inoltre è fondatore e direttore della rivista «Qualeducazione» alla quale collaborano numerosi studiosi italiani e stranieri. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: La formazione iniziale e in servizio dei docenti (2007); Persona, Persone, Povertà nel mondo globalizzato (2009); Educare all’onestà, oggi, nella famiglia, nella scuola, nelle istituzioni (2011).

Note 1

Lui, lei e il figlio (l’art. 29 della nostra Costituzione definisce la famiglia una società naturale fondata sul matrimonio). 2 I cittadini stranieri iscritti nelle anagrafi comunali ammontano a 4.200.000 (7% dell’intera popolazione). 3 Il sistema scolastico italiano si fonda su un bipolarismo antagonista (scuola pubblica/scuola privata) e non sul bipolarismo sociale: scuola statale/scuola delle comunità entrambe pubbliche, gratuite, obbligatorie, ma con programmi integrati. 4 Intervento al citato convegno della LUMSA.

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Studi 5 Se tolgo al tavolo i piedi, il tavolo non funziona, non è più un tavolo; se la famiglia non prolifera o non adotta figli, essa non è “famiglia”, ma unione, ecc.

Bibliografia Ackerman, N.W. (1978), Psicodinamica della vita familiare, Torino, Boringhieri. Corradini, L. (2010), Costituzione e cittadinanza Attiva, Napoli, Tecnodid. — (2011), Educare all’onestà nella famiglia, in M. Borrelli, G. Serio (a cura di), Educare all’onestà, oggi, nella famiglia, nella scuola, nelle istituzioni, Cosenza, Pellegrini. Pieretti, A., Più società civile e meno politica, in M. Borrelli, G. Serio (a cura di), Educare all’onestà, oggi, nella famiglia, nella scuola, nelle istituzioni, Cosenza, Pellegrini. Serio, G. (1984), Famiglia e sviluppo della personalità. Componenti pedagogiche psicologiche e sociali, Roma, Città Nuova.

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SCUOLA, PROTAGONISMO E RESPONSABILITÀ: ASPETTI EPISTEMOLOGICI E LINEE D’INTERVENTO Francesca Pulvirenti Abstract: The essay outlines the boundaries of a new epistemology of education that finds its theoretical and empirical anchors in the constructs of practice, in the practice communities, in narrative and reflexivity. It focuses on the epistemological aspects of the categories of protagonism and responsibility related to the subject-I and to a school that stands as a community of practice, as a participatory process. It suggests new educational options regarding the lines of action as an opportunity for teachers and learners to be involved in cognitive processes and relationships with protagonism and responsibilities. This piece of research calls for reflection on the close connections between a constructivist epistemological perspective and an ethical perspective on the one hand, and a new logic of schooling and quality of life on the other. Riassunto: Il saggio delinea i confini di una nuova epistemologia della formazione che ha i suoi ancoraggi teorico-empirici nei costrutti di pratica, comunità di pratica, narrazione e riflessività. Esso mette a fuoco gli aspetti epistemologici delle categorie di protagonismo e responsabilità riferite al soggetto-io e ad una scuola che si pone come comunità di pratiche, come processo partecipativo. Suggerisce nuove opzioni didattiche di linee d’intervento come possibilità per docenti e discenti di essere dentro i processi conoscitivi e relazionali con protagonismo e responsabilità. Sollecita la riflessione sulla stretta connessione tra prospettiva epistemologica costruttivistica e prospettiva etica da una parte e nuova logica del far scuola e qualità della vita dall’altra. Parole chiave: soggetto-io, protagonismo e responsabilità professionale, scuola come comunità di pratiche, apprendimento cooperativo.

Premessa Il tema Scuola, protagonismo e responsabilità consente di delineare i confini di una nuova epistemologia della formazione, che ha i suoi ancoraggi teorico-empirici nei costrutti di pratica, comunità di pratica, narrazione e riflessività. L’idea regolativa, che segna il percorso di lettura da noi privilegiato, si inserisce in quel radicale cambiamento di prospettiva nello studio dei processi educativi e formativi, che, ponendo al centro le

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epistemologie personali, permette di ridefinire i temi del protagonismo e della responsabilità entro quella piattaforma epistemologica della nuova logica del far scuola, che risponde al nuovo statuto del soggetto richiesto dalla società postmoderna. Un soggetto come unità viva e vitale, come ragione-emozione-corpo, come centro di esperienze, un “soggetto-io” che si costruisce e delinea una dialettica di senso a sé, agli altri, al mondo e «di essa si fa – come evidenzia Cambi – testimone aperto, protagonista responsabile, indicandola come possibilità e tenendo ferma la possibilità del possibile» (Cambi, 2006, 52). Il nuovo statuto del soggetto, richiesto dalla società complessa, ha imposto alla pedagogia di rifondare i propri paradigmi, alla scuola di ridisegnare il proprio ruolo, agli insegnanti di risagomare il proprio sé professionale per una descolarizzazione del lavoro intellettuale, per un insegnamento inteso come azione, come processo partecipativo, per uno studio inteso come lavoro culturale, formativo ed etico che la persona compie su di sé. Su queste premesse si delineano tre aspetti: 1. gli aspetti epistemologici delle categorie di protagonismo e responsabilità riferite al soggetto-io; 2. gli aspetti epistemologici delle categorie di protagonismo e responsabilità riferite ad una scuola che si pone come comunità di pratiche, come processo partecipativo; 3. nuove opzioni didattiche di linee d’intervento come possibilità per docenti e discenti di essere dentro i processi conoscitivi e relazionali con protagonismo e responsabilità. Aspetti questi che mirano a sollecitare la riflessione sulla stretta connessione tra prospettiva epistemologica costruttivista e prospettiva etica da una parte e nuova logica del far scuola e qualità della vita dall’altra.

1. Soggetto-io, protagonismo e responsabilità: aspetti epistemologici L’antropologo Bateson e il cibernetico von Foerster costituiscono un tassello decisivo di quella “dichiarazione epistemologica” che, complessificando la realtà e rifiutando un unico punto di vista, a favore di molteplici possibili letture, mette in discussione la concezione di oggettività propria del senso comune e ricerca un adattamento funzionale tra i vincoli di un soggetto attivo e curioso e i vincoli di ciò che chiamiamo realtà (Pulvirenti, 2004). Maturana e Varela, con l’affermazione «tutto ciò che può essere detto è detto da un osservatore a un altro osservatore che può essere se stesso» (Maturana, Varela, 1985) richiamano severamente alla consapevolezza che ciascuno di noi è artefice, in qualche misura, della realtà che si costruisce dall’interazione tra noi e il mondo e, dunque, ha

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la possibilità di poterla costruire in maniera diversa, di poterla cambiare, non rimanendo ingabbiati in preconcetti che, come evidenzia Gregory Bateson, ci rendono consapevoli della nostra parziale cecità nella mancanza di assunzione di responsabilità: «Quando dirigo i miei occhi verso quello che penso sia un albero, ricevo un’immagine di qualcosa di verde. Ma questa immagine non è all’esterno. Crederlo è già una forma di superstizione, perché l’immagine è una creazione mia, prodotto di molte circostanze, compresi i miei preconcetti» (Bateson, Bateson, 1989). La conoscenza non è, infatti, rispecchiamento della realtà ma è azione cognitiva; essa è un aspetto particolare della nostra relazione con l’ambiente e si situa intorno ai luoghi di confine tra noi, gli altri e le cose del mondo (Maturana, Varela, 1992). Ne deriva che l’epistemologia si pone come interfaccia tra osservatore e realtà e l’assunzione di responsabilità come modus vivendi, come operazione epistemologica nella cocostruzione della realtà e, dunque, nell’auto-partecipazione. Conoscere è, allora, costruire una mappa di cui ognuno di noi è co-costruttore e corresponsabile. Il soggetto, ogni soggetto, agente epistemico, nella sua integralità (corpo, emozioni, sentimenti, ragione, ecc.) “sporca la realtà” e co-costruisce saperi e conoscenze in un contesto specifico (Pulvirenti, 2004, 35-45). «L’equivoco per il quale si attribuisce alla conoscenza una realtà sostanziale – scrive von Foerster – credo che nasca storicamente con un volantino umoristico stampato a Norimberga nel sedicesimo secolo. Esso mostra uno studente seduto; in testa ha un buco, nel quale è inserito un imbuto; accanto a lui è ritto in piedi il maestro, che versa nell’imbuto un secchio pieno di “conoscenza”, ossia di lettere dell’alfabeto, numeri e semplici equazioni» (von Foerster, 2000, 119). Di contro, la metafora dell’Albero della conoscenza di Maturana e Varela, l’albero come vivente che conserva la propria forma (la sua organizzazione), in un continuo scambio con un ambiente mutevole, ci fa riflettere sulla conoscenza come processo coevolutivo e come processo di apprendimento, come azione effettiva che permette ad un essere vivente di continuare responsabilmente e da protagonista, la sua esistenza in un determinato ambiente, toccando con mano il suo mondo. La conoscenza, allora, diventa significativa nel momento in cui il soggetto, ogni soggetto, diventa consapevole della propria responsabilità di conoscere, ossia di interrogare, di codificare, di trasformare non “la realtà” – una stampella comoda, ma superflua – ma una realtà, “occorrenza attuale” di un possibile potenziale nel suo ambito, con una sua determinazione storica, temporale e spaziale (Pulvirenti, 2004, 45-65). Gli atti cognitivi sono, pertanto, atti di costruzione di responsabilità; sono dipendenti dalla nostra collocazione nello spazio e nel tempo, dalle nostre scelte e dai nostri progetti, non riferendosi ad un mondo che già esiste, ma ad un mondo che è il risultato della nostra impresa cognitiva, ossia della nostra responsabilità: «Se io

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sono il solo a decidere come agire, allora io sono responsabile della mia azione» (von Foerster, 2000, 233). L’attenzione scientifica alle epistemologie personali è il riconoscimento che il potenziale conoscitivo non è, pertanto, un “poter conoscere” in assoluto, senza vincoli, ma rimane condizionato dai modelli mentali che ci costruiamo, a livello collettivo e a livello individuale; è un poter conoscere all’interno di precise e specifiche coordinate, che entrano in relazione e si influenzano reciprocamente in un determinato momento (Orefice, 2003). Nella costruzione della nostra conoscenza giocano, sempre, contemporaneamente, livelli inconsapevoli e livelli consapevoli di teoria. E se – come scrive Watzlawick «non sei consapevole della tua conoscenza non puoi neanche correggerla» (Watzlawick, 1988) – il diritto alla conoscenza personale, spostando la prospettiva della formazione sul singolo individuo e, in particolare, sul suo sistema di conoscenza, e dunque sul suo sistema dei saperi, pone necessariamente il soggetto di fronte al problema del suo conoscere, restituisce al soggetto il diritto di apprendere, il diritto di esplorare la struttura e la dinamica del suo stesso sentire e del suo stesso pensare, il diritto di produrre conoscenze personali, di riflettere sul proprio agire, di confermarlo, di modificarlo, di trasformarlo, il diritto ad imparare a pensare per relazioni. Le epistemologie personali si pongono, pertanto, come criterio interpretativo di un processo formativo che attrezza, responsabilmente, il soggetto a governare, da protagonista, i processi di conoscenza, a condividerli con altri, per un itinerario educativo sistemico centrato sulla partecipazione attiva di ogni soggetto, che impara ad apprendere a vivere insieme agli altri, a dare un senso a sé e agli altri, a partecipare responsabilmente alla vita del mondo, non come consumatore ma come diffusore di formazione, affinché, come scrive Morin, «ciascuno, ovunque sia, possa prendere conoscenza e coscienza sia della propria identità, sia dell’identità che ha in comune con tutti gli altri esseri umani. La condizione umana dovrebbe, così, essere oggetto essenziale di ogni insegnamento» (Morin, 2001, 12).

2. Scuola come comunità di pratiche, come processo partecipativo, come possibilità per docenti e discenti di essere dentro i processi conoscitivi e relazionali con protagonismo e responsabilità Parafrasando la metafora di Geertz di “contagio mentale” (Geertz, 2001, 29), possiamo affermare che, con l’opzione teorica del costruttivismo e la relativa attenzione scientifica alle epistemologie personali, nell’ultimo ventennio, nel panorama internazionale, da parte di studiosi di diverse aree disciplinari, appartenenti a differenti tradizioni di ricerca, si è condiviso l’interesse metodologico verso un’indagine “naturalistica”

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dei contesti e insieme la necessità di studiare oggetti situati. In particolare, nel versante della ricerca pedagogica, si è avuto un radicale cambiamento di prospettiva nello studio dei processi educativi e formativi, tradizionalmente circoscritti all’ambito scolastico. I temi tradizionali del formare e dell’educare, dell’apprendere e del conoscere si ridefiniscono dentro nuove trame concettuali e, soprattutto, “traslano” verso i contesti lavorativi e le comunità di pratiche. Per ciò che riguarda la scuola, si rompe con il pensiero lineare di un sistema-scuola che trasmette il sapere e gli studi pedagogici sono impegnati a tracciare traiettorie in grado di indagare, in maniera specifica e sistematica, il contesto lavorativo di una scuola intesa come comunità di pratiche e a riflettere sulla rete di fattori implicati in uno spazio epistemologico, storico e culturale, che chiedono di essere presi in carico. Le pratiche professionali, i saperi situati, i processi di costruzione della conoscenza da parte delle comunità scolastiche consentono di delineare una local theory, che sappia rendere conto di azioni situate, che sia l’esito di un approccio dialogico e partecipativo alla costruzione della conoscenza e sia in grado di generare trasformazioni condivise (Fabbri, 2010, 15-34). Si passa così dallo studio delle pratiche educative formali – basti pensare alle ricerche sulla programmazione e sui curricula – agli studi sulle pratiche reali di insegnamento-apprendimento e sulla “progettazione al lavoro” (Dalle Fratte, 1998); studi che hanno consentito di scoprire una sorta di intelligenza individuale e organizzativa, che emerge dalla specificità e dalla diversità delle strategie reali con cui le persone affrontano uno stesso compito lavorativo. Siamo di fronte ad una nuova logica che legittima una razionalità riflessiva a forte connotazione euristica, secondo il modello dell’inquiry deweyana, consentendo di prefigurare i professionisti come artefici attivi e creativi del proprio agire. Seguendo Schön (Schön, 2006), la conoscenza professionale non è preesistente all’azione in quanto conseguenza dell’applicazione della ricerca di base, ma si costruisce nel corso dell’azione, nel mondo dell’interazione sociale, conversando con ciò che accade, dentro un contesto di pratica, ossia dentro campi di esperienza problematica da esplorare e indagare. Si delineano, così, nuove forme di apprendimento organizzativo che si svolgono sull’asse della partecipazione, che derivano fondamentalmente dall’esperienza sociale. Apprendere ha a che fare con il partecipare, con il divenire membro di una comunità: la conoscenza e la competenza sono “proprietà” di una comunità. Si mette, dunque, in discussione la formazione intesa come modello di trasferimento di conoscenze astratte ed esplicite, dalla testa di qualcuno che sa a quella di un altro che non sa, in ambienti che escludono la complessità della pratica e i saperi situati nella pratica. Come sottolineano Lave e Wenger, che tematizzano sul modello antico di apprendistato, ciò che conta è il processo partecipativo,

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ovvero la possibilità di essere dentro i processi conoscitivi e relazionali che contraddistinguono le pratiche lavorative. Per apprendere bisogna necessariamente avere accesso alla pratica corrente, sia perché il sapere è relazionale e distribuito tra i vari attori, sia perché è altresì veicolato dagli artefatti utilizzati nel corso dello svolgimento dell’attività e dalle regole e prescrizioni esplicite e tacite (Lave, Wenger, 2006; Wenger, 2006). La pratica, intesa come spazio sociale e fisico di costruzione del sapere, come adeguato contesto epistemologico e storico, diventa il focus dei nuovi dispositivi di formazione situata, capaci di accompagnare i processi di apprendimento, che, naturalmente, accadano all’interno delle comunità di ricerca. In tale cornice concettuale, la scuola come comunità di pratiche, come processo partecipativo, permette a docenti e discenti di essere dentro i processi conoscitivi e relazionali con protagonismo e responsabilità, pensando in prima persona la realtà, maturando un atteggiamento di fondo, che consenta loro di esistere come attori e autori della loro vita. In una scuola così intesa non si trasmettono soltanto conoscenze, l’insegnante non è chiamato soltanto ad organizzare il proprio sapere disciplinare, mediandolo, ma insegnanti e studenti, con le loro “storie”, con i loro saperi narrativi, partecipano, a titolo diverso, ad esperienze di costruzione congiunta di saperi. La classe si trasforma in un “campo discorsivo” e in uno “spazio riflessivo”; i saperi, le conoscenze e gli apprendimenti che ne scaturiscono derivano da processi di narrazione, di scambio e di negoziazione tra storie di sé e saperi narrativi piuttosto che da trasmissione intenzionale (Melacarne, 2008, 103-204). La logica partecipativa diventa una categoria epistemologica in grado di porre le basi per la costruzione di teorie pratiche che, nate nel contesto della situazione locale, sono in grado di generare nuovi corsi d’azione.

3. Linee di intervento La svolta narrativa riflessiva chiama, dunque, la scuola e la professionalità dell’insegnante a ridefinire le proprie teorie su come gli studenti apprendono, a rivedere le modalità consuetudinarie con cui viene gestita la conoscenza (Comoglio, 1998; Cacciamani, 2008). Si configurano nuove opzioni didattiche, l’insegnamento diventa un “mestiere” che non si fonda esclusivamente su competenze dichiarative (conoscenza dei contenuti, delle metodologie, della psicologia, della pedagogia, della docimologia) ma si fonda essenzialmente su competenze procedurali, capaci di gestire un ventaglio più ampio di strumenti concettuali ed operativi (come si programma, come si gestisce un’aula, come si entra in rapporto con gli studenti, con i genitori, come si progettano piani di lezione, come si deve

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contestualizzare la propria attività di insegnamento) (Melacarne, 2008, 190). Per l’insegnante, diventa centrale attivarsi per ridefinire i problemi didattici in termini di problemi legati all’organizzazione di attività sociali, di scambio e costruzione della conoscenza o di supporto alla scoperta e alla ricerca (ivi, 195). In tale direzione, a nostro avviso, “l’interazione simultanea” (Kagan, 2000)1, “l’interdipendenza positiva” (Johnson, Jonson, Holubec, 1996)2, “la responsabilità individuale” (Kagan, 2000)3, “la partecipazione equa”4 si possono porre come linee d’intervento di un apprendimento cooperativo che possa aiutare insegnanti e alunni ad incrementare il potere dell’individualità e a declinare il pronome “io” senza cadere nell’arroganza. Con ciò non ignoriamo, come numerose ricerche hanno evidenziato, gli elementi di criticità che l’opzione didattica dell’apprendimento cooperativo – come del resto ogni altra opzione didattica – può presentare all’interno dei molteplici modelli che ne condividono il quadro teorico5. Riteniamo, soltanto, seguendo Cohen (Cohen, 1999), che la destrutturazione del compito (in base ai livelli di competenze), la distribuzione della responsabilità (attraverso un lavoro di co-costruzione del sapere) e la distribuzione situata (che implica una necessaria cooperazione) possano costituire delle valide strategie in una classe che – in una prospettiva di lavoro di rete – si configuri sempre più come una risorsa per l’apprendimento, in cui tutti, con le loro narrazioni, da protagonisti responsabili, possano partecipare a tratteggiare ciò che Watzlawick chiama un sistema di punteggiatura (Watzlawick, 1976, 63)6.

Riflessioni conclusive Entro i nuovi scenari concettuali, delineati da una pedagogia con un’identità costruttivista, protagonismo e responsabilità si stagliano come parole chiave di una scuola che si configura come comunità di ricerca e insieme come comunità di pratiche. In tale scuola il focus della formazione si sposta dall’individuo che apprende alla comunità di pratiche, si supera la diade insegnante/discente per una pluralità di forme di relazione e partecipazione e si richiede agli insegnanti, ai genitori e ai discenti protagonismo e responsabilità. Una prospettiva epistemologica, questa da noi delineata, che ben si coniuga con una prospettiva etica. Precisa von Foerster che nel momento in cui entra in campo il concetto di responsabilità, ci troviamo a che fare col problema etico, e sottolinea quello che è l’imperativo etico costruttivista: «Agisci sempre in modo da accrescere il numero delle possibilità di scelte» (von Foerster, 2000, 233). Suddetta nostra chiave di lettura, lungi dalla pretesa di offrire risposte ad una problematica così complessa e controversa – qual è il protago-

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nismo a scuola – mira a sollecitare la riflessione su alcuni dei più significativi nodi epistemologici di una pedagogia impegnata, oggi, come evidenzia tra gli altri Cosimo Laneve, a ridisegnare le “cornici” dei problemi, a fronteggiare il nichilismo, a criticare l’indifferenza verso l’area del significato, a rilanciare la mente intraprendente ed audace, a riscoprire l’amore per l’avventura intellettuale, ad educare allo slancio e al rischio, alla responsabilità e alla partecipazione attiva, guardando al terreno dei grandi ideali, “rivisitando”, quelli che la paideia più consapevolmente avvertita ha diffuso: il rispetto per la persona, la ricerca della verità, l’impegno per il bene comune, la solidarietà, la pace (Laneve, 2003). Una direzione di senso, questa, che invita tutti a riflettere sullo stretto nesso tra qualità della scuola e qualità della vita e a «riscoprire – come ben evidenzia Sira Serenella Macchietti – l’anima etica dell’educazione, dell’uomo e del cittadino, capace di vivere la città, collocandosi nella prospettiva del bene comune, cioè del bene di tutti e di ciascuno, in cui tutti sono chiamati ad essere veramente responsabili di tutti» (Macchietti, 2002, 23). Presentazione dell’Autore: Francesca Pulvirenti è Professore ordinario di Pedagogia Generale e Sociale, presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Catania, ove insegna Pedagogia Generale e Pratiche Narrative. È Presidente dell’As.Pe.I, sezione di Catania. È teacher educateur in P4C. Attualmente la sua attività scientifica si focalizza sui nuclei tematici del nesso tra epistemologie personali e professionali, identità di genere e pratiche narrative e riflessive.

Note 1

Kagan definisce l’interazione simultanea in classe come la possibilità di agevolare una partecipazione attiva di più studenti nella stessa attività. 2 Il principio esposto dal concetto di interdipendenza positivo è quello secondo cui il singolo non può avere successo se non lavorando congiuntamente in gruppo e il gruppo, viceversa, non può avere successo senza il contributo del singolo. 3 La responsabilità individuale si fonda sulla consapevolezza da parte dell’alunno, in quanto membro del gruppo, che il suo contributo ha un peso nel voto complessivo del gruppo e viceversa che il gruppo ha alla fine visibile la quantificazione del contributo individuale di ciascuno. 4 La partecipazione equa si interroga sulle condizioni che permettono a tutti i soggetti di partecipare all’interno del gruppo o della coppia. 5 Tra i principali modelli operativi ricordiamo: Learning together; Student tem learning; Structural approach; Complex instruction; Group investigation. 6 «Punteggiare, imporre un ordine alle sequenze di eventi che circondano e concernono ogni essere vivente, è un bisogno radicato negli strati più profondi della neurofisiologia delle nostre percezioni» scrive Watzlawick.

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SCUOLA E PARTECIPAZIONE: DALLA FUNZIONE AL BENE COMUNE Marco Piccinno Abstract: The principle of the share, in the Italian school, it finds her moment of maximum application in the years ’70, with the approval of the law on the Delegated Decrees. The consequences of such principle have made to emerge, during the time, of the problems, that have ended with to make the school a dependent institution, if not subordinate, to other social components. The need to integrate school and society demands, therefore, an afterthought of the value of the share, with the purpose to correlate its premises not to the perspective of the anymore “social function”, on the contrary to that of the “well common”. Riassunto: Il principio della partecipazione, nella scuola italiana, trova il suo momento di massima applicazione negli anni ’70, con l’approvazione della legge sui Decreti Delegati. Le conseguenze derivanti dall’applicazione di tale principio hanno fatto emergere, nel corso del tempo, delle criticità, che hanno finito con il rendere la scuola un’istituzione dipendente, se non subordinata ad altre componenti sociali. Il bisogno di integrare scuola e società esige, perciò un ripensamento del valore della partecipazione, al fine di correlare le sue premesse non più alla prospettiva della “funzione sociale”, bensì a quella del “bene comune”. Parole chiave: scuola, comunità, bene comune, partecipazione, appartenenza. 1. Nell’ordinamento scolastico italiano, il principio della partecipazione inizia a farsi strada negli anni ’70, con l’emanazione della legge 477 del 30/7/1973 e dei successivi Decreti Delegati. Con tale provvedimento, si intende realizzare lo scopo di «promuovere la partecipazione della gestione della scuola, dando ad essa il carattere di una comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica»1. In seguito al disposto legislativo, vengono istituiti nelle realtà scolastiche gli organismi di gestione partecipata, nei quali, oltre al personale docente, vengono inserite le rappresentanze degli altri soggetti che ruotano attorno alla scuola, primi fra tutti genitori ed allievi. Dopo quasi quarant’anni da quella riforma, ci si chiede se l’idea di partecipazione che essi intendevano attuare si sia veramente realizzata e

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se, soprattutto, essa abbia migliorato la capacità della scuola di assolvere al suo compito istituzionale. Sul piano strettamente pedagogico-didattico, l’intenzione che anima i disposti legislativi in esame è senz’altro quella di realizzare le condizioni di una scuola della comunità, così come era stata intesa da J. Dewey agli inizi del secolo scorso (Dewey, 1971). Alcuni fenomeni ricorrenti, che si sono verificati in seguito alla concreta applicazione dei decreti, pongono tuttavia l’esigenza di riflessione più approfondita, allo scopo di verificare se la scuola che tali provvedimenti hanno consegnato all’attuale contesto sociale si possa effettivamente definire una scuola della comunità, ovvero se in essa siano presenti elementi di criticità che impongono un ripensamento di quelle scelte e di quelle prassi. Nella realtà dei fatti, l’idea di partecipazione che ha animato gli interventi sulla scuola attuati a partire dagli anni ’70 induce – almeno ad una riflessione operata sulla base di presupposti pedagogici e non genericamente sociali – non pochi motivi di perplessità. In effetti, la scelta di inserire negli organismi di gestione della scuola alcune figure direttamente coinvolte nell’esercizio della sua azione (genitori ed alunni), ha comportato l’immissione di notevoli elementi di novità nell’esercizio dell’attività didattica. Nonostante questo, l’assimilazione del principio di partecipazione si è rivelata decisamente problematica, poiché ha dato luogo ad un insieme di contraddizioni e di divergenze che il sistema attuale non sembra capace di metabolizzare o, comunque, di ricondurre a sintesi. L’apertura della scuola alle istanze del tessuto sociale appare gravata da un limite che indebolisce in maniera significativa lo svolgimento dell’intero processo. Essa si presenta governata da un generico principio di inclusione, non supportato, tuttavia, da un efficace processo di integrazione. Il tentativo di attuare la scuola della comunità pensata dal Dewey è stato perseguito attraverso una logica sostanzialmente inclusiva, mediante la quale sono stati cooptati all’interno degli organismi di gestione tutta una serie di presenze animate da intenzionalità differenti, se non anche contrapposte (principio di inclusione), ma decisamente prive delle competenze gestionali capaci di far convergere le diversità verso la costruzione di un progetto didattico comune e condiviso (processo di integrazione). Detto in altre parole, sulla scorta dei principi dei Decreti Delegati, sono stati inseriti nel sistema dei soggetti portatori di intenzionalità decisamente distoniche rispetto agli scopi istituzionali della scuola, nella convinzione che si potesse realizzare partecipazione attraverso la semplice inclusione di tali presenze negli apparati gestionali degli istituti.

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Il tentativo di istituire una scuola della comunità si è tradotto, di conseguenza, nella costruzione di contesti didattici attraversati da forti tensioni e tendenti a costituire come alternative e non negoziabili le diverse intenzionalità presenti nelle loro strutture. La tendenza ad includere senza integrare ha trovato il suo esito nella definizione di un clima relazionale fondato sulla radicalizzazione dei conflitti, dove l’affermazione di una posizione transita necessariamente attraverso l’azzeramento e la delegittimazione delle posizioni altrui. Allo stesso tempo, l’apertura della scuola al territorio pone problemi che non rimangono circoscritti nel perimetro delle relazioni intrasistemiche. Le criticità si estendono, infatti, anche ai contesti allargati, e chiamano in causa le relazioni che il contesto scolastico intrattiene con le altre agenzie, formali e non formali, presenti sul territorio. L’introduzione delle altre realtà sociali all’interno della cornice didattica ha affiancato alle tradizionali finalità della scuola tutta una serie di interventi diversi da quelli istituzionali, ma che hanno progressivamente occupato segmenti sempre più ampi e significativi della sua azione. Alla scuola si è chiesto, per esempio, di proporsi come centro di aggregazione, di venire incontro ai bisogni affettivi degli allievi (operando, spesso, una funzione suppletiva rispetto alle deficienze genitoriali). Sotto la spinta delle emergenze occupazionali, alla scuola si è assegnato il compito di finalizzare i suoi interventi all’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, al punto che le diverse realtà scolastiche traggono oggi la loro legittimazione (almeno agli occhi dell’opinione pubblica) in base all’estensione del periodo temporale che i suoi allievi impiegano per acquisire un ruolo professionale. Sulla scorta di tali premesse, l’intervento promosso dalla scuola ha dovuto subire un processo di valutazione (e di validazione del suo operato) costruito attorno a presupposti sostanzialmente esterni (se non estranei) alle sue finalità istituzionali. Il valore dell’azione didattica ha trovato i suoi criteri di legittimazione nelle prospettive di analisi e di giudizio provenienti dalle famiglie, dal mondo dell’economia, dal mondo del lavoro, dal mondo del volontariato sociale. Tali sottosistemi sociali sono sicuramente portatori di scopi e di intenzionalità di indiscutibile spessore civile e, tuttavia, essi fanno riferimento ad un universo di valori, che per quanto proponibile e necessario, si rivela notevolmente distante dalla ratio che struttura l’agire dell’istituzione scolastica. Mentre l’intenzionalità formativa della scuola continua ad essere quella di mediare la conoscenza in una prospettiva che possa risultare proficua per la crescita personale, tali realtà sociali, in nome della partecipazione, assegnano all’azione didattica compiti notevolmente divergenti (e spesso anche distonici) rispetto alla logica che governa tali scopi.

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L’obiettivo di costruire una scuola della comunità fondata sulla partecipazione ha, pertanto, determinato l’emergere di situazioni fortemente destrutturanti. L’apertura dell’istituzione al territorio ha trovato il suo esito in una trasformazione paradossale dei legami che correlano la scuola alle altre agenzie presenti nel contesto. Il riconoscimento e la valorizzazione dei suoi interventi sono stati univocamente e pervasivamente correlati al livello di gradimento riscontrato nelle famiglie, nel mondo del lavoro, nel mondo delle professioni. In questo modo, la scuola della comunità ha assunto la configurazione, critica e paradossale ad un tempo, di una scuola subordinata alla comunità, ovvero una realtà istituzionale che trova la fonte della sua legittimazione nella disponibilità a divenire una estensione, se non anche una appendice, delle agenzie che operano assieme ad essa nel tessuto sociale. Il modello di partecipazione promosso dai Decreti Delegati ha fatto convergere nel perimetro scolastico tutto un insieme di realtà extrascolastiche che, nella realtà dei fatti, rivelano sostanziali difficoltà di connessione intersistemica. L’apertura della scuola alle realtà sociali attraversa oggi una crisi di sintonizzazione, dovuta alla netta prevalenza del polo extrascolastico sui tradizionali compiti formativi dell’azione didattica. Ne deriva una situazione decisamente paradossale, in virtù della quale la connessione tra scuola ed extrascuola, indotta dal principio di partecipazione, attiva processi di trasformazione che appaiono governati non dalle normali logiche sistemiche, bensì da tensioni prevaricatrici che mettono seriamente in difficoltà le configurazioni identitarie della scuola. In questa prospettiva, aprirsi al territorio significa non semplicemente modificare i propri assetti per rendere più accessibile il confronto, bensì negare in maniera decisiva le strutture, i principi organizzatori, le stesse finalità che governano il proprio agire. 2. La riflessione sugli esiti indotti dai Decreti Delegati fa emergere l’esigenza di interrogarsi sulle ragioni per le quali l’applicazione del principio di partecipazione abbia assunto derive così critiche e paradossali per l’istituzione scolastica. La risposta compiuta a tale quesito richiede senz’altro un approfondimento ed una articolazione che non è possibile operare in questa sede; tuttavia (pur tenendoci lontani da pretese di esaustività) la considerazione critica dei dinamismi descritti in precedenza consente di portare in rilievo alcuni elementi che fanno riferimento non tanto a componenti di carattere sociale, ma a processualità di spessore epistemologico e fondativo. Il percorso generativo della divaricazione tra scuola ed extrascuola può essere considerato non tanto come la risultante di dinamismi di carattere contestuale, quanto, piuttosto, come l’esito di tensioni che riman-

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dano all’universo culturale entro il quale è maturato il concetto stesso di partecipazione. La ratio che struttura la legge 477/73 ed i successivi Decreti Delegati propone un’idea di scuola concepita in termini di funzione sociale, laddove, invece, le criticità emerse nel corso dei decenni (e sinteticamente riportate nelle pagine precedenti) rendono oggi auspicabile l’adozione di un criterio interpretativo fondato sulla nozione di scuola come bene comune. La differenza tra i due modi di intendere la scuola non ha soltanto un rilievo organizzativo, ma, come già rilevato in precedenza, assume un rilievo a tutti gli effetti epistemologico. La decisione di fondare una realtà sociale sul concetto di funzione comporta la conseguenza di collocare quel sistema al servizio di scopi e di finalità che non si generano al suo interno, ma che si originano da fattori esterni2; significa, in altre parole, “centrare” quella realtà non su se stessa, ma su altri. In questo senso, intendere la scuola come funzione sociale implica la scelta di individuare la sorgente generativa della sua struttura e dei suoi compiti in elementi che si collocano all’esterno del suo perimetro e che, di fatto, la rendono un esito o una estensione di variabili e di presenze “altre”, rispetto ai suoi confini. La prospettiva del bene comune si profila, invece, più complessa e più articolata delle semplificazioni indotte dalla logica funzionalista. Anche in questo caso non è possibile dare una definizione compiuta del concetto in esame e, tuttavia, in termini molto generali, esso può essere definito come un bene che rappresenta contemporaneamente un “bene in sé” ed un bene “per me”, ovvero come un bene che può essere “per ciascuno” senza cessare di essere “per tutti”3. In questo senso, la scelta di concepire la scuola come bene comune esige il superamento degli esiti correlati alle logiche inclusive descritte nel precedente paragrafo, le quali codificano come alternative ed antagoniste le diverse intenzionalità che insistono nel perimetro dell’istituzione scolastica. Se la scuola è un bene comune, allora essa non si può profilare come l’esito di scopi e di tensioni che appartengono a situazioni esterne. Assumere la prospettiva del bene comune come criterio generativo dell’azione didattica comporta l’attivazione di un impegno che si colloca su tre versanti: a) la connessione intersistemica tra i soggetti istituzionali che si collocano al suo interno; b) la costruzione di modelli di scambio con la comunità improntati al principio della reciprocità; c) il recupero di un modello formativo intrinsecamente intenzionato alla formazione dell’uomo. La connessione intersistemica tra i soggetti istituzionali che si collocano nella scuola esige il ripensamento delle prassi operative che, come evidenziato in precedenza, codificano come alternative ed antagoniste le

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diverse identità che si collocano al suo interno. La scuola deve essere senz’altro «per gli allievi, per le famiglie, per il mondo del lavoro, per l’economia»; ma senza, per questo, escludere il dato fondamentale ed incontrovertibile che essa, per centrarsi in se stessa, deve necessariamente «essere anche degli insegnanti e dei soggetti che operano al suo interno», istituzionalmente incaricati di attivare ed orientare la sua azione. La costruzione di modelli di scambio con la comunità improntati al principio della reciprocità implica, invece, l’assunzione di una prospettiva di azione sostanzialmente relazionale. Se la scuola è bene comune, essa ha non soltanto il compito di recepire e/o adempiere le istanze sociali, ma anche quello di orientarsi verso la società, per contribuire alla chiarificazione ed alla definizione delle sue istanze. Nella prospettiva delineata, il compito che viene riconosciuto alla scuola è non soltanto quello di abilitare i giovani ad assumere le configurazioni di ruolo necessarie alla crescita comunitaria, ma anche quello di agire sulla comunità per promuovere al suo interno una interpretazione dei ruoli capace di servire i bisogni di crescita dei giovani. Nella prospettiva del bene comune, l’azione della scuola si struttura come un processo volto non soltanto a radicare gli allievi nelle configurazioni di ruolo, ma anche a rielaborare tali configurazioni secondo una prospettiva che trascenda le attese sociali e si collochi al servizio della persona considerata nella sua totalità. In questo senso, il fatto che la scuola sia “per la famiglia, o per il lavoro, o per l’economia” non significa che essa debba subordinare la sua azione al soddisfacimento di tali istanze; significa, piuttosto, che essa è chiamata ad operare per promuovere un modello di famiglia, di lavoro, di economia che sia funzionale alla crescita dei soggetti che si collocano al loro interno. Il recupero di un modello formativo intrinsecamente intenzionato alla formazione dell’uomo rappresenta, infine, l’orizzonte di senso decisivo, per sottrarre la scuola al principio funzionalista ed orientarla verso la prospettiva del bene comune. Assumere tale criterio come elemento regolativo dell’azione didattica significa strutturare un intervento formativo finalizzato non tanto alla formazione del lavoratore, quanto piuttosto alla formazione dell’uomo. La realizzazione di un tale obiettivo richiede la necessità di strutturare percorsi formativi capaci di orientare la trasmissione delle conoscenze non soltanto verso la formazione delle competenze, ma anche e soprattutto verso lo sviluppo della persona, considerata nella totalità del suo modo di essere. Del resto, è proprio la dismissione di questo compito che, negli ultimi decenni, ha reso la scuola una funzione di sistemi sociali “altri”, portatori di intenzionalità diverse da quelle specificatamente formative. Sicuramente l’agire della scuola non può rimanere estraneo al rapporto con tali sistemi; tuttavia, le sue scelte didattiche e formative non possono essere in funzione di tali legami e di tali appartenenze. La prospettiva del bene comune non comporta l’estromissione

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delle competenze dal ventaglio degli obiettivi che la scuola è chiamata a perseguire; allo stesso tempo però, lo scopo del loro insegnamento non può essere circoscritto alla formazione del professionista, ma deve essere finalizzato a formare nell’allievo la capacità di costruirsi come soggettività centrata su se stessa e relazionata al mondo; come identità capace di decidersi da sé senza negarsi la disponibilità ad incontrare gli altri; come persona capace di trascendere la dimensione puramente pratica dell’agire, per trasformarla in momento creativo, orientato alla affermazione dei suoi valori nel mondo. Presentazione dell’Autore: Marco Piccinno è Professore associato di Didattica Generale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università del Salento. Tra le sue pubblicazioni: La comunicazione educativa nella famiglia, Roma, Armando, 2004; Contesti comunicativi e genitorialità, Roma, Bulzoni, 2008; Percorsi educativi e neotelevisione, Lecce, Pensa, 2009.

Note 1

Art. 1, legge 477/73. Sul concetto di funzione sociale, cfr. M. Lessnoff (1984), La struttura delle scienze sociali, Torino, Loescher; T. Parsons (1971), Famiglia e socializzazione, tr. it., Milano, Mondadori. 3 Sul concetto di bene comune, cfr J. Maritain (1987), La persona e il bene comune, tr. it., Brescia, Morcelliana. 2

Bibliografia Baldacci, M. (2010), Curricolo e competenze, Milano, Mondadori. Bertagna, G. (2008), Autonomia: storia, bilancio, rilancio di un’idea, Brescia, La Scuola. Damiano, E. (1993), L’azione didattica, Brescia, La Scuola. Dewey, J. (1971), Scuola e società, tr. it., Firenze, La Nuova Italia. Lessnoff, M. (1984), La struttura delle scienze sociali, Torino, Loescher. Parsons, T. (1971), Famiglia e socializzazione, tr. it., Milano, Mondadori.

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IL PROTAGONISMO ANOMALO DEI BULLI: CHE FARE? Antonio Michelin Salomon Abstract: Bullying can also be interpreted as an abnormal protagonism’s school form. In fact, for those who can not distinguish themselves from a cognitive point of view, often “to make one self visible” use those skills/ personal resources (physical strength, aggressiveness, etc…) who do enjoy to the dominant tough, recognition, acceptance and, last but not least, prestige in the group. The antagonism’s culture (competition, abuse of power and violence) remarkable in society, is partly and in some facets, present even in the school and can ensure that the overbearing manner become sheer “custom”, a constant behavior, very hard to deconstruct if not managed properly and especially early. Are then given some good scholastic’s practices aimed at building a culture of respect and solidarity (among pupils, between pupils and teachers and between school communities and social community) that feeds on dialogue, sharing of thoughts, emotions and actions. Riassunto: Il bullismo può essere letto anche come una forma anomala di protagonismo scolastico. Infatti coloro che non riescono a distinguersi da un punto di vista cognitivo spesso per “rendersi visibili” utilizzano quelle doti/risorse personali (prestanza fisica, aggressività, ecc.) che fanno godere al bullo dominante, riconoscibilità, consenso e, non ultimo, prestigio nel gruppo. La cultura dell’antagonismo (competizione, prevaricazione e violenza) presente nella società ed, in parte e per certi aspetti, anche nella scuola può far sì che la prepotenza possa divenire una vera e propria “abitudine”, una costante comportamentale molto difficile da destrutturare se non gestita opportunamente e, soprattutto, precocemente. Vengono quindi indicate alcune buone pratiche scolastiche tendenti a costruire la cultura del rispetto e della solidarietà (tra gli alunni, tra alunni ed insegnanti e tra comunità scolastica e comunità sociale) che si alimenta di dialogo, di condivisione di pensieri, emozioni ed azioni. Parole chiave: protagonismo, antagonismo, bullismo, antibullismo, scuola. Quasi ogni giorno appaiono su youtube le imprese di adolescenti con i loro filmini.

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Ieri c’era la moda dei lanci di sassi dal cavalcavia da parte di giovani non sempre appartenenti alle fasce sociali cosiddette a rischio e, prima ancora, vi era un assurdo rituale che prevedeva l’attraversamento di una strada a scorrimento veloce con una macchina lanciata a folle velocità e con i «fari spenti nella notte per vedere se poi è tanto difficile morire»1. Oggi fanno moda adolescenti che realizzano filmini scolastici del tipo “scuolazoo” che, di fatto, non fanno altro che imitare la realtà che li circonda, a volte enfatizzandola. Sarebbe da interrogarsi sul perché i giovani ricercano anomali modi di manifestare la loro presenza, la loro visibilità. E la risposta potrebbe essere, per così dire, abbastanza ovvia: forse perché i contesti in cui vivono non sono in grado di offrire loro quella “visibilità” che li possa fare fuggire da una condizione esistenziale ora caratterizzata dall’essere solo dei “bamboccioni” sedotti da un effimero octroyé che alimenta il loro narcisismo, ora dall’essere dei veri e propri ospiti inquietanti, che contagiati da una progressiva e sempre più marcata insicurezza, sono condannati a una deriva dell’esistere che coincide con il loro assistere allo scorrere della vita in terza persona. Questo è il quadro desolante che fa da cornice all’avventura esistenziale dei nostri giovani e dei nostri adolescenti che, per sfuggire a quella sorta di deserto dei tartari dove famiglia e scuola, sempre più spesso, appaiono ridotte a rituali privi di qualsiasi significato profondo, tentano di provare la loro (pseudo) “pienezza”, la loro (pseudo) “espansività” attraverso facili, ma deleteri “riti della crudeltà” e/o della violenza. Spesso la scuola diventa il luogo privilegiato di questa sorta di turbinio dionisiaco, caratterizzato da trasgressione, esaltazione, stordimento e rappresenta uno dei luoghi privilegiati in cui l’apparire diviene la legittimazione stessa dell’esistere. Il vuoto interiore che deriva da questo modo distorto di protagonismo esistenziale che trova radici in un ethos culturale che spesso privilegia l’avere sull’essere può rappresentare una chiave di lettura di una forma di protagonismo anomalo, qual è il bullismo, che si manifesta nella scuola in quanto luogo principale di aggregazione giovanile sia pure sui generis. Perché l’attenzione sempre crescente oggi nei confronti di un problema che sicuramente «c’è sempre stato, ci siamo passati tutti (direttamente o indirettamente) ma… non è mai morto nessuno!»? Forse perché oggi grazie anche a youtube è un problema che è diventato più palpabile rispetto al passato e che comprende tutta una serie di manifestazioni più sottili e complesse rispetto a quelle che ci sono state narrate già da Sant’Agostino fino a De Amicis e oltre. Tali manifestazioni sono oggi riconducibili ad azioni quali: – schernire e isolare sistematicamente (mediante relazioni face to

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face o anche attraverso l’utilizzazione di canali mediatici) ragazzi ritenuti deboli da parte di un singolo o di un gruppo – offendere e isolare ragazzi appartenenti a minoranze etniche, ragazzi omosessuali, ragazzi con menomazioni di varia natura – attuare forme di ricatto (richieste di soldi o altri beni materiali…) sotto minaccia di violenza. Di fronte a questi episodi, purtroppo, si può notare (più in passato rispetto al presente) un generalizzato atteggiamento caratterizzato, spesso, da “tolleranza” oppure da errori di valutazione come conseguenza di veri e propri miti e di false credenze in ragione di alcune considerazioni quali: – il bullismo è un fenomeno che riguarda solo le zone degradate, di povertà ed emarginazione sociale – i bulli provengono da famiglie problematiche – il bullismo, tutto sommato, consiste in scherzi un po’ turbolenti che non fanno alcun male – il bullismo può essere considerato un modo per manifestare una “sana” aggressività – il bullismo può essere una fase fisiologica della crescita che aiuta l’eventuale vittima a rafforzarsi nel carattere – le vittime devono imparare a cavarsela da sole – le vittime non fanno nulla per cambiare la loro situazione e a volte sembra, addirittura, che “se la vadano a cercare” – “Fare la spia è sbagliato!” e, pertanto, gli adulti non dovrebbero incoraggiare la denuncia di atti di bullismo. Non è il caso, qui ed ora, di confutare una per una l’infondatezza di tali affermazioni. Ma vediamo più da vicino di delineare una sorta di tipologia di atti bullistici, che possono essere – verbali (insulti, umiliazioni, ecc. diretti) – fisici (spinte e schiaffi, calci, “sgambetti”, danneggiamento di oggetti personali, ecc.) – psico-sociali (esclusione, diffusione di pettegolezzi al fine di…, ecc.) – elettronici o cyberbullying (vessazioni via e-mail o sms, che superano la barriera dell’incontro fisico tra bullo e vittima) e, soprattutto, individuare quegli aspetti e quelle costanti relazionali che caratterizzano l’atto bullistico e che consistono in: – intenzionalità di arrecare un danno – asimmetria nei rapporti di forza – persistenza nel tempo – assenza di compassione – mancanza di sostegno sociale.

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A questi aspetti vi sono, inoltre, da associare anche taluni antecedenti prossimali o, se si preferisce, costanti logistiche. Da questo punto di vista, gli atti bullistici – sono più frequenti in contesti gruppali in cui si sta insieme senza scegliersi – sono presenti soprattutto in gruppi di nuova formazione, ad esempio al primo anno delle secondarie di primo grado più che al terzo e al primo anno di “scuola superiore” più che negli anni successivi. In tali contesti la ricerca di occasioni per “rendersi visibili” per coloro che non riescono a distinguersi da un punto di vista cognitivo, può trovare circostanze favorevoli per far valere nei confronti di vittime designate (spesso per caratteristiche fisiche, socio-familiari, personologiche, ecc.) prestanza fisica, aggressività, ecc., quelle “doti”, cioè che fanno godere al bullo dominante riconoscibilità, consenso e, non ultimo, prestigio nel gruppo in forme per l’appunto di “protagonismo anomalo” (che trova implicito supporto nel branco degli spettatori). Ma, è il caso di chiedersi, perché si diventa bulli? Lo stato dell’arte della ricerca dimostra che la diffusione della cultura della prevaricazione è correlata al cambiamento delle forme di comunicazione a cui l’individuo partecipa, in specie, nel passaggio alla preadolescenza (e all’adolescenza): e spesso è da assumere anche come risultato della crisi o del peggioramento della comunicazione familiare e scolastica2. Inoltre la cultura dell’antagonismo (competizione, prevaricazione e violenza) presente nella società, sembra legittimare reazioni offensivo/ violente alle offese subite (o presunte tali!). Orbene, per contrastare tale fenomeno si è spesso portati ad utilizzare modelli e strategie soprattutto di tipo reattivo e riparativo, più che preventivo. In quest’ottica, il ruolo adulto, nell’approccio tradizionale al “bullismo”, consisterebbe soprattutto nel contrastare il fenomeno con interventi sanzionatori e repressivi in ossequio all’erroneo principio secondo il quale, nella normale gestione della disciplina, i conflitti vengono risolti da una figura di autorità (in genere adulta) dimenticando che in tal modo non si fa altro che alimentare spesso vere e proprie forme di revanche. Ma, molto spesso, l’intervento diretto dell’adulto, il va sans dire, sortisce effetti controproducenti: infatti, molto spesso determina processi di stigmatizzazione nei confronti del bullo o presunto tale (per cui qualsiasi comportamento non necessariamente svolto in senso prevaricatore viene, viceversa, letto e giudicato come tale). Allo stesso modo l’intervento diretto dell’adulto a protezione della vittima può ulteriormente indebolire la sua posizione nel gruppo dei coetanei, confermando la sua incapacità di difesa.

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Viceversa, poiché gli attori della scena bullistica sono senza dubbio carenti di abilità socio-relazionali (impegno personale, empatia, collaborazione, responsabilità), occorre ipotizzare interventi di tipo ecologico, preventivo e sistemico, in considerazione del fatto che il bullismo è una problematica che va considerata in prospettiva prevalentemente gruppale, proprio perché si afferma all’interno di un gruppo che comprende, come si sottolineava in precedenza, oltre ai bulli e alle vittime, anche un buon numero di persone a) che solo apparentemente non sono direttamente coinvolte in ciò che sta accadendo b) che possono prendere posizione e che, viceversa, decidono di non intervenire3. Cosa fare, dunque, nei confronti di tutti gli attori coinvolti in tale problematica? Quali iniziative progettare ed attuare affinché risulti implicata l’intera comunità scolastica? In questo senso la scuola, in primis, dovrebbe, però, acquistare la dimensione di una vera e propria “palestra” all’interno della quale si sollecitano, si esercitano e si sviluppano competenze prosociali, empatia, comunicazione assertiva e si sperimentano tutte quelle emozioni sociali che servono allo studente-persona per crescere armonicamente come singolo e come socius. In tal senso, inoltre, la scuola potrebbe rivendicare a pieno titolo uno dei suoi ruoli specifici che derivano ad essa dall’essere, in effetti, l’unico vero e privilegiato “osservatorio” dei problemi che molti ragazzi e ragazze presentano nella relazione coi pari età. Spesso, purtroppo, questo ruolo passa in secondo piano rispetto ad esami ed interrogazioni che sembrano esaurire la funzione dell’istituzione scolastica: tralasciando di confrontarsi con le problematiche e con le sofferenze che derivano agli alunni dall’inserirsi in un gruppo e dallo sperimentare le dinamiche, talvolta perverse, che regolano la convivenza al suo interno. Poiché, infatti, il bullismo è fenomeno sistemico che nasce, si alimenta e tende a sedimentarsi all’interno di dinamiche gruppali è lì che occorre intervenire in maniera preventiva costruendo un clima disteso, non eccessivamente competitivo, tale che consenta la manifestazione e il riconoscimento delle variabili (abilità, potenzialità, vissuti, ecc.) personali e la loro conseguente valorizzazione. Occorre lavorare su questo aspetto che considero preliminare per far sì che siano sollecitate e promosse quelle variabili che supportano atteggiamenti e capacità empatici, in quanto la comprensione e la regolazione emotiva può giovare a tutti coloro che compongono un determinato contesto4. Queste sono da considerare premesse necessarie per la costruzione

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di contesti relazionali che consentano di esprimere se stessi e di superare senza timore e/o aggressività difensiva gli ostacoli, gli insuccessi, le frustrazioni. Ciò consente di poter lavorare precocemente per far sì che i comportamenti aggressivi e di prevaricazione risultino essere alquanto contenuti e controllabili in quanto, quando si organizza in maniera forte e supporta il modus operandi di una persona, l’uso della violenza diviene, per così dire, una vera e propria “abitudine”, una costante comportamentale molto difficile da destrutturare. A tal fine occorre promuovere l’acquisizione di abilità comunicative e di competenze che consentano a ciascuno di riconoscere ed esprimere le proprie emozioni attraverso il modello dell’assertività. Il focus si sposta a questo punto sul chi e sul come operare in tale prospettiva. Ovviamente la scuola si propone come momento e luogo privilegiato di prevenzione solo a condizione che si realizzi una convergenza di azioni istituzionali e individuali finalizzate a far crescere una cultura (scolastica) basata sui valori della democrazia, della legalità e della solidarietà. Ma per far ciò non esistono sentieri levigati o “ricette” sicure, bensì quadri di riferimento teorico-operativi cui ispirare le pratiche quotidiane del fare scuola e rendere efficaci le prassi educative. In via preliminare mi pare opportuno riportare e analizzare i vari programmi e le linee di azione ideati e/o attuati in altri contesti nazionali per contrastare il fenomeno del bullismo, ma non nel senso che il già fatto o il già detto, per il semplice fatto di essere già stato fatto o proposto, debbano essere applicati rigidamente e sistematicamente, bensì in quanto rappresentano sollecitazioni, suggerimenti, suggestioni che non possono che prospettare risorse imprescindibili dell’agire educativo. L’aspetto su cui la maggior parte di tali esperienze punta consiste nel promuovere interventi tesi a costruire una cultura del rispetto e della solidarietà tra gli alunni e tra alunni ed insegnanti che si alimenta di dialogo, di condivisione di pensieri, emozioni ed azioni. In tal caso la scuola diviene comunità di apprendimento e laboratorio/palestra di relazionalità a patto, però, che vengano attivate occasioni di apprendimento cooperativo e di attività positive comuni, incontri tra insegnanti, genitori e alunni, momenti in cui tutti abbiano la certezza di poter discutere liberamente difficoltà o problemi personali vissuti5. Altra tecnica impiegabile per permettere di sviluppare una maggiore empatia e consapevolezza degli altri, di familiarizzare con situazioni critiche e di appropriarsi di nuovi repertori comportamentali mi sembra il “Teatro dell’Oppresso” (TdO) che è un metodo teatrale inventato e sviluppato da Augusto Boal negli anni Sessanta in Brasile e ora diffuso in tutto il mondo, che usa il teatro come linguaggio, come mezzo di conoscenza e di trasformazione della realtà interiore, relazionale e sociale

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e delle situazioni di disagio, malessere, conflitto, oppressione, appunto, che gli spettatori vivono nel corso della “performance” messa in scena6. Ho indicato queste due tecniche a solo titolo esemplificativo in quanto entrambe rappresentano strategie di prevenzione generalizzata volte, come si diceva, a potenziare le risorse personali a prescindere dall’immediato verificarsi di episodi più o meno gravi, nella fattispecie, di bullismo ed in quanto non vi è un intervento diretto dell’adulto sulle dinamiche relazionali che si concretizzano a scuola7. A livello di più specifica prassi scolastica, poi, potrebbe essere certamente significativo il prevedere occasioni di apprendimento cooperativo e di attività positive comuni: la pratica del cooperative learning, ad esempio, si presta particolarmente idonea a conseguire tale scopo (Comoglio, Cardoso, 1996; Comoglio, 1997, 29-54; Kagan, 2000). Infatti, l’interdipendenza positiva, che è tra gli “ingredienti” essenziali delle attività svolte all’insegna del cooperative learning, favorendo la costruzione di un senso di appartenenza responsabile, può prevenire fenomeni di prevaricazione sociale che secondo Dreikurs (Dreikurs, Grunwald, Pepper, 1982) sono la risultante dell’assunzione di atteggiamenti erronei (catturare l’attenzione, desiderio di intimidire e dominare, rivendicazione e vendetta, ecc.) per conseguire obiettivi sociali (prestigio, visibilità, ecc.) che magari collidono con il benessere del gruppo. Viceversa il lavoro in piccoli gruppi (specie se guidato da educatori preparati) porta al rinforzo dell’autostima, a comunicare e collaborare con gli altri, a dare e ricevere aiuto, a curare rapporti significativi con i pari e con gli adulti, che sono elementi imprescindibili per la costruzione di un’etica condivisa. Queste mie proposte valgono, evidentemente, per creare all’interno dei contesti formali di apprendimento quel clima relazionale caldo e propositivo che supporta un empowerment psicologico (riferito al singolo) quale premessa di empowerment sociale (riferito alla classe) grazie ai quali le classi si strutturano come vere e proprie “comunità competenti”8, caratterizzate dalla circolazione di un vasto repertorio di abilità sociorelazionali (Menesini, 2003). Tali abilità possono essere sollecitate da specifici interventi curricolari tendenti a costruire un senso di appartenenza ad un gruppo-classe percepito e vissuto come comunità di pratiche educative, ovvero avviate da una serie di stimoli culturali di vario tipo capaci di attivare una maggiore consapevolezza del problema e dei meccanismi psico-relazionali che lo sottendono. Interventi e stimoli provenienti prevalentemente dal quotidiano (mediante case work di episodi cui si è assistito o di cui si è avuto sentore, o di notizie di cronaca “sbattute” nella prima pagina di rotocalchi o dei vari telegiornali) o da suggestioni letterarie prodotte dall’ormai vasta

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bibliografia per giovani sull’argomento9, o, infine, dall’altrettanto ampio repertorio cinematografico-teatrale10. Ma che fare quando occorre intervenire in contesti all’interno dei quali l’atteggiamento bullistico assume i connotati della costanza comportamentale? Quali strategie utilizzare per cercare di contrastare condotte bullistiche conclamate? La prima sfida da affrontare, a tal proposito, è una certa mentalità secondo la quale, tutto sommato, non solo viene ammesso, ma anche (purtroppo!) apprezzato il bullismo a piccole dosi in quanto rappresenterebbe un modello comportamentale vincente, preludio al “farsi strada nella vita”. Così facendo si banalizza e/o si sottodimensiona il problema, laddove occorre potenziare la consapevolezza e la comprensione della gravità del fenomeno senza le quali ogni progetto di intervento risulta alquanto velleitario, inconcludente o, peggio, controproducente. Proficue, in tal senso, potrebbero essere l’istituzione di apposite “cassette” ove depositare in forma anonima le segnalazioni, ovvero, sul modello britannico, l’apertura di “sportelli amici” che potrebbero consentire di rilevare (possibilmente allo statu nascenti) il problema nei singoli contesti portando allo scoperto le situazioni nascoste, di incentivare forme di aiuto da parte dei ragazzi neutrali11 (Polito, 2000) e per mantenere allo stato di allerta l’attenzione di quegli adulti significativi (che rappresentano i cosiddetti referenti incaricati: dirigenti, docenti, personale non docente, genitori) che talvolta, come si diceva in precedenza, tendono, per i più svariati motivi, a minimizzare il problema12. Ma, indipendentemente dalle politiche scolastiche antibullismo che verranno adottate, occorre, secondo me, assumere come quadro di riferimento operativo i seguenti suggerimenti: – assumere un giusto equilibrio tra fermezza, comprensione e sostegno; – fermare gli episodi nel preciso momento in cui vengono osservati e solo successivamente cercare di capirne le cause; – sostenere innanzitutto le vittime, anche quando non sembrano simpatiche o si ritiene che colludano (nel senso che “se la siano cercata”) con l’aggressore; – stimolare e favorire la cultura del “raccontare” ciò che accade, in un clima di chiarezza e fermezza e al tempo stesso il meno punitivo e colpevolizzante possibile; – considerare i bulli come persone da aiutare oltre che da “fermare”; – sviluppare e favorire nel territorio il lavoro di rete attraverso la sinergia tra i diversi “soggetti” che si occupano di educazione e formazione. Si tratta di modalità di intervento suggerite e sperimentate da Ol-

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weus (Olweus, 1993), da Galloway e Roland, capaci – le statistiche che si riportano a sostegno delle tesi del primo e del progetto Tolleranza zero degli altri due Autori (Roland, Galloway, 2002, 299-312) sono indubitabili – di ridurre i comportamenti scolastici anti-sociali di circa la metà grazie proprio ad un intervento integrato in cui la scuola rappresenta solo un nodo della rete di azioni e risorse che sarebbe opportuno attivare! In Italia, in realtà, qualcosa si sta già muovendo in tale direzione e molte sono le iniziative già avviate in maniera coordinata che consentano un incremento della consapevolezza del problema, della sua reale (e non presunta) presenza nella scuola secondaria di secondo grado proprio negli anni iniziali quando si vanno a definire i “ruoli” che ciascun componente il gruppo-classe assumerà nel corso degli anni. Ma oltre ad una più approfondita conoscenza (quantitativa e qualitativa) del problema è necessario che si inneschi una convergenza di intenti (una vera e propria “politica integrata antibullismo”) con l’obiettivo di individuare criteri di azione e strategie educative, come si diceva, che possano rappresentare una solida piattaforma preventiva: – sollecitando in genitori e insegnanti stili relazionali positivi, rispettosi, incoraggianti sia a casa che a scuola (mediante, per esempio, percorsi di formazione per insegnanti e genitori); – realizzando una vera e propria “rete” tra le agenzie e le istituzioni extrascolastiche (associazionismo, tempo libero, ecc.) che, a vario titolo, possono rappresentare un punto di riferimento per l’adolescenza; collaborando con le altre istituzioni territoriali ed agenzie educative, per articolare contingenti e sistematici interventi per gestire opportunamente eventuali casi conclamati. In conclusione vorrei indicare alcune guideline che supportano buone pratiche scolastiche che nella fattispecie assumono un significato particolare: – Aumentare l’autostima e il senso di autoefficacia di tutti gli alunni; – Incoraggiarli a sviluppare le loro caratteristiche positive e le loro abilità; – Stimolarli a stabilire relazioni adeguate fra coetanei; – Abituarli ad esprimere la propria rabbia in modo costruttivo; – Consentire loro di comunicare in modo sincero; – Essere capaci di identificarsi con gli altri e di valutare le conseguenze dei propri comportamenti. Si tratta, cioè, di promuovere interventi tesi a costruire una cultura del rispetto e della solidarietà (tra gli alunni, tra alunni ed insegnanti e tra comunità scolastica e comunità sociale) che si alimenta di dialogo, di condivisione di pensieri, emozioni ed azioni.

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La scuola può fare molto in tale direzione a patto che divenga “comunità di apprendimento” e laboratorio/palestra di relazionalità e, soprattutto, a patto che vengano attivate occasioni di apprendimento cooperativo e di attività positive comuni. Il fenomeno del bullismo è una delle sfide/emergenze che, tra le altre, la scuola (ma, evidentemente, non solo la scuola!) deve poter e dover fronteggiare nel prossimo futuro, sfide che si collocano prevalentemente nell’area della relazione, non più o non soltanto nell’area dell’istruzione. Le materie di studio, i contenuti disciplinari sono importanti, ma la relazione concreta con i soggetti genera situazioni nuove che possono diventare il banco di prova per costruire un ambiente educativo che permetta ai ragazzi e alle ragazze di imparare l’arte della convivenza e, soprattutto, che sia offerta a tutti la possibilità di sperimentare forme corrette di protagonismo personale e sociale. Presentazione dell’Autore: Antonio Michelin Salomon, professore associato di Pedagogia generale e di Analisi psicopedagogica dei contesti formativi, è Coordinatore del Corso di Laurea Magistrale in Scienze pedagogiche (LM85) presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Messina. È stato per molti anni Componente Privato del Collegio Giudicante del Tribunale per i Minorenni di Messina. Le sue ricerche riguardano la relazione educativa, la comunicazione didattica e la multimedialità nei processi di apprendimento. È autore di numerosi saggi monografici e contributi in riviste e raccolte collettanee.

Note 1

G.M. Mogol, L. Battisti, Emozioni. Si considerano, infatti, fattori/sfondo (quelli, cioè, che vengono definiti antecedenti distali) l’incomunicabilità emotiva tra le generazioni (la famiglia spesso risulta essere una sommatoria di individui piuttosto che gruppo affettivo complesso) e una diffusa tendenza a lassismo/buonismo che, in conseguenza di una diffusa e pervasiva esposizione ad alti tassi di violenza presenti in società, spesso sottodimensiona taluni indicatori che se cristallizzati possono determinare veri e propri comportamenti anomali tout court. 3 Non è un caso che i cosiddetti “spettatori” vengono, in genere, definiti anche bulli passivi gregari ai quali il branco garantisce sicurezza, visibilità, identità, ecc. 4 L’empatia, secondo R.M. Rosenberg (cfr., 2006, Le sorprendenti funzioni della rabbia. Come gestirla e scoprirne il dono, Reggio Emilia, Esserci) rappresenta un fattore capace di innescare forme di comunicazione non-violenta, mentre per G. Miller (cfr., 2002, Uomini, donne e code di pavone, Torino, Einaudi) l’empatia 2

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Studi costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l’uomo è in continua competizione con gli altri uomini. 5 Un buon esercizio per la comprensione degli stati d’animo degli altri (che, per quanto riguarda la specifica problematica di cui ci stiamo occupando, permette di mettersi nei panni sia della vittima che del persecutore che di quello che assiste in modo neutrale) è la tecnica del role playing. Questa tecnica simula situazioni reali, allo scopo di far conoscere ai partecipanti, attraverso l’identificazione e la recitazione dei diversi ruoli coinvolti, il sistema di relazioni e di comunicazione che si realizza in un determinato contesto. I vantaggi consistono nel fatto che il processo che si sviluppa nel gioco di ruolo, a differenza della situazione reale, non avrà conseguenze nella vita reale e che a conclusione del role playing è previsto un momento di debriefing in cui si riflette sui significati che i diversi comportamenti veicolavano anche al fine di esplorare le relazioni tra la situazione rappresentata e l’esperienza reale dei soggetti. 6 Obiettivi di tale tecnica sono: a) saper riconoscere il conflitto, b) saper valutare le conseguenze che produce e c) conoscere le strategie di risoluzione dei conflitti. È una tecnica, com’è facile intuire, che fa il pendant con la proposta di P. Freire, conterraneo e coevo di A. Boal, che considerava priorità fondamentale del processo educativo l’avviare processi collettivi di coscientizzazione, che comportano cambiamento personale e sociale e, conseguentemente, consentono al soggetto di produrre strategie per affrontare situazioni reali complesse. 7 L’intervento diretto dell’adulto molto spesso implica processi di stigmatizzazione nei confronti del bullo (per cui qualsiasi comportamento non necessariamente svolto in senso prevaricatore viene letto e giudicato come tale), mentre l’intervento diretto dell’adulto a protezione della vittima ne può ulteriormente indebolire la posizione nel gruppo dei coetanei, confermando la sua incapacità di difesa. 8 «Diventare una comunità competente vuol dire aumentare il proprio repertorio di possibilità alternative (dimensione politica), sapere dove e come ottenere risorse (dimensione cognitiva), chiedere di partecipare ed essere motivati, non tanto sul come o sul cosa fare, quanto sul perché della propria partecipazione (dimensione affettiva)» (cfr. C. Caldarini, 2008, La comunità competente. Lo sviluppo locale come processo di apprendimento collettivo, Roma, Ediesse). Tale processo, che per l’Autore prima citato si riferisce prevalentemente alla comunità locale, può innescarsi in tutti quei contesti (compreso anche e soprattutto quello scolastico) dove vengono attivate occasioni di studio e d’azione determinate dai bisogni reali delle persone e capaci di determinare processi metabletici consapevoli. 9 Cito, a mo’ d’esempio, solo alcuni titoli che ho avuto modo di visionare: R. Cormier (2006), La guerra dei cioccolatini, Milano, Fabbri Editori; A. Chambers (2004), Ladre di regali, Firenze, Ed. Giunti Junior; J. Wilson (2007), Piantatela!, Firenze, Salani; M. Milani (2000), L’uomo venuto dal nulla, Milano, Bompiani; S. King (2004), L’acchiappasogni, Milano, Sperling & Kupfer; J. Wilson (1989), I topi ballano, Firenze, Salani; J. Spinelli (2002), La schiappa, Milano, Mondadori, ecc. 10 Ne cito solo alcuni: due classici L’attimo fuggente di P. Weir (1989) e The Principal: Una Classe Violenta di C. Cain (1987); uno recente L’onda di D. Gansell (2008) ed, infine Nient’altro che noi!, di A. Antonucci (2008) che è il primo film sul bullismo prodotto in Italia con scopi didattico-educativi. 11 Questi potrebbero svolgere la funzione di referenti occulti che stando a diretto contatto con vittime e bulli potrebbero avviare tentativi di mediazione, la quale proprio perché nasce all’interno del gruppo diviene particolarmente incisiva.

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Studi 12 Secondo alcuni, paradossalmente, l’esposizione al rischio può costituire per l’individuo, nel breve o nel lungo periodo, un fattore di protezione in quanto attiverebbe, quasi motu proprio, le risorse necessarie per fronteggiare il rischio stesso.

Bibliografia Comoglio, M., Cardoso, M.A. (1996), Insegnare e apprendere in gruppo. Il Cooperative Learning, Roma, LAS. Comoglio, M. (1997), «L’intreccio di legami cooperativi», in Animazione Sociale, n. 2, 29-54. Dreikurs, R., Grunwald, B.B., Pepper, F.C. (1982), Maintaining Sanity in the Classroom: Classroom Management Techniques, New York, Harper & Row. Kagan, S. (2000), Apprendimento cooperativo. L’approccio strutturale, Roma, Edizioni Lavoro. Menesini, E. (2003), Bullismo: le azioni efficaci della scuola, Trento, Erickson. Olweus, D. (1993), Bullismo a scuola, Firenze, Giunti, 1996. Polito, M. (2000), Attivare le risorse del gruppo classe, Trento, Erickson. Roland, E., Galloway, D. (2002), «Classroom influences on bullying», in Educational Research, vol. 44, n. 3, 299-312.

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IL PROTAGONISMO DEI SOGGETTI CON PROBLEMI. RICOMPORRE E COMPRENDERE LA RELAZIONE D’AIUTO NEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE Bruna Grasselli Abstract: The contribution of disabled people at a cultural, affective and social level, can be identified on the relational dimension. It consists of a generous and creative process, cognitive and emotional at the same time, which aims to facilitate relationship based on listening and dialogue. In fact, a soulful relationship is possible and gives rise to a stronger identity, a mutual acceptance and an integration of cultures, experiences, needs and languages. To create these possible interactions means becoming responsible educators and teachers. Riassunto: È nella dimensione relazionale che è possibile recuperare il significato educativo e di cura del contributo che le persone con disabilità hanno costruito a livello culturale, affettivo e sociale. Si tratta di un processo generoso e creativo sia cognitivo che emotivo per facilitare rapporti di ascolto e di dialogo perché l’incontro profondo fra le persone è possibile e sviluppa una identità più sicura, una reciproca accettazione e una integrazione di culture, esperienze, bisogni, e linguaggi diversi. Ricomporre queste possibili interazioni è divenire educatori ed insegnanti responsabili. Parole chiave: disabilità, pregiudizi, relazione di aiuto, integrazione, protagonismo. Per riflettere pacatamente e realisticamente sul tema del protagonismo dei soggetti con problemi e sulle competenze di cui questi dovrebbero dare prova occorre dilatare una pregiudiziale concezione “eroica” di protagonismo dove il protagonista è fondamentalmente un individuo visibile, riconoscibile tra tanti per le spiccate capacità, le robuste competenze, la originalità delle intuizioni e delle soluzioni di problemi. È sempre con difficoltà e fatica che tale funzione di protagonista si riconosce alle persone con disabilità anche quando l’eccellenza è evidente e l’azione è significativa. Fanno eccezione le persone disabili che con i loro successi e le loro imprese davvero sorprendenti attirano l’interesse dei media (si pensi a Pistorius, ad Alex Zanardi, a Claire Cunningham, a Simona Atzori, a Fulvio Frisone, a Ileana Argentin, per citarne alcuni). Le categorie della normalità appaiono difficili da applicare all’ana-

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lisi e interpretazione del protagonismo delle persone disabili. Bisogna saper elaborare i sentimenti confusivi di paura, di fuga, di negazione o supervalutazione che le persone con disabilità generano. È necessario comprendere riserve e perplessità circa la possibilità che le persone con disabilità possano farsi artefici di cambiamento culturale e sociale, interpreti appassionati di impegno civile, promotori di proposte educative trasferibili e che questo possa avvenire nella quotidianità, nella normalità della vita. Necessitano altre categorie, altri spazi, altri punti di osservazione. Necessita ricorrere a parole come accettazione incondizionata, empatia, relazione d’aiuto, resilienza; scoprire i fili sottili eppure robusti che legano pensieri, azioni; saper cogliere le trame di straordinario protagonismo nelle risorse che, pur nella frammentazione e nella riduzione emozionale che si sta verificando, continuano a produrre un processo di integrazione più silenzioso e solitario, ma penetrante e incisivo a livello individuale e sociale. Ad uno sguardo attento non sfugge che ciascun soggetto dell’integrazione è come se stesse riprendendo e riconfigurando i propri confini dove esprimere nuovi bisogni e nuove conoscenze, da dove ripartire per ricomporre collaborazioni e nuove alleanze. Si tratta di un lavoro faticoso, paziente, di una ricerca prolungata, rigorosa, umile, congruente con la singola realtà ma anche con una nuova consapevolezza e un rinnovato entusiasmo. I progressi compiuti in questi ricchi anni di cammino di integrazione hanno costruito un processo volto a umanizzare e promuovere una ricerca di “funzionamento ottimale” in termini di benessere personale e relazionale all’interno di una adozione di conoscenze e linguaggi capaci di accogliere “senza approcci sospettosi” la concezione bio-psico-sociale di ogni disabilità. Un approccio che è stato adottato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nella stesura dell’ICF (2001 Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute). Si tratta di una diversa prospettiva, un punto di osservazione più ricco e capace di vedere, di sentire e concepire lo stato di salute e di benessere di ogni persona rispetto al suo contesto. È il riconoscimento dell’esperienza del disagio, della difficoltà, della disabilità come esperienza umana universale. Qualunque persona, in qualunque momento della propria vita può, infatti, trovarsi a vivere in una condizione di salute che in ambiente sfavorevole diventa disagio, ma che può addirittura tramutarsi in “disabilità”. Oggi si può dire, senza paura di enfasi, che si sono costruite modalità di intervento educativo dove l’espressione “persona con una condizione di disabilità” descrive perfettamente l’esperienza umana del vivere le difficoltà del disagio fisico e psico-sociale connesso ad aspetti di cura e di relazioni. È nella dimensione relazionale che è possibile recuperare il signifi-

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cato educativo del contributo che le persone con disabilità hanno costruito a livello culturale, politico e sociale. La cultura della relazione con la persona con disabilità o con problemi specifici manifesta, oggi, una competenza raffinata della comunicazione e del dialogo che permette di apprendere e strutturarsi secondo modalità affettive e intellettive che sviluppano una azione educativa di senso. Con questa visione dialogica del processo di integrazione sono diventati centrali obiettivi sempre più significativi e trasferibili ad ogni percorso educativo e di apprendimento; risposte che tengono conto che ogni persona, sia allievo che docente, ha un proprio vissuto esistenziale, emozioni da sentire e esprimere, desideri da realizzare, conoscenze da condividere, obiettivi da raggiungere per costruire un proprio percorso e progetto di vita.

1. Il protagonismo delle persone disabili per una nuova relazione d’aiuto qualificata ed efficace Ricercare il senso del protagonismo in educazione significa osservare e porsi domande con pazienza e umiltà per individuare e confrontare i diversi punti di vista. Sono questi che facilitano la possibilità di comprendere risposte e spazi particolari, spesso frammentati, a volte provvisori ma con la certezza che con l’aiuto del protagonista sarà possibile andare oltre perché nel protagonismo c’è il tentativo di una azione, di coinvolgere, appassionare, offrire la fatica del proprio percorso. L’idea centrale è che dall’esperienza di persone con problemi specifici nasce la possibilità di una attenzione e di un aiuto che ha la ricchezza, i linguaggi, i tempi di questo percorso, trasferibili nell’attenzione e nella relazione con l’altro. Si tratta di un processo generoso sia cognitivo che emotivo per costruire rapporti di reciproco ascolto e di dialogo perché l’incontro profondo tra le persone è possibile e sviluppa una identità più sicura, una reciproca accettazione e una integrazione di culture, esperienze, bisogni e linguaggi diversi. Ricomporre queste possibili interazioni è divenire educatori responsabili. Attualmente c’è una rapidità inconsueta di domande educative specifiche per persone con problemi particolari che ha prodotto una densità di rete di rapporti generando a volte confusione e intrusione; il più delle volte ha invece prodotto buone combinazioni di queste variabili, ampiezza di aiuti, diversità di modalità di cura, senso di comunità e sostegno. Un supporto sociale più ampio è uno spazio congruente per sviluppare processi di accettazione, benessere per la persona con bisogni specifici, di

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apprendimento e di relazione per genitori, figli e educatori. Le relazioni di aiuto che nascono in questa dimensione intervengono fortemente nel generare nuove conoscenze, diverse modalità di risposta e sostengono la possibilità di elaborare problemi diminuendo comportamenti reattivi e negazione o esaltazione delle difficoltà.

2. Il protagonismo delle persone disabili: risorse e percorsi creativi per sentirsi insieme La storia dell’integrazione ha fatto registrare un percorso sufficientemente buono e creativo, capace di dare riconoscimento e ricomposizione e completezza alle diverse risorse e potenzialità delle persone, soprattutto sviluppando spazi dove ciascuno potesse vedere, sentire, dialogare con i propri “talenti”. In questa dimensione di autentica socievolezza libera e generosa a livello emotivo, e potremmo dire con Dewey (1970), chiave della felicità, si costruisce un clima di accoglienza, riflessione, azione e un contesto dove si sperimenta che cosa uno è adatto a fare e dargli l’opportunità di farlo. Quando la scuola, come pure l’Università, su questi presupposti crea luoghi di riflessione e di reciprocità dando voce e tempo al protagonismo delle persone con disabilità, come documentato da una vasta letteratura, allora si genera una particolare competenza di empatia o meglio di accettazione, comprensione ed elaborazione dei sentimenti di paura, di fuga (causa di depressione, rinuncia, abbandoni) e delle speranze, gioia e creatività. In questo contesto di emozioni, relazioni, conoscenze l’educatore e l’insegnante può trovare le risorse, individuare le azioni adeguate per una educazione alla autentica relazione di aiuto. Si struttura in questo modo una competenza affettiva capace di riconoscere e mantenere sentimenti di integrazione personale, attivare modalità di relazioni flessibili, accettare e risolvere problemi e, nel contempo, costruire richieste di aiuto. Cooperazione e resilienza si integrano e si arricchiscono di nuovi linguaggi e strumenti. In questo lavoro faticoso e di azione propositiva le persone con disabilità hanno costruito la possibilità di un’integrazione significativa e integrata a livello cognitivo, affettivo e sociale. Un ambiente dove le emozioni non allagano, non confondono le conoscenze, non frenano le intuizioni ma diventano passione creativa di idee e progetti. La storia, negli incontri con studenti disabili nella scuola e nell’università, negli incontri con i genitori, nei progetti di formazione, ha confermato che le relazioni di aiuto sono le modalità più significative per costruire una competenza a dare senso, ad agire di fronte a domande difficili e specifiche. Un indicatore interessante è la consapevolezza che

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maggiore aiuto e conoscenze si sviluppano dove si sperimenta un ambiente di persone competenti a livello affettivo e capaci di un coinvolgimento emotivo empatico generatore sicuro di interventi appropriati. Tali fattori affettivi, cognitivi, relazionali e di autovalutazione e valutazione non sono elementi statici ma variabili che interagiscono modificandosi scambievolmente.

3. Counseling, disabilità e protagonismo. Esercizio del sentire In questo periodo di crisi e di trasformazione veloce il bisogno di ampliare e respirare con modalità di costruzione di significato introduce ad una prospettiva dove le persone con bisogni specifici diventano protagoniste di un processo di formazione alla competenza affettiva e relazionale; aspetti ritenuti indispensabili in tutte le ricerche per un processo di integrazione e inclusione. La nostra ricerca sul Processo di Inclusione nella Università, all’interno dell’Università Roma Tre, che si è concretizzata in un seminario e laboratorio di counseling educativo e disabilità con studenti, docenti e genitori coordinato da una persona con disabilità, esperta nel counseling analitico-transazionale e nella terapia rogersiana, ha messo in luce la funzione dell’apprendere dall’esperienza attraverso la relazione d’aiuto. In questo contesto si attivano due momenti, teorico ed esperienziale, e si integrano le conoscenze del “là e allora” del problema e del “qui e ora” della relazione, costituendo un percorso specifico di relazione di aiuto. Soggettività e relazione diventano strumenti di lavoro e spazi di osservazione utili alla comprensione di sé e dell’altro, del disagio, della paura ma anche delle conoscenze, della consapevolezza e trasformazione che ne deriva. Un luogo in cui la dimensione cognitiva si unisce all’affettività e alla significatività. Si inizia a profilare un percorso di formazione che le persone con disabilità costruiscono per e con l’altro per conoscere e comprendere le paure, le domande di aiuto e le possibilità di risposta proprie e dell’altro; si delinea come una strada che ripristina la quotidianità e la realtà per un approccio che dialoga con le diverse possibilità sempre rinnovabili. Come dice Morin (Morin, 2001, 22), «la vera razionalità aperta per natura, dialoga con un reale che le resiste. Fa incessantemente la spola tra istanza logica ed empirica». Si sviluppa, dunque, un procedere verso una modalità di lavoro e di formazione centrata su esperienze e relazioni dove il riconoscimento della propria capacità emotiva e cognitiva potrà assumere una funzione creativa e trasformativa della persona in formazione. In questo speciale esercizio del sentire, sentire le cose e condividerle attraverso il loro sapore (emozioni), le loro rappresentazioni (lin-

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guaggi), significa ritrovare i propri sensi, le proprie percezioni e scoprire la matrice affettiva dei significati e dei pensieri per poterli riorganizzare creativamente e in modo congruente con le richieste della realtà. Una dimensione formativa dove la narrazione, le storie, i casi diventano legami tra protagonista e allievo. Matte Blanco (2007), uno psicoanalista molto vicino al pensiero fenomenologico, afferma che l’emozione è la matrice del pensiero, è dunque un fenomeno psico-fisico. Ogni emozione, infatti, non solo si riferisce all’oggetto concreto che la suscita, ma essa si diffonde a tutti gli oggetti circostanti che hanno qualcosa in comune con esso. L’amore, emozione eccellente, ci permette di conoscere questo processo, così come la poesia con la sua immediatezza sostiene i nostri sforzi cognitivi e relazionali. Il riferimento alla centralità della funzione emotiva in educazione nasce dall’individuazione di un abbassamento del livello emotivo sia a scuola che all’Università e nella vita sociale legato ad una svalutazione del processo di integrazione delle persone disabili, mentre aumenta la presenza di persone con disabilità protagoniste sia nella vita scolastica che sociale. Il rischio è di una separazione e di una perdita di investimento culturale e politico, come è evidente anche nella ricerca che da quattro anni stiamo conducendo sul Pregiudizio e gli stereotipi (sono stati intervistati oltre 1700 studenti), dove la domanda centrale è come ricomporre il processo di inclusione, come ritrovare entusiasmo, immaginazione, emozione. È come se si fosse spento un demone creativo soffocato dalla realtà vista come barriera e non come confine aperto e dialogico. Come ritrovare emozioni, immaginazione e azioni creative? A che cosa attingere allora? Ai testi poetici, letterari, ai grandi “maestri”, alle storie di protagonisti disabili eccellenti, dove è possibile recuperare il sentire l’altro e sentire se stessi in una nuova fase di integrazione dove la formazione alla competenza affettiva e relazionale diventa elemento fondante per l’apprendimento e l’insegnamento.

Trame conclusive Le riflessioni sul protagonismo delle persone con disabilità, sostenute dall’esperienza professionale, dalle storie ascoltate e raccolte, da diverse ricerche e laboratori1, possono essere così sintetizzate: – Le persone con disabilità con le loro spiccate specificità, con le loro specifiche e incalzanti domande educative e sociali hanno costretto la scuola e la società a ripensare, a riprogettare, a modificare strutture e organizzazione; hanno, in particolare, contribuito a modificare e allargare il concetto di diversità: il disabile è prima di tutto una persona da conoscere nella sua originalità, unicità come qualsiasi altra persona. Concepita

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come specificità, originalità di ogni persona, disabile e non, la diversità non può essere più motivo e pretesto di esclusione ma risorsa personale da comprendere e apprezzare nell’ambito di una rinnovata e plurale cittadinanza. – Le persone con disabilità hanno arricchito la relazione d’aiuto di linguaggi, emozioni, punti di vista diversi, hanno sperimentato modalità inedite per costruire rapporti di reciproco ascolto e di dialogo trasferibili ad altri contesti. In questa direzione si colloca il laboratorio coordinato da un counselor disabile. Il laboratorio è risultato un contesto cognitivo, affettivo e relazionale che ha permesso l’espressione e la gestione delle emozioni, una gestualità meno stereotipata, il riconoscimento delle difficoltà, delle paure e la costruzione di atteggiamenti congruenti. L’esperienza ha confermato e avvalorato la fecondità della competenza affettiva in educazione, competenza intesa, come dice Montuschi (2001), come conoscenza e riconoscimento dei sentimenti che si stanno provando (dare un nome ai sentimenti); congruenza dei sentimenti con la situazione che si sta vivendo (sentimenti naturali e sentimenti ricatto); separazione dei sentimenti propri da quelli dell’altro (relazione simbiotica); responsabilità del proprio sentire e pensare. – L’incontro e la collaborazione nell’Università di studenti disabili e non2, pur ricca di sfaccettature e frammentazioni, non sembra suscitare più emozioni bloccanti; la posizione pregiudiziale salvifica appare ridimensionata; è diminuito il livello di frustrazione e si è dato spazio alla spontaneità e all’autenticità nella relazione d’aiuto intesa come esperienza eccellente e gratuita di apprendimento cooperativo e di azione sociale. – Nel percorso di studio e di integrazione sociale le persone con disabilità “eccellenti” hanno incontrato “maestri” particolarmente competenti a livello affettivo e relazionale. Si conferma, dunque, che una relazione autentica, generosa, sostiene il processo di integrazione e di apprendimento, e soprattutto mobilita l’empowerment della persona ovvero l’utilizzo delle capacità, delle risorse, dell’energia necessaria a realizzare a pieno il proprio progetto di vita. – Lo spazio relazionale è, dunque, un campo di ricerca di nuove e più aggiornate conoscenze, di elaborazione di idee trasferibili nella vita quotidiana e professionale, capaci di influenzare non solo la vita personale ma anche e soprattutto l’immaginario collettivo. Presentazione dell’Autore: Bruna Grasselli è Professore associato di Pedagogia Speciale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre. I suoi interessi di ricerca spaziano dai problemi cognitivi, affettivi e relazionali dello svantaggio socioculturale alla rilevazione delle difficoltà linguistiche nei processi di apprendimento,

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alla famiglia nella sua dimensione affettiva e sociale, alla relazione di aiuto e al counseling educativo con i soggetti disabili. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: La relazione di aiuto, in L’arte dell’integrazione. Persone con disabilità costruiscono percorsi sociali; La famiglia con figlio disabile. L’aiuto che genera aiuto; Parlarsi per un nuovo ascolto. Insegnanti, genitori, allievi (a cura di).

Note 1 Le persone con disabilità protagoniste: storie, idee e risorse. Stereotipi e pregiudizi e creatività nel processo di integrazione nelle Università del Lazio. Laboratorio di counseling educativo e disabilità: un percorso formativo per superare stereotipi e pregiudizi. 2 Il riferimento è all’azione propositiva del servizio di tutorato studenti con disabilità.

Bibliografia Bion, A. (1990), Apprendere dall’esperienza, Roma, Armando. Dewey, J. (1970), Democrazia e Educazione, Firenze, La Nuova Italia. Ginzburg, A., Lombardi, R. (2007), L’emozione come esperienza infinita. Matte Blanco e la psicanalisi, Milano, Franco Angeli. Grasselli, B. (a cura di) (2006), L’arte dell’integrazione. Persone con disabilità costruiscono percorsi sociali, Roma, Armando. Montuschi, F. (1993), Competenza affettiva e apprendimento, Brescia, La Scuola. Morin, E. (2001), I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina Editore.

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1. Protagonismo e Scrittura Abstract: The writer knows he must face difficult choices, always walking on the edge, in order to respect the single person value. Writing makes everyone conscious of his responsibilities and helps in building a conscious creative process, which starts a culture of life, historical, ethical and social consciousness. Writing gets a high educative value, so it’s needed to keep in mind that writing is useful only if creates the possibility of getting tested, aware and looking for fundamental values that can join humans. We need to feel and live writing, to discover the creature Man as symbol of his Creator. Riassunto: Chi scrive è consapevole di dover affrontare scelte non semplici, camminando sempre su un filo sottilissimo per non dissacrare il valore della Persona. La scrittura pone l’uomo davanti alle sue responsabilità e attende che la coscienza costituisca l’inizio di un processo creativo in grado di dar luogo ad una cultura di vita, una cultura nutrita della consapevolezza storica, etica e sociale, in virtù della quale i “vuoti” dell’uomo siano colmati con intelligenza e libertà. Ciò impone di attribuire alla scrittura un alto valore educativo, perciò è opportuno tener presente che lo scrivere vale se suscita la disponibilità a conoscersi, a valutarsi, a cercare nella pluralità i valori fondamentali che possono unire gli uomini. “Sentire e vivere la scrittura” per scoprire l’Uomo creatura ad immagine del suo Creatore. Parole chiave: pensiero, creativo, senso, centralità, persona.

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PROTAGONISMO E SCRITTURA IN CLASSE Fiorella Bongiorno Acquisire un comportamento da protagonista in un gruppo-classe significa non vivere passivamente la condizione di alunno, significa partecipare attivamente alla didattica, vivendo l’esperienza con i coetanei e con gli adulti in modo collaborativo, apportando il proprio contributo per il raggiungimento del fine comune del gruppo. L’alunno protagonista afferma così la sua identità di persona, riconoscendo se stesso e facendosi riconoscere dagli altri. Di fatto tutti i bambini-allievi, nel momento in cui divengono protagonisti “attivi” all’interno di una classe, vengono riconosciuti, considerati, percepiti come soggetti presenti. Riconoscersi ed essere riconoscibili sono concetti complementari, in quanto il nostro esistere è in funzione degli altri. «Mi riconosco se vengo riconosciuto e, viceversa, sono in grado di farmi riconoscere solo a patto di essere sufficientemente certo della mia riconoscibilità» (Dallari, 1997, 13). Per essere se stesso e per essere riconosciuto, il soggetto deve essere “diverso” dall’altro che lo riconosce, vivendo così il ruolo di protagonista. Ma l’individuo può conoscersi e farsi riconoscere solo se è in grado di narrarsi, ovvero di descriversi attraverso la forma del racconto. Farsi conoscere, infatti, significa anche trovare il modo per narrare se stessi. Uno strumento utile per farsi conoscere è la scrittura, unitamente alla comunicazione. Affidarsi alla scrittura, in forma autobiografica o di diario, è un modo per capire se stessi e per “comunicare” se stessi agli altri. Esiste differenza tra autobiografia e diario, in quanto con la prima colui che scrive insegue l’obiettivo di farsi conoscere e dunque di mettersi in comunicazione con coloro che la “leggeranno”. L’autobiografia non è una scrittura privata, o una narrazione silenziosa o segreta, è piuttosto una narrazione di eventi condivisi con gli altri, è desiderio di autorappresentazione, come afferma Dallari (ibidem). La scrittura di un diario, invece, ha lo scopo di affidare la propria conoscenza alla sfera della propria interiorità, in quanto il diario in genere si custodisce “chiuso a chiave”, depositando in esso i propri pensieri e gli stati d’animo con l’intento che essi rimangano “segreti” alla conoscenza degli altri. Affidarsi alla scrittura significa, dunque, parlare di sé, narrarsi. La narrazione ha una forte valenza culturale, non è una capacità naturale né si può improvvisarla, piuttosto, richiede alfabetizzazione, abitudine e soprattutto iniziazione.

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Ci sono tecniche, come quella sociometrica, o pratiche educative, come test, valutazioni e profili, che pretendono di conoscere e “riconoscere” l’identità dei soggetti, degli allievi, nella convinzione che l’identità personale è identificabile con il soggetto. Ma l’identità non è solo nel soggetto, né è il soggetto; l’identità è nella relazione, nello scambio con gli altri, pari e/o adulti, nell’incontro educativo con i contesti in cui il soggetto agisce e interagisce. È dunque per questi motivi che, per conoscere l’identità di noi stessi e degli altri, bisogna osservare con cura e attenzione la manifestazione dell’identità altrui. Comprendendo l’altro si comprende se stessi, cogliendo le differenze caratteristiche di ogni essere. La conoscenza di sé è condizione indispensabile per una migliore conoscenza dell’altro, in quanto «nell’altro possiamo ritrovare noi stessi: i nostri medesimi sentimenti, le nostre gioie, speranze, aspirazioni, le nostre paure e angosce, le nostre debolezze e persino i nostri impulsi meno nobili, da emendare e comunque sottoporre al dominio della ragione» (Nobile, 2007, IV). Affidarsi alla scrittura significa cogliere la differenza. Attraverso la scrittura di un testo che può essere costituito da una frase, ma anche da una sola lettera, così come da un testo visivo o sonoro o polisemico, il soggetto può mettere in luce la propria identità, leggendola e facendola leggere all’altro, comprendendosi e facendosi comprendere, interpretandosi e facendosi interpretare. Insomma, la scrittura può divenire strumento per la scoperta-costruzione dell’identità personale, per comprendere se stessi e spiegarsi agli altri, ma ciascun soggetto non si può spiegare agli altri se prima non avrà compreso se stesso. Ciascuno di noi è “essere” e in quanto essere “esiste” in misura e in relazione ai contesti socioculturali in cui agisce e interagisce. Questa constatazione applicata al campo pedagogico-educativo di un contestoclasse, induce a sottolineare la necessità che il ruolo tradizionale “passivo” dell’alunno venga sostituito dal ruolo “attivo”, attore, protagonista, in modo da incoraggiare ogni allievo, bambino o ragazzo, a sentirsi motivato ad apprendere. Questo fattore stimolante gratificherà l’alunno e lo coinvolgerà in prima persona, rendendolo attivamente responsabile di un processo educativo in cui è coinvolto il gruppo-classe, favorendo in tutti i componenti quel sano atteggiamento di cooperazione e di protagonismo, in quanto è in assoluto indicato ed è certamente positivo che ogni alunno diventi “protagonista” in classe. Essere protagonisti del proprio apprendimento significa non assimilare in modo passivo contenuti e nozioni pre-confezionati, significa vivere in prima persona nel contesto-classe, prima, e nel contesto sociale, dopo, significa non subire massivamente e passivamente gli eventi esterni. Tutti gli uomini sono soggetti pensanti e, se maturano capacità cri-

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tiche, sono in grado di costruire un mondo migliore, un mondo in cui la presenza di ciascun individuo è quella di un protagonista che opera in modo cooperativo nel contesto socio-culturale d’appartenenza. Ciascun alunno non deve vivere frustranti competizioni in classe, quanto piuttosto deve potersi porre a servizio di creazioni collettive, esercitando spirito critico e autocritico. Si realizza in tal modo una scuola meno noiosa, meno conformista, più divertente ed interessante; una scuola che sostituisce l’odore di stantio con il profumo dei fiori della creatività, della fantasia, dell’immaginazione: una scuola, insomma, dove ciascun allievo è autorizzato ad essere protagonista attivo di ogni suo apprendimento, ma anche di ogni sua esperienza educativa, sia che si tratti della elaborazione verbale di contenuti, sia che comporti altre forme e modalità di elaborazione grafica, iconica, sonora, tecnica, ecc. G. Rodari, notissimo ed originale scrittore ed educatore, nella breve introduzione a Il libro degli errori (Rodari, 1964) sostiene che non è necessario che un bambino impari piangendo ciò che, invece, può imparare ridendo. Mi trovo in sintonia con lui e con la sua Grammatica della fantasia (Rodari, 1973), il suo famoso “manuale” per inventare storie inusuali che fanno entrare l’immaginazione, la fantasia, la creatività a pieno diritto nell’educazione, e in particolare in classe. Mi trovo d’accordo con Rodari quando sostiene che oggi in classe l’insegnante non deve essere unicamente, o principalmente, un dispensatore di contenuti, o un mero trasmettitore di saperi stereotipati e di risposte convergenti, non deve tarpare le ali della creatività e della fantasia dei suoi allievi, ma deve permettere loro di essere protagonisti dell’apprendimento, aiutandoli a liberare, allenare ed alimentare il pensiero divergente. L’insegnante di oggi deve incoraggiare gli allievi a diventare protagonisti del proprio sapere, autori-creatori di “testi” da leggere e far leggere, per conoscersi e farsi conoscere. Spetta al docente promuovere in classe la “flessibilità” e il pensiero divergente, trasformare la passività in attività, la comunicazione in comunicazione didattica, il sapere in saper fare. E deve rafforzare negli alunni la spontaneità, l’interesse, la curiosità, la collaborazione, perché ciascun allievo cresce e si sviluppa, non solo dal punto di vista individuale e personale, ma anche sotto il profilo sociale. In questo delicato e incerto momento storico-culturale in cui si corre il rischio di una omologazione dell’immaginario, è più che mai importante che la scuola non sia repressiva, come spesso lo sono non soltanto la società che massifica, ma anche la famiglia che educa al conformismo. Sostenere e stimolare la crescita e l’originalità della persona riconoscendo la ricchezza della “diversità” è compito primario della scuola. L’insegnante deve allenarsi all’ascolto e al dialogo, perché spetta a lui scovare input, architettare provocazioni, preordinare informazioni

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che offrano a ciascun allievo opportunità di risposte “divergenti”, di soluzioni diverse e alternative a problemi, anche uguali, evitando così, che la classe cada nella monotonia, nell’apatia di un apprendimento cadenzato da risposte preconfezionate, prevedibili e massificate. Un clima provocatorio, in classe, favorisce, senza ombra di dubbio, il protagonismo di ciascun alunno. L’identikit di tale insegnante risponde alla configurazione dell’animatore, che predispone e incoraggia il clima creativo dell’intera classe, che «si adopera per instaurare fra gli alunni condizioni di stima, fiducia e collaborazione, realizzando uno spirito di gioco» (Leo, 2000, 129), quello spirito di gioco che unisce la squadra, alias la classe, che coinvolge tutti gli atleti, alias gli alunni, partecipando con vero e sano spirito di protagonismo, spirito di gruppo, per il raggiungimento degli obiettivi comuni. Il docente del XXI secolo è colui che si impegna a motivare tutti gli alunni, non solo i pochi “privilegiati”; è colui che li stimola a scoprirsi creativi, che li sollecita a fare esperienze nuove e a trovare soluzioni alternative ai problemi e quesiti; è colui che li spinge a fare domande e, mettendosi in loro ascolto, a trovare assieme possibili risposte esaurienti. Insomma, l’insegnante di questo terzo millennio, come già sottolineato, deve saper trasformare la passività, spesso insita negli alunni, in proficua attività, in sana curiosità, in una parola, in protagonismo. Gianni Rodari col suo testo Grammatica della fantasia ha apprestato un manuale perché tutti, grandi e piccoli, genitori, insegnanti, educatori, allievi, imparino a usare la scrittura in modo creativo, inusuale, uscendo dal conformismo, valorizzando la diversità, incoraggiando e sostenendo lo sviluppo del pensiero divergente. L’alunno può diventare protagonista, inventando storie, facendo uso di una scrittura personalizzata impiegando gli strumenti più vari, dalle matite colorate, pennarelli, acquarelli, alla classica e intramontabile penna BIC, al computer, agli strumenti digitali più aggiornati. L’alunno che scrive in libertà, esprime creatività e diventa protagonista della propria crescita. La sua scrittura esprime il suo mondo interiore, quel mondo che spesso risulta esser impenetrabile “ai grandi”, frutto di sentimenti, di passioni, di bisogni, di sogni e di valori inespressi. Portati allo scoperto, diventa più facile aprire una comunicazione più ricca e alimentare un proficuo dialogo intergenerazionale, fonte di arricchimento per tutti. Apprendere il gusto di realizzare la scrittura di testi personalizzati consente al bambino-alunno di scoprire che il mondo d’oggi, immerso nella comunicazione mediatica, non è solo governato da internet o popolato da programmi televisivi, videogiochi o strumenti elettronici sui quali digitare freneticamente messaggi con un linguaggio sempre più sincopato… Scopriranno che esiste un mondo popolato anche dalle parole che,

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con la loro magia, possono dare vita a qualcosa di originale, d’inusuale, di bizzarro ma significativo: tali sono, ad esempio, il testo di una fiaba o di una poesia, ma anche il testo di una canzone, di un non sense ma anche quei testi letterari divertenti, creati dalla combinazione/mescolanza di fiabe classiche e storie moderne, oppure quelli sgorgati da un occasionale, inconsapevole, felice incontro/scontro di parole scelte a caso, o pensate fortuitamente. Insomma, sono arricchenti tutti quei testi la cui ispirazione sarà determinata da tutte le esperienze provenienti dal mondo extrascolastico in cui il bambino vive e in cui è sicuramente protagonista e che diventano occasione perché emergano le qualità di ciascuno e, con esse, la possibilità di liberare il pensiero, soprattutto quello divergente. Oltre a nutrire la fantasia e l’immaginazione, la scrittura libera rende il soggetto protagonista perché insegna anche, ai bambini ed ai giovani in che modo è possibile superare la rigidità della realtà immaginando una diversa rappresentazione di essa ed aprendosi al mondo della possibilità. Gianni Rodari colloca al centro della sua pedagogia il bambino, sostenendo che egli è soggetto, autore, protagonista e interprete del suo conoscere, del suo apprendere, del suo creare, del suo inventare, del suo concepire la realtà. Protagonista che “esula” dalla normalità, protagonista che assume comportamenti o manifestazioni che escono fuori degli schemi della prevedibilità, osservando le cose da punti di vista “diversi” e accettando che gli altri possono avere una visione “diversa”, anche opposta. Contro una didattica intrisa di tanfo scolastico e ammantata di vesti logore, Rodari propugna una scuola capace di accogliere le esperienze extrascolastiche di ciascun allievo, che si affaccia sul mondo per guardare fuori, spalancando le finestre delle sue aule per farvi entrare il sole, la luce, la vita, l’operatività. Auspica, cioè, una scuola concretamente democratica, che accompagna gli allievi nella crescita e nello sviluppo di tutte le loro potenzialità, sostenendoli e sollecitandoli a fare emergere, in tutta la loro ricchezza espressiva e in modo integrale, la loro personalità. Una scuola democratica che promuova l’atteggiamento di protagonismo degli allievi, di tutti gli allievi, è una scuola che bandisce dalla classe la noia e la routine, spesso cause di lassismo, di apatia, di aggressività e, non ultimo, di abbandoni da parte di tanti giovani studenti demotivati. Una scuola che favorisca in tutti gli allievi le qualità “creative”, predisponendo un clima di collaborazione e di affettività, è anche una scuola che si apre alla complessità e alla discontinuità, contribuendo alla formazione di uomini e donne capaci di relazioni positive con se stessi e con gli altri, che sapranno operare autonomamente e responsabilmente per il bene comune.

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Presentazione dell’Autore: Fiorella Bongiorno, ricercatore di Storia della Pedagogia e Docente di Letteratura per l’infanzia e di Storia dell’educazione presso l’Università di Messina. Ha svolto attività di formazione ed aggiornamento per docenti ed educatori ed ha pubblicato, oltre a diversi contributi in riviste e volumi collettanei, la ricerca Quale lingua a scuola (assieme a C. Sirna e F. Ruggeri) e i testi: Giocare con i libri (Messina, Scuderi 2004) e Per una palestra della fantasia. Spunti di attività creative (Messina, Scuderi, 2006).

Bibliografia Dallari, M. (1997), I testi dell’esserci, Torino, Il Segnalibro. Leo, G. e R. (2000), La scuola italiana sulle orme di Gianni Rodari, in G. Leo (a cura di), Gianni Rodari, maestro di creatività, Napoli, Graus Ed. Nobile, A. (2007), «La conoscenza di sé e dell’altro come antidoto al veleno del pregiudizio. Il contributo del libro per ragazzi», in Pagine Giovani, anno XXXI, n. 131, IV. Rodari, G. (1964), Il libro degli errori, Torino, Einaudi. — (1973), Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Torino, Einaudi.

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PROTAGONISMO TRA SCRITTURA E NARRAZIONE DI SÉ Alessandro Versace Etimologicamente, il termine protagonista sta a significare «chi fa la prima parte come attore in una rappresentazione drammatica, o in altra azione reale o finta»1. L’attuale scenario sociale, contrassegnato dal processo di globalizzazione, dalla postmodernità e da un imperante quarto potere2, mette in risalto l’idea che per “esistere” bisogna apparire e, per apparire, è necessario andare in Tv. Spesso, infatti, anche facendo un po’ di zapping, si scorgono in alcuni programmi degli adolescenti che manifestano crisi di pianto se vengono esclusi (o eliminati) da un programma, persone che si mettono in ridicolo ostentando volgarità senza precedenti quasi fossero forme di originalità. Purtroppo, diversi programmi promuovono nello spettatore l’idea che l’invito fatto ad alcune illustri personalità, anche e soprattutto politiche, è realizzato allo scopo di farle confrontare su temi attuali con la finalità di trovare delle soluzioni ai problemi emergenti (che, guarda caso, hanno sempre una forte valenza educativa e che non solo non è messa in primo piano ma non viene nemmeno accennata). Invece, si assiste spesso a conflitti (mai gestiti e mediati)3 che, letti con cristallino pedagogico, fanno intravedere, avrebbe detto D. Dolci, una persistente logica del dominio (Dolci, 1987). Per quanto pervasiva possa rivelarsi questa logica del dominio, siamo convinti che rimanga pur sempre la possibilità di azioni educative improntate alla crescita umana, allo sviluppo del senso critico, dell’autonomia psicologica e del decondizionamento anche massmediale. È, questa, una grande sfida per le scienze umane e, nello specifico, per la pedagogia, che deve ritrovare la sua antica e visibile dignità per rispondere con un agire educativo in grado di sciogliere, direbbe ancora Dolci, dei nessi malati che, come direbbe Paulo Freire, trovano le loro radici in un’ingegneria del consenso che vuole omologare, reprimere e opprimere orientando ai consumi. Quando, dunque, si assiste ad un programma televisivo, quanti di noi si chiedono quali siano i contesti e i soggetti che lo producono e in che modo questi ne influenzino la costruzione? A pochi interessa conoscere il vissuto del tecnico delle luci o dei suoni oppure le emozioni e le vicissitudini del cameraman. Quasi nessuno, nel momento in cui è assorto nella visione di un programma televisivo, si pone domande relativamente agli effetti educativi/diseducativi di quanto sta vedendo anche perché difficilmente riesce a filtrare i tanti interventi, definiti “a bassa soglia”, effettuati spesso da non “professionisti del settore”. Determinante diventa quindi, per la validità educativa del prodotto televisivo, l’intervento di persone

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che possiedano una spiccata sensibilità, un’empatia naturale, una predisposizione all’accoglienza e all’ascolto attivo e che accompagnino la fruizione del prodotto massmediale. Sicuramente svolge una funzione più significativa del protagonista di una fiction un papà che, pur stanco dopo una giornata di lavoro, trova il tempo per giocare con suo/a figlio/a o che assiste e commenta con loro i programmi televisivi! Se è vero che ognuno può e deve diventare protagonista della propria vita, ogni persona è non soltanto un attore che recita diverse parti (i ruoli che ognuno di noi ha nel corso dell’esistenza e della quotidianità) ma colui il quale trova senso e attribuisce un significato alle differenti “sceneggiature” della sua vita. Ogni “protagonista” è una persona che ha un suo potenziale creativo, delle risorse proprie, un suo modo di agire e di interpretare le vicissitudini della vita, una sua maniera di fronteggiare le avversità e di rispondere alle proprie angosce e paure. Il protagonista è, sempre e comunque, un “eroe”, non perché compie imprese mirabolanti e gesta eclatanti ma perché affronta, giorno dopo giorno, le differenti traversie della realtà e con essa si confronta cercando di trovare la soluzione ottimale alle differenti problematiche che incontra; è quella persona che, pur risultando “anonimo” alla maggior parte, trova la visibilità della sua esistenza e del suo essere nei contesti dove agisce quotidianamente, dove la sua presenza è stata testimonianza di coltivazione e cura educativa (Michelin Salomon, 2007). Il protagonista è la persona che detiene dentro di sé, per dirla con C.G. Jung, una parte dotata di potere vitalizzante, evolutivo, “eroico”. Così, il protagonista, ogni protagonista, compie un “viaggio” che, metaforicamente, è sempre la ricerca di un qualcosa: di una parte di sé sconosciuta che desidera vivere in armonia con se stesso e con gli altri, che cerca un contatto con tutto ciò che è positivo nella vita allo scopo di dare dignità, significato e orientamento alla propria vita (Campbell, 1991). «Gli eroi compiono il Viaggio, affrontano il drago e scoprono il tesoro del loro vero sé. Quantunque possano sentirsi molto soli durante la loro ricerca, alla fine la ricompensa è un senso di comunione, con se stessi, con gli altri e con la terra. Ogni volta che noi affrontiamo la morte nella vita affrontiamo un drago, e ogni volta che scegliamo la vita rispetto alla non-vita e ci addentriamo maggiormente nella continua scoperta di chi siamo, sconfiggiamo il drago: portiamo nuova vita a noi stessi e alla nostra cultura. Cambiamo il mondo. Non si tratta di diventare più grandi o migliori, o più importanti degli altri. Siamo tutti importanti. Ognuno di noi ha un contributo essenziale da dare, e possiamo darlo solo assumendoci il rischio di essere unicamente noi stessi» (Pearson, 1990). Forse perché affranti da continue sofferenze, forse perché non si riesce ancora a comprendere se la persona sia solo uno “strumento” della

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società o se, invece, sia la società ad esistere per la persona, forse perché per fronteggiare la solitudine ricerchiamo sempre un qualcosa con cui riempire i nostri vuoti e questo qualcosa ci induce a trovare una via di fuga4 (Augé, 2009) mentre è solo non sfuggendole che potremo “combatterla” o, forse per tutti questi e altri innumerevoli motivi, non riusciamo a rintracciare una vera libertà che trova la sua ragion d’essere proprio nel protagonismo che abbiamo nella vita (Krishnamurti, 1969). Emblematico è, in tal senso, un film storico, del 1946, che ha segnato diversi Natali della nostra vita, per la regia di F. Capra e con un J. Stewart candidato all’Oscar “La vita è una cosa meravigliosa” che, nonostante sia un film che rileva tutti i simboli negativi del capitalismo al quale si contrappone l’idealismo dei giovani e della parte oppressa della società, mette altresì in rilievo l’importanza del protagonismo che ognuno di noi ha. Il protagonista del film, George Bailey, desideroso di viaggi e di avventure, si trova a dedicare il suo tempo al servizio del prossimo, rinunciando alle sue aspirazioni. Dopo una serie di eventi negativi decide di togliersi la vita5 ma, un angelo di “seconda classe” perché deve compiere ancora una buona azione per mettere le ali, fa vedere al protagonista gli altri eventi che sarebbero successi se lui non fosse mai esistito6. La fine del film mette in risalto la comprensione, da parte del protagonista, dell’importanza della sua vita, del valore e del significato che ha avuto la sua esistenza e, così, George ottiene di poter tornare a vivere di nuovo e corre a casa desideroso di riabbracciare i suoi cari. Il protagonista, dunque, è chi è ed esiste in virtù della relazione, poiché senza relazione non vi è esistenza, un’esistenza che ha le sue trasformazioni, i suoi cambiamenti nell’hic et nunc e che spetta solo a lui decidere se narrarla o no, condividendola con altri. La narrazione si pone così come strumento, come mezzo attraverso il quale la persona può raccontarsi, può accedere e far accedere a ricordi, emozioni, prospettive future e avvenimenti passati, il tutto nella cornice della costruzione della propria identità, dando così forma e valore alla propria vita. Così, il professore di scuola superiore di II grado che scrive romanzi autobiografici o parzialmente autobiografici, il/la dottorando/a di ricerca che utilizza l’approccio ermeneutico di Gadamer allo scopo di rilevare pregiudizi e stereotipi, il/la docente universitario/a che veicola valori mediante il significato che la narrazione delle fiabe mette in evidenza, indicano azioni educative, incarnano tematiche culturali. L’agire educativo, dunque, deve offrire continuamente spunti di riflessione anche su un’umanità “invisibile”, un’umanità che lotta con la quotidianità, schiacciata dal senso di responsabilità, oppressa ma che, attraverso una narrazione ad hoc può trovare la matrice per approdare a nuove forme di comunicazione: una comunicazione che punti a far emergere il passato di ogni protagonista e che attraverso le sue vicende possa

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attecchire al “cuore”, al cervello emozionale degli interlocutori coinvolgendoli in una nuova sceneggiatura, in una nuova stesura della propria esistenza. Presentazione dell’Autore: Alessandro Versace, laureato in Pedagogia, dottore di ricerca in Pedagogia speciale e Didattica, è ricercatore presso l’Università di Messina dove insegna Analisi dei contesti formativi nel corso di laurea in Scienze dell’educazione e della formazione. Ha pubblicato, assieme a V. Bolognari, il resoconto di una ricerca Gli immigrati a Messina. Analisi della situazione e ipotesi di interventi interculturali e due volumi: L’insegnante emozionale. Un viaggio nelle emozioni (Scuderi, 2004); Il gruppo cooperativo. Prospettive di integrazione (Antonello da Messina, 2009).

Note 1

www.etimo.it ultima consultazione 02/05/2011. Il Quarto potere è nato come un’espressione che indica la capacità dei mass media di influenzare le opinioni e le scelte dell’elettorato e che, oggi, attraverso il sempre maggiore impiego della stampa e, soprattutto, della Tv, può “inquinare” e stravolgere lo stesso concetto di democrazia, poiché vi è il rischio che l’uso improprio di questo potere venga accentrato nelle mani di un ristretto gruppo di persone che lo utilizzerebbero in modo manipolatorio. 3 La teoria del “curricolo nascosto” esplicita l’idea che esiste una forte discrepanza tra il registro linguistico e quello esecutivo; seguendo la teoria di Kolberg sull’educazione morale, si può asserire che un soggetto acquisisce più quello che vede fare e non piuttosto quello che viene detto, pertanto appare paradossale che vi siano in Tv degli pseudo-educatori che vogliono “insegnare” “comunicare” agli spettatori quali siano le linee guida per dirigersi verso una dimensione axiologica ricca di, direbbe G. Acone, orizzonti di senso. 4 Si pensi, ad esempio, ai non-luoghi di M. Augè, spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici come aeroporti e centri commerciali. Luoghi in cui le persone, pur incrociandosi, non entrano in relazione e avvertono solo la necessità di “consumare”. 5 Il protagonista deve infatti assecondare il desiderio affettivo della moglie e gestire con lo zio paterno Billy la modesta cooperativa di risparmio (la “Bailey Costruzioni e Mutui”) fondata dal padre Peter. La vigilia di Natale, suo zio Billy smarrisce inavvertitamente una grossa somma di denaro, di vitale importanza per evitare che l’azienda cada nelle grinfie del vecchio Henry Potter, il capitalista che – con la sua spregiudicatezza negli affari – tiene praticamente in pugno da anni la cittadina. 6 Il fratello Harry sarebbe morto annegato da bambino, il suo vecchio datore di lavoro, Mr. Gower, avrebbe passato la vita in galera per un avvelenamento accidentale, lo zio Billy sarebbe stato internato in manicomio, l’amata moglie Mary sarebbe rimasta zitella, non sarebbero nati i suoi quattro figli, la cittadina di Bed2

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Gruppi di lavoro ford si sarebbe chiamata Pottersville e la vita di molti cittadini e amici di George sarebbe stata miserabile.

Bibliografia Augè, M. (2009), Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera. Campbell, J. (1991), Le figure del mito, Rimini, R.E.D. Dolci, D. (1987), La creatura e il virus del dominio, Latina, L’Argonauta. Krishnamurti, J. (1969), La prima ed ultima libertà, Roma, Astrolabio. Michelin Salomon, A. (2007), La cura educativa tra prevenzione e orientamento, in A. Michelin Salomon (a cura di), Modi e luoghi dell’agire educativo, Messina, Antonello da Messina. Pearson, C. (1990), L’eroe dentro di noi, Roma, Astrolabio.

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LA SCRITTURA COME VALORIZZAZIONE DELLA PERSONA Arturo Carapella Quando una persona avverte l’esigenza di scrivere è consapevole di dover affrontare scelte non semplici e nemmeno accattivanti in quanto durante il lavoro cammina su di un filo sottilissimo, piano piano, per non toccare suscettibilità, per non acutizzare ulteriormente ferite profonde, per non dissacrare, consapevole di trovarsi di fronte a creature assetate di conoscenza, di sapere, di sole, di luce, di quella luminosa serenità che promuove la riflessione sul vero senso della vita. «Una storia, una biografia, un saggio, una ricerca storica o un trattato scientifico sono pensiero creativo che si organizza, si realizza, prende forma e infine si stacca per vivere una vita propria. A volte piena e ricca, a volte intensa e limitata, a volte incerta e difficoltosa»1. … Ma “la centralità dell’idea” e il “senso” della Persona costituiscono la volontà di testimoniare il valore dell’Uomo, visto nella sua totalità… La scrittura pone l’uomo davanti alle sue responsabilità e attende che la coscienza costituisca l’inizio di un processo creativo che dia luogo ad una cultura di vita, una cultura nutrita della consapevolezza storica, etica e sociale, in virtù della quale i “vuoti” dell’uomo siano superati con intelligenza e libertà. È vero anche che spesso si scrive senza sapere perché, dimenticando che i grandi hanno da sempre correlato la “Scrittura “ con la “Vita”. Pirandello, infatti, sosteneva: «La vita si vive o si scrive», mentre Ronstand affermava che «Scrivere è una funzione logica, cui partecipano tutte le componenti dell’essere», «la scrittura come vita e come esperienza di vita» è il senso profondo che a me personalmente piace attribuirle, non a caso nel motto dell’Associazione Pedagogica Italiana «Sentire e vivere l’Educazione» colgo l’invito a «sentire e vivere la Scrittura» e ciò impone di attribuire alla scrittura un alto valore educativo. «Di fronte alle molte sfide che ci riserva il futuro, l’educazione ci appare come un mezzo prezioso e indispensabile che potrà consentirci di raggiungere i nostri ideali di pace, di libertà e giustizia sociale» (Delors, 1966, 11). È opportuno perciò tener presente che lo scrivere vale nella misura in cui è capace di suscitare la disponibilità a conoscersi, a valutarsi, a cercare anche nella pluralità i valori fondamentali che possono unire tutti gli uomini. C’è da dire che l’amore di chi scrive è un amore pensoso, perché nasce dalla consapevolezza della complessità dei problemi e dalla coscienza delle difficoltà delle loro soluzioni, tanto da accadere all’improvviso che

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un’idea non lasci tranquillo e non ci sia modo di accontentarsi di ciò che si conosce, di rassegnarsi e stare a guardare. Può accadere che un itinerario incominci con una domanda assoluta, per inaugurare un cammino di arte, di musica, di scrittura, per un’esigenza di sole, di aria (intesi come curiosità intellettuale). Si entra così, tramite la parola, nella struttura della scrittura, fino a sfociare nell’equivoco creativo… e allora gioco e cultura sono indistinguibili: il gioco si fa arte, l’arte si fa gioco, il gioco si fa invenzione, l’invenzione si fa gioco. Non c’è monopolio di un aspetto su di un altro: lungo il percorso si avverte una sorta di “felice infelicità” che porta alla propria verità, una verità che nasce da sensibilità fervide nell’atto in cui attingono alla fonte di quei sacrosanti valori che contraddistinguono l’uomo, quale creatura ad immagine del suo Creatore. È dunque una questione di “profondissima sensibilità” di cui la scrittura è la massima espressione. Infatti «I libri ci hanno aiutato a crescere, soprattutto quelli che hanno saputo parlare alla nostra mente e al nostro cuore, consentendoci di imparare a conoscere noi stessi e l’umanità. La loro lettura ha suscitato il dialogo con lo scrittore, ha sollecitato domande, ci ha coinvolto su diversi piani, ha “toccato” tutte le dimensioni del nostro essere, è stata umanizzante e quindi educativa» (Macchietti, 1999, 5-7). Un dono fatto di reciprocità, di riconoscenza, di valorizzazione. Ed è per questo che il senso dello scrivere non consiste nell’imbrigliare parole entro schemi, perché esse rappresentano non solo la danza che le riporta al loro essere primo, ma soprattutto il sentire e vivere di chi scrive, del suo mondo, del suo incontro con l’altro, dell’orizzonte a cui tiene fisso lo sguardo per non cedere e continuare a sperare. Chi scrive sa di non dover produrre un sosia… La scrittura non può essere confusa con lo specchio di Narciso (cadendo nel narcisismo) anche perché nel mito Narciso diventa un fiore che è altro dal sé, un sé inatteso ed inspiegabile, un sé che è parola, un sé che va oltre la logica, un sé che si fa profumo, aria, spirito, dono. La scrittura parte dal sé per farsi profumo, aria, spirito, fino a dissipare il segreto del sé ed è allora che nessuno può nascondere di preferire la luce dell’alba a quella dei neon notturni. Ogni persona ha diritto alla luce. C’è dunque un senso dello scrivere che va colto nelle pieghe delle parole: le parole definiscono, sanciscono, narrano, dicono e non tradiscono perché non consentono di avere gli occhi aperti sull’enigma del nulla, del vuoto, piuttosto rappresentano vissuti singolari improntati su un’umanità forte e concedono di assaporare la gioia del vivere e dare avvio all’Altro Tempo.

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Le opere diventano così realtà che animano e interpellano gli altri per riscoprire la ricchezza del proprio essere Persona e individuare prospettive di futuro e di speranza. Ed è per questo che la scrittura va oltre il nichilismo ed il relativismo: infatti essa favorisce la rinascita e consente un nuovo “incominciamento”, il particolare non può risolversi nel comune, lo specifico nell’ordinario, la Persona nel collettivo, in nome della normalizzazione, della schematizzazione, della seriazione, fino a creare il mito Vuoto. «In una concezione di vita di “Sé per e con l’Altro”, chi scrive comprende la realtà, ne scruta le risorse, intravvede le intelligenze fervide e vive dei giovani e le istrada verso nuovi orizzonti, sicuro che il radicamento ad un sistema troppe volte senza Dio non può ingabbiare o ammanettare le menti e… i prati cominciano a rifiorire nel desiderio di vivere oltre i limiti imposti dal materialismo schiacciante. Inizia così a rinascere, attimo dopo attimo, il senso di un’etica nuova: l’Uomo deve testardamente cercare ciò che vale per “Educarsi ed Educare alla Vita”» (Carapella, 2009, 18-19). «Per andare oltre… fino a comprendere il messaggio evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”» (Grasselli, 2009, 21-22). La scrittura valorizza la Persona quando diventa una pratica di Fede nell’Uomo e nella rivalutazione della sua dignità… La grande sfida è quella di saper “celebrare” la vita dando fiato e voce come suggerisce Maritain «all’intuizione creatrice, che nasce nell’anima alle misteriose fonti dell’essere». Narrare è un veicolo d’amore: di passione, di nostalgia, di disperazione, di felicità, di scoperta, di presenza e di solitudine, ma anche di amore del sogno perché sono la felicità stessa… Forse è giunto il tempo che un adagio diventi poesia e che la Verità dell’Uomo si riappropri della sua dignità… del suo prossimo, della famiglia, dei bambini: le loro prime parole, le voci che fermano l’essere Persona… del suo riconoscersi una docile fibra dell’universo… A chi scrive resta il compito di valorizzare le vite e le esperienze dei personaggi anche attraverso l’accettazione della debolezza… «I deboli come gli splendidi diventano inviolabili, perché percepiti dal cuore…» (Macchietti, 1998, 82). Infatti “inviolabile”, come dice Pascal, «è ciò che attinge dentro l’ordine del cuore…» (Lombardi Vallauri, 1985, 70). La scrittura valorizza la Persona quando stimola l’Uomo a cercare ciò che vale per essere Persona, a tracciare un percorso d’amore, a offrire la mano ai giovani. «Abele non è morto, l’albero è lì, rinato, e i giovani si ciberanno di deliziose ciliegie e canteranno l’Amore…» (Carapella, 1999), la libertà, la libertà del dire sì, la libertà del dire no, la libertà senza inganno: quella che affratella e che promuove l’Uomo, la sua dignità, il suo essere Persona unica e irripetibile… figlio di Dio.

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Presentazione dell’Autore: Arturo Carapella, docente di materie letterarie nella Scuola Media Secondaria di II grado, autore di saggi di vario genere, di romanzi (Luna livida, L’albero delle ciliegie, Il canto delle ginestre, Il muro incerto, Meringhe e cioccolato), ha svolto attività di consulenza presso l’Assessorato alla Pubblica Istruzione di Bergamo, ha curato varie edizioni del Saper città.

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Anna Lucchiari Ippolitoni: presentazione del romanzo Luna livida di A. Carapella 19.12.1998.

Bibliografia Carapella, A. (1999), L’albero delle ciliegie, Arezzo, Alberti & C Editori. — (2009), «Per un nuovo incominciamento», in Bollettino As.Pe.I, n. 149, ott.-dic., 18-19. Delors, J. (1966), Nell’educazione un tesoro, Rapporto all’UNESCO della Commissione Internazionale sull’Educazione per il Ventesimo secolo (1997), tr. it., Roma, Armando. Grasselli, B. (2009), «Il coraggio di educare tra pathos, logos e testimonianza», in Bollettino As.Pe.I, n. 149, ott.-dic., 21-22. Lombardi Vallauri, L. (1985), Le culture riduzionisti nei confronti della vita, in Aa.Vv., Il Valore della vita, Milano, Vita e Pensiero. Macchietti, S.S. (1998), Appunti per una pedagogia della persona, Roma, Bulzoni. — (1999), «Sentire e vivere l’Educazione», in Cultura ed Educazione, mar.-apr., 5-7.

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GIOVANI EPISTEMOLOGI: NUOVE FORME DI PROTAGONISMO A SCUOLA. RIFLETTERE CON MORIN SULLA NECESSITÀ DI PORSI AL CENTRO DEL MONDO Ines Giunta Introduzione Se accettiamo l’ipotesi che la definizione di senso comune di protagonismo (da intendersi come l’atteggiamento di “chi ha un ruolo di primo piano nelle vicende della vita reale”1) possa essere interpretata in ambito educativo come un “porsi al centro del mondo” e se, altresì, intendiamo la definizione “porsi al centro del mondo” nel senso attribuitole da Morin e, cioè, come una centralità del soggetto rispetto al “conoscere e all’agire”, allora la definizione di protagonismo coincide con quella che lo Studioso dà di soggetto: «essere soggetto è porsi al centro del mondo sia per conoscere che per agire». L’individuo diventa soggetto, dunque, nel momento in cui diventa protagonista “nella” conoscenza e “nella” azione. L’adozione di questa prospettiva non va interpretata in alcun modo come un atteggiamento di chiusura rispetto alle altre accezioni assunte del termine, la cui lettura si rivela preziosa giacché dà contezza dei bisogni educativi ai quali occorre, comunque, fornire risposte: essa fonda le proprie ragioni, piuttosto, nell’esigenza di un impegno speculativo che consenta la riappropriazione della funzione orientativa della Pedagogia in ordine agli scopi che le sono propri. Tale scelta, ricca di implicazioni sotto il profilo epistemologico, legittima una serie di domande in ordine alla definizione «essere soggetto è porsi al centro del mondo sia per conoscere che per agire» e, segnatamente, su cosa si intenda per soggetto, in che modo vada interpretato il concetto di conoscenza, che rapporto ci sia tra conoscenza e azione, in che modo interpretare la centralità del soggetto rispetto al mondo e, da ultimo, come si arrivi, per questa via ad una interpretazione di protagonismo pedagogicamente “viabile”2. Si procederà, dunque, riflettendo, sia pure sinteticamente, sull’universo di significati emersi dalle interrelazioni tra gli elementi in analisi allo scopo di fare luce sul più complesso significato di “stare oggi al mondo” da protagonisti problematizzando ogni singolo passaggio della definizione: «essere soggetto | è porsi al centro del mondo | sia per conoscere | che per agire».

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| essere soggetto | : ovvero scoprirsi sistema nel sistema Il problema della conoscenza sembra focalizzarsi, oggi, su un aspetto di grande rilevanza epistemologica, emerso sotto la spinta della crescente disposizione dell’indagine scientifica a identificare nel “tipo di rapporto” che si instaura tra le componenti di un sistema la discriminante conoscitiva determinante. A seguito dell’impulso di apporti trans-disciplinari, si evidenziano, infatti, due tipologie di relazioni: quando le proprietà di un sistema sono additive e, cioè, «[…] l’effetto di un insieme di elementi è la somma degli effetti considerati separatamente, e nell’insieme non appaiono nuove proprietà che non siano già presenti nei singoli elementi» (Magrassi, 2009, 51), si parla di linearità del rapporto; quando, invece, i vari componenti/aspetti di un problema o di un sistema interagiscono gli uni con gli altri, così da rendere impossibile la loro separazione per risolvere il problema passo-passo e “a blocchi”, allora si parla di non linearità delle relazioni. Dalla non linearità d’interazione tra le componenti di un sistema scaturisce l’attitudine di questo a esibire proprietà inspiegabili sulla base delle leggi che governano le singole componenti stesse. I sistemi e i problemi che si presentano in natura sono essenzialmente non-lineari, tuttavia, per semplificare inizialmente le indagini o per scopi applicativi, si ricorre spesso in prima istanza all’ipotesi di linearità, si considerano, cioè, in prima approssimazione trascurabili gli effetti della non-linearità e si approntano modelli matematici che descrivono il sistema come se esso fosse lineare (processo noto come linearizzazione). Come ai due lati di uno stesso crinale, si collocano, così, due classi di sistemi: quelli caratterizzati da relazioni lineari, denominati sistemi semplici, e quelli che sono esito delle interrelazioni tra le parti, indicati come sistemi complessi. Come logica conseguenza di questa diversificazione, si configurano due distinte metodiche di indagine: una prodotto di un approccio marcatamente riduzionista, fautore di un procedimento eminentemente analitico, imperniato sull’idea che ogni conoscenza scientifica debba essere fatta risalire al solo esame delle sue componenti e delle leggi che le governano; l’altra frutto di un orientamento olistico, attento alle interrelazioni e alle interdipendenze funzionali tra le parti e, dunque, alle dinamiche evolutive emergenti. L’uomo e la natura sono sistemi complessi, ciascuno con una propria struttura, propri vincoli e potenzialità: dal senso scientifico della complessità del sistema-uomo, come di quella del sistema-natura, ne deriva la necessità, trasversale a tutti i livelli di analisi, di poter disporre di un pensiero complesso capace di gestire l’indeterminatezza, di orientarvisi e di compiere scelte consapevoli. Il rischio, sempre immanente, è che il soggetto rimanga come avviluppato nella rete multiforme di una realtà riconosciuta finalmente come aggregato organico e strutturato di variabili tra loro interagenti, e, dunque, come com-

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plessa, ma, al contempo, percepita come inconoscibile, proprio perché complessa. Il rischio nel rischio risiede, inoltre, nel fatto che tale atteggiamento rinunciatario possa essere avallato da quella porzione di vaghezza, da quel margine lasciato alla libera interpretazione che sempre ogni termine porta con sé nel denotare un oggetto o definire un concetto, come, nel caso specifico, avviene per quello di soggetto, che ne fa, come rileva Morin (Morin, 2000, 125), una nozione «[…] nello stesso tempo evidente e misteriosa» e, in quanto tale, facilmente manipolabile, plasmabile, asservibile a logiche riduzionistiche, con l’esito ultimo di mortificarla.

| sia per conoscere | : ovvero “farsi” soggetto nella conoscenza L’individuo, insieme fenomeno biologico e sociale, “si fa” soggetto nella sua dimensione cognitiva, computazionale, nell’atto, cioè, come afferma Morin, di «[…] porsi al centro del mondo sia per conoscere che per agire» (Morin, 2002, 54). Ma il termine soggetto rischia di trasformarsi subito in una trappola concettuale: cedendo al gioco dei rimandi, l’apertura implicita in questa definizione corre il rischio di essere vanificata dall’identificazione con il soggetto cartesiano, interprete oggettivo della realtà perché avulso dalla sua umanità (dal suo essere umano e, in quanto tale, fallace), concezione nella quale sembra dissolversi paradossalmente proprio l’idea stessa di soggettività. Al contrario, il soggetto a cui si fa riferimento, cosciente che le rappresentazioni della realtà non sono «[…] riflessi del reale, ma traduzioni/costruzioni che hanno assunto la forma di mitologia, religioni, ideologie e teorie […]» (Morin, Ciurana, Motta, 2004, 34), si pone nei confronti del sistema osservato consapevole della necessità di vigilare su se stesso, sul pericolo, cioè, di una rimozione della soggettività “nella” conoscenza (Morin, 1994, 28-29). La conoscenza è, dunque, nella metarelazione tra due sistemi complessi: «porsi al centro del mondo sia per conoscere che per agire» si traduce, così, di fatto in un’osservazione dell’osservazione, un’osservazione di second’ordine che aspira alla verità, ad un meta-livello di comprensione traducibile nella visione di una totalità tanto auspicata, desiderata, perennemente agognata, quanto irrimediabilmente, costitutivamente, inesorabilmente irraggiungibile. Alla luce dell’incertezza della conoscenza, l’errore viene reinterpretato: non più vissuto come fallimento o come ostacolo all’apprendimento della conoscenza, esso diventa risorsa per comprendere la complessità. L’epistemologia della complessità reintroduce, così, proprio i due elementi sotto l’influenza dei quali cadeva ogni determinismo: l’incertezza e l’errore. Da questa prospettiva gli unici ostacoli reali alla conoscenza diventano “le rigidità”, da intendersi ora come ogni forma di sclerotizza-

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zione del sapere o di semplificazione specialistica, ora come ogni forma di resistenza dell’umanità tutta a pensarsi come unica e globale. Il problema dell’uomo contemporaneo, continuamente dibattuto, lacerato, tormentato dall’impossibilità di gestire le contraddizioni risolvendole definitivamente, diventa, così, la fonte della sua grandezza: contro ogni logica previsione, che vorrebbe il soggetto schiacciato sotto il peso dello scoramento e del senso di frustrazione che l’amputazione del raggiungimento pieno del fine conoscitivo farebbe presagire, il sistemauomo si connota, infatti, per la sua saggezza, ovvero per la capacità di accettare la “condizione del proprio tempo” (Spadolini, 2004, 19). Costretto a muoversi nello spazio angusto che il certo riesce a sottrarre all’incerto, obbligato a prodursi in continui equilibrismi tra l’essere e il divenire, a muoversi nel terreno minato che lega in sé l’uno e il molteplice, sorprendentemente, il soggetto diviene stratega «[…] trova risorse e compie svolte, realizza inversioni e deviazioni» (Morin, Ciurana, Motta, 2004, 37).

| che per agire | : ovvero “farsi” soggetto nell’azione Se, dunque, il pensiero semplificatore è un pensiero che obbedisce alle leggi della linearizzazione, il pensiero complesso «[…] è l’errare, nel duplice e ambiguo senso del camminare e del mancare la meta» (Spadolini, 2004, 18). Il cammino, attività pensante, riflessiva del soggetto, grazie al quale ricomporre gli opposti in meta-contesti e auto-considerarsi, diventa metodo, diventa ciò che serve ad apprendere. Tutte le determinazioni dalle quali è vincolato l’uomo (culturali, biologiche, sociali, psicologiche) vanno considerate in quest’ottica come necessarie all’autonomia del soggetto, dal momento che gli forniscono le informazioni che gli consentono di rigenerarsi continuamente, purché questi non confonda la “dipendenza” della sua autonomia con il suo “assoggettamento”, consentendo che le sue azioni si pieghino a logiche non sempre trasparenti, non sempre decodificabili. Agire consapevolmente si traduce, dunque, nel riuscire a gestire il binomio autonomia-dipendenza. L’assunzione totale della responsabilità riguardo alle proprie azioni conduce, inesorabilmente, ad una libertà totale: l’essere umano è libero quando «[…] dispone delle possibilità mentali di operare una scelta e di prendere una decisione, e quando dispone delle possibilità fisiche o materiali di agire secondo la propria scelta e la propria decisione. Più è capace di usare delle strategie nell’azione cioè di modificare il suo scenario iniziale nel corso del cammino, più grande è la sua libertà» (Morin, 2002, 251). In questo si ravvisa il significato ultimo intrinseco ai concetti di “essere soggetto” sia “per conoscere” che “per agire”. Bisogna ora analizzare il significato sotteso

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alle parole “porsi al centro del mondo”, che introduce specificamente al concetto di protagonismo.

| porsi al centro del mondo | : ovvero dall’egocentrismo epistemico al protagonismo esistenziale Nell’atto di costituirsi soggetto nella conoscenza e nell’azione, l’uomo opera, di fatto, una centratura epistemica su se stesso: in questo egocentrismo epistemico si trovano le radici di protagonismo che potremmo definire protagonismo esistenziale, che agisce in risposta a due forze, due cause operanti di uguale intensità ma di opposta direzione. La prima è una pressione interna, ravvisabile in quell’ancestrale istinto di sopravvivenza che, sotto la spinta forzosa dell’urgenza di non arrendersi alla complessità, amplia la nozione di adattamento della biologia evolutiva, che si traduce esclusivamente nella capacità di disporre di una serie di azioni e di stati per reagire alle difficoltà presentate dall’ambiente, per includere, quale obiettivo imprescindibile, quello di un’organizzazione concettuale logica orientata alla creazione di strutture di coerenza sempre più ampie e comprensive. Pur nella consapevolezza che una tale conoscenza non si tradurrà mai in una completa accessibilità alla realtà indipendente, il soggetto opera in direzione di una riappropriazione della spiegazione, della predizione e del controllo delle esperienze che non si può esitare nel definire una sana, auspicabile forma di protagonismo cognitivo, la cui attività è sintetizzabile in termini di una ricreazione intellettuale permanente. La seconda causa operante è un attrattore esterno, l’intuizione ecologica del ruolo che ciascuno deve svolgere nel sistema mondo, telos di ogni agire individuale, etica del sentirsi e del sentire gli altri, che trova nella tensione ad un nuovo umanesimo, inteso come realizzazione dell’umano che c’è in ognuno, l’imperativo categorico a cui uniformare ogni azione, pensiero, progetto. L’umano diventa fine “in” se stesso, secondo un processo di osmosi tra sistemi che si moltiplica all’infinito, da cui emerge un insieme composito e nuovo, in cui il destino di uno è inesorabilmente, inscindibilmente legato a quello degli altri. Sotto la spinta di questa forza, il protagonismo esistenziale si traduce in protagonismo planetario, inteso come esercizio di una cittadinanza piena, consapevole, critica. Sensibilità ai problemi, capacità di produrre idee, originalità nell’ideare, capacità di sintesi e di analisi, capacità di definire e strutturare in modo nuovo le proprie esperienze e conoscenze: l’egocentrismo epistemico, nelle due forme in cui si esplica, altro non è, dunque, che creatività. L’egocentrismo epistemico è, però, esposto al rischio di ripiegamento su se stesso: la self reception (Morin, 2001), l’autoinganno ne è l’esito

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più sconcertante, un “venir meno a se stessi” che diventa presto un “venir meno dell’empatia” nei confronti degli altri e che approda inesorabilmente all’allentamento della percezione di vincoli ed obblighi. È un «porsi al centro del mondo sia per conoscere che per agire» che, persa di vista la misura delle cose e il suo telos intrinseco, diviene un “porsi al centro di tutto il mondo” fine a se stesso, compiuto in sé e, in quanto tale, egocentrismo assoluto. Lungo questa logica autoreferenziale fa la propria comparsa un modo nuovo di essere e di sentirsi protagonisti: la perdita di senso, di un senso comune, condiviso, solidale apre all’atomizzazione, al malessere, alla chiusura, alla de-responsabilizzazione e, quindi, al degrado morale e psico-sociale. All’ombra di questo individualismo estremo, di un solipsismo del soggetto che risolve ogni realtà in sé medesimo, il protagonismo diviene mera esibizione.

Il protagonismo epistemico: ovvero il compito della Pedagogia Non solo possiamo leggere in questi termini la crisi che affligge l’uomo contemporaneo, ma dobbiamo interpretare in questi medesimi termini soprattutto lo smarrimento, l’insicurezza, l’ansia delle giovani generazioni. Riorientare rispetto al tempo, allo spazio, al proprio io, all’altro per guardare con sguardo lucido oltre l’errore, l’incertezza, il dubbio, il complesso, il semplice, i falsi miti, le ideologie e l’assenza di senso seguendo il file rouge del bene comune richiede, ancora una volta, necessariamente la sintesi dei molteplici: dei fattori endogeni al sistema-soggetto (percettivi, mnestici, ideativi) e di quelli esogeni ad esso (l’altro, la natura, il pianeta), compito tanto arduo quanto imprescindibile, che solo la conoscenza, che è comprensione e autocoscienza, rende realizzabile. Il superamento dell’ottica dell’oggettività della conoscenza, che sollevava automaticamente l’uomo dalla responsabilità del mondo creato, immette in una direzione di ricerca e di riflessione esattamente inversa, speculare: «Se non vi è un mondo da corrispondere, se la scienza e l’epistemologia non debbono più orientarsi per trovare le migliori procedure per rispecchiare un mondo che è già costituito e che richiede solo di essere scoperto, ecco allora che il nostro compito verso l’esperienza è quello di una nostra responsabilità nel costituirla come il nostro mondo, nel costituirla secondo dei requisiti che non sono quelli della corrispondenza, ma che in ultima istanza, oserei dire, sono di carattere etico ed estetico, riguardanti cioè il mondo migliore da vivere, il mondo più giusto da vivere. Perché non c’è altro che questo: il migliore mondo da costruire, il mondo più vero, in cui “vero” è ciò che noi crediamo e assumiamo sulla base dei nostri requisiti etici e delle nostre esigenze estetiche nell’ambito dei linguaggi che condividiamo» (Gargani, 1991, 23).

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In sintesi, alla domanda volta ad indagare perché conoscere i processi conoscitivi e, segnatamente, diventare protagonisti di un percorso irto di difficoltà, di trappole concettuali, di questioni difficili da dirimere, potremmo rispondere con Vattimo «[…] Per saperne di più sul senso del reale» (Vattimo, 1991, 65). Si delinea, così, un orizzonte prospettico inedito, in cui tutti i soggetti appaiono posti sul medesimo piano e richiamati ad un compito di uguale natura: lo studio di come un particolare organismo o aggregato di organismi ordina e organizza le esperienze del mondo e, pertanto, conosce, pensa e decide3 (Bateson, 1977, 362), prima appannaggio esclusivo di una disciplina, l’epistemologia, e di uno studioso, l’epistemologo, viene così molecolarizzato e “partecipato” al soggetto e, per quanto il compito dello scienziato rimanga gravato dall’onere di farsi garante della scientificità della disciplina, in virtù del fine comune anche quello del soggetto comune si caratterizza per la stessa serietà di approccio alla conoscenza: «La problematica dell’epistemologia […] diventa rilevante per tutti, non solo per gli specialisti, perché diventa un modo di interrogarsi sul senso dell’essere, cioè sul senso delle trasformazioni che la realtà dentro cui siamo subisce, anche a causa dell’impresa epistemologica e di tutti gli eventi che hanno a che fare con essa» (Vattimo, 1991, 65). Lungo tale prospettiva interpretativa, dunque, «porsi al centro del mondo sia per conoscere che per agire» significa essenzialmente per il soggetto “farsi” epistemologo. Ma per una volta, affrontare l’ignoto a partire dalla propria realtà appare un compito meno spaventoso e disarmante se pensato all’interno di un paradigma che fornisce il costrutto e le modalità grazie alle quali operare il superamento di quel senso di inadeguatezza di fronte al complesso che finisce col paralizzare l’uomo, dissolvere in lui ogni tensione al cambiamento, ogni barlume di speranza circa la fattibilità di esso, negandogli, di fatto, la possibilità di “divenire” pienamente, consapevolmente, scientemente. A poco, però, varrebbe lo sforzo se il soggetto arrivasse al compito gravato da una, ormai, costitutiva rigidità intrinseca al processo di maturazione cerebrale: la precocità con la quale si viene messi in grado di muoversi all’interno di determinate coordinate mentali risulta un elemento determinante ai fini della riuscita dell’impresa conoscitiva. È necessario, dunque, che questo soggetto sia giovane, che possa contare, cioè sulla propria plasticità neurale, fattore che, associato ad un approccio attivo alla conoscenza e alla predisposizione di quanto possa favorire il processo di attribuzione di senso alla realtà, crea le condizioni per il superamento di quella sensazione di inadeguatezza che non essere in grado di attribuire un senso ai concetti di “essere” o “realtà” e dunque, al «[…] complesso mondo della nostra vita, della nostra esperienza, della nostra storia comporta» (Ceruti, 1991, 112) inesorabilmente. Una tale riorganiz-

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zazione del pensiero va interpretata come molto più che un imperativo categorico rispetto al progetto di vita del soggetto, si tratta, piuttosto, di una necessità democratica chiave: in essa Morin ravvisa, infatti, non solo l’opportunità di un pieno «impiego delle attitudini mentali, ma anche un’opportunità imperdibile di superamento di quella che definisce un’epoca di “barbarie”» (ibidem). È così che protagonismo cognitivo e protagonismo planetario si coniugano e, contestualmente, si ricompone la cesura interna al sistema-soggetto e quella tra sistema-soggetto e sistemamondo: il protagonismo diventa, così, un protagonismo epistemico. Il destino dell’umanità si lega, così, inevitabilmente al compito educativo: la scuola diventa la sede naturale in cui orientare la tensione del soggetto a «[…] porsi al centro del mondo sia per conoscere che per agire» (Morin, 2002, 54), a farsi protagonista del proprio progetto di vita in direzione delle forme enucleate e considerate strategiche per il suo come per il destino dell’umanità.

| lo spazio del protagonismo epistemico | E, ancora, a poco varrebbe lo sforzo se un tale giovane soggetto non potesse disporre di uno strumento adatto a sostenerlo nel compito. L’esplorazione delle interrelazioni molteplici, multiformi interne ad ogni sistema e tra i sistemi che ogni processo di conoscenza mira a portare alla luce trova, così, un alleato naturale proprio negli ambienti di apprendimento ipertestuali, pensati a sostegno di una conoscenza non più concepita quale ricerca sistematica, asintotica di una verità sicura, ma come una storia o una narrazione infinita (Corrao, 1991, 32), che si muove continuamente tra gli argini “chiarificazione e cecità” (Morin, 1991). L’itinerario euristico-interpretativo, controllato e guidato dallo scopo «[…] di cogliere le modalità di connessione tra le azioni e le conseguenze, di scoprire il nesso che le collega» (Baldacci, 2006, 135), attraverso il quale ci si accosta alla conoscenza al loro interno, permea a tal punto questi ambienti da finire col denotarli come euristici. Evoluzione naturale dei laboratori, gli ambienti euristici sono ambienti flessibili, progettati allo scopo di modellare una mente flessibile e multiforme: essi costituiscono, utilizzando una metafora, lo “spazio” del pensiero all’interno del quale lo studente, giovane epistemologo, può gestire l’indeterminatezza e, per questa via, essere e sentirsi protagonista. Presentazione dell’Autore: Ines Giunta, docente di ruolo nella Scuola primaria, è Dottore di ricerca in Fondamenti e metodi di processi formativi. I suoi interessi di ricerca riguardano l’apprendimento di conoscenze

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complesse, la flessibilità cognitiva e la relazione esistente tra l’utilizzo delle nuove tecnologie e la formazione dei concetti.

Note 1 Enciclopedia Treccani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani Editrice, alla voce “protagonista”. 2 Per il biologo, un organismo vivente è viabile fino a quando riesce a sopravvivere nel suo ambiente; per il costruttivista, i concetti, i modelli e le teorie sono viabili se si dimostrano adeguati ai contesti nei quali sono creati. L’introduzione del concetto di viabilità si sbarazza dell’idea che ci sia soltanto una verità ultima che descriva il mondo: ogni descrizione è relativa all’osservatore, dalla cui esperienza è derivata. Conseguentemente, ci sarà sempre più di un modo di risolvere un problema o di raggiungere un obiettivo: questo non significa che soluzioni diverse debbano essere considerate ugualmente desiderabili, tuttavia, se raggiungono l’obiettivo desiderato, la preferenza per un particolare modo di raggiungerlo non può essere giustificata con la sua giustezza, ma solo con il riferimento a qualche altra scala di valori, quali velocità, economia, convenzione o eleganza. 3 Nella definizione di G. Bateson: «Poi vi sono i problemi di come noi conosciamo che genere di mondo è questo e che genere di creature siamo noi che possiamo conoscere qualcosa (o forse niente) di tali questioni; questi sono i problemi dell’epistemologia».

Bibliografia Baldacci, M. (2006), Ripensare il curricolo, Roma, Carocci. Bateson, G. (1977), Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi. Bridgman, P. (1927), The Logic of Modern Physics, New York, The MacMillan Company. Ceruti, M. (1991), Che cos’è la conoscenza. Una questione cosmologica, in M. Ceruti, L. Preta, Che cos’è la conoscenza, Roma, Laterza. Corrao, F. (1991), Epinoesis, in M. Ceruti, L. Preta, Che cos’è la conoscenza, Roma, Laterza. Gargani, A.G. (1991), Il testo complesso della natura, in M. Ceruti, L. Preta, Che cos’è la conoscenza, Roma, Laterza. Magrassi, P. (2009), Difendersi dalla complessità, Milano, Franco Angeli. Morin, E. (1991), Auto-eco-conoscenza, in M. Ceruti, L. Preta, Che cos’è la conoscenza, Roma, Laterza. — (1994), Il metodo. Ordine, disordine, organizzazione, Milano, Feltrinelli. — (2000), La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano, Raffaello Cortina.

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(2001), I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina. — (2002), Il metodo. L’identità umana, Milano, Raffaello Cortina. Morin, E., Ciurana, E.R., Motta, R.D. (2004), Educare per l’era planetaria. Il pensiero complesso come metodo di apprendimento, Roma, Armando. Spadolini, B. (2004), Edgar Morin, o della nostalgia dell’errante, in E. Morin, E.R. Ciurana, R.D. Motta, Educare per l’era planetaria. Il pensiero complesso come metodo di apprendimento, Roma, Armando. Vattimo, G. (1991), La realtà consumata, in M. Ceruti, L. Preta, Che cos’è la conoscenza, Roma, Laterza.

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2. Protagonismo e materiali didattici Abstract: The situation of crysis we live in shows the difficult moment of education, with a lower standard of culture, institutions and values. So we must face the situation and give practical answers to School problems. The teacher must get emergencies as opportunities of growth and change. This need is particularly referred to student who come from difficult contests: they need new perspectives that could help in following rules, improve social skills, feeling as part of a group and master of himself. Riassunto: La situazione di crisi che oggi viviamo evidenzia l’emergenza educativa e didattica circa il degrado generale della cultura, delle istituzioni e dei valori. Diventa perciò necessario e urgente essere protagonisti a prova d’aula per dare risposte significativamente attuali ai problemi della Scuola. Spetta al docente cogliere e trasformare le emergenze educative e didattiche in opportunità di crescita e di cambiamento, rinnovando strategie, metodi e mezzi d’insegnamento per consentire a tutti di essere protagonisti. È una risposta necessaria che va data in modo particolare a chi proviene da contesti svantaggiati perché più bisognoso di una proposta formativa nuova che lo induca e lo aiuti a rispettare le regole, a sviluppare abilità sociali, a riconoscersi parte integrante di un contesto, ad essere artefice della sua realizzazione. Parole chiave: progetto, laboratorio, tecnologia, moderno, interdisciplinare.

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PROGETTO G.I.O.CO. (GIOCO, IMPARO, OPERO, COOPERO) COME COSTRUZIONE DEI MATERIALI DI LAVORO Angela Lenzo Le emergenze educative e didattiche come opportunità per diventare tutti protagonisti La situazione di emergenza educativa e didattica diventa di giorno in giorno più grave in conseguenza della crisi dei valori e del degrado generale della cultura, dei costumi, delle istituzioni sociali e politiche. In particolare, a motivo dei tagli alle risorse e al personale scolastico, nelle realtà povere e svantaggiate è sempre più difficile lo svolgimento di una efficace attività di istruzione e formazione perché vengono, di fatto, limitate le opportunità concrete di crescita e di sviluppo soprattutto dei più deboli e sfortunati. È perciò necessario e urgente il protagonismo e l’impegno di tutti, per trovare risposte concrete e immediate per i problemi della scuola, istituzione di fondamentale importanza per il progresso umano, civile e democratico della società. Ma è necessario, principalmente, l’impegno di noi docenti che, conoscendo i problemi e le difficoltà della scuola più di chiunque altro, abbiamo perciò il dovere di fare sentire la nostra voce, in tutte le sedi e a tutti i livelli, e di avanzare proposte e soluzioni alternative e innovative. Ed è esattamente quello che abbiamo provato a fare col PROGETTO G.I.O.CO., cogliendo e trasformando le emergenze educative e didattiche in opportunità di crescita e di cambiamento, rinnovando strategie, metodi e mezzi di insegnamento per consentire a tutti di diventare protagonisti. È accaduto che proprio gli ultimi (alunni diversamente abili, svantaggiati, immigrati, con difficoltà di apprendimento, iperattivi, disadattati, bulli…), avendo imparato a usare prima dei compagni le strategie, i metodi e gli strumenti del PROGETTO G.I.O.CO., sono diventati di fatto i principali protagonisti di un cambiamento e di una innovazione educativa e didattica basati sulla responsabilità, la cooperazione e la solidarietà. Interessati ai processi di apprendimento e corresponsabilizzati nei percorsi di crescita, hanno maturato sicurezza e competenze tanto da poter essere coinvolti in attività di tutoraggio di altri, nella propria e in altre classi, ed hanno partecipato anche come testimonial in corsi di formazione per docenti.

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Il PROGETTO G.I.O.CO (Gioco, Imparo, Opero e COopero) Il PROGETTO G.I.O.CO., è un progetto di innovazione educativa e didattica che, come si evince dall’acronimo Gioco, Imparo, Opero e COopero, fa leva sulla ludicità, sull’operatività e la cooperazione, e cioè su bisogni intimi e profondi dell’uomo, di fondamentale importanza per la sua piena espressione e realizzazione. Ho maturato questa convinzione lungo un percorso non facile né scontato, provenendo da una esperienza formativa di tipo tradizionale, cioè programmocentrica e trasmissiva. Il PROGETTO G.I.O.CO è nato, in realtà, dalle provocazioni e dagli stimoli colti dall’esperienza di Barbiana, dai problemi e dalla difficoltà quotidiane personalmente incontrate e da un intenso lavoro di ricerca e di sperimentazione, durato circa trent’anni e si è sviluppato tenendo conto degli interessi, dei gusti e delle curiosità dei ragazzi, col vivo desiderio di trovare risposte adeguate ai bisogni di ciascuno e di tutti, principalmente dei più deboli. Esso è rivolto a tutti gli alunni della scuola dell’obbligo, ma soprattutto a quelli della scuola primaria e della secondaria di primo grado, dove, oltre alla carenza di materiali che consentano di animare e rendere operativa la didattica quotidiana per tutte le aree disciplinari, è frequente il pregiudizio per cui si ritiene che il gioco e l’animazione vadano bene per i piccoli o per i soggetti con problemi e difficoltà. Il PROGETTO G.I.O.CO. è trasversale alle discipline, ma riserva una attenzione prioritaria alle lingue in generale e a quella nazionale in particolare, perché la conoscenza e la padronanza linguistica sono di importanza fondamentale, non solo a scuola ma anche nella vita. Col suddetto progetto ci si propone di aiutare i ragazzi a scoprire il piacere di conoscere e apprendere, di sentirsi competenti e autonomi, di fare, inventare, creare ed essere protagonisti. Esso mira, inoltre, ad aiutare a scoprire il piacere di assumere responsabilità e cooperare per la piena realizzazione di tutti, facendo sperimentare la gioia della condivisione e dell’agire etico e solidale.

Specificità del PROGETTO G.I.O.CO. Per offrire ai miei allievi strumenti motivanti ed efficaci e per personalizzare e integrare gli interventi, ho cominciato a costruire personalmente i materiali necessari. Dovendomi occupare, come insegnante di sostegno, anche di contenuti che ignoravo, ho avuto modo non solo di provare il piacere di inventare e di fare ma, soprattutto, di sperimentare la particolare efficacia di questa attività di costruzione, anche in relazione

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alle mie personali difficoltà; cosa che, tra l’altro, mi aiutava a comprendere meglio le difficoltà dei miei alunni. Costruendo materiali didattici, ho imparato, inoltre, a riflettere sui miei punti di debolezza e di forza e ho compreso l’importanza della metacognizione nel processo di apprendimento. In particolare, nel preparare esercizi ludiformi sul lessico della lingua inglese (lingua che ignoravo completamente), mi sono resa conto che, pur scrivendo tante volte gli stessi termini, non li ricordavo; li memorizzavo, invece, più facilmente quando costruivo i cruciverba perché, per trovare gli incroci, ero costretta a soffermarmi e ad analizzare bene le singole lettere che componevano le parole. Da qui l’idea di proporre agli alunni i percorsi sperimentati: dalla costruzione di materiale didattico per gli alunni siamo passati così alla costruzione di materiale didattico da parte degli stessi alunni, i quali, opportunamente sollecitati e guidati, imparano in questo modo a riflettere sui propri modi di apprendere, ad attivare i processi metacognitivi e a gestirli in maniera consapevole. In questo consiste la specificità del PROGETTO G.I.O.CO., progetto che ci ha permesso di modificare radicalmente la prospettiva educativa e didattica tradizionale e di mettere realmente al centro del processo educativo e didattico l’alunno che, con le strategie suggerite e gli strumenti concreti offerti, impara a costruire il sapere, impara ad apprendere, capacità questa sempre più necessaria in una società in continua e rapida evoluzione.

I sussidi del PROGETTO G.I.O.CO. Per rendere operativi i principi e la metodologia del PROGETTO G.I.O.CO. e per facilitare l’attuazione dei percorsi suggeriti, attraverso strumenti immediatamente spendibili nelle varie situazioni e nelle diverse aree disciplinari, è stata ideata e predisposta una varietà di sussidi che fa parte integrante del progetto. Alcuni di questi sussidi1 riguardano argomenti e contenuti specifici (apprendimento delle lingue straniere, della numerazione, ecc.), altri, invece, come L’inventaparole, Incrociamo, Tempo di bingo, Facciamo tombola, Tessere multiuso, Il gioco infinito e Fantasia, sono trasversali e flessibili, si possono cioè usare per qualsiasi contenuto e per tutte le lingue, le discipline e i progetti. Sono utilizzabili per lavori individuali e per attività di gruppo e, soprattutto, si possono modificare per graduare le difficoltà, personalizzare gli interventi e adeguare i compiti alle effettive capacità di ognuno, sia quindi per facilitare chi è in difficoltà, favorendo così esperienze di successo scolastico, ma anche per alzare sempre più l’ostacolo

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per chi è in grado di saltarlo, in modo da favorire concretamente il massimo sviluppo di ciascuno e di tutti. I sussidi di base si possono anche abbinare in vari modi, per attività di alfabetizzazione emotiva e di arricchimento lessicale e per esercizi che vanno dalla acquisizione dei prerequisiti linguistici e logico-matematici e della letto-scrittura, ad attività di analisi e sintesi, alla costruzione di schemi e mappe concettuali, alla scrittura creativa. Si tratta in gran parte di tessere, schede, tabelle e tabelloni in cartoncino che vanno utilizzati al posto dei quaderni. Passare dalla carta al cartoncino rappresenta, in realtà, una grande opportunità e l’avvio di un cambiamento nel modo di fare scuola, per i risvolti motivazionali e cognitivi veramente sorprendenti e le notevoli implicazioni sullo sviluppo globale della persona che riesce ad attivare.

Didattica laboratoriale e apprendimento cooperativo Utilizzando i sussidi, i materiali e i percorsi proposti, gli alunni costruiscono giochi e strumenti didattici, ludiformi e non, relativi a tutti gli argomenti di studio, mentre svolgono normali esercizi quotidiani sia a scuola che a casa. Tutti, nessuno escluso, possono così realizzare ed avere sempre a disposizione una “ludoteca” didattica personale e personalizzata. Ciò contribuisce a coinvolgere e a creare interessi significativi anche per i soggetti a rischio, inducendoli a vivere in maniera utile e piacevole l’attività di apprendimento non soltanto a scuola ma anche durante il tempo extrascolastico, tempo in genere perso per le strade, lungo quelle strade dove molto spesso i ragazzi si perdono. In forma ludica i ragazzi apprendono ad operare, costruire, confrontarsi con le regole dei giochi, negoziare le regole e scegliere percorsi condivisi: e questo costituisce anche un ottimo esercizio di democrazia e di educazione alla legalità. Con i sussidi del PROGETTO G.I.O.CO. gli alunni imparano in maniera più stabile e duratura qualsiasi contenuto perché sono “costretti” a soffermarsi e a riflettere sugli argomenti trattati sia nella fase della realizzazione dei materiali e dei giochi proposti sia nella fase successiva del loro uso, durante la quale consolidano le conoscenze, ripetendo attività utili e significative secondo modalità ludiformi. Un’attività, quella della ripetizione, in genere noiosa e per questo rifiutata e poco praticata, diventa così piacevole, interessante e stimolante specialmente per gli alunni demotivati e per quelli con ritmi di apprendimento lenti, per i quali, tra l’altro, è particolarmente necessaria. Ma questa attività di ripetizione si è rivelata anche estremamente utile come momento di autoverifica; gli alunni infatti, mentre giocano, prendono co-

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scienza delle reali acquisizioni e delle carenze personali per cui imparano anche ad autovalutarsi e a individuare gli obiettivi da conseguire. In questo modo, momenti importanti e delicati del processo di insegnamento-apprendimento, vissuti in genere, come sanzionatori e selettivi, oltre a diventare più trasparenti e condivisi, diventano soprattutto formativi. Infine, secondo itinerari sempre diversificati (individualmente o per fasce di livello) in relazione alle capacità e agli obiettivi educativi e didattici programmati, ma anche in relazione agli interessi e alle inclinazioni personali, gli alunni realizzano anche libri di vario genere: filastrocche, antologie, cruciverba… Ognuno svolge una parte del lavoro necessario; ma il prodotto finale è opera di tutti. Questo vale anche per la costruzione dei giochi. Attraverso la didattica laboratoriale, quindi, gli alunni possono provare il piacere di toccare, di vedere e di apprezzare i risultati del proprio lavoro e di poterli riutilizzare; ogni produzione può essere personalizzata, modificata, trasformata; ognuno vi può imprimere la propria impronta. Tutti possono continuare così l’opera della creazione e stupirsi davanti alle loro opere: “Professoressa, mancu pari chi u fuci io!!!” (Professoressa, sembra che non l’abbia fatto io), mi ha detto una volta un alunno, solitamente pasticcione e disordinato, ammirando il suo primo cruciverba. Lavorando con i sussidi del PROGETTO G.I.O.CO, gli alunni vengono, infatti, sollecitati e stimolati a curare anche l’aspetto grafico ed estetico per cui, a volte, realizzano delle vere e proprie opere d’arte. E ancora, con la didattica laboratoriale, gli alunni migliorano le capacità di attenzione, di concentrazione, di memoria e di orientamento spazio-temporale; imparano a usare mezzi e strumenti, sviluppano abilità trasversali: operative, organizzative, progettuali, logiche e critiche, di analisi e sintesi…; sviluppano la fantasia e la creatività; acquisiscono il metodo e il gusto della ricerca, personale e di gruppo; e, infine, cosa molto importante, imparano a confrontarsi, ad apprezzare e a valorizzare le capacità di tutti, a collaborare e a lavorare insieme, in un clima sereno e positivo, per cui riescono a dare il meglio di sé, sviluppando nello stesso tempo l’attenzione nei confronti degli altri e il piacere di raggiungere mete sempre più alte non per superare, vincere e schiacciare l’altro, ma per aiutarlo. Soprattutto, imparano a mettere «l’uomo al di sopra di tutte le cose e tutte le cose al servizio dell’uomo».

Incrociamo: uso didattico e tecnica di costruzione del cruciverba Corredata da una lavagna a quadretti plastificata, Incrociamo è una guida didattica con un percorso graduale per imparare a costruire cruciverba.

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L’enigmistica ha sempre appassionato grandi e piccoli e anche per questo da tanto tempo il cruciverba è entrato a far parte delle attività scolastiche. L’uso didattico del cruciverba, quindi, non è affatto una novità. La nostra proposta, invece, vuole essere qualcosa in più della semplice soluzione di quesiti, prevista dal tradizionale cruciverba perché coinvolge direttamente gli alunni nella costruzione di cruciverba, attivando un processo inverso, quindi, dai risvolti motivazionali e cognitivi molto più ampi, complessi e proficui. La realizzazione dei cruciverba viene proposta per tutte le lingue e le discipline e per molteplici usi: imparare numeri e tabelline, eseguire semplici calcoli, esercitarsi nella scrittura e nella lettura, arricchire il lessico, identificare e classificare le difficoltà ortografiche, apprendere nozioni grammaticali, fissare concetti, regole, definizioni, analizzare e sintetizzare argomenti di studio, smontare e rimontare testi, costruire mappe concettuali. Il cruciverba viene suggerito, inoltre, per attività di animazione alla lettura e per esercitazioni di scrittura creativa oltre che per attività di socializzazione, di conoscenza di sé e degli altri e di alfabetizzazione emotiva. Per costruire un cruciverba, come ho accennato prima, si è costretti ad operare una attenta analisi delle parole per trovare le lettere in comune; dovendo scrivere separatamente le lettere, ciascuna in ogni casella, viene favorita la produzione ordinata delle sequenze grafemiche e fonemiche e l’apprendimento delle forme corrette di scrittura e di lettura, specialmente in caso di dislessia e di disturbi del linguaggio. I cruciverba realizzati vengono in un secondo momento risolti, costituendo, pertanto strumenti di ripasso e di autoverifica, a medio o a lungo termine (anche durante le vacanze estive). Attraverso l’uso del cruciverba, infine, alunni demotivati possono riscoprire il piacere di conoscere e apprendere, come l’autore del tema del quale riportiamo uno stralcio.

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Presentazione dell’Autore: Angela Lenzo, laureata in filosofia, insegnante di sostegno, supervisore nella SISSIS è impegnata in corsi di formazione per insegnanti ed educatori. Ispirandosi a don Milani, lavora da oltre venti anni con il suo PROGETTO G.I.O.CO. (Gioco, Imparo Opero e Coopero) costruendo numerosi materiali ludiformi (Incrociamo, Tempo di Bingo, L’Inventaparole, Facciamo Tombola, Il gioco infinito, Assomemo, Il tempo, Tessere Multiuso) utili a sollecitare la motivazione all’apprendimento, la partecipazione attiva e la cooperazione solidale tra gli allievi. Ha pubblicato anche testi didattici e contributi su testi collettanei.

Note 1 I sussidi sono prodotti e commercializzati dalla PAM Ufficio - Messina, Tel. 090/671001 e-mail: info@pamufficio.it.

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LABORATORIO OPENLAB SYSTEM, L.I.M. E SPORT: MEDIATORI DEL PROTAGONISMO SCOLASTICO Pasquale Cassalia Compito della scuola è quello di creare situazioni e percorsi formativi capaci di appagare interessi, attitudini e bisogni degli allievi attraverso metodi utili ad accrescere l’efficacia dei sistemi di istruzione con la promozione di un apprendimento avvincente, interessante e più attraente. Per attirare l’attenzione e la partecipazione degli studenti bisogna rendere allettanti i programmi e un’azione educativa e formativa adeguatamente strutturata basata sull’attività motoria è sicuramente idonea a sollecitare la motivazione ad apprendere di ogni allievo “nessuno escluso” e a creare un adeguato ambiente di apprendimento. I ragazzi, generalmente restii agli apprendimenti autoreferenziali, apprendono volentieri quando sono motivati verso le attività in cui sono coinvolti e che per loro hanno significato. Particolarmente in contesti a forte complessità sociale dove la didattica tradizionale incontra ovvie difficoltà l’alunno, proprio perché svantaggiato socialmente e culturalmente, ha ancor più bisogno della proposta di attività formative che lo inducano alla accettazione ed al rispetto delle regole, lo aiutino a sviluppare abilità sociali, senso di comunità, che contrastino lo stato di apatia, la percezione di inadeguatezza, il fastidio nei confronti di una scuola intesa come istituzione coercitiva. Le peculiari caratteristiche dell’attività motoria, grande strumento motivazionale, opportunamente impiegate e adeguatamente strutturate favoriscono il processo formativo globale degli alunni esprimendo programmi e percorsi di crescita dinamici e coinvolgenti. L’educazione motoria, se correttamente intesa, è un’attività formativa che, pur se eseguita a diversi livelli di competenze, si presta a favorire il massimo di socializzazione. Soprattutto nei casi di insufficienza intellettuale, quasi sempre accompagnati da insufficienza psicomotoria, interviene in modo efficace favorendo l’attuazione di comportamenti finalizzati all’autonomia e facilitando l’inclusione. Sviluppare le capacità motorie significa migliorare le conquiste spazio-temporali, rendere più funzionali le relazioni con la realtà esterna, far sì che il movimento diventi un’efficace modalità di esplorazione e utilizzazione dell’ambiente. Il modo di progettare i contenuti dell’apprendimento e le modalità di conduzione delle attività didattiche e dell’insegnamento stesso in relazione alle esigenze formative dei destinatari necessita di un paradigma positivo che utilizzi strategie e sistemi gratificanti, individuati dagli alunni come strumenti di crescita personale e autoaffermazione. Oggi i ragazzi

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che popolano i banchi di scuola vivono immersi in un mondo di grandi mutamenti, in cui un’industria dello spettacolo, dell’intrattenimento e della comunicazione riempie le loro giornate di occasioni di contatto con la multimedialità. Nella “società dell’informazione e della conoscenza” è indispensabile tracciare le strade più utili allo sviluppo dei processi formativi nell’età evolutiva e le nuove tecnologie informatiche hanno la capacità di produrre una modificazione sia del modo di progettare i contenuti dell’apprendimento sia delle modalità di conduzione delle attività didattiche e dell’insegnamento stesso in relazione alle esigenze formative dei destinatari. La rapida diffusione dei software didattici a livello scolastico sembra andare di pari passo con una crescente fiducia del personale educativo che tende sempre più a considerare tali strumenti come degli aiuti per facilitare l’insegnamento e l’apprendimento. L’attività multimediale richiama alla memoria l’attività ludica, l’attività percettivo-motoria tipica del gioco. Il mezzo informatico, costituzionalmente interattivo, dà all’allievo la possibilità di esplorare e di interagire con ambienti dinamici, trasformandolo da spettatore passivo in partecipante attivo, in protagonista del suo apprendimento. La flessibilità di tale strumento consente a ragazzi che si trovano a differenti livelli di abilità di seguire percorsi di apprendimento personalizzati, attraverso la piena valorizzazione delle proprie capacità e abilità. Il Laboratorio Openlab system interviene sulla didattica tradizionale, orientata fondamentalmente alla trasmissione dei contenuti disciplinari, attraverso lo spostamento di attenzione dall’insegnamento ai processi di apprendimento dei ragazzi, dalla didattica trasmissiva a quella laboratoriale in un’ideale sinergia tra motricità, originali sussidi didattici, quadernoni, tesserine, schede, disegni, riflessioni, valutazioni e punteggi e un’attività multimediale che non richiede specifiche competenze informatiche ai docenti. Scopo della formula Openlab, nella quale mente e corpo trovano pari dignità, è quello di privilegiare il protagonismo degli studenti, incentivare la motivazione all’apprendimento e allo sviluppo, potenziamento e consolidamento di abilità attraverso un processo dinamico strutturato che articola azioni mirate ed interventi coordinati per favorire il processo formativo globale di tutti gli alunni “nessuno escluso”, concorrere alla creazione di un ambiente a misura di studente per farne emergere gli interessi e favorirne l’iniziativa creativa personale, senso di appartenenza e affezione alla scuola. L’alunno è costruttore e protagonista del proprio apprendimento e la sinergia tra la strategia ludico-sportiva di Studio in Movimento, il potere attrattivo della Lavagna Interattiva Multimediale, i software didattici ideati allo scopo che offrono quattro differenti modalità di apprendimento: cinestetica, visiva, acustica, tattile, mezzi di comunicazione

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immediati e facilmente riconoscibili dai giovani utenti quali il fumetto e l’animazione, favoriscono la partecipazione attiva e, soprattutto, la conquista di un atteggiamento autonomo e responsabile con l’utilizzo di tutti i canali comunicativi e poiché le esperienze di conoscenza che rimangono più radicate sono quelle connotate da vero coinvolgimento e da profondo interesse, abilità e conoscenze verranno più agevolmente trasformate in competenze. Un impegno scolastico caratterizzato dal desiderio di comprendere e padroneggiare i contenuti si ottiene nella misura in cui si stabilisce una relazione positiva tra variabili motivazionali e cognitive, la positiva interazione tra le due variabili può facilitare i processi di pensiero, il conseguimento di abilità logico-operative, il grado di socializzazione, l’impegno emotivo, la partecipazione degli studenti, stimolandone il sano protagonismo, base per educazione e trasmissione di valori, elemento importante per neutralizzare le tendenze disgreganti, contribuire all’emancipazione. Sono necessarie metodologie aderenti alla complessità della realtà, in grado di rispondere ai problemi pratici, è indispensabile l’elasticità, ai metodi devono accompagnarsi le tecniche, le strategie, gli strumenti che attribuiscano alla motivazione valore primario, la qualità di punto di partenza. La motivazione è ciò che spinge l’uomo a perseguire una meta. Primo impegno del docente è quello di motivare, è necessario creare condizioni perché gli alunni sentano il gusto di imparare; una didattica senza anima, non creativa, distrugge la voglia di apprendere, dunque la preoccupazione prioritaria deve essere quella di offrire spinte, incentivi in ogni attività attraverso modalità che vengano riconosciute dagli alunni come strumenti di crescita personale e autoaffermazione. Non apprendimenti autoreferenziali ma stimoli, sollecitazioni, spinte verso attività in cui sono coinvolti e che per loro hanno significato. Openlab system è composto da una Guida al docente che presenta la buona pratica di Studio in Movimento (SiM) e gli strumenti per l’applicazione della stessa per potenziare ed arricchire i percorsi secondo esigenze e obiettivi dell’insegnante e realizzare schede didattiche di presentazione e introduzione di vari argomenti, orientate all’attività individuale, all’attività di squadra/gruppo, esercitazioni, azioni organizzate; dal Book per gli alunni, raccoglitore di fumetti, ricerche, punteggi, approfondimenti, appunti, riflessioni, disegni relativi alle attività svolte, custode del “quadernone” personale, album-evoluzione e storia documentale di argomenti contestualizzati e rivisitati alla luce di attitudini e interessi; dal DVD Il libro magico, un ipertesto ricco di informazioni e soluzioni didattiche interattive correlate alla buona pratica di SiM, il DVD è accompagnato da un poster esplicativo che presenta slide e pulsanti utili alla navigazione; da un set di mattonelline dell’alfabeto e dei numeri abbinati alla stuoia SiMpatia che offrono molteplici soluzioni didattiche per lo sviluppo di

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abilità cognitive giocando sia in classe che in palestra; dall’arcobaleno un telo circolare, multicolore, leggerissimo, duttile, intuitivo che si presta sia ad attività individuali che in coppia ed in gruppo. E l’arcobaleno è stato oggetto di un articolato programma condotto dall’ufficio scolastico provinciale di Messina e dallo staff tecnico di Studio in Movimento che ha coinvolto nel 2008 con il nome di “Tutti X…1” quinte classi di scuola primaria e prime classi delle secondarie di primo grado di numerosi istituti scolastici di Messina e provincia, evidenziando le connotazioni sociali e cooperativistiche dell’attività motoria attraverso un torneo didattico/ sportivo che ha riscosso entusiasmo e interesse. Ulteriore prova della duttilità dell’arcobaleno è stata offerta dal progetto “Tutti X 1… gol” inserito nel contesto del programma “I valori scendono in campo” promosso dal settore giovanile scolastico della Federazione Italiana Gioco Calcio per l’anno 2010/2011. Tutti gli strumenti di Openlab system sono contenuti in una carpetta pratica e leggera adatta alla conservazione dei lavori interdisciplinari realizzati nel corso delle attività del Laboratorio. Presentazione dell’Autore: Pasquale Cassalia, docente di educazione motoria, collabora a diverse riviste specialistiche di area sportiva e svolge intensa attività di formazione organizzando corsi per insegnanti ed educatori. Ha fatto parte anche di gruppi di studio ministeriali nazionali per l’elaborazione di linee guida per la scuola. Ha ideato e realizzato una serie di sussidi-attrezzi collegati all’attuazione di un progetto di “Studio in movimento”, che da oltre un decennio ha sperimentato in diversi ordini di scuole nella provincia di Messina e riproposto anche in pubblicazioni collettanee.

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PROTAGONISMO E MATERIALI DIDATTICI Dario De Salvo Diciamolo francamente: molti insegnanti potrebbero trovarsi di fronte ad un insano istinto di “autoconservazione” nei confronti di un uso aperto e libero di materiali didattici che impongono, ex abrupto, un sostanziale cambiamento della pratica didattica. Potrebbero imbattersi, in altre parole, nello stesso senso di spaesamento sofferto da quegli insegnanti che, nella seconda metà dell’Ottocento, si dovettero confrontare con il metodo del mutuo aiuto di Bell e Lancaster. Del resto, la caratteristica peculiare della professione insegnante implica, sine condicio, la necessità di dover continuamente aggiornare le proprie conoscenze e innovare le proprie competenze. Angela Lenzo e Pasquale Cassalia hanno dimostrato che è possibile cambiare stile e metodo d’insegnamento, che il mestiere dell’insegnante non è un’attività cristallizzata e cristallizzante e che, sopra ogni cosa, gli allievi si mostrano molto più interessati ad apprendere quando la proposta dei contenuti formativi è ben accompagnata da una metodologia didattica accattivante. Ed è in tale ottica che Angela Lenzo ha presentato i sussidi didattici del suo Progetto G.I.O.C.O. (Gioco, Imparo, Opero e Coopero). Un progetto di innovazione didattica con il quale intende contribuire a fare riscoprire il piacere di conoscere e apprendere, inventare, costruire, cooperare, per promuovere realmente lo sviluppo integrale di ciascuno e per prevenire il disagio, la dispersione e la devianza. I materiali proposti dalla Lenzo, in gran parte semilavorati e flessibili, consentono la graduazione delle difficoltà, la personalizzazione e l’integrazione dei percorsi educativi e riguardano tutti i contenuti e gli obiettivi dei campi di esperienza educativa e dei vari ambiti disciplinari. Discorso a parte, ma sempre nel segno dell’eccellenza, merita il Laboratorio OpenLab di Pasquale Cassalia. Il metodo Cassalia, infatti, è da intendersi come un vero e proprio work in progress, una sperimentazione ludico-didattica che, ormai da più di un decennio, egli propone nelle scuole di ogni ordine e grado di Messina e provincia. Attraverso l’uso di materiali e giochi brevettati, egli propone i valori fondanti la pratica sportiva. Il laboratorio OpenLab, si badi, non intende solamente richiamarsi al fair play. Tutt’altro, esso è un modello educativo, un habitus da apprendere per valorizzare le capabilities di ciascuno. L’uso delle nuove tecnologie, tra cui la L.I.M. (Lavagna Interattiva Multimediale), ha permesso a Cassalia e ai suoi collaboratori, poi, di modernizzare, di perfezionare tale metodo tanto da diventare un modello interdisciplinare.

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Rimane solo da chiedersi se nella scuola dei “tagli” e delle continue “riforme” ci sia ancora la voglia di investire in quei docenti che sperimentano nuove forme di trasmissione del sapere, di valorizzare quegli insegnanti che desiderano essere, insieme ai propri allievi, protagonisti del processo educativo. Presentazione dell’Autore: Dario De Salvo, laureato in Filosofia, è ricercatore di area storico-pedagogica presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Messina e svolge intensa attività di formazione e di ricerca. Ha lavorato anche per conto del FORMEZ e si è interessato di formazione professionale e di tematiche interculturali. Ha pubblicato diversi contributi in opere collettanee e due volumi, Uguaglianza, Diversità, Pari opportunità. Per una pedagogia della dignità, (Messina, EDAS, 2005) e Istruzione e scolarità nel Regno di Napoli durante il decennio francese (1806-1815). Fonti e Documenti (Messina, Bertone, 2009).

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3. Protagonismo dei docenti Abstract: The present psycho pedagogic research remarks the important role of abstraction in studying activities, referring to logical and emotional. Teachers have to think about present in order to build future. So teachers should see more than what is on the surface, understanding what happens during classes and identifying the way student communicate. The more they increase their experiences, the more they will be able to stimulate abstraction activities in their students. Riassunto: L’attuale ricerca psicopedagogica sottolinea il ruolo di base delle abilità metacognitive nelle attività di apprendimento e di studio, facendo riferimento non solo a processi cognitivi, ma anche a variabili di tipo emotivo-emozionale. Il bisogno dei docenti è quello di riflettere sull’esistente per progettare il futuro. Ciò implica da parte dell’insegnante non solo la conoscenza del funzionamento cognitivo dei propri allievi, ma anche la capacità di leggere, a più livelli, quello che accade in classe e riconoscere il fondamento del linguaggio e della comunicazione nel sostenere l’uso del pensiero strategico «… quanto più essi avranno visto crescere le proprie competenze… più saranno capaci di stimolare lo sviluppo di queste stesse attività meta cognitive nei loro allievi». Parole chiave: abilità, apprendimento, studio, metacognitivo, insegnamento.

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CONTESTO EDUCATIVO E METACOGNIZIONE. RIFLETTERE SULL’ESISTENTE PER PROGETTARE IL FUTURO Teresa Garaffo L’attuale ricerca psicopedagogica sottolinea il ruolo di base delle abilità metacognitive nelle attività di apprendimento e di studio, facendo riferimento non solo a processi cognitivi, ma anche a variabili di tipo emotivo-emozionale. Numerose indagini hanno analizzato ambiti specifici di apprendimento (la memoria; i processi di lettura, scrittura e comprensione; discipline come la matematica e la fisica) con lo scopo di migliorare le prestazioni cognitive e la consapevolezza delle strategie adottate. Due sono le questioni fondamentali: l’idea che sia possibile lavorare sulle strategie di apprendimento e l’importanza del ruolo mediatore dell’adulto tra il soggetto e il contesto. Questo secondo punto rappresenta il focus del mio intervento; in che modo cioè sia possibile attivare percorsi di formazione che vedano i docenti coinvolti in prima persona nelle dinamiche di cambiamento, disponibili a ripensare le proprie pratiche professionali e a sperimentare procedure innovative. A partire dall’esperienza di formazione, avviata nel corrente anno scolastico all’interno di un istituto comprensivo per un progetto P.O.N. dal titolo “La metacognizione nel processo di insegnamento/apprendimento”, discuterò qui su alcune pratiche che siano da supporto al docente nel predisporre contesti scolastici e azioni che sollecitino lo studente a riflettere sui processi mentali e a organizzare le proprie strategie di pensiero aumentando via via il livello di consapevolezza. Un apprendimento metacognitivo presuppone, infatti, la progressiva appropriazione di modalità di pensiero e di conoscenza che non vengono trasmesse dall’esterno, ma sono oggetto di scoperta in situazione attraverso l’esperienza, il confronto e la negoziazione intersoggettiva. Questo implica da parte dell’insegnante la conoscenza del funzionamento cognitivo dei propri allievi, ma anche la capacità di leggere, a più livelli, quello che succede in classe, e il riconoscimento del ruolo fondamentale del linguaggio e della comunicazione nel sostenere l’uso del pensiero strategico. Per sviluppare i “saper fare metacognitivi degli insegnanti” è necessario allora favorire l’auto-riflessione, l’auto-modificazione e l’auto-valutazione: «quanto più essi avranno visto crescere le proprie competenze in maniera di pianificazione, previsione, guida, controllo e generalizzazione, quando sono in situazione di soluzione di problemi, più saranno capaci di stimolare in maniera ottimale lo sviluppo di queste stesse attività metacognitive nei loro allievi» (Albanese, Doudin, Martin, 1998, 44).

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Alcune domande mi hanno guidato lungo tutto il percorso: quali caratteristiche sono necessarie per la messa in atto di modelli di formazione che contribuiscano allo sviluppo di competenze professionali in un contesto scolastico affinché questo contesto sia in grado di rispondere ai nuovi bisogni sociali ed educativi? In che modo sostenere i docenti nel percorso di riflessione sulle proprie pratiche? E come sviluppare questo percorso? Per decidere in che modo strutturare il percorso formativo richiesto ho avviato una prima indagine ponendo alcune questioni ai docenti interessati: come mai avevano scelto un argomento come la metacognizione? Erano interessati all’applicazione di modelli specifici della didattica metacognitiva? Avevano fruito di precedenti corsi sull’argomento? Le risposte sono state tutte negative. La scelta del corso era stata una proposta del dirigente scolastico; non avevano, quindi, richieste precise riguardo alla direzione da intraprendere, né aspettative dichiarate. Nella strutturazione dell’intervento formativo non avrei incontrato sempre lo stesso gruppo di docenti. Mi è stato infatti richiesto di lavorare con insegnanti di scuola dell’infanzia, scuola primaria e scuola secondaria superiore di primo grado dell’istituto comprensivo. Circa sessanta insegnanti, divisi per ordine di scuola in tre gruppi di lavoro. Ogni gruppo avrebbe partecipato a tre incontri per un totale di dodici ore, più un incontro iniziale nel quale avrei incontrato i docenti in seduta plenaria. Ho utilizzato il primo incontro per presentare alcuni concetti base dell’approccio metacognitivo, tradotto dagli anni Ottanta in poi in diverse proposte operative; ma soprattutto ho voluto sottolineare che l’obiettivo sarebbe stato non tanto la progettazione di nuovi percorsi, quanto piuttosto la riflessione sull’esistente: «la sollecitazione di pratiche di autoanalisi e di interpretazione intorno al Sé professionale nella convinzione che dalla consapevolezza dell’agire quotidiano, dell’identità agita ed esperita possano nascere nuove capacità di scelta, nuove progettualità» (Fabbri, 2001, 64-65). Osservazione attenta del contesto e qualità dell’interazione sono due elementi chiave per accrescere e sostenere negli alunni la consapevolezza del proprio funzionamento cognitivo e l’analisi delle strategie messe in atto. Lavorare su abilità mentali che vanno al di là dei semplici processi cognitivi primari (leggere, calcolare, ricordare) significa in primo luogo rendere il più possibile esplicite le ragioni di ciò che si sta facendo; quali direzioni si intende percorrere, contenuti, obiettivi, programmi, ma anche modelli relazionali ben precisi: «si tratta di aprire un “finestrino” per gli alunni, di permettere loro di avere una visione globale, di comprendere il senso di ciò che si apprestano a fare. Si agisce in questo modo a livello di coinvolgimento, a livello di motivazione e a livello di ricostruzione del senso del proprio agire» (Antonietti, Cantoia, 2000, 27). Il primo incontro ha avuto quindi l’importante e non facile compito

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di consolidare tra i docenti la consapevolezza di appartenere a una stessa istituzione, e di riflettere/raccontarsi; di rendere espliciti punti deboli e punti di forza della scuola e di capire che direzioni percorrere per stabilire obiettivi comuni, presenti nelle carte programmatiche (il Piano dell’Offerta Formativa) ma non nella pratica dell’agire quotidiano; di dare vita, insomma, a «una intelligenza pedagogica comune, la quale si alimenta di un sentimento relazionale che nasce dalla condivisione di problemi, interessi, aspirazioni, finalità» (Rossi, 2001, 56) e che presuppone «chiarezza circa le proprie intenzioni e circa il senso che si intende dare al proprio insegnamento» (Fabbri, 1999, 20). Mi interessava, inoltre, mettere in relazione quello che stavamo facendo con il discorso sulla metacognizione, poiché una «riflessione sull’uso dei principi della metacognizione in pedagogia porta a concludere come non sia sufficiente per intervenire che il maestro conosca sul piano teorico il funzionamento cognitivo dell’allievo, ma come sia indispensabile una sua adeguata formazione all’autoriflessione e all’automodificazione» (Albanese, Doudin, Martin, 1998, 16). Descriverò brevemente il percorso formativo di ogni gruppo di lavoro nei tre incontri dedicati ad ognuno di essi. Le docenti di scuola dell’infanzia dell’istituto erano state invitate a partecipare a un convegno dal titolo Tu non sai ragionare! Il posto del ragionamento nella scuola odierna. Esemplificazione della didattica quotidiana a Catania. Su richiesta delle stesse insegnanti, e poiché il tema del convegno riprendeva esattamente gli argomenti dell’azione formativa in corso, abbiamo dedicato i tre incontri previsti alla costruzione di una presentazione multimediale da illustrare durante il convegno. Questo ha significato ripensare alle attività già svolte, e a quelle in corso all’interno delle sezioni di scuola dell’infanzia, sullo sfondo di una cornice più generale che mettesse in evidenza in che modo facilitare e sostenere le capacità di ragionamento in bambini dai tre ai sei anni. Riflettere, perciò, sulla varietà e la qualità delle attività quotidiane svolte in classe, attribuire un senso unitario all’agire attraverso il pensiero sul già fatto; quel “pensiero a posteriori”, cioè, che forma capacità interpretative e crea nuove consapevolezze (Fabbri, Rossi, 2001). Trovare una definizione comune dell’azione del ragionare nella scuola dell’infanzia è stato il primo passo1, seguito dalla rilettura dei progetti, dall’individuazione dei punti cruciali che meritavano di essere sviluppati in un’ottica diversa, più attenta al contributo che potevano dare i bambini. Infine, presentare la propria riflessione al pubblico più vasto del convegno ha messo alla prova la capacità comunicativa delle insegnanti. Il lavoro condotto con le insegnanti di scuola primaria ha preso spunto dalla visione del film-documentario L’amore che non scordo. Il film, che racconta quattro storie di maestre e maestri attraverso un viaggio in diverse realtà scolastiche tra il 2005 e il 2007, sottolinea il valore

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delle pratiche didattiche basate sull’ascolto e l’attenzione nei confronti degli alunni, incoraggiati ad esprimere pensieri ed emozioni e coinvolti attivamente nel processo di costruzione della conoscenza. La visione del film ha innescato un processo di riflessione sulla diversità dell’organizzazione di tempi, spazi, strumenti. Attraverso momenti di narrazione in gruppo delle proprie esperienze, o tempi di riflessione personale mediante la scrittura, le insegnanti hanno provato a pensare lo spazio della loro scuola come elemento più o meno facilitante. Hanno discusso insieme e con il formatore la possibilità di usare diversamente gli spazi, rilevando in particolare come lo spazio scuola non fosse ben organizzato per facilitare l’uso frequente della biblioteca o dei laboratori e quello della classe fosse organizzato solo in funzione della lezione frontale. Più difficile è stato capire in che modo progettare il lavoro con il gruppo degli insegnanti di scuola media, attenti più al valore in sé delle discipline insegnate che alle modalità relazionali stabilite in classe. Soprattutto mancava tra loro quel clima di cooperazione presente tra gli insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria, l’abitudine a discutere insieme e a pensare strategie complessive per affrontare problemi e organizzare attività. Anche in questo caso, attraverso l’approccio narrativo e il metodo autobiografico, abbiamo cercato di avviare una riflessione su diversi ambiti: in quale territorio opera la scuola, quali sono le caratteristiche dell’utenza, quali le risorse e le competenze dei docenti, come trovare momenti di riflessione comune con gli altri docenti. Poche parole per concludere. Il tempo a disposizione per il lavoro formativo era poco, ma è bastato per mettere gli insegnanti nella condizione di poter analizzare le pratiche dell’agire quotidiano e farne emergere la ricchezza. Rendere esplicito quel sapere tacito che connota molta parte del lavoro degli insegnanti rappresenta un primo passo per apprendere dalla professione e quindi «produrre e consolidare in prima persona le proprie competenze così da passare da una professionalità già data e fissa a una professionalità da inventare e costruire continuamente» (Rossi, 2001, 55). Presentazione dell’Autore: Teresa Garaffo, Dottore di ricerca in Fondamenti e metodi dei processi formativi. Docente di ruolo di scuola dell’infanzia; formatrice esperta e Funzione Strumentale Area 2 – Sostegno al lavoro dei docenti presso la scuola di appartenenza. Tra i suoi interessi di ricerca: sviluppo del linguaggio in età evolutiva, rapporto tra pedagogia e neuroscienze, libri e narrazione nella letteratura per l’infanzia. È vicepresidente dell’Associazione Proteo Fare Sapere, sezione di Catania. Collabora con la cattedra di Pedagogia Generale, Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Catania.

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Note 1 Questa la definizione: «ragionare nella scuola dell’infanzia significa aiutare i bambini a pensare in modo critico, creativo e valoriale, rendendoli capaci di dialogare, di sperimentare, di trovare significati e di costruire concetti». Il PowerPoint prodotto dalle insegnanti, ricco di slide con immagini tratte dalle attività condotte in sezione, è stato proiettato nel corso dell’incontro del gruppo di lavoro a cui ho partecipato all’interno del convegno As.Pe.I. di Noto.

Bibliografia Albanese, O., Doudin, P.A., Martin, D. (1998), Metacognizione ed educazione, Milano, Franco Angeli. Antonietti, A., Cantoia, M. (2000), La mente che impara. Percorsi metacognitivi di apprendimento, Milano, La Nuova Italia. Fabbri, L. (a cura di) (1999), Formazione degli insegnanti e pratiche riflessive, Roma, Armando. — (2001), La costruzione delle identità pedagogiche e didattiche. Processi di ermeneutica formativa, in L. Fabbri, B. Rossi (a cura di), La formazione del Sé professionale, Milano, Guerini. Rossi, B. (2001), Professionalità educativa e competenza progettuale, in L. Fabbri, B. Rossi (a cura di), La formazione del Sé professionale, Milano, Guerini.

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4. Protagonismo e ambiente partecipativo Abstract: Since people, while building their own “project of life”, have to make choices during all their lifetime, the educators have to build an educative alliance able to pass over differences that separated the different sciences. In order to get this goal, it’s needed the interaction of a lot of opinions and a constant motivational action on the student, helping in finding the consciousness of improving knowledge. The base of learning is every situation is research and new discovers. Teacher must keep this in mind to avoid students abandoning schools. Riassunto: Nella consapevolezza che la Persona, per la costruzione del proprio “Progetto di vita”, è chiamata ad operare scelte in tutto l’arco della vita, i professionisti dell’Educazione devono costruire un’efficace alleanza educativa capace di superare le secolari diffidenze che hanno separato le scienze dei vari saperi. Ciò richiede con urgenza l’interazione di una pluralità di interlocutori oltre ad una continua azione di “originale” motivazione dell’allievo a scoprire in sé la possibilità di migliorare l’acquisizione delle conoscenze di base. Ricerca e sorpresa accomunano i processi di apprendimento a tutti i livelli di scolarità, in tutti i contesti, formali ed informali. È necessario perciò che i docenti ripensino le pratiche professionali se vogliono evitare che gli alunni più deboli fuggano dalle scuole. Parole chiave: insegnamento, apprendimento, formale, informale, orientamento.

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LA DIDATTICA INFORMALE DEL LABORATORIO SCIENTIFICO EXHIBIT E ORIGAMI Salvatore D’Arrigo e Antonia De Domenico «non esiste serratura che non abbia la sua chiave»

Abstract Ricerca e sorpresa accomunano i processi di apprendimento a tutti i livelli, in tutti i gradi di scolarità, in tutti i contesti, formali ed informali. Se non si vuole correre il rischio di disperdere energie e risorse umane, se si vuole evitare che gli alunni più deboli fuggano dalle scuole annoiati o che vi restino ma senza maturare competenze, occorre che la didattica in generale, e quella scientifica in particolare, venga ri-organizzata come attività di ricerca, ricca di sorprese e fonte di piacere. Il laboratorio interattivo prevede la progettazione e la realizzazione di modelli sperimentali, alcuni costruiti con materiale di facile consumo, altri piegando la carta utilizzando la tecnica dell’Origami. Il riscontro di un ventennio di esperienza con studenti di tutte le età ci permette di testimoniare come il metodo didattico da noi soprannominato Exhibit contribuisce in maniera significativa: – al miglioramento nell’acquisizione delle conoscenze scientifiche di base; – ad implementare la sinergia fra docente e alunno. Col metodo Exhibit si inseriscono nella tradizionale didattica “formale” attività di apprendimento “informale” di tipo ludico con l’obiettivo di facilitare in tutti gli allievi un coinvolgimento attivo nei processi di costruzione della conoscenza. La didattica degli Exhibit sposta l’attenzione sul metodo di ricerca, favorendo lo sviluppo delle capacità intuitive e meta cognitive e mobilitando tutte quelle risorse e talenti personali che, spesso, rimangono poco conosciuti e poco sviluppati sia al docente che allo stesso studente.

1. Il laboratorio scientifico Exhibit Il laboratorio scientifico svoltosi dal 14-16 aprile 2011 a Noto (“Protagonismo a scuola: Studenti Genitori Docenti”) in occasione del convegno Nazionale As.Pe.I., è stato programmato così come conduciamo

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gli interventi introduttivi che aprono i corsi PON che negli ultimi dieci anni ci hanno visto coinvolti come docenti esperti esterni e che hanno fra gli obiettivi fondamentali quello di sperimentare strategie innovative nell’ambito dell’educazione scientifica di base. Ciò che caratterizza i nostri corsi è l’approccio ludico che non è sicuramente una strategia innovativa nel panorama storico della didattica, ma, purtroppo, ancora oggi è poco utilizzato. Noi crediamo, invece, che l’approccio ludico sia per qualsiasi età il passe-partout che consente di entrare in ogni disciplina facilitando il processo della costruzione del sapere attraverso il saper fare per maturare il saper essere. Ogni volta che si incontrano difficoltà nell’apprendimento bisognerebbe rivedere le modalità: – dell’insegnante nel proporre – del gruppo classe nel sostenere – dell’alunno nell’approccio e abbiamo verificato che l’utilizzo di Exhibit risulta essere un comune denominatore facilitatore nelle dinamiche di apprendimento scientifico per entrambi i soggetti. In tal senso l’Exhibit può essere inteso metaforicamente come: – un sipario – il cassetto che si apre – l’incontro – il decollo – il seme da coltivare – l’arcobaleno – la speranza – il risveglio – la prefazione di un libro – l’iniziazione – il sostegno – la prima pietra ma attenzione agli equivoci: l’Exhibit non sostituisce lo “studio” complesso e difficile delle discipline scientifiche fatto necessariamente anche di sacrifici e tempi lunghi. L’Exhibit semmai integra, sostiene, stimola, introduce, rafforza, bypassa molti concetti scientifici che normalmente risultano ostici alla comprensione dell’alunno, specialmente se manca di basi e di metodo. Per una corretta interpretazione del metodo Exhibit è opportuno guardare alla sua pianificazione suddivisa in tre fasi: – Riscaldamento – Allenamento – Gara

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In ognuna di esse il docente assume il ruolo dell’allenatore e, secondo le dinamiche che si sviluppano, si pone in una delle tre posizioni strategiche di leader: di fronte al gruppo, al centro del gruppo o esternamente al gruppo. La prima fase di riscaldamento è caratterizzata da un approccio libero informale. In essa il docente predispone l’ambiente di apprendimento sul modello dei musei scientifici interattivi in modo da favorire le condizioni di ricezione cognitiva lasciando parzialmente liberi gli studenti di “fare”, suggerendo loro l’interazione con alcuni Exhibit, magari in forma di sfida e cercando di provocare, con opportune tecniche di comunicazione, un sano conflitto ludico. In quest’ambiente gli studenti sono spinti a entrare più per curiosità che per obbligo, sentendo la necessità di girare liberamente fra le isole di Exhibit oppure sedersi secondo una distribuzione a ferro di cavallo per meglio favorire la comunicazione visiva e verbale. In queste condizioni lo studente prova stupore, che oltre a rinforzare la curiosità, innesca la voglia del fare nella logica dell’hands on, la voglia di scoprire giocando con i propri sensi e porsi le prime domande quali input riflessivi da sviluppare in seguito. La prima fase costituisce l’imprinting cognitivo e a essa è intimamente collegata la seconda fase di allenamento. Quest’ultima è caratterizzata da un approccio che, sebbene ancora informale, è più sistematico in quanto in essa saranno predisposti percorsi sperimentali, alcuni guidati dallo stesso docente e altri più autonomi da sviluppare da soli o in mini gruppi di ricerca-azione. Lo studente è quindi sollecitato a porsi delle domande fondamentali sui principi scientifici che governano l’Exhibit con il quale sta interagendo. Deve emergere il bisogno di rompere il giocattolo per vedere come funziona. L’azione dello smontaggio virtuale deve però essere sostenuta dall’interazione con l’Exhibit nella quale è bene rispettare la consegna del “cosa fare”, “cosa notare” e “cosa accade”. Ed è proprio nel “cosa accade” che devono emergere le risposte alle domande poste all’inizio. Sarebbe opportuno che ogni Exhibit si possa anche smontare fisicamente o, almeno, poter leggere distintamente nelle parti che lo compongono. Se le prime due fasi hanno innescato una risposta emotiva significativa, è il momento di attivare la terza fase di gara caratterizzata da un approccio più formale nel quale emerge la valenza educativa più tradizionalmente legata alla valutazione per soddisfare anche il docente che così può raccogliere e certificare i primi frutti della sua azione didattica. In questa fase lo studente, da solo o lavorando in gruppo, deve ricostruire l’Exhibit, personalizzarlo e confrontarlo con i prototipi realizzati dagli altri compagni. Segue un lavoro di squadra per ottimizzare i modelli da sottoporre al pubblico o ad altri studenti nella logica di un ciclo virtuoso di espansione dell’apprendimento scientifico. La presenza di uno o più osservatori durante lo svolgimento di ogni

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fase è sicuramente utile se l’attività ha un suo sviluppo all’interno di un percorso didattico finalizzato a una mostra finale degli Exhibit costruiti. Ciò costituisce un’importante occasione di feed-back nella quale gli stessi studenti hanno anche l’opportunità di trasmettere a un pubblico eterogeneo quanto hanno appreso.

2. Il laboratorio scientifico Origami Un segmento particolarmente significativo del progetto Exhibit è il laboratorio interattivo dedicato agli Origami. L’Origami (dal giapponese “ori-kami”, che significa “piegare la carta”) è una tecnica di piegatura della carta con la quale si possono realizzare innumerevoli modelli, molti dei quali si prestano a un’analisi geometrica o come modello matematico o, ancora, come supporti per esperimenti scientifici. Ma oltre alle applicazioni laboratoriali che sono già, di per sé, sorprendenti e determinanti nel processo di apprendimento, l’Origami contribuisce in modo altrettanto sorprendente a costruire o rinforzare un metodo di lavoro nel quale i fattori fondamentali sono la concentrazione, l’osservazione, la pazienza, la precisione, la progettazione, l’autovalutazione in itinere e finale; tutti fattori che si ritrovano nelle attività di laboratorio scientifico con la peculiarità che nell’Origami si usa soltanto un foglio di carta e le due mani. Le attività laboratoriali di Origami possono essere adattate a gruppi molto diversi, in funzione del potenziale educativo e psicologico che si vuole attivare e in relazione agli obiettivi didattici che si vogliono raggiungere. In ogni caso il processo di costruzione dei saperi avviene gradualmente, per tappe che devono garantire a ogni allievo il successo, pur passando da inevitabili errori. Durante le operazioni di piegatura vissute inizialmente in gruppo, ognuno matura o rafforza l’autostima, nel rispetto delle proprie capacità e nel riconoscimento dei propri limiti. In un clima di piena collaborazione, vige la regola “vietato non copiare” e passa così il messaggio educativo fondamentale per il quale ognuno di noi è “diversamente abile”. L’Origami non è solo strumento per favorire l’apprendimento scientifico. A tal proposito è bene ricordare che nella fase adolescenziale è forte il bisogno di misurarsi con le proprie capacità cinestetiche. L’istinto di movimento, in piena fase di strutturazione, che fa apparire a volte i ragazzi irrequieti, necessita di una disciplina che orienti il giovane al controllo graduale dei movimenti, dai più semplici ai più complessi. L’attività sportiva è sicuramente la disciplina che meglio favorisce la maturazione dello schema corporeo. A volte però non permette di curare i piccoli movimenti di precisione propri della mano. In tal senso la pratica

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dell’Origami alimenta il ciclo virtuoso che vede mano e mente stimolarsi reciprocamente in un processo creativo. Non è da sottovalutare la valenza formativa professionale che l’Origami assume per gli operatori sociali che operano in ospedali, case di cura per anziani, comunità e centri sociali, o per gli stessi studenti della facoltà di Scienze della Formazione i quali possono acquisire competenze trasversali pratiche e teoriche che consentono loro di arricchire il proprio curriculum e spenderlo in attività lavorative di animazione didattica rivolta a bambini, anziani, diversamente abili. I laboratori di Origami da noi realizzati nelle scuole hanno suscitato interesse ed entusiasmo negli studenti e nei docenti e solo raramente sono stati oggetto di critiche perché considerati da alcuni insegnanti attività puerili. Per fortuna la maggior parte degli educatori e dei docenti con i quali abbiamo collaborato in questi anni ne hanno colto gli aspetti didattici importanti per la loro formazione, in quanto l’Origami può divenire un valido supporto per agganci pluridisciplinari. A un’analisi più attenta hanno potuto costatare che l’Origami: – Sviluppa le abilità cinestetiche e grafo-linguistiche; – Esercita la memoria; – Stimola la curiosità, l’impegno, la concentrazione e la precisione; – Risveglia, esercita e favorisce la manifestazione e lo sviluppo delle potenzialità creative; – Stimola lo sviluppo percettivo; – Influenza positivamente il comportamento intrapersonale ed extrapersonale favorendo l’autostima e l’integrazione nel gruppo di lavoro; – Risulta inoltre utilizzabile nello studio della matematica (nell’ambito della geometria euclidea e analitica, nel trattamento delle misure, nell’applicazione delle proporzioni e nella modellizzazione di problemi risolvibili con equazioni) e delle scienze (sia perché l’uso della carta suggerisce di indagare sulle sue caratteristiche fisico-chimiche, sia perché si possono realizzare Origami tridimensionali come modelli chimici o fisici che si prestano ad una indagine meccanica o, ancora, per eseguire esperimenti di termologia o elettrostatica). In ultima analisi possiamo testimoniare che il laboratorio scientifico interattivo di Exhibit e Origami sperimentato negli ultimi dieci anni in contesti didattici molto diversi, sia per le caratteristiche del territorio sia per la tipologia dell’utenza, ha rappresentato per studenti, docenti e genitori uno degli strumenti più efficaci di ricerca, di apprendimento e di aggregazione. Presentazione degli Autori: Salvatore D’Arrigo, laureato in Ingegneria al Politecnico di Milano, città nella quale ha espletato la duplice professio-

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ne di libero professionista e di docente di Matematica e Fisica. Nel 1988 si trasferisce a Messina dove realizza il progetto “Exhibit, la scienza divertente” del quale è coordinatore e responsabile. Dal 1996 si occupa di formazione per docenti e realizza laboratori di scienze e matematica per le scuole di ogni ordine e grado. Ha ricoperto l’incarico di Supervisore Sissis, di consulente per l’Ansas e per l’As.Pe.I. ed è socio e collaboratore del C.D.O. (Centro Nazionale Diffusione Origami). Antonia De Domenico dal 1986 al 1992 lavora nella coop. Trapper, specializzata in interventi nelle scuole su tematiche ambientali. Dal 1995 al 2000 è traduttrice di francese per il CIAI (Centro Italiano Aiuti per l’Infanzia). È socia e collaboratrice del C.D.O. (Centro Nazionale Diffusione Origami) e dal 2001, come origamista, si occupa di formazione per docenti della scuola primaria realizzando laboratori di origami per le scuole di ogni ordine e grado.

Bibliografia D’Arrigo, S. (2005), Exhibit “la scienza divertente” in C. Sirna, A.M. Salomon (a cura di), Operatività ludicità cooperazione – idee percorsi e buone prassi a scuola, Lecce, Pensa MultiMedia, 167-192.

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LABORATORIO FILOSOFICO E DIDATTICA ORIENTATIVA: STRUMENTI DEL PROTAGONISMO SCOLASTICO Alessandra Tigano Il compito orientativo del filosofare: essere protagonisti del proprio progetto di vita Alcuni interventi normativi introducono concrete novità pedagogiche rispetto all’orientamento1 rafforzando il superamento dell’ottica “informativa”, in genere relegato all’ultimo anno delle scuole secondarie di 1° e 2° grado, quando lo studente è chiamato alla scelta scolastica o a transitare nel mondo del lavoro. L’orientamento non si esaurisce nel decidere il percorso professionale poiché se ragioniamo in un orizzonte di “processo”, così come auspicato dagli interventi in materia dell’U.E.2, esso si estende lungo tutto l’arco della vita, attraversa tutti gli ordini e gradi di scuola e tutte le discipline ed è legato all’essenza della formazione del soggetto chiamato a compiere delle scelte giuste per realizzare la vocazione più alta della sua vita: essere felice, orientarsi ad una vita ben riuscita all’interno di un sistema sociale in continua trasformazione. Nell’ottica del lifelong learning l’orientamento coinvolge la dimensione esistenziale del soggetto chiamato a comprendere la problematicità plurale dei suoi pensieri e speranze future. È proprio il carattere di una vita ben riuscita che provoca tanta insicurezza tra i professionisti dell’educazione chiamati a ricercare delle piste di ricerca funzionali a tale compito. L’orientamento, trascinando con sé l’idea di felicità, convoca una pluralità di interlocutori: dall’orientatore scolastico all’insegnante curriculare, dal pedagogista al filosofo, dallo psicologo al sociologo. Si tratta di costruire un’alleanza educativa capace di superare le secolari diffidenze che hanno separato le scienze dei vari saperi. Alla luce di questa premessa possiamo pensare all’orientamento configurandolo nell’immagine di un “ponte” che costruisce reti collaborative fra i diversi Soggetti istituzionali presenti nel territorio e fra le discipline. Dovendo pensare ad una disciplina che, da un punto di vista metodologico sia in grado di collegare le differenti epistemologie disciplinari, possiamo affidare tale compito alla filosofia perché – se praticata con un approccio multidisciplinare –, essa si occupa potenzialmente delle “strutture del sapere stesso” (Ruffaldi, 1999, 59) e, grazie alla sua “processualità transdisciplinare” (Massaro, 1990, 25), è capace di operare da un punto di vista “ingegneristico” tenendo insieme tutte le sponde collegate al ponte. Metaforicamente l’indagine filosofica diventa la pietra che sostiene il ponte. Fuor di metafora se il filosofare entra nella didattica disciplinare,

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le discipline possono essere utilizzate come strumenti orientativi che aiutano gli studenti a diventare protagonisti della costruzione del proprio progetto esistenziale. Questa ipotesi di ricerca ci fa riflettere sull’aspetto orientativo di un’educazione filosofica, senza pregiudizi riduzionistici. Infatti, se il filosofare entra nella didattica disciplinare, si orientano gli allievi non a trovare semplicemente le intersezioni “tra” le discipline ma ad avere consapevolezza dei meccanismi della conoscenza. In tal modo cambia la linea didattica dei processi di insegnamento-apprendimento: non si insegnano “le” discipline, ma si insegna “con” le discipline in un orizzonte orientativo. Attraverso «l’esercizio del filosofare l’allievo impara, gradualmente, a tener conto delle complessità interne alla sua persona, di natura cognitiva, affettiva e valoriale, a indirizzare su di esse la forza della riflessione, la ricchezza dei contenuti […] formali acquisiti, la forza del pensiero logico – non contradditorio, per elaborarli autonomamente […] in senso evolutivo. È un percorso di ricerca personale […] che risponde alle richieste di senso, di valore, di orientamento esistenziale, sociale e professionale, che provengono dalla vita quotidiana. La ragionevolezza del filosofare impone un ordine sensato, logicamente rigoroso, […] ad una pluralità di cognizioni […] preesistenti nel patrimonio personale, la raccoglie (leghein) in unità non contraddittoria, in una posizione consapevolmente scelta» (De Pasquale et al., 1996, 50). Il filosofare incontra il bisogno di orientamento inteso come bene individuale e collettivo, in quanto principio organizzatore della progettualità della persona e strumento di promozione dello sviluppo economico delle comunità. Esso offre «un supporto fondamentale alla maturazione di soggetti capaci di autorientarsi, […] di progettare il futuro sia nelle decisioni riguardanti le successive scelte di studio e di attività professionale, sia nella partecipazione creativa alla vita sociale» (De Pasquale, 1999, 64-65). La presenza della filosofia nei curricoli scolastici risponde «alla ricerca di orientamenti, di certezze, di criteri di giudizio per le scelte di vita» (Agazzi, 1992, 5-11) dei giovani. Costruire ponti all’interno dei propri percorsi esistenziali è, allora, il compito orientativo del filosofare che, così, si qualifica come ricerca ermeneutica applicata all’esperienza umana, rivolta al senso delle scelte e aperta alla ricerca dei legami tra l’esserci e l’agire del soggetto. Tali istanze orientative del filosofare possono essere introdotte in tutto l’arco della formazione praticando un’educazione filosofica dall’andamento socratico che rende gli allievi protagonisti del proprio progetto esistenziale. Educare a filosofare è un nuovo orizzonte pedagogico, aperto intorno agli anni Settanta da M. Lipman, capace di rinnovare in termini orientanti e socio-costruttivisti la didattica disciplinare in tutti gli ordini e gradi di scuola.

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Verso una didattica orientativa Giocare a filosofare: una bussola per orientarsi è un percorso laboratoriale svolto in sintonia con lo sviluppo delle competenze indicate dal Piano Nazionale e Regionale Siciliano per l’Orientamento. L’ipotesi di ricerca che ha sostenuto la didattica laboratoriale si è mossa in un due direzioni: 1. Promuovere il filosofare come pratica educativa innovativa in grado di fare da “bussola” negli itinerari personali degli studenti di scuola primaria; 2. Rinnovare la didattica disciplinare orientandola verso la logica olistica del filosofare. Attraverso la lettura di Pixie (Lipman, 1981) gli alunni, come dei piccoli Ulisse, si sono interrogati su una questione cruciale: – Che cosa vuol dire essere una creatura misteriosa? In seguito hanno scritto dei racconti3 accompagnati da disegni che evocano gli archetipi universali del Bene e del Male. Draghi volanti, mostri, dinosauri sono, infatti, i protagonisti delle storie che rivelano le inquietudini dei bambini. Pertanto, interrogare questa domanda – dapprima attraverso il codice simbolico dell’oralità, durante la sessione filosofica, e poi attraverso il codice simbolico della scrittura, – è stata per gli alunni un’occasione preziosa per orientare il pensiero a filosofare sulle avversità e sulle situazioni più felici della loro vita. Alle prese con un percorso orientativo hanno avuto la possibilità di analizzare efficacemente i loro vissuti autobiografici. La narrazione filosofica ha avuto un importante valore trasformativo di rassicurazione e riduzione dell’ansia. Lo schema narrativo dei racconti rivela che i bambini hanno pensato la creatura misteriosa come “philia”, l’eroe secondo Propp (Propp, 1928), capace di prendersi cura dei dissidi delle scelte, delle loro ragioni e paure. Questi piccoli filosofi, attraverso uno stile filosofico orientato narrativamente rivelano il modo in cui stanno orientando la costruzione della loro mente e della loro vita, per diventare cittadini di un domani felice. Attraverso il filosofare i bambini hanno preso coscienza di alcuni importanti elementi di crescita del Sé emersi nella fase di valutazione del percorso laboratoriale. Orgogliosi di essere i protagonisti del libro che custodisce le loro personali “conversazioni riflessive” (Schön, 1983, 9) affermano che per loro filosofare è “l’attenzione nel capire”. Significa «legare le parole, ragionare per risolvere i dilemmi delle scelte da compiere, interrogare le ombre nascoste nelle domande, entrare nel mondo della filosofia a partire dalla vita». Con le parole di questi “piccoli filosofi” mi sento di affermare che se orientiamo la didattica al filosofare, questa metodologia non solo accompagna l’orientamento esistenziale degli studenti, ma anche i processi di sviluppo professionale dei docenti, i quali, fra tradizione e innovazione, sono chiamati a riflettere sul proprio stile professionale. Così docenti e discenti, insieme, interpretano nel ruolo di protagonisti la complessità della scuola che cambia.

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Presentazione dell’Autore: Alessandra Tigano è docente a contratto di Pedagogia dell’infanzia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Catania. Dottore di ricerca in “Fondamenti e metodi dei processi formativi”. È Teacher educator per il curriculum Lipman in Philosophy for Children. Collabora con il CRIF, l’ICPIC, l’As.Pe.I. di Catania. Insegnante di Scuola Primaria. Le sue ricerche si inseriscono nell’ambito della pedagogia ermeneutica e della didattica costruttivista ad orientamento narrativo e riflessivo. Tra le sue pubblicazioni: H.G. Gadamer, Autobiografia e tradizione. La questione dell’esserci nella postmodernità, Caltanissetta, Sciascia, 2009.

Note 1

Legge n.1/2007 e D.lgs. nn. 21-22 del 14-01-2008. Raccomandazione U.E. del 23 aprile 2008, Quadro Europeo delle Qualifiche per l’apprendimento permanente. 3 Pubblicati in F. Furnari, A. Tigano (a cura di) (2011), Giocare a filosofare, Roma, Terre Sommerse, 97-194. Disponibili anche sul sito della Scuola http:// www.circolochinnici.it. 2

Bibliografia Agazzi, E. (1992), Il significato della presenza della filosofia nei curricoli della nuova secondaria superiore, in E. Agazzi et al., Filosofia e filosofia di, Brescia, La Scuola. De Pasquale, M. et al. (1996), Insegnare e apprendere a fare filosofia in classe, Bari, Laterza. — (1999), La filosofia nella scuola di massa, in E. Ruffaldi, Insegnare filosofia, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia. Lipman, M. (1981), Pixie, Upper Montclair, IACP, 1981, tr. it. a cura di A. Cosentino, Napoli, Liguori, 1999. Massaro, D. (1990), Struttura e didattica della filosofia, in «Insegnare», n. 11/12, 25. Propp, V.J. (1928), Morfologija skazki, Leningrado, Academia, tr. it. a cura di G.L. Bravo, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 2000. Ruffaldi, E. (1999), Insegnare filosofia, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia. Schön, D.A. (1983), The Reflexive Pratictioner, New York, Basic Books, tr. it. a cura di A. Barbanente, Il professionista riflessivo, Bari, Dedalo, 1993.

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5. Protagonismo nell’ambiente locale Abstract: In a situation of emergency and social troubles, the different educational agencies must communicate in a responsible way. An effective educational action is needed. In territories and communities with serious social problems, people need to face situations having as background values of solidariety that come from equality and democracy. There is the need of finding and realizing creative and new solutions to face poverty, isolation, social distress… This is a challenge our present has to embrace, giving significant responses in order to promote a new “humanism” and pathways of real “humanization”. Riassunto: In una situazione di emergenza e di forte disagio sociale diventa necessario che un efficace intervento educativo veda le diverse Agenzie preposte all’Educazione (istituzionali e non) interagire in maniera concreta e responsabile. Nei territori e nelle comunità locali con gravi problemi c’è una forte richiesta di vivere le situazioni in funzione di quei valori di solidarietà sociale che trovano negli ideali di uguaglianza e democrazia le proprie radici: un bisogno di trovare e mettere in atto soluzioni nuove e “creative” ai problemi della povertà, esclusione sociale, devianza, disagio, ecc… Una sfida a cui il nostro presente è chiamato a dare risposte significative per promuovere un nuovo “umanesimo” e realizzare percorsi di autentica “umanizzazione”. Parole chiave: comunità, territorio, reciprocità, normalità, protagonista.

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SCUOLA E TERRITORIO NELL’EMERGENZA: CONDIVISIONE E COLLABORAZIONE Venera Munafò L’intervento educativo in situazione di emergenza ha due obiettivi fondamentali: mettere in moto un sano processo di elaborazione degli eventi o di lutto e ristabilire la normalità nella vita scolastica di ogni giorno. In caso di eventi critici, la scuola può diventare il perno di una comunità non solo scolastica ma dell’intera cittadinanza. Situazioni critiche come quelle provocate dalla disastrosa alluvione che il primo ottobre 2009 colpì la provincia del messinese, in particolare Giampilieri e Scaletta Zanclea, hanno rischiato di diventare traumatiche e di difficile gestione, fonte di stress per una parte o per un’intera comunità. Il disagio, la disgregazione di un tessuto sociale di per sé già fragile, la perdita del senso di appartenenza hanno indotto bambini, ragazzi, adulti a sentirsi categoria di “alluvionati”, individui alieni dalla barcollante identità. Nei casi di catastrofi naturali, l’approccio psicopedagogico deve mirare alla ri-costruzione della persona, riconducendola ad un’immagine positiva di sé attraverso l’elaborazione delle esperienze traumatiche vissute (Aa.Vv., 2002; Biondo, Di Iorio, 2009). L’unità di crisi operativa, con l’ausilio di psicologi dell’emergenza, avrebbe il compito di intervenire non solo in mezzo alla popolazione, lacerata dal dramma, ma anche e soprattutto nelle scuole, luoghi per eccellenza deputati alla normale ripresa delle attività dei soggetti più deboli, ovvero bambini e ragazzi. Quando questo non accade per impreparazione organizzativa dei soccorsi, anziché reagire con improduttivi giudizi negativi, affrontare le difficoltà con “positività” può generare relazioni solidali e collaborative, promuovendo interventi educativi efficaci in situazioni di emergenza. È quello che è accaduto nell’Istituto Comprensivo di Scaletta Zanclea in cui, dinanzi all’assenza di un immediato supporto pedagogico e psicologico per alunni, genitori e docenti a causa del disastroso evento alluvionale, si è costituita una task force di volontari, composta da un’equipe di pedagogisti1, psicologi2 e laureandi del corso di Laurea Magistrale in Psicologia dell’Università degli Studi di Messina3, con la supervisione di insigni docenti accademici di Pedagogia, Pedagogia dell’emergenza e Psicologia dello sviluppo della medesima Università. È stato predisposto un progetto formativo integrato, rivolto a docenti, famiglie e studenti al fine di elaborare e superare la situazione traumatica vissuta nel contesto più naturale possibile: la scuola, diffusa capillarmente sul territorio. Ed è a questa Istituzione che è stata data centralità e consistenza in stretta correlazione con i servizi sociali degli Enti Locali, le associazioni ed

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altre strutture presenti nel territorio, facendo appello anche a risorse specialistiche interne o esterne alla scuola. Difficoltà relazionali, fobie, irregolarità nella frequenza scolastica, passività e poca voglia di fare e di imparare, scarsa autostima e scarso senso di autoefficacia sono state solo alcune delle molteplici problematiche psicopedagogiche emerse nella situazione di emergenza. Partendo dal presupposto che un evento tragico altera certamente la capacità di percepirsi soggetti attivi, si è cercato di ripristinare il senso di fiducia personale nella capacità e nelle potenzialità dei soggetti in età evolutiva, al fine di superare il trauma (Herman, 2005) e di recuperare lo stato di protagonismo attivo. Si è potuto verificare che alunni, precedentemente inseriti in percorsi educativi per lo sviluppo di competenze pro-sociali, rispondevano meglio di fronte alle difficoltà, sviluppando competenze umane e personali per far fronte agli eventi e abilità relazionali per rapportarsi con gli altri, funzionali al decision making, ad una corretta gestione delle emozioni e dello stress4. Constatata l’efficacia di un curricolo basato sui comportamenti sociali, che possono essere educabili in famiglia, nella scuola e nei gruppi di appartenenza, nella situazione di emergenza che si stava vivendo si è reagito ad una progressiva forma di analfabetismo emotivo attraverso una sistematica e profonda azione formativa. L’azione di supporto pedagogico e psicologico, dapprima gratuita, è stata professionalmente riconosciuta nell’anno scolastico 2010/2011 con il finanziamento, da parte dell’Assessorato della Famiglia delle Politiche Sociali e del Lavoro della Regione Siciliana, del progetto “Scuola e Famiglia per la cittadinanza attiva: percorsi per la rinascita del territorio”, promosso dall’Istituto Comprensivo di Scaletta Zanclea (soggetto capofila) in associazione temporanea di scopo con l’associazione pedagogica “In-Formazione onlus” (soggetto associato), per favorire ed accrescere negli alunni dell’Istituto e, insieme, nelle loro famiglie, quelle competenze specifiche trasversali che possano sostenere la formazione di un cittadino competente, solidale e consapevole. Il progetto è stato realizzato con la collaborazione di qualificate figure professionali: psicologo, pedagogista, educatore, neuropsichiatra infantile, assistente sociale, nutrizionista e consulente legale. Il percorso educativo, nella sua duplice funzione interistituzionale e intergenerazionale, è stato finalizzato a valorizzare la partecipazione civica di alunni e genitori, in collaborazione con la scuola, a promuovere comportamenti resilienti e prosociali, a consolidare lo spirito di solidarietà ed il senso di appartenenza alla propria comunità, a contribuire alla “costruzione” di un ambiente sicuro, ad affinare competenze comunicative empatiche. Tra i percorsi di educazione socio-affettiva, rivolti agli alunni della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e della scuola secondaria di I grado, sono stati proposti gli incontri tematici “Istinti, emozioni, sentimenti”5 ed il “Laboratorio dei Capitani coraggiosi”6, configurandosi come percorsi di alfabetiz-

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zazione emozionale. Tra i traguardi raggiunti si è registrata una maggiore consapevolezza del bagaglio delle emozioni, la conquista del sentimento positivo di comunità, cambiamenti positivi nel clima sociale e verso gli altri. Varie e molteplici le metodologie applicate, dalla ricerca-azione al problem solving, dalla didattica laboratoriale al cooperative learning, dalla peer education al service learning. Il progetto ha arricchito l’offerta formativa della scuola con l’introduzione di elementi di forza quali il coinvolgimento delle famiglie in percorsi di formazione di “famiglie tutor” per diffondere moduli comportamentali di mutuo-aiuto. Particolarmente significativa è stata l’esperienza del laboratorio congiunto genitori/figli rivolto ai bambini di 5 anni della scuola dell’infanzia, ai loro genitori ed agli insegnanti, in cui la psicologa, attraverso l’uso dei “Puppets” e dei disegni, ha facilitato l’espressione emotiva. Attività ludiche e condivisione di fantasie hanno incentivato la complicità genitore-figlio e la riscoperta del giocare insieme, superando paure e rafforzando uno stato di benessere prosociale. Significativa è stata l’esperienza vissuta nell’ambito del “Laboratorio: Simuliamo l’emergenza” che oltre a coinvolgere genitori, alunni e docenti, è stato arricchito dalla partecipazione di personale altamente qualificato di Protezione Civile, Forze dell’Ordine e associazioni di volontariato. L’esercitazione per simulare l’alluvione è stata una strategia auto-protettiva di educazione all’emergenza, per acquisire moduli comportamentali resilienti e prosociali, che generano forza positiva in situazioni difficili e problematiche7 (Malaguti, 2005). Infine, la tavola rotonda, alla quale hanno preso parte insigni personalità del mondo accademico e del Genio Civile di Messina, è servita a porre l’attenzione sulla sicurezza del territorio che si è concretizzata con la costruttiva richiesta degli alunni della scuola secondaria di I grado sulla messa in sicurezza della rete ferroviaria e dell’autostrada che costeggiano i paesi di Scaletta Zanclea e di Itala. Si può, dunque, affermare che le relazioni rinnovate dalla condivisione e dalla collaborazione attraverso l’applicazione di moduli di “Pedagogia dell’emergenza” possono generare efficaci paradigmi di “Educazione alla cittadinanza attiva e globale”, costituendo l’ordito e la trama di un nuovo tessuto sociale in cui, per dirla con Bauman, «la città non sia più il luogo della paura, ma della fiducia» (Bauman, 2005). Presentazione dell’Autore: Venera Munafò, laureata in Lettere, Dottore di ricerca in filologia italiana, Dirigente scolastica dell’Istituto comprensivo di Scaletta Zanclea, nella provincia di Messina, ha coordinato progetti di ricerca e accordi di rete per portare avanti sperimentazioni interistituzionali sui temi dell’orientamento, della legalità, dell’emergenza educativa e dell’educazione solidale. Ha promosso a Scaletta, nei territori dell’alluvione, la costituzione del “Museo del fango” e numerose altre iniziative di partecipazione democratica tese a sostenere la popolazione

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e gli alunni coinvolti nelle tragiche situazioni di disastro ambientale. Ha al suo attivo anche diversi interventi in congressi nazionali di area pedagogico-didattica.

Note 1

Associazione pedagogica “In-Formazione onlus”. Qualcuno accorso anche da fuori regione per offrire “gratuitamente” la propria competenza professionale. 3 Un gruppo di laureande della Facoltà di Scienze della Formazione coordinate dalla Docente di Psicologia dello sviluppo e da una psicologa ha attivato l’efficace intervento educativo: “Pensa positivo e sorridi di più”. Imparare ad individuare le proprie capacità ed apprendere modalità comportamentali e cognitive del vivere felice. 4 L’educazione alla prosocialità è da più parti avvertita come una possibile risposta ad un’emergenza formativa. Si allude al laboratorio di educazione pro sociale “Sports4peace” per sviluppare la cooperazione tra pari, inserito nel POF dell’Istituto Comprensivo di Scaletta Zanclea (www.icscalettazanclea.it e www. sportmeet.org). 5 Lettura di fiabe, drammatizzazione, espressione grafica, giochi corporei, di ruolo e di parole (Le parole che sfrigolano, Il cielo dei grazie…, Il gioco del Pensare Sentire Fare, Gaspare Beretta, Rabbia Story, ecc.). 6 Attività di elaborazione emotiva e riflessiva: All’arrembaggio, Insieme si può, Positiva-Mente, L’isola che non c’è, ecc. 7 Per approfondimenti si consulti il sito www.icscalettazanclea.it. 2

Bibliografia Aa.Vv. (2002), Psicologia delle emergenze, Napoli, Liguori. Bauman, Z. (2005), Fiducia e paura nella città, Milano, Bruno Mondadori. Biondo, D., Di Iorio, R. (2009), Sopravvivere alle emergenze. Gestire i sentimenti negativi legati alle catastrofi ambientali e civili, Roma, Edizioni Magi. Herman, J.L. (2005), Guarire dal trauma, Roma, Edizioni Magi. Malaguti, E. (2005), Educarsi alla resilienza, Gardolo, Erickson.

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PROTAGONISMO DEL TERZO SETTORE. UNA PROSPETTIVA DI PEDAGOGIA SOLIDALE Maria Quartarone 1. Una breve ricostruzione storica Si misurano nei territori e nelle comunità locali con i problemi concreti in nome del bene comune e del ben-essere personale e sociale, sono in grado di concretizzare quei valori di solidarietà sociale che trovano negli ideali di uguaglianza e democrazia le proprie radici, presentano soluzioni nuove e “creative” ai problemi della povertà, esclusione sociale, devianza, disagio, ecc… spinti dallo spirito di servizio verso gli altri, sono i soggetti del terzo settore, un «laboratorio del cambiamento sociale, animato da cittadini e cittadine che guardano con fiducia al futuro e scelgono di essere protagonisti attivi della sua costruzione»1 contribuendo al progresso della società e al pieno sviluppo della persona umana. Orbene, il terzo settore, o terzo sistema come è definito in ambito europeo, non è solo un soggetto “terzo” (come suggerisce la stessa definizione tra la logica di Stato e di mercato), ma una nuova e ampia realtà composita di associazioni, imprese sociali, fondazioni e corpi intermedi che operano offrendo una lettura contestualizzata dei bisogni sociali ma anche servizi. Apprestano interventi sociali originali e innovativi fuori dallo schema residuale e riparativo, diversi quindi dal modello di intervento sociale assistenzialistico rivolto esclusivamente al povero, all’emarginato, al disagiato: riconoscono, infatti, a tutti i cittadini, anche a coloro normalmente considerati “senza difficoltà”, il diritto all’assistenza, all’orientamento, al sostegno, al ben-essere. Questa mutata prospettiva rappresenta una controtendenza rispetto allo scenario di crisi del welfare state, tipico degli anni ’70 e caratterizzato da fase espansiva della spesa sociale (pressione fiscale, disavanzi di bilancio, debito pubblico). Infatti, a partire dai contributi scientifici degli anni ’80 prende corpo una nuova riflessione teorica ed empirica sul welfare italiano, il cui tema della crisi si intreccia con quello della sua ricostruzione, fondata sul coinvolgimento di nuovi attori sociali e sull’identificazione di nuovi principi regolativi dell’intervento pubblico (Ranci, 2004, 39). Per merito di queste letture ed analisi (Ascoli, 1984; Paci, 1982, 345-400), si arriva così ad osservare come in Italia i meccanismi di definizione della scelta pubblica in materia sociale sono molto spesso scollegati dai significati e dalle esperienze prodotte dai “mondi vitali”, dalla solidarietà espressa dalla società civile, fortemente soggetti all’influenza di interessi specifici

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(particolarismo, clientelismo) e sensibili ad obiettivi di consenso politico e di legittimazione sociale. In tal senso gli anni novanta avviano un cambiamento radicale nell’impalcatura sociale delle politiche di welfare, perché nasce l’esigenza di condivisione e partecipazione da parte delle “risorse solidaristiche” presenti nella società civile, di quegli attori non istituzionali che operano nella costruzione del sistema di welfare. In tale contesto l’8 novembre del 2000 entra in vigore la legge di riforma sociale2 divenendo a tutti gli effetti “riforma dello stato sociale”: in essa si afferma l’idea di un welfare mix delle responsabilità che, oltrepassando i vincoli imposti da previdenza e sanità, allarga il proprio orizzonte di intervento per aiutare i più deboli e al contempo migliorare la qualità della vita di tutti (del singolo, delle famiglie, della comunità). Una politica sociale, pertanto, che implica responsabilità pubblica e solidarietà collettiva, attenta al rapporto tra welfare e famiglia, all’implementazione delle politiche, al mercato del privato e alla sua regolazione.

2. Pedagogia solidale e terzo settore E veniamo ora alla considerazione, la più sintetica possibile, del rapporto tra pedagogia solidale e terzo settore. Mi avvalgo a questo proposito delle riflessioni di Anita Gramigna (Gramigna, 2004, 129-150) la quale, assumendo il valore della solidarietà come principio costitutivo dell’educazione, elabora una prospettiva pedagogica solidale del mondo e dell’umanità: «la formazione è inscindibile dai processi e dalle relazioni che animano la socialità. Il suo dare forma alla pulsione che intercorre fra volere-potere-dovere-desiderare – in breve fra il desiderio di espansione del nostro io, i suoi appagamenti, il senso della sua finitezza, delle sue frustrazioni e poi il tutto, nel confronto con l’altro e con gli altri nel vincolo comunitario – mira all’equilibrio, alla consapevolezza e al benessere del soggetto “nel” legame che lo costituisce e lo determina. Questo processo tende a contrastare tentazioni egocentriche, espansioni narcisistiche, relazioni prevaricanti, ecc… che minano la relazione e, con essa, i soggetti coinvolti, ma anche, più in generale, il benessere collettivo. Così il dare forma risulta ad un tempo un problema individuale e sociale. Una comunità che è formata dall’armonia di tensioni del legame, e che da tale armonia derivi il valore della solidarietà, è una comunità che tutela la qualità della vita dei suoi membri» (ivi, 143-144). Il che equivale a dire che la solidarietà non va intesa come evento eccezionale, legato alle persone umanamente sensibili ma – sostiene Chiosso – «come un normale atteggiamento di lealtà politica, di disponibilità a svolgere la propria parte […] che si propone di assicurare l’equilibrio

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dei diritti e dei doveri […] un “valore” per tutti, intrinseco alle “buone pratiche” della vita associata» (Chiosso, 2004, 105). Il leitmotiv del terzo sistema è (o, per meglio dire, dovrebbe essere) anche questo: recuperare quelle “ragioni della solidarietà” di cui si diceva prima, solidarietà non come movimento unidirezionale, tipico della beneficenza, ma come scambio-reciprocità nel senso che se io do qualcosa a te, il tuo accogliere, il tuo esser-ci rappresenta una ricchezza per me. «La cura che riceve (il soggetto) – scrive ancora A. Gramigna – lo obbliga moralmente ad un rapporto di reciprocità, ad assumersi la responsabilità dell’altro. Ad avere cura. A volere il bene dell’altro, perché è da questo atteggiamento solidale che dipende la qualità del legame sociale, dal suo primo annunciarsi, nel rapporto con la famiglia, al suo estendersi nelle relazioni della società planetaria» (Gramigna, 2004, 140-141). In questo senso è agevole pensare che l’esercizio della solidarietà, come principio etico, politico, sociale, caratteristica peculiare del terzo settore, possa efficacemente sostenere e promuovere quel “prender forma” cui mira la formazione, connotandosi per una intenzionalità educativa: l’educazione di un soggetto autonomo, responsabile, capace d’impegno, dotato della forza del carattere come sostiene F. Cambi, «un carattere inteso oggi in modo soft, come identità personale disponibile a stare-congli altri e a orientare se stesso, a qualificarsi non in senso narcisistico bensì sociale, dialogico, ecologico» (Chiosso, 2002, 76). Quindi il vincolo della solidarietà è in grado di stimolare il cittadino e la cittadina a partecipare alla vita sociale, allo sviluppo delle organizzazioni, alle politiche educative e sociali e alla loro realizzazione, creando le condizioni utili e necessarie per divenire protagonisti attivi nella trasformazione dei contesti sociali. Nella misura in cui inoltre è da più parti sottolineato che la politica ha rinunciato alla sua autonomia in favore del mercato, la qual cosa ha comportato una crisi della democrazia che a sua volta ha evidenti effetti anche sul piano socio-culturale (Bertolini, 2003), attraverso una sempre più diffusa adesione e partecipazione ad un progetto solidaristico, tout court pedagogico, da parte del terzo settore è possibile tornare a “rappresentare gli interessi” della comunità, del bene comune, riconoscendo alcuni valori comuni a partire dai quali costruire la convivenza umana (Cambi, 2006, 91). In molti di questi luoghi, infatti, diversi tra loro per storie, culture e modelli organizzativi ma uniti da valori-ideali comuni, si scorge, come abbiamo già detto in precedenza, l’essenza stessa della cura educativa, la specificità dell’educare che consiste nell’accompagnare l’altro e nell’accompagnar-si. Sono luoghi che, oltre ad incidere nei meccanismi della vis politica, contemporaneamente creano legami relazionali, luoghi d’incontro e di comunicazione tra persone dove ricostruire relazioni sociali e contribuire pure all’impegno di cura sui proprio di ogni soggetto,

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all’educazione di sé stessi libera e responsabile: luoghi dove l’io, attraverso la cura di sé, diventa libero, si sente cittadino del mondo e si unisce in spirito di fratellanza con tutti gli uomini (Chiosso, 2004, 74). Un ambiente umano, insomma (lo affermo per esperienza personale), dove si intessono rapporti umani profondi, intimi, dove ci si impegna a intrecciare delle relazioni non episodiche ma autentiche, significative, attraverso le quali è possibile riscoprire il senso vero del protagonismo dell’uomo che non è quello, tipicamente contemporaneo, del “mettersi a nudo” (Oliverio Ferraris, 2008) oggi divulgato dalla televisione, dal cinema, dalla pubblicità, da internet, ecc… ma quello della singolarità unica e irripetibile dell’essere umano. L’associazionismo, il volontariato, la cooperazione sociale, le forme sociali comprese nel cosiddetto terzo settore, assumendo una prospettiva pedagogica solidale, utilizzando i codici della reciprocità, del dono, dell’altruismo, promuovendo una “circolazione sociale” di sentimenti e atteggiamenti quali l’empatia, l’attesa, la speranza, la gratuità, la pazienza, ecc., diventano invece contesti umanizzanti che possono contrapporsi a forme di “protagonismo anomalo” (Sirna, Michelin Salomon, 2009) salvaguardando le finalità etiche anzidette. Nei luoghi solidali dell’educazione la dimensione esistenziale/esistenziata dell’altro, la prossimità relazionale con esso, diventano valori da difendere: si incontrano l’uomo e “l’altro volto” (E. Lévinas), altro rispetto a me che lo penso perciò caratterizzato fondamentalmente da “spazi di inaccessibilità” che il pensiero umano difficilmente riesce a definire. Le alterità sono comprensibili e pensabili fino ad un certo punto oltre il quale non c’è armonia, non ci sono descrizioni certe, né spiegazioni esaustive, né formule precostituite, né destini inconfutabili: c’è solo (o dovrebbe esserci) attenzione, ascolto, silenzio reverenziale. In questo spazio pedagogico si rigenera pure, a mio avviso, quella che Duccio Demetrio definisce acutamente come l’educazione indocile. «[…] L’indocilità impertinente, intelligente, creativa che ha nutrito tanta educazione non va costretta a migrare […] dinnanzi alla sorte che sembra a turno attenderci. Meglio sarebbe che l’educazione si cercasse altri spazi in cui prosperare, perché qui è minacciata non dal troppo caos, piuttosto da una soverchiante ricerca dell’armonia. Dove non c’è posto per i discordanti, i dissonanti, gli stonati» (Demetrio, 2009, 151). In conclusione si può dire che il terzo settore, mentre contribuisce a costruire una politica sociale territoriale locale offrendo “servizi alla persona e alla comunità”, partecipa pure alla formazione e allo sviluppo della persona e della comunità, gettando le basi di una “educazione per il tempo futuro” (Suchodolski, 1964), favorendo così un processo permanente di crescita attraverso cui promuovere un “nuovo umanesimo” e realizzare percorsi di autentica “umanizzazione”.

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ro!

Una sfida per il nostro presente, una possibilità per il nostro futu-

Presentazione dell’Autore: Maria Quartarone, laureata in Scienze dell’Educazione, studiosa impegnata da anni nel sociale come specialista in un Centro polifunzionale per la famiglia. Collabora da anni con la cattedra di Pedagogia generale e sociale dell’Università di Messina e con la sezione messinese dell’As.Pe.I., guidando dei laboratori educativi e corsi di formazione. Ha pubblicato il testo La domanda sociale di educazione. Problematiche emergenti ed istanze professionali (Scuderi, 2005) ed altri contributi in volumi collettanei.

Note 1

Cfr. Forum Terzo settore, Le sfide dell’Italia che investe sul futuro. Libro verde terzo settore, Roma, IDM Graphic, aprile 2010. Il documento è consultabile sul sito www.forumterzosettore.it. 2 Cfr. Legge 8 novembre 2000 n° 328, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, in “Gazzetta Ufficiale”, 13 nov. 2000, n. 265.

Bibliografia Ascoli, U. (1984), Il welfare state all’italiana, Roma-Bari, Laterza. Bertolini, P. (2003), Educazione e politica, Milano, Cortina. Cambi, F. (2006), Incontro e dialogo. Prospettive della pedagogia interculturale, Roma, Carocci. Chiosso, G. (2002), Elementi di pedagogia, Brescia, La Scuola. — (2004), Teorie dell’educazione e della formazione, Milano, Mondadori Università (collana Azimut). Demetrio, D. (2009), L’educazione non è finita, Milano, Raffaello Cortina. Gramigna, A. (2004), I fondamenti di una pedagogia solidale nelle questioni sociali. Per una ermeneutica della prassi democratica, in A. Escolano Benito, A. Gramigna (a cura di), Formazione e interpretazione. Itinerari ermeneutici nella pedagogia sociale, Milano, Franco Angeli. Paci, M. (1982), «Le onde lunghe nello sviluppo dei sistemi di welfare», in Stato e mercato, n. 6, 345-400. Ranci, C. (2004), Politica sociale. Bisogni sociali e politiche di welfare, Bologna, Il Mulino.

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Sirna, C., Michelin Salomon, A. (a cura di) (2009), Bullismo. Protagonismo anomalo, Lecce, Pensa Multimedia. Suchodolski, B. (1964), Trattato di pedagogia generale. L’educazione per il tempo futuro, Roma, Armando.

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CONSIDERAZIONI PEDAGOGICHE SULLA TEORIA DELLA MENTE Cristian Celaia Abstract: The article aims to bring out the close link between “folk psychology” and “folk pedagogy”. The folk psychology is a field of research, consisting of several disciplines, studying the ability of humans to understand the “intentional stance” and to attribute a mind to agents (Theory of Mind or ToM) to explain or predict their behaviour. The argument is that the conditions depend on folk pedagogy and educational psychology and the understanding of the mind and its modifiability through the educational process. This means that the pedagogical paradigms and educational models can be considered as ways of understanding the mind of the student and his transformation through education. The theoretical framework of this study is the cultural psychology (Vygotskij and Bruner) that ToM plays, the folk psychology and folk pedagogy as dependent on the socio-historical context. Riassunto: L’articolo prende in considerazione un vasto campo di studi, costituito da più ambiti disciplinari, che studia la capacità degli esseri umani di comprendere e attribuire “atteggiamenti intenzionali” e una mente agli agenti (“Theory of Mind” o ToM); tali studi, connessi alla così detta “psicologia popolare” (folk psychology), spiegano e interpretano il comportamento sulla base di scopi, intenzioni e desideri. L’obiettivo è quello di far emergere lo stretto legame esistente tra “psicologia popolare” e “pedagogia popolare” (folk pedagogy). Infatti, seguendo l’impostazione culturalista di J. Bruner, è possibile mostrare come i presupposti pedagogici e educativi dipendono in buona misura dalla folk psychology e dal modo di intendere la mente e la sua modificabilità attraverso il processo educativo. In questo senso i paradigmi pedagogici e i modelli educativi possono essere considerati come modi d’intendere la mente dell’educando e la sua trasformazione attraverso la formazione. In accordo con la psicologia culturale (Vygotskij e Bruner), ToM, la psicologia e la pedagogia popolare saranno considerati come dipendenti dal più ampio contesto storico-sociale. Parole chiave: psicologia popolare, pedagogia popolare, teoria della mente, meta-cognizione, paradigmi pedagogici.

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Dalla “psicologia popolare” alla “pedagogia popolare” Gli studi sulla “psicologia popolare” e la “teoria della mente” si sono notevolmente incrementati a partire dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso. Attualmente tale campo di ricerca è considerato da alcuni come una vera e propria rivoluzione paradigmatica che in psicologia ha il merito di riunire in un’unica cornice teorica i vari ambiti e “scuole”, mentre nei confronti delle altre discipline (scienza, filosofia, pedagogia, letteratura, ecc.) assume un proficuo atteggiamento trans-disciplinare (Camaioni, 1995; 2001). Il termine “psicologia popolare” (ingenua o del senso comune da “folk psychology”) indica la propensione “naturale” degli esseri umani a spiegare, interpretare e prevedere il comportamento degli agenti (umani, animali, artificiali, singoli o gruppi) sulla base dell’attribuzione di una serie di “atteggiamenti intenzionali” (scopi, intenzioni, motivazioni, desideri); questi ultimi perciò possono essere considerati come altrettante “cause” e “ragioni” delle azioni (attribuzione causale) (Davidson, 1980). In altre parole per la psicologia popolare l’individuo-soggetto-persona è un agente intenzionale dotato di una mente alla quale si attribuisce la capacità di rappresentare (meta)cognitivamente ed emotivamente gli stati intrapsichici, gli eventi esterni e la realtà sociale, e di agire seguendo certe finalità e obiettivi più o meno razionali, espliciti e consapevoli (Theory of Mind o ToM). Il termine “abilità sociale”, perciò, indica la capacità soggettiva di instaurare un qualche tipo di relazione, di seguire una condotta sociale adeguata al contesto (storico, culturale, situazionale) e di rappresentare correttamente gli stati mentali propri e altrui. Questa abilità sociale, come dimostrano alcuni studi recenti, interviene piuttosto precocemente nello sviluppo ontogenetico ed è possibile rilevarne i “precursori” già nel corso del secondo anno di vita (Olineck; Poulin-Dubois, 2007). In ogni caso tutte le ricerche concordano nel fissare alla fine dei tre anni la presenza di una complessa “teoria della mente” e di un pensiero metarappresentazionale già ben strutturato tale da consentire al bambino di superare senza problemi il test della falsa credenza. Infatti, intorno ai 4 anni il bambino comprende già che la mente umana è un sistema che costruisce e organizza rappresentazioni e che le persone agiscono in base a queste rappresentazioni della realtà esterna, più che in funzione della “realtà oggettiva”. Ciò nonostante i bambini di 4 anni (e di età superiore), fino ad una fase successiva che inizia tra i 6-7 anni, pur utilizzando correttamente molti termini linguistici mentalistici (volere, desiderare, sperare, pensare), non sembrano essere consapevoli, né sono in grado di esplicitare verbalmente la teoria della mente che guida il loro comportamento sociale. Ciò significa che non tutte le fasi dello sviluppo sono contraddistinte dal possesso di un’identica facoltà metacognitiva e che ToM comprende una

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fase implicita e inconsapevole ed una esplicita e consapevole. Inoltre non tutti gli esseri umani possiedono le medesime capacità interpretative, né le stesse abilità sociali. Uno dei temi centrali nel dibattito concernente la psicologia ingenua riguarda proprio il tentativo di mettere a punto una teoria generale della mente, in grado di comprendere le discrepanze osservabili tra i diversi soggetti. Del resto anche secondo la teoria delle intelligenze multiple di H. Gardner (Gardner, 1983) l’intelligenza personale (capacità introspettiva) e quella sociale (empatica) costituiscono due tipi distinti di intelligenza che, dipendendo da fattori biologici innati, dal contesto storico-culturale e dall’educazione, non possono essere posseduti da tutti allo stesso grado. Attualmente gli studi sulla teoria della mente e la psicologia ingenua presentano vari indirizzi di ricerca, che possono essere raggruppati secondo quattro direttrici fondamentali che, a loro volta, possono essere raccolte in due coppie in opposizione dialettica. Ciò nonostante sono sempre possibili quadri teorici più complessi e articolati che attraversano trasversalmente questa suddivisione. Tali macro-aree di ricerca sono: 1. Una prospettiva innatista che si contrappone ad una anti-innatista e costruttivista. 2. Una teoria dominio-specifica contrapposta a una più integrata, dominio-generale. In particolare sono due le principali correnti che si affrontano in questo contesto, la così detta teoria della teoria del mentale (Theory Theory = TT) e la teoria della simulazione (Simulation Theory = ST). L’approccio Theory-Theory propone un concetto di teoria della mente come costruzione epistemologica, tale da giustificare l’attribuzione di un valore letterale al termine “teoria”. Nell’ottica TT, perciò, la psicologia popolare costituisce un tipo di conoscenza teorica che descrive e definisce le caratteristiche della mente. In pratica si sostiene un’analogia talmente stretta tra psicologia ingenua e teorie scientifiche da portare alcuni ricercatori a pensare al bambino come a un “piccolo scienziato” impegnato a costruire una teoria della mente sempre più articolata e valida. In altre parole, proprio come uno scienziato modifica o sostituisce le ipotesi che costituiscono la sua teoria con altre sempre più raffinate, così il bambino sostituirebbe col tempo le assunzioni che costituiscono la sua personale teoria psicologica ingenua, seguendo un percorso basato sulla rivedibilità in funzione dei successi e dei fallimenti nei quali essa incorre. Tale sviluppo concettuale è sotteso a processi cognitivi individuali di tipo dominio-specifico, rappresentazionali e computazionali di elaborazione di informazioni, che fanno propendere per una concezione costruttivistica della mente ma, non di meno, fortemente biologista che ne sottolinea le predisposizioni e meccanismi innati di sviluppo. Inoltre gli “atteggiamenti intenzionali” o altri stati mentali, pur non essendo di tipo osservativo, assolvono a uno specifico ruolo intra-teorico e delineano relazioni causali

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tra stimoli sensoriali e stati mentali, fra stati mentali e stati comportamentali e tra stati mentali differenti. Nell’ambito della prospettiva TT si colloca anche l’ipotesi modulare, strettamente connessa col modularismo di J. Fodor (Fodor, 1983; 1987; 2000) ed essenzialmente innatista e biologista (Baron-Choen, 1995). In quest’ottica la psicologia ingenua si connota più come un sapere “implicito” che, essendo immagazzinato all’interno di speciali moduli cognitivi e attivandosi gradualmente nel corso dello sviluppo ontogenetico, scandisce in maniera determinata le diverse fasi dell’evoluzione cognitiva e risente poco o nulla degli influssi socio-culturali nella costruzione della teoria della mente. ToM sarebbe quindi il prodotto di un modulo mentale che, affermatosi sul piano evolutivo filogenetico, rimane vincolato a precise modalità di sviluppo e di attivazione in successione di “sottomoduli” secondo un preciso programma biologico e genetico. È chiaro che pensare a ToM come a un modulo mentale rende plausibile e auspicabile una sua collocazione cerebrale e neuronale. Infatti chi adotta questa teoria solitamente propende per localizzazioni abbastanza rigide; altri, però, credono sia possibile pensare a questi moduli come a parti interagenti dislocate in zone anche assai diverse del cervello che agiscono come una struttura funzionale unitaria e semi-indipendente che processa solo specifici tipi di informazione e non altri. Alternativo all’approccio TT è quello della Simulation Theory (ST) secondo cui la psicologia ingenua non sarebbe una qualche forma di sapere teorico ma una tendenza naturale a immaginare e a simulare i comportamenti altrui. L’esperienza diretta della propria vita psichica (qualia) consente alle persone di immedesimarsi negli altri attribuendo loro queste stesse complesse fenomenologie emotivo-cognitive; invece la propensione umana all’imitazione, che caratterizza soprattutto le prime fasi dello sviluppo ontogenetico, consente l’“apprendimento” di espressioni e comportamenti altrui che manifestano certi stati cognitivo-emotivi intrapsichici immediatamente riconoscibili come equivalenti ai propri. Nel contesto di ST risulta particolarmente importante lo sviluppo di capacità di elaborazione cognitiva non consapevoli (off-line), attraverso le quali dar luogo a processi di simulazione che mettano in grado di valutare prospettive diverse, senza per questo perdere la centralità del riferimento al proprio punto di vista “in prima persona”. Per i simulazionisti, perciò, la capacità di “leggere” e simulare la mente non è una teoria, ma si basa su un’abilità innata determinata da una dotazione genetica di base, sebbene il processo di acquisizione sia sostanzialmente un processo di apprendimento che risente degli influssi socio-culturali. In questo processo, tra i diversi meccanismi biologici coinvolti, particolare importanza riveste la scoperta, nella metà degli anni Novanta, dei così detti “neuroni specchio” (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006) che sem-

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brano direttamente coinvolti in ogni attività imitativa. La presenza di sistemi specchio in specifiche aree del cervello, attivi sia quando si compie un’azione sia quando la si osserva, permette di cogliere immediatamente il significato di un comportamento, di prevederne gli sviluppi successivi e di interpretare correttamente emozioni e intenzioni dell’agente attraverso la “rievocazione” soggettiva, conseguente all’attivazione delle stesse aree corticali e specifiche per singoli comportamenti e stati emotivi. L’empatia perciò, aspetto basilare di ToM, è strettamente dipendente dal funzionamento di questo tipo di neuroni. Caratteristica dei neuroni specchio è che si attivano selettivamente rispondendo ad eventi e azioni specie-specifici e non in altri casi. Inoltre essi si attivano più facilmente quando le azioni che si osservano sono già in possesso dell’agente che le osserva, mentre azioni inusuali o che richiedono uno specifico addestramento hanno poche probabilità di attivarli nell’osservatore. L’osservazione di un difficile passo di danza classica, ad esempio, attiverà senz’altro nel danzatore classico i neuroni specchio, ma difficilmente ciò avverrà nel neofita o, anche, in un ballerino non-classico. Questo aspetto è importantissimo perché riconosce sul piano neurobiologico il ruolo degli influssi culturali per quanto concerne una serie di attività non strettamente specie-specifiche che richiedono un apposito training di insegnamento-apprendimento. Del resto l’apprendimento per imitazione non è relegabile alle sole attività corporeo-cinestetiche, ma è all’origine di molte attività cognitive e intellettuali ad un alto grado di astrazione. Tant’è che anche attività intellettuali complesse come quelle di ricerca scientifica dipendono dall’apprendimento imitativo. In tal senso secondo Rizzolatti e colleghi persino l’apprendimento del linguaggio sarebbe in qualche modo connesso all’attivazione dei neuroni specchio (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006). Infatti linguaggio e attività motoria presentano una certa “risonanza”: comprendere una frase che esprime un’azione provoca automaticamente l’attivazione degli stessi circuiti motori chiamati in causa durante l’effettiva esecuzione di quell’azione. Sia l’approccio modulare sia quello fondato sui neuroni specchio spiegano piuttosto bene patologie psichiche come l’autismo, in cui il problema sembra essere proprio la mancanza di una teoria della mente, e basano molte delle loro assunzioni sullo studio della cognizione animale (soprattutto delle scimmie antropomorfe), poiché la presenza di ToM costituisce la vera unicità degli esseri umani. Infatti secondo la teoria modulare i bambini di età inferiore ai quattro anni e i soggetti autistici non riuscirebbero a superare il test della falsa credenza perché gli uni non avrebbero ancora attivato il modulo ToM, mentre gli altri presenterebbero una tara genetica che li rende deficitari rispetto al possesso di una struttura cognitiva adibita alla genesi di una teoria degli stati mentali. Secondo la teoria dei neuroni specchio, invece, l’au-

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tismo deriverebbe dalla mancata attivazione o dal non funzionamento di questa tipologia di neuroni; la conseguente incapacità di comprendere immediatamente i comportamenti altrui provocherebbe una limitata capacità empatica e imitativa, il che avrebbe come effetto finale la compromissione di ToM, ossia delle abilità sociali indispensabili per instaurare delle normali relazioni interpersonali e un rapporto di insegnamento-apprendimento. TT e ST, sebbene i principali, non sono gli unici approcci teorici nell’ambito delle ricerche sulla teoria della mente; anzi di particolare interesse per il discorso pedagogico appare un altro orientamento teorico che, essendo di chiara ispirazione vygotskijana, spiccatamente culturalista e socio-costruttivista, sottolinea la forte dipendenza di ToM dal contesto storico-culturale. In questa prospettiva, sostenuta tra gli altri da J. Bruner nei termini di un approccio narrativo, il bambino non è visto tanto come un piccolo scienziato volto a elaborare teorie, ma come un “piccolo ermeneuta” che, essendo inserito in un certo contesto storico-socio-culturale, fin dal concepimento si trova a dover interpretare cognitivamente una serie di significati costruiti e mediati socialmente. La comprensione sociale avviene, perciò, per partecipazione diretta e immersione nell’universo semiotico del contesto culturale di appartenenza. La cultura fornisce strumenti concettuali, modalità comportamentali tipiche, valori, ecc., che, costruiti socialmente e adottati più o meno implicitamente dai membri del gruppo attraverso processi di inculturazione, istruzione e formazione, hanno un effetto di retroazione sulle stesse strutture cognitive psico-biologiche innate, favorendone o inibendone le capacità e lo sviluppo in un verso piuttosto che in un altro. In questo senso ToM, essendo a tutti gli effetti un prodotto culturale costruito socialmente, non farebbe eccezione e risentirebbe fortemente delle differenze storiche, culturali e sociali. Il focus d’indagine si sposta, così, dal piano individuale a quello sociale, da quello cognitivo e della mente intesa come elaborazione di informazioni a quello culturale, da quello innatista a quello costruttivista. È evidente che da un punto di vista pedagogico quest’ultima impostazione teorica di tipo culturalista è quella che assegna il valore maggiore ai processi educativi perché riconosce la possibilità di intervenire per modificare, con la cognizione e la mente, l’uomo e la società in cui si trova. In ogni caso le ricerche sulla teoria della mente e la psicologia popolare rivestono un grande interesse per la pedagogia e l’educazione perché è possibile rilevare uno stretto legame tra psicologia popolare, teorie della mente, cultura e pedagogia. Infatti negli ultimi anni le ricerche su questi temi sono aumentate in maniera notevole. Tuttavia la letteratura scientifica, psicologica e soprattutto pedagogica rimane quantitativamente e qualitativamente poco incisiva sul piano della pratica educativa, da

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un lato perché mancano studi generali, completi e approfonditi su cui ci sia un pieno accordo dei ricercatori, dall’altro perché le istituzioni (statali e scolastiche) e gli insegnanti di solito non conoscono (o conoscono poco e male) queste ricerche e tendono ad assumere un atteggiamento di sospetto verso i risultati e i cambiamenti educativi che suggeriscono. L’interesse per la teoria della mente nelle sue diverse declinazioni in ambito educativo si connette alla constatazione che l’inculturazione, l’istruzione e la formazione presuppongono un contesto inter-relazionale in cui devono essere presenti capacità metacognitive e abilità sociali tali da saper interpretare correttamente gli atteggiamenti intenzionali. In questo senso la stessa educazione e formazione scolastica può essere vista come uno sforzo reciproco, anche se asimmetrico, da parte del discente e del docente di capire e interpretare correttamente le intenzioni dell’altro. Il bambino (e/o lo studente) deve capire, come prima cosa, che l’adulto (l’insegnante o l’esperto) sta cercando di insegnargli qualcosa; che quella in cui si trova è una situazione di insegnamento-apprendimento che necessita di attenzione e sforzo; che l’attività (andare in bicicletta, disegnare, scrivere) o le nozioni teoriche che vengono insegnate non sono solo qualcosa di divertente da fare per se stesse (e anzi talvolta non lo sono affatto), ma hanno un certo valore e importanza sul piano sociale (per l’insegnante, la famiglia, i compagni); che l’educatore si aspetta da lui un certo impegno e che riesca, in seguito, a svolgere da solo quello che ora gli viene insegnato. In una fase successiva lo studente a scuola dovrà confrontarsi con l’“autorità epistemica” dell’insegnante, dovrà capire, cioè, cosa l’insegnante ritiene importante, “cosa vuole sentirsi dire”, quali sono gli aspetti disciplinari che predilige e perché. In qualche modo, quindi, lo studente dovrà adeguarsi al modo in cui l’insegnante organizza, interpreta ed espone i contenuti disciplinari, ossia dovrà “tradurli” e introiettarli secondo le proprie capacità e nello stesso tempo, se vuole ottenere successo negli studi, interpretare correttamente e adeguarsi al metro di valutazione del docente. È evidente, poi, che un discorso analogo può farsi in senso inverso, ossia dalla parte dell’insegnante che prova a interpretare e a rappresentarsi le difficoltà, le capacità, le ansie, le motivazioni (o scarse motivazioni), gli atteggiamenti e gli stati intenzionali degli studenti. Gli insegnanti, di solito, conoscono i loro allievi e le loro specificità caratteriali e cognitive, spesso riescono a determinare con una certa precisione la loro preparazione scolastica, sanno quali sono le loro caratteristiche cognitive, in cosa riescono più facilmente e in cosa trovano difficoltà. Gli insegnanti, inoltre, hanno un’idea, più o meno precisa, di quali sono le speranze, le paure e le ambizioni dei loro allievi e una percezione di solito corretta su quali sono le dinamiche relazionali e la divisione dei ruoli all’interno del

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gruppo classe (sottogruppi, leader, gregario, capro espiatorio, il “secchione”, il “simpatico”, lo “sportivo”, il “bullo”). In modo particolare, però, l’insegnante deve porsi il problema di un insegnamento efficace che miri alla comprensione autentica di ciò che si insegna. Egli, perciò, deve rappresentarsi mentalmente le modalità di ragionamento degli allievi, ma anche anticipare e prefigurare, in base alla propria esperienza di insegnamento, quelle che saranno le probabili difficoltà che gli studenti si troveranno ad affrontare sul piano delle conoscenze, competenze e abilità richieste. Ciò significa che l’insegnante svolge la sua professione in base ad una, più o meno esplicita, teoria della mente e di una serie di considerazioni psicologiche sulla cognizione degli allievi, che lo guidano nella determinazione preliminare dei programmi e nel loro svolgimento, nella didattica, nel modo di presentare/rappresentare i contenuti disciplinari e nella valutazione. In molti casi, tuttavia, la percezione e le considerazioni degli insegnanti sono errate oppure divengono delle “etichette” che una volta affibbiate allo studente difficilmente sono suscettibili di cambiamenti e revisioni, anche nel caso di eventi che smentiscono queste valutazioni errate (positive o negative). Casi simili si connettono non solo all’effetto alone e a tutta una serie di distorsioni che possono riguardare in modo specifico il mondo della scuola (effetto Pigmalione, profezie che si autoavverano), ma anche a un processo che ricorda da vicino la teoria sociologica dell’etichettamento sociale (labelling theory) che può indurre lo studente ad accettare, a introiettare e a comportarsi in linea con ciò che l’insegnante crede di lui. In questo modo se l’insegnante è convinto che lo studente sia svogliato o “incapace” di raggiungere un livello soddisfacente di preparazione, può accadere che lo studente non solo accetti il giudizio, ma finisca per convincersene a tal punto da conformarsi pienamente ad esso. L’attribuzione, ad esempio, di scarse capacità cognitive o volitive da parte dell’insegnante, ossia dell’esperto e dell’autorità in un certo campo, può produrre non solo dei disastri dal punto di vista dell’autostima e del successo, o meglio dell’insuccesso scolastico, ma può favorire proprio l’insorgere di quei caratteri cognitivi, emotivi, volitivi e comportamentali che si ritengono negativi. Per evitare questi pericoli i giudizi e le valutazioni sulle caratteristiche e le capacità mentali degli allievi devono sempre essere vagliati criticamente e costituire utili “ipotesi di lavoro” piuttosto che considerati alla stregua di un “destino”. In quest’ottica ToM deve essere assunta come un costrutto euristico, suscettibile di correzioni e revisioni critiche in grado di superare qualsiasi atteggiamento ingenuo, soprattutto da parte di chi ha responsabilità educative. È evidente che in questo processo di valutazione hanno un ruolo determinante le competenze professionali critico-riflessive dell’insegnante (Schon, 1983; 1987), ma possono svolgere un utile sostegno alla

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professione anche gli studi scientifici sulla psicologia popolare, la teoria della mente e, in genere, tutte le ricerche che hanno per oggetto la mente, i processi cognitivi e le dinamiche relazionali. Non bisogna dimenticare, poi, che approcci pedagogici come la clinica della formazione di R. Massa (problematicismo, pedagogia critica, ecc.), volti a fare emerge i pregiudizi e le “rimozioni” che a diversi livelli condizionano il processo educativo, possono essere considerati come altrettante vie per esplicitare le proprie convinzioni su ToM. Consideriamo, ad esempio, il caso in cui l’insegnante, anche sulla base di una conoscenza approssimativa della letteratura scientifica, sia portato ad attribuire a uomini e donne diverse abilità cognitive e mentali, ad esempio riguardo le intelligenze matematiche o spaziali, di cui le donne sarebbero meno dotate rispetto agli uomini, o viceversa riguardo le intelligenze linguistiche e interpersonali, in cui le donne sarebbero più abili degli uomini. In una simile prospettiva egli potrebbe essere indotto a valutare diversamente le prestazioni degli uni e delle altre oppure a inibire le naturali propensioni degli allievi che contrastano con la sua teoria. Casi simili si possono verificare, e si sono frequentemente verificati, per ciò che concerne le distinzioni etniche e i risultati dei test di intelligenza connessi alla misurazione del QI e alle conseguenti politiche scolastiche negli USA e in altri Paesi (Eysenck, Kamin, 1981), oppure anche relativamente alla credenza che soggetti appartenenti a contesti socio-culturali degradati debbano necessariamente fornire performance cognitive scadenti. Del resto le stesse nozioni di “deprivazione culturale” e “ambiente sociale degradato” si costruiscono sulla base di precisi input e assunzioni culturali, a volte assolutamente ingiustificati e tendenti, surrettiziamente, a svalutare le culture diverse da quella di appartenenza secondo i cui parametri si giudica (Bruner, 1996, 84-88). In maniera più specifica gli studi sulla teoria della mente e la psicologia popolare si sono collegati alle ricerche sulle possibilità offerte in educazione dallo sviluppo delle capacità metacognitive. La metaconoscenza, la metamemoria e tutti i processi di controllo dall’alto verso il basso (top-down) sulle proprie attività, funzioni, capacità e conoscenze mentali consentono di migliorare notevolmente le prestazioni scolastiche e sono suscettibili di essere appresi e insegnati sia in modo spontaneo sia tramite specifiche attività rivolte a questo fine (Santoiani, Striano, 2000; 2003). Di solito gli insegnanti intendono proprio questo quando, rivolgendosi direttamente agli studenti o alle famiglie, si lamentano del fatto che i ragazzi non hanno un “metodo di studio”. “Avere un metodo di studio”, infatti, significa saper compiere delle operazioni di controllo sui propri processi di apprendimento in modo tale da poterli gestire al meglio, ottimizzando i risultati dello studio e facilitando la comprensione e la competenza disciplinare; devono essere in grado di manipolare e immagazzinare in memoria un certo contenuto disciplinare e render-

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lo fruibile sotto forma di “conoscenza” sia utilizzando diverse modalità rappresentazionali (simbolica, iconica, grafica, ipertesto) sia diversi tipi di intelligenza e di memoria (spaziale, matematica, linguistica, procedurale, semantica) che risultano più congeniali al soggetto che le adotta. È evidente che, se la metaconoscenza è insegnabile, tale compito spetta a coloro che svolgono funzioni educative e che, soprattutto nei primi anni di scuola, devono fungere da impalcatura (scaffolding) e da sostegno per lo sviluppo di certe conoscenze, competenze e abilità nell’allievo, sfruttando al massimo i margini d’intervento offerti dallo sviluppo cognitivo (zona di sviluppo prossimo) e le opportunità che gli “strumenti concettuali e protesici” di origine culturale e sociale consentono di ottenere in termini di “costruzione”, incremento cognitivo e “ristrutturazione” mentale (Bruner, 1986; 1990; 1996). A tale proposito vale la pena ricordare che secondo Vygotskij sono proprio le attività metacognitive mediate dall’uso strumentale e dall’interiorizzazione del segno, tra cui il linguaggio è la principale, a consentire lo sviluppo delle facoltà superiori dell’uomo e un senso del sé (e dell’altro) (Vygotskij, 1931; 1934; Lurija, 1932). In conclusione preme sottolineare che se per creare un rapporto insegnamento-apprendimento efficace occorre “tradurre” e conformare i contenuti disciplinari al livello cognitivo degli allievi (zona di sviluppo prossimo) attraverso l’impiego di diversi sistemi simbolici, intelligenze multiple e modalità espressive distinte (parafrasi), allora bisogna ammettere che tali operazioni in buona misura discendono dalla teoria della mente e dalla psicologia popolare. Viceversa, in una prospettiva sociocostruttivista e culturalista, la possibilità di questa “traduzione” si fonda su un preciso modo di intendere la cultura, la conoscenza, l’insegnamento-apprendimento e la mente: se è vero che insegnante e allievo nella loro interazione sono guidati dalla psicologia popolare e dalla teoria della mente, è anche vero che tra queste ultime e i paradigmi pedagogici e i modelli didattico-educativi è possibile rilevare una stretta interdipendenza. In altre parole i diversi modi di intendere la mente dipendono in buona parte dai contesti storico-sociali-culturali e questi, a loro volta, sono all’origine di specifiche modalità di insegnamento-apprendimento e alla base di teorie pedagogiche, più o meno esplicite, che coerentemente si possono definire come “pedagogia del senso comune” (folk pedagogy) (Bruner, 1996).

Modelli della mente, paradigmi pedagogici e modelli educativi Molti studi sulle differenze culturali relativi alla teoria della mente sembrano confermare che le influenze culturali, seppure all’interno di una precisa predisposizione genetica, rivestono un peso decisivo per la

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“formazione” della mente anche per ciò che concerne le abilità sociali connesse alla folk psychology. In questo contesto riveste particolare interesse la prospettiva socio-costruttivistica e storico-culturale di Bruner, secondo il quale l’educazione non va intesa come una questione tecnica di buona gestione dell’elaborazione delle informazioni o di “trasmissione” di contenuti, di performances positive ai test scolastici, ma va considerata un’attività complessa che si propone di adattare una cultura alle esigenze dei suoi membri e, viceversa, questi ultimi e i loro modi di conoscere alla cultura (il che equivale ad attribuire alla cultura e al processo educativo gli stessi principi dei sistemi complessi di E. Morin). Stabilito, perciò, che esiste un legame piuttosto forte tra folk psychology e folk pedagogy, seguendo Bruner è possibile descrivere quattro modelli fondamentali della mente dei discenti che, avendo esercitato (e esercitando) una grande influenza in Occidente, rappresentano altrettanti modi di intendere il rapporto tra mente e cultura, la pedagogia, l’insegnamento-apprendimento, gli obiettivi e la prassi educativa (Bruner, 1996). Prima di iniziare questa analisi, però, occorre spendere qualche parola per evidenziare le ragioni e l’utilità di una simile operazione. In sostanza si tratta di rispondere alla questione relativa all’applicazione della conoscenza teorica alla prassi. La ricerca pedagogica e tutte le discipline che si occupano degli eventi educativi (filosofia dell’educazione, psicopedagogia, scienze dell’educazione) hanno un senso solo se riescono a operare un miglioramento della prassi educativa in situazione e, eventualmente, a orientare le riforme delle istituzioni scolastiche ma anche, più in generale, se mirano a migliorare la condizione dei singoli e delle collettività, della politica, della società e della cultura nel suo complesso. Tutto ciò, però, si può realizzare solo se esiste un legame diretto tra teoria e prassi e se le ricerche teoriche sono conosciute e condivise da coloro che hanno responsabilità educative. Ogni riforma educativa, ogni innovazione teorica, metodologica, didattica, non può sperare di essere accolta e applicata se gli educatori non la fanno propria, e non si può ottenere questo risultato se prima non si prendono in considerazione le modalità correnti, normalmente in uso e adottate dagli insegnanti nelle aule scolastiche. Ciò significa fare i conti con le conoscenze, i pregiudizi, le assunzioni e le “rimozioni” degli educatori circa le loro concezioni della mente, della conoscenza, dell’insegnamento-apprendimento. In altre parole se si vogliono proporre nuove concezioni della mente, della cultura, della conoscenza, dell’educazione fondate su dati scientifici, precipitato dei risultati migliori nel campo delle ricerche psicologiche, pedagogiche, filosofiche, delle scienze cognitive, occorre previamente esplicitare le concezioni di psicologia e pedagogia ingenua che fanno parte del patrimonio culturale e professionale degli insegnanti. Solo in questo modo è possibile operare un cambiamento nella prassi educativa

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e convincere gli educatori della bontà o meno delle proposte che vengono dalla ricerca teorica. I quattro modelli della mente e dell’apprendimento individuati da Bruner sono: 1. apprendimento per imitazione (acquisizione di knowhow); 2. apprendimento per esposizione didattica (acquisizione di conoscenze proposizionali); 3. apprendimento attraverso lo scambio intersoggettivo (costruzione sociale, scaffolding, transazione, negoziazione); 4. gestione della conoscenza obiettiva. È importante sottolineare come per Bruner nessuno di questi modelli, data la complessità degli eventi educativi, possa presentarsi come il migliore, né come l’unico. Ognuno di essi, infatti, presenta dei punti di forza e di debolezza che rendono necessaria una loro integrazione sia dal punto di vista teorico sia nella pratica educativa. Viceversa, l’univocità e esclusività del punto di vista produce una serie di distorsioni che non permettono di valutare nel giusto modo la multidimensionalità dei processi educativi; è quindi vantaggioso considerare queste quattro concezioni dell’apprendimento-insegnamento come parti di un continente più vasto costituito dal fondersi dei diversi modelli in un’unità coerente. Il primo modello pensa all’insegnamento-apprendimento come a un processo educativo fondato sull’imitazione dell’esperto da parte dell’allievo che mira all’acquisizione di know-how tramite l’esercizio. Questa modalità educativa è tipica delle società tradizionali in cui vige l’apprendistato e prevalgono attività tecnico-manuali di produzione; tuttavia, come si è visto, rappresenta la modalità principale di formazione didattica e professionale anche per attività mentali connesse ai più alti livelli di astrazione. Il presupposto è che la mente si struttura e si forma mediante l’attività in prima persona e l’imitazione di modelli dati che, introiettati, la determinano in molti aspetti importanti. Secondo questa concezione la mente è plastica, essendo il frutto dell’abitudine, dell’addestramento e dell’esercizio, ma nello stesso tempo il raggiungimento dell’eccellenza in un dato campo dipende dal talento personale. Il secondo modello pensa all’insegnamento-apprendimento nei termini di “lezione frontale”, ossia fa dell’esposizione didattica e dell’acquisizione di conoscenze proposizionali il fulcro dell’attività educativa. In pratica secondo questa prospettiva la conoscenza, anche quella procedurale e pratica, deriva da quella simbolico-linguistica che fornisce “nozioni” da memorizzare. La conoscenza è nella mente dell’insegnante e, attraverso la memorizzazione, si trasferisce in quella degli studenti i quali a quel punto possono cimentarsi nell’applicazione. La competenza, perciò, è sempre relativa ad abilità mentali di tipo logico-simbolico (verbale, spaziale, numerico). La mente è intesa come una tabula rasa, essenzialmente passiva nel processo apprenditivo, che aspetta di essere cumulativamente riempita di “fatti, principi e regole d’azione” memorizzati e rappresentati

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in strutture cognitive interne di tipo simbolico. L’apprendimento-insegnamento si configura come unidirezionale, dall’insegnante all’allievo, e il fallimento scolastico si spiega con la presenza di tare psico-biologiche (riscontrabili, ad esempio, da un basso livello di QI), con carenze cognitive e motivazionali di vario tipo o, anche, con le condizioni di vita disagiate e “deprivate”; in questo modo l’establishment dell’educazione ne esce pulito e senza responsabilità di sorta, se non quella di aver “ufficializzato” un inevitabile e annunciato fallimento scolastico (e in qualche modo sociale e professionale). Questo modello è quello che più di tutti si è diffuso nella pratica scolastica e costituisce probabilmente il presupposto di pedagogia popolare maggiormente condiviso dagli insegnanti. Ciò è dovuto alla sostanziale “autorità epistemica” che questo modello riserva al docente, ma soprattutto alla possibilità che offre nei termini di una precisa progettazione didattica. Infatti la possibilità di determinare a-priori il curricolo, i programmi scanditi in unità didattiche, gli obiettivi educativi e didattici, i livelli di entrata e di uscita relativamente a conoscenze, competenze e abilità, i criteri e gli strumenti di valutazione, dà l’impressione che l’educazione sia qualcosa di meno aleatorio e che la conoscenza sia qualcosa di “oggettivo” che si possiede o non si possiede. In questa prospettiva, però, e in ciò consiste il suo limite, il fine dell’educazione sembra essere più quello di avere «una testa ben piena piuttosto che una testa ben fatta» (Morin, 1999, 15). Nell’ottica del terzo modello, invece, l’educazione è un processo di co-costruzione della conoscenza cui il bambino partecipa attivamente attraverso “transazioni” e negoziazioni di significati. La modalità didattica principale è costituita dalla formazione di gruppi di lavoro e di discussione per la produzione di “opere culturali” collettive (oeuvres). La conoscenza non è intesa come qualcosa che si ha una volta per tutte, né come qualcosa di “oggettivo” che sta solo nella mente, ma come il risultato di una transazione razionale e dialogica continua tra insegnante e allievi e tra gli stessi allievi sulla base di prove, “argomentazioni, dimostrazioni e ricostruzioni”. In questo senso l’insegnante è una guida ma non il depositario della conoscenza, perché la conoscenza, anche la più astratta, ha un carattere pragmatico e strumentale, serve a certi scopi e risolve alcuni problemi, è una costruzione soggetta a revisioni ed è un prodotto collettivo che non ha una collocazione precisa; essa è nella mente individuale, ma anche diffusa socialmente e propria di una cultura, è negli oggetti, negli strumenti e, in genere, in ogni “prodotto culturale” (opere d’arte, romanzi, teorie scientifiche, tecnologie). La mente dello studente non è una tabula rasa, egli è in possesso di conoscenze, capacità e abilità proprie fin dall’età prescolare; è capace di interagire con gli altri sulla base di attribuzioni di intenzionalità e di teorie implicite della mente; ha opinioni proprie su cosa sia la conoscenza,

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su come si trasmetta e a cosa serva; si è costruito con il tempo, attraverso l’interazione sociale e l’inculturazione, delle “teorie” coerenti sul mondo fisico e su quello sociale che lo condizionano nel modo di pensare e di agire alla stregua di “paradigmi” e quadri di riferimento. Ciò che si insegna e si apprende a scuola, perciò, non può prescindere da questo bagaglio di conoscenze ma deve includerle, renderle esplicite e comunicabili agli altri. Da ciò l’impegno per far emergere specifiche abilità riflessive e critiche, la necessità di un tipo di pensiero metacognitivo in grado di rendere possibile l’emergere di una sempre più affinata “abilità sociale”. In questo modo si delinea una “pedagogia della reciprocità” volta a trovare un quadro di riferimento comune su basi razionali che ha i caratteri di un’impresa complessa, collaborativa e trasformativa su diversi livelli (cognitivo, individuale, sociale, culturale). L’educazione, perciò, si presenta come il processo principale attraverso cui sradicare “false” credenze e operare una ristrutturazione cognitiva dell’allievo; tale operazione, però, diventa possibile solo se si accettano i principi del costruttivismo (Goodman, 1978) per il quale non ci sono criteri di giudizio, paradigmi e quadri di riferimento assoluti sulla cui base si può giudicare la verità o falsità di una teoria in modo apodittico. Tuttavia ciò non significa che la conoscenza e l’educazione si fondino sulla retorica, sull’indottrinamento e sul consenso. Fermo restando, infatti, che la verità e falsità di una “teoria” hanno senso solo all’interno di un preciso paradigma e quadro di riferimento, ciò non significa che tutte le conoscenze, teorie, valori, siano uguali e abbiano identico valore euristico, scientifico o etico. Il quarto ed ultimo modello della mente e dell’insegnamento-apprendimento analizzato da Bruner interpreta i bambini, e in generale gli studenti, come soggetti intelligenti che progressivamente, attraverso l’educazione, divengono capaci di gestire la conoscenza “obiettiva” e di distinguerla da quella “soggettiva”. Per certi versi questo modello sembra costituirsi sulla base di alcuni elementi tratti dai precedenti (soprattutto il secondo e il terzo), ma ne evita gli esiti negativi cui quelli conducono. Infatti il secondo modello, facendo della conoscenza qualcosa di “proposizionale” e di “oggettivo”, non riesce a valutare, nella sua giusta rilevanza, la componente intersoggettiva, dialogica e transazionale che caratterizza ogni sapere, né riesce a valutarne correttamente la contingenza storicoculturale, sociale, paradigmatica. Viceversa il terzo modello, dando un valore eccessivo a questi fattori transazionali e “relativistici”, rischia di ridurre la “conoscenza fondata” all’opinione soggettiva o al consensum gentium all’interno di un determinato contesto (culturale, sociale, professionale, disciplinare). Allo stesso modo il primo modello, fondandosi sull’imitazione e imitando ciò che è già dato, sembra dare una grande importanza alla conoscenza che discende dalla “tradizione” (in termini

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di know-how); viceversa il secondo e terzo modello mettono in secondo piano questo tipo di sapere. Il quarto modello risolve i possibili eccessi dei precedenti perché attribuisce all’allievo la capacità di riconoscere la differenza tra “conoscenza obiettiva” e “conoscenza soggettiva” e tra “opinione” e “scienza”. In sostanza secondo Bruner, che a tale proposito riprende la terminologia di Popper (Popper, 1976), i bambini e i discenti in genere, avendo una mente ed essendo agenti che partecipano attivamente alla propria cultura, sono in grado di comprendere la differenza tra “Mondo due” (credenze, impressioni e opinioni personali) e “Mondo tre” (della conoscenza giustificata dalle migliori prove al momento disponibili). Infatti, dal punto di vista cognitivo e come dimostrano alcune ricerche sperimentali, i bambini tendono a riconoscere una certa affinità tra “avere una credenza su una credenza” e il processo mediante il quale, successivamente a prove e verifiche, si attribuisce un valore di “verità” e di “obiettività” a una particolare credenza/conoscenza. Ciò significa che la teoria della mente e la folk psychology hanno un ruolo fondamentale nel processo di formazione. Allo stesso tempo si rileva la centralità di quel complesso di conoscenze (teorie, concetti, simboli, tecnologie, opere d’arte, letteratura) che vanno a definire il “sapere fondato” e “condiviso” che la cultura, la tradizione e la scienza mettono a disposizione delle nuove generazioni come “patrimonio acquisito” della collettività. Tale patrimonio perde il carattere di sacralità e di immutabilità tipico delle società tradizionali, ma rimane la fonte principale sulla cui base costruire le competenze cognitive degli allievi e, allo stesso tempo, la base più sicura su cui progettare l’avvenire e operare i cambiamenti successivi. Secondo Bruner questi quattro modelli possono essere divisi secondo due dimensioni a loro volta costituite da coppie di opposti. Si riconoscono quindi una dimensione “internalista-esternalista” e una dimensione “intersoggettiva-oggettiva”. Le teorie basate sull’esternalizzazione si occupano dei modi attraverso i quali, mediante l’utilizzo di vari strumenti educativi e didattici, gli adulti e gli educatori possono aiutare gli allievi nel loro apprendimento. Tale approccio, dominante e maggiormente diffuso sul piano della teoria pedagogica e della psicologia dell’educazione, cerca in sostanza di facilitare il compito dei discenti operando dall’esterno verso l’interno (la mente dell’allievo). L’internalismo, viceversa, sfruttando le ricerche sulla teoria della mente e la folk psychology, si concentra su ciò che i bambini sanno fare e possono fare, sulle loro specifiche abilità cognitive, pragmatiche e sociali. In questo modo l’apprendimento-insegnamento è interpretato come processo che si fonda sugli stati intenzionali e sulle motivazioni degli allievi; questi ultimi vettori vanno sempre tenuti presenti e bisogna agire su di essi se si vuole ottenere un successo educativo che coinvolga direttamente il soggetto-persona nella sua for-

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mazione. La seconda dimensione, “intersoggettiva-oggettiva”, si interroga e «descrive il grado di intersoggettività o di “comprensione comune” che si presuppone debba esservi fra lo studioso di pedagogia e i soggetti a cui si riferiscono le sue teorie» (Bruner, 1996, 76). Una teoria pedagogica oggettivista si occupa di educazione rivolgendosi agli esperti del settore e agli educatori, non a coloro che vengono educati; in altre parole tali teorie (esternaliste o internaliste) possono benissimo essere ignorate dagli allievi perché ciò che conta è che le conoscano i “professionisti” che gestiscono i processi educativi. Una posizione intersoggettiva, invece, si impegna a rendere partecipi gli allievi delle teorie e dei metodi educativi adottati, del perché di alcune scelte piuttosto che di altre e dei processi cognitivi e metacognitivi che ne sono alla base. Le posizioni internaliste, spesso ma non sempre, sono anche intersoggettive, mentre le posizioni intersoggettive sono sempre anche internaliste. È chiaro che tutte le prospettive pedagogiche che si richiamano alla teoria della mente e alla folk psychology hanno, di solito, un carattere fortemente intersoggettivo, ma ciò vale anche per quegli approcci educativi che si fondano sulla psicologia culturale di Vygotskij e di Bruner. In ambito strettamente pedagogico possono essere considerate esempi di “pedagogie intersoggettive” nel senso appena specificato: la pedagogia critica, la pedagogia degli oppressi di P. Freire, il problematicismo, la metateoria ermeneutica di F. Cambi e la clinica della formazione di R. Massa. Tali “pedagogie”, infatti, mirando a far sorgere e a potenziare le capacità critico-riflessive e meta-cognitive, richiedono la collaborazione degli allievi in ogni fase del processo educativo (dalla progettazione curricolare alla valutazione) e hanno come fine il raggiungimento di una progressiva emancipazione, coscientizzazione e autonomia. Il principio guida di questi vari indirizzi pedagogici è che gli allievi per “essere educati” devono essere messi nelle condizioni di gestire al meglio i propri processi cognitivi, imparare a riflettere sulle credenze proprie e su quelle altrui, sui processi apprenditivi e avere una certa idea di cosa sia la “conoscenza”, che uso farne e con quale fine. In altre parole al centro di questi modelli di pedagogia contemporanea troviamo precisi richiami a modi diversi di intendere la teoria della mente. Tale conclusione, però, può essere estesa e generalizzata in modo da includervi anche i paradigmi della pedagogia moderna (metafisico-retorico, socio-politico, antropologico-filosofico, scientifico, epistemologico-metateorico; Cambi, 1986). In quest’ottica è abbastanza facile dimostrare che i vari paradigmi pedagogici sottendono l’una o l’altra teoria della mente e dell’insegnamento-apprendimento descritte da Bruner, o varie e possibili combinazioni di esse. Il paradigma (tradizionale) “metafisico-retorico”, ad esempio, se viene interpretato sulla base dell’idea di “mente” che ne è a fondamento, sembra poter essere ricondotto all’interno dei primi due

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modelli descritti da Bruner. Il paradigma socio-politico sembra, invece, sottintendere soprattutto il terzo e il quarto. Il paradigma “antropologico-filosofico” il quarto ma, in ossequio al richiamo alla formazione integrale e onnilaterale attraverso la cultura, può essere ricondotto, secondo i casi, all’interno di tutti e quattro. Il discorso si fa ancora più complesso se si considera il paradigma scientifico e tutti i modelli della mente che possono essere “sussunti” all’interno delle ricerche scientifiche attuali in ambiti molto diversi (psicologia, psicobiologia, neurologia, scienze cognitive, psicoanalisi, IA, robotica, reti neurali, antropologia, sociologia). Il paradigma “epistemologico-metateorico”, infine, in ossequio al suo carattere complesso e multi paradigmatico, sembra prediligere un approccio integrato tra i vari modelli della mente, anche se in modo particolare è possibile rilevarne la dipendenza dal terzo e dal quarto. Credo si possa anche ammettere che, rispetto alle due dimensioni sopra descritte (internalizzazione-esternalizzazione e intersoggettiva-oggettiva), i paradigmi pedagogici, e la maggior parte dei modelli che su di essi si fondano, sono sostanzialmente “esternalisti” e “oggettivisti”. Tuttavia fa eccezione il paradigma epistemologico-metateorico che presenta un atteggiamento critico e di tipo “meta” che prefigura un atteggiamento più “intersoggettivo” e “internalista”. Modelli di pedagogia appartenenti al paradigma socio-politico, come quello marxista, sono ugualmente connotati in senso intersoggettivo ma non in quello “internalista”, mentre modelli appartenenti al paradigma scientifico, come quello psico-pedagogico di Piaget, sono “internalisti” ma “oggettivisti”. Chiaramente quello delineato è un quadro piuttosto schematico che non dà ragione della complessità del discorso pedagogico e dei vari modelli di pedagogia che si richiamano ora all’uno ora all’altro paradigma pedagogico o a più paradigmi contemporaneamente. Ricostruire una mappa completa dei paradigmi e dei modelli pedagogici a partire dalla concezione della mente che ne è alla base è un’operazione sicuramente possibile, ma assai articolata e complessa, spesso dubbia nelle sue conclusioni. Tuttavia tale legame esiste, anche se può essere rilevato, descritto e ricostruito in vari modi. Il legame tra teorie della mente, paradigmi e modelli pedagogici, infatti, è di tipo “debole”, ossia suscettibile di molteplici interpretazioni differenti. A complicare ulteriormente la situazione concorre anche la constatazione che i quattro modelli di Bruner non sono gli unici. Infatti il quadro che egli ci presenta è solo uno schema orientativo che non esaurisce tutti i modi possibili di intendere la mente e l’educazione. Situazione analoga la si trova in pedagogia, in cui non è stato ancora portato a termine uno studio specifico sui paradigmi, anzi questi ultimi, essendo costrutti storico-teorici a-posteriori, sono sempre suscettibili di revisioni, soprattutto in considerazione della maggiore difficoltà che la

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pedagogia trova nell’identificare un paradigma rispetto alle scienze nomo tetiche (Cambi, 1986). Presentazione dell’Autore: Cristian Celaia, laureato in Filosofia nel 1998 presso La Sapienza Università di Roma. Docente di storia e filosofia, psicologia, pedagogia e scienze sociali nei Licei dal 2005. Ha conseguito il Dottorato in Pedagogia e Servizio Sociale, sezione Pedagogia nel 2011 (titolo della tesi “Paradigmi, modelli, teorie della mente. Questioni di pedagogia tra formazione e traduzione”)

Note 1

H. Wimmer e J. Perner negli anni Ottanta hanno introdotto questo tipo di “test” per saggiare la capacità di un soggetto di attribuire ad altri credenze che, per proprio conto, ritiene false. Gli esperimenti degli “smarties” e di “Anna e Sally” sono le varianti più note. Nel primo esperimento i bambini, aprendo una scatola di confetti smarties, rimangono sorpresi di trovarci dentro delle matite. Uno sperimentatore chiede loro che cosa si aspetterà di trovare nella scatola una persona che entri nella stanza. Il test è superato se il bambino, immedesimandosi nello stato cognitivo dell’altro, risponde “smarties”. Nel secondo Anna “assiste” allo spostamento di posizione di una pallina mentre Sally no, si chiede al bambino dove, secondo lui, Anna e Sally (due bambole) si aspettano di trovare la pallina. Questo test richiede un’abilità meta-cognitiva superiore rispetto al precedente (si potrebbe chiedere cosa Sally pensa che Anna pensi). 2 L’acquisizione di un lessico mentalistico inizia verso i due anni, si sviluppa e affina qualitativamente e quantitativamente dopo i 4 anni e continua a incrementarsi in età scolare (Levorato, 2002, 227-231). 3 La teoria attribuisce agli esseri umani diversi tipi di intelligenza in combinazione complessa tra loro. Secondo la versione attuale della teoria le intelligenze sarebbero nove: 1. Logico-matematica. 2. Linguistica. 3. Spaziale. 4. Musicale. 5. Cinestetica. 6. Interpersonale. 7. Intrapersonale. 8. Naturalistica. 9. Esistenziale. Cfr. in Gardner, 1983; 1991; 1999; 2004. 4 I neuroni specchio costituiscono una condizione necessaria ma non sufficiente per l’apprendimento imitativo, essendo necessario anche un sistema di controllo che abbia la doppia funzione di inibire o facilitare l’imitazione. Senza tale sistema di controllo l’osservatore, non avendo la capacità di inibire l’attivazione dei neuroni specchio, sarebbe indotto a ripetere l’azione eseguita dall’agente (ecoprassia). Ciò dimostra quanto le azioni altrui siano “condizionanti” se non filtrate cognitivamente e costituisce un monito sul piano educativo affinché i bambini piccoli, in cui tale abilità è ancora scarsamente sviluppata, non vengano esposti ad eventi e comportamenti violenti e/o a-sociali. In ogni caso in età prescolare, e per certi tipi di attività anche in età adulta, l’apprendimento per imitazione costituisce la modalità principale di apprendimento e quella educativamente più efficace (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006, 140-147). 5 Gardner, ad esempio, fa notare come sussista qualche differenza tra lo sviluppo delle intelligenze di uomini e donne, non nel senso di una superiorità

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Ricerca degli uni sulle altre, quanto di una maggiore presenza di alcuni tipi di intelligenze nei soggetti femminili e di altre in quelli maschili. Egli, tuttavia, rimane scettico nei confronti di una teoria delle intelligenze legata al genere sessuale (Gardner, 1983). 6 1. Sistemico, secondo cui il tutto è più della somma delle parti. 2. Ologrammatico, secondo cui il tutto è inscritto nella parte. 3. Retroazione (feedback), che rompe la logica della causalità lineare. 4. Anello ricorsivo, gli uomini producono la società mediante le loro interazioni, ma la società in quanto globalità emergente produce l’umanità di questi individui portando loro il linguaggio e la cultura. 5. Autonomia/dipendenza, gli umani sviluppano la propria autonomia dipendendo dalla cultura. 6. Dialogico, che “congiunge” i principi che a prima vista paiono elidersi a vicenda. 7. Reintegrazione del soggetto conoscente in ogni processo di conoscenza, per cui ogni conoscenza è una rappresentazione di una mente in un dato tempo e cultura (Morin, 1999, 96-101). 7 Il “Mondo uno” è quello delle “cose”, degli oggetti fisici e degli eventi naturali. In questa prospettiva realista di Popper il “Mondo tre” è conoscenza “oggettiva” perché sottintende un concetto di verità come corrispondenza alle cose; per Bruner, invece, il “Mondo tre”, in ossequio alla visione costruttivista radicale di N. Goodman, ha una connotazione pragmatica relativa a certi parametri di riferimento. 8 Ad esempio le teorie educative di impronta psicoanalitica, pur cercando di interpretare “come e cosa pensano” i bambini e gli allievi, non sono fatte per essere da loro “partecipate” e conosciute.

Bibliografia e sitografia Baron-Coehn, S. (1995), tr. it., L’autismo e la lettura della mente, Roma, Astrolabio, 1997. Bruner, J. (1986), tr. it., La mente a più dimensioni, Roma-Bari, Laterza, 2005. — (1990), tr. it., La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Torino, Bollati Boringhieri, 1997. — (1996), tr. it., La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Milano, Feltrinelli, 2007. Camaioni, L. (1995), La teoria della Mente. Origini, sviluppo e patologia, Roma-Bari, Laterza, 2003. — (2001), «Il contributo della teoria della mente alla comprensione dello sviluppo umano», in Giornale Italiano di Psicologia, a. XXVIII n. 3, Sett. 2001, 455-475. Cambi, F. (1986), Il congegno del discorso pedagogico. Metateoria ermeneutica e modernità, Bologna, CLUEB. — (2006), Metateoria pedagogica. Struttura, funzione, modelli, Bologna, CLUEB. Contini, M., Fabbri, M., Manuzzi, P. (2006), Non di solo cervello. Educare alla connessione mente-cervello-corpo-significati-contesti, Milano, Raffaello Cortina.

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RECENSIONI

Aa.Vv., Volti e cuori della Divina Provvidenza - Don Orione e alcuni benefattori tra Milano e Genova, Brescia, Gruppo Studi Orionini, 2010. Questo volume inizia con una lettera scritta da don Orione nel dicembre del 1934 ai suoi cari Benefattori e Amici ai quali il Santo si rivolge con queste parole: «Vengo a darVi le Buone Feste: gloria a Dio nell’alto de’ cieli, e in terra pace agli uomini di buona volontà: grazia, dunque, e pace a noi tutti! Buon Natale! Buona Fine e buon Capo d’Anno!». «… Vi mando tutti i fiori del mio cuore…» che «sono fiori di preghiera e di gratitudine che non appassiranno mai…». «Io Vi voglio molto bene; e il mio grande amore per Voi ha la sua sorgente viva dalla Fede e dal santo amore di Dio e del prossimo, particolarmente del prossimo più bisognoso e abbandonato, al quale Voi m’avete dato modo di fare del bene. Il mio amore è semplice, ma ardentissimo; è puro e fin luminoso, poiché vuol essere e sento che è, per divina grazia, carità del Signore». Nelle Note introduttive Gabriele Archetti ricorda una conferenza tenuta da don Orione all’Università Cattolica intitolata La c’è la Provvidenza, in cui mise in rilievo “l’amore infinito e provvido di Dio per tutte le creature” affermando che «tutto riceviamo da Dio, tutti abbiamo ricevuto da Dio e tutti dobbiamo dare a chi ha meno di noi, a chi non ha niente». Questa “conferenza fu un inno alla Divina Provvidenza e il canto della carità”. Infatti secondo don Orione esiste “un disegno positivo” che guida verso il Bene. A questo proposito il Santo nel “Diario della casa” scrisse «le opere che erroneamente si chiamano di Don Orione… non sono mie: sono opera della Divina Provvidenza. Di mio non ci sono che gli errori. Le ispirazioni, gli aiuti, quel che è bello e buono è opera di Dio». I contributi presentati nel volume mostrano i vari volti della Provvidenza che ricordano “alcuni ‘grandi’ benefattori di don Orione e delle sue opere” e portano «alla luce gli strumenti con cui la Divina Provvidenza ha fatto sentire la sua mano», consentendo di conoscere la storia attraverso «la prospettiva inedita della carità sociale, del volontariato attivo e dei movimenti promossi dal cattolicesimo italiano».

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Tra i benefattori di don Orione Paolo Clerici ricorda la famiglia milanese dei Bassetti, attiva sostenitrice del Piccolo Cottolengo, le vicende economiche e familiari dei protagonisti, la loro volontà di costruire “l’umile casa di carità” effettivamente inaugurata nel 1903 dal Cardinal Schuster e destinata ad essere “come il chicco evangelico di senapa: piccolo ma forte”. Secondo lo spirito del fondatore «La porta del Piccolo Cottolengo è sempre aperta; a chi entra non domanda se abbia un nome, una religione, ma soltanto se abbia un dolore, perché la nostra carità non serra le porte». Nell’Appendice di questo contributo lo scultore ebreo Arrigo Minerbi che, quando durante la seconda guerra mondiale nel “suo lungo esilio romano” fu vittima delle persecuzioni antiariane, trovò rifugio presso l’“Opera don Orione”, presenta con commozione il cammino percorso per conoscere don Orione per poterlo portare “entro di sé” e quindi per poter realizzare la sua statua. A questa testimonianza fanno seguito la presentazione scritta da Franco Gualdoni del senatore Stefano Cavazzoni, amico e benefattore del Santo, e il testo di un’intervista fatta a Giovanna Cavazzoni. L’ampio e documentatissimo saggio di Michele Busi intitolato Il senatore Antonio Boggiano Pico presenta alcuni amici di don Orione impegnati in politica e, pur indirettamente, la storia dell’azione socio-politica dei cattolici e le loro iniziative, rivolgendo una specifica attenzione alle opere oroniane realizzate a Genova e all’azione svolta da Angela Solari Queirolo, per sostenere e far crescere il Piccolo Cottolengo genovese (cfr. il contributo di G. Biemmi). Pertanto il volume offre l’opportunità di conoscere da una prospettiva particolare la storia della prima metà del secolo scorso del nostro Paese e il contributo offerto da don Orione con la sua testimonianza di fede e di amore per i poveri… per far crescere la cultura dell’umiltà, della carità e del dono…. Elena Valli

M. Venza, C’era una volta il cielo…, Messina, Bertone Editore, 2010. Il volume C’era una volta il cielo di Matteo Venza offre una proposta educativa di rara sensibilità. Lo spunto per la stesura del testo viene all’Autore dalla figlia Isabella che una sera “alla fine di un ennesimo racconto” propone al padre di mettere per iscritto i racconti da lui ideati. Il padre accetta il suggerimen-

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to e trasforma il nuovo impegno «in un’occasione per riunire la famiglia intorno ad un obiettivo comune». Nascono così 13 storie, i cui protagonisti sono ora nuvole ansiose di fare nuove esperienze, ora angioletti e diavoletti, ora animali generosi e sensibili, in grado di condurre il lettore nel Regno di Altrove. Nei racconti, che spesso fanno appello ad un’antica saggezza e che sono ambientati in spazi e in tempi “reali” e “immaginari”, sono presenti luci ed ombre, ma… trionfa sempre il bene e il male viene sempre sconfitto. Così, in L’arcobaleno, l’angioletto Baleno giunge sulla terra servendosi di un ponte colorato per recuperare una palla caduta dal cielo nel corso di una partita a calcio, tuttavia, quando si accorge che il bambino a lui affidato è solo, abbandona la partita. Una strana coppia è un vivacissimo racconto che mette in evidenza la limitatezza di ogni creatura e la possibilità di superare i propri limiti. Infatti l’angelo ha bisogno degli occhiali e il diavoletto non ha le corna… Con Venza è possibile guardare la fiaba e alla fiaba, attraverso la lente di ingrandimento della consapevolezza, una lente che, pur aprendosi alle “sfumature” del fantastico, fa leva sull’autoeducazione e su una sana “progettualità” dell’essere umano. Significativo a questo proposito è il racconto La verità: un atto d’amore, in cui un concorso letterario indetto da San Pietro per comporre la “preghiera perfetta”, viene vinto da un bambino… Venza è un Autore che non fornisce risposte, ma suscita domande mirando alla formazione della persona. Nei suoi racconti si intrecciano fantasia e realtà, il passato e il presente, i prodotti della tecnologia e i sogni dei bambini… Ad esempio in “La stella verde”, un bambino scopre che questa strana stella è in realtà una finestra aperta dagli angeli per “una testimonianza d’amore” e non soltanto un fenomeno astronomico. In Le vie del Signore sono infinite una partita a calcio si conclude a favore degli angioletti proprio grazie all’assennatezza di S. Pietro. La politica è presentata nel suo aspetto più negativo al punto che in L’aureola è l’anima di un politico ad essere ritenuta «la meno utile per il benessere infernale». Alcuni racconti affrontano temi cari ad Esopo, come le penne del pavone, che adornano le ali dell’angelo Liffo, il quale scopre che per essere accettati non servono un paio di ali nuove, ma giova mettere i propri doni a profitto del prossimo. Significativo a questo proposito è il racconto Il bue e l’asinello che richiamandosi alla nascita di Gesù, propone un messaggio di umiltà e di generosità e una serena testimonianza di fede, di amore e di speranza. In effetti il volume C’era una volta il cielo racconta la storia di ognuno di noi, gettando un ponte tra l’infanzia e il cielo.

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Per il contenuto dei racconti, per la vivacità e la freschezza della narrazione e delle illustrazioni per i messaggi che offre, il volume costituisce un dono prezioso che l’Autore ha fatto ai bambini e una testimonianza della sua passione educativa e della sua competenza pedagogica. Elena Valli

A. Bobbio, Pedagogia dell’infanzia e cultura dell’educazione, Roma, Carocci, 2011. Il volume di Andrea Bobbio, Pedagogia dell’infanzia e cultura dell’educazione affronta in una prospettiva epistemologica e fondativa i principali snodi teorici che innervano la pedagogia dell’infanzia oggi, tanto nelle sue componenti inter-trans-disciplinari – quindi di connessione con le altre scienze dell’educazione – quanto nelle implicazioni di ordine etico e deontologico, connesse all’esercizio della funzione educativa. Lo studio, dal respiro prospettico e multifocale, mira a una sistematizzazione di alcune categorie cardine del discorso pedagogico (la persona, il gioco, lo sviluppo, la crescita, la cura, l’intenzionalità…) ricollocandole in un contesto culturale, il nostro, contrassegnato dall’intersezione, dall’ibridazione e dal costante superamento dei tradizionali paradigmi di riferimento cui ha attinto la pedagogia del Novecento: attivismo, costruttivismo, etologia, psicoanalisi. Lo studio, a partire dalle ontologie pedagogiche che contraddistinguono la formazione umana, intende porre in continuità i percorsi educativi della persona in una linea di ricerca protesa a restituire senso a modelli, spesso, empiricamente molto sofisticati ma di scarsa penetrazione educativa. In particolare, il primo e il secondo capitolo del volume analizzano le caratterizzazioni epistemiche della pedagogia dell’infanzia, non disgiungendole da quei bisogni sociali – oggi sempre più avvertiti – che l’hanno originata. Il terzo capitolo, invece, scandaglia l’aspetto metodologico, incrociandolo con il tema delle professioni educative. Categorie centrali della formazione umana – la cura, l’intenzionalità, il gioco, l’autoriflessività sono declinate nella loro componente professionalizzante, quindi di piena validazione dei saperi che qualificano l’azione educativa dell’educatore e dell’insegnante rendendola effettivamente pedagogica, quindi scientificamente validata e congruente con le disposizioni e gli interessi del bambino. L’ultimo capitolo, infine, incrocia il tema dell’innovazione istituzionale con quelli della supervisione, dell’autoformazione

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e della valutazione evidenziando come asili nido e scuole dell’infanzia, intrinsecamente, siano istituzioni a rischio, quindi sempre esposte alle derive della dequalificazione professionale, del deragliamento assistenziale e dell’assenza di senso e d’intenzionalità. Proprio per questo, quindi, assumono particolare valore i temi dell’innovazione istituzionale, della conduzione del gruppo docenti o del collettivo, delle pratiche autoriflessive poiché una scuola e un nido che ricreano costantemente la loro identità sono la migliore garanzia per i bambini di crescere in un ambiente sereno a loro dimensione. Il volume è indirizzato tanto a quanti richiedano un testo propedeutico e introduttivo alla pedagogia dell’infanzia, siano essi aspiranti educatori dei nidi, educatori professionali o insegnanti di scuola dell’infanzia o primaria, quanto a coloro che ricerchino una trattazione specifica degli aspetti teorici ed epistemologici connessi all’educazione del bambino nella prima e nella seconda infanzia. Nota redazionale

R. Deluigi, Animare per educare. Come crescere nella partecipazione sociale, Torino, SEI, 2010. Nel panorama della letteratura pedagogica sull’animazione dell’ultimo decennio, il focus è stato posto sulla riscoperta dell’animazione e sul suo ruolo, nel tentativo di recuperare, dopo la fase di contaminazione degli anni Ottanta/Novanta in cui ha prevalso la cultura dell’effimero e del narcisismo, il significato di “rottura”, di “divergenza”, di “creatività” e di “espressività” dell’animazione e il suo potenziale educativo in una visione di promozione dell’agio. In questo contesto si inserisce il testo della Deluigi che, tornando alle origini della storia dell’animazione – intrecciate con l’attivismo, il teatro sociale e la cultura popolare –, pone le radici per una lettura dell’animazione come strumento di incentivazione alla partecipazione, alla cittadinanza attiva, alla costruzione di una società solidale alla ricerca di nuovi vincoli attraverso la scoperta e la costruzione di nuove risorse che, prendendo le mosse “dal basso” e in particolare dalla persona inserita in gruppo e nel suo contesto di vita, come contesto privilegiato dell’azione animativa socio-educativa, mirano a un cambiamento della società attraverso la valorizzazione della comunità partecipe e partecipata. Con una prospettiva politica e militante dell’animazione e dei suoi attori (anim-attori e soggetti in-formazione), Rosita Deluigi pone al centro della sua riflessione il processo di coscientizzazione e di libera-

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zione di istanza freiriana in una logica di affrancamento dai vincoli sociali, culturali, politici e anche psicologici che condizionano la possibilità della persona di essere-di-più. Il ritorno sulle tracce dell’inizio dell’animazione appare, quindi, una sorta di ritorno al futuro: la ricerca di autenticità della persona, la promozione della libera espressione di sé con gli altri per il mondo, la prospettiva di un impegno sociale liberante e promotore di autocoscienza e di interventi finalizzati alla costruzione di una comunità in senso culturale, storico, sociale e la presa in carico della necessità di favorire i processi di inclusione sociale uniti alla lotta alla disuguaglianza, sono tutti motivi che entrano a pieno titolo in una visione abbracciante un futuro nel quale il governo dell’incertezza, dell’insicurezza, della pluralità, delle istanze di democraticità chiede una svolta verso una comunità animata e animante orientata all’empowerment. È evidente, nell’approccio delineato dal testo, l’intento principe dell’animazione socio-educativa che è quello di promuovere e di liberare la persona nella sua globalità con il suo potenziale di risorse, valorizzandola all’interno di una relazione con il gruppo e per il gruppo verso la costruzione di una comunità che potremmo dire, in termini agazziani, educante e che certamente possiamo definire come comunità dialogica a vocazione democratica, partecipativa e socio-politica. Il testo della Deluigi sfugge, quindi, a un ripiegamento narcisistico dell’animazione verso la sola espressione dei sentimenti, dei vissuti, delle emozioni e dei drammi, per suggerire un senso/significato forte dell’animazione come strumento per costruire futuro e per generare speranza educativa in una dimensione in cui il percorso, pur essendo sempre vissuto in prima persona dal soggetto in-formazione, viene, sin dall’inizio, sentito e condiviso, imparando, quindi, a sentirsi da subito in comunione con l’altro e con gli altri, nella ricerca di una convivialità che sostenga la realizzazione di sé e l’umanizzazione di tutti (Mounier, Freire, Illich…) e a sentirsi parte di un’unica Terra-Patria (Morin). Si va nella direzione di costruire non solo soggetti competenti, ma «comunità competenti nelle quali è possibile orientare azioni che promuovono risorse, generando capitale sociale» (p. 90), comunità capaci di unire, di collegare e di mettere in relazione in vista della promozione di una solidarietà diffusa. È insita nella proposta contenuta nel testo la dimensione della cura non solo dei soggetti e della comunità, ma, ci pare, del futuro e della speranza: si tratta di generare speranza coltivando l’utopia concreta della solidarietà, della democraticità, della crescita partecipativa e dell’umanizzazione della società e della vita stessa. L’utopia induce non a coltivare un’illusione, ma un sogno di cambiamento, la fiducia in un futuro in grado di aprire alla speranza. Freire parla della speranza come necessità ontologica dell’essere umano: l’essere umano, infatti, è un essere che sa sperare. E la speranza «come necessità ontologica ha bisogno di ancorarsi

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alla pratica. In quanto necessità ontologica, la speranza ha bisogno della pratica per divenire concretezza storica» (in Pedagogia della speranza, Torino, EGA, 2008, p. 29). Scrive, infatti, la Deluigi: «Privati dell’utopia rimaniamo senza speranza e ottimismo e tutte le nostre azioni sembrano inesorabilmente condurci in un vortice precostituito dalla società; la nostra libertà di scelta viene notevolmente limitata dal non esistere di una “dimensione dell’oltre” cui tendere» e il fatalismo (Freire) viene a dominare il nostro destino già segnato. In una dimensione di valorizzazione dell’utopia, della speranza e del sogno, l’animazione stringe un vincolo forte tra teoria e prassi nella densità dell’azione collettiva partecipata, pur lasciando spazi di avventura personale al singolo soggetto. Si salda qui l’idea dell’utopia e della speranza con la logica dell’avventura come modalità di costruire e di decostruire se stessi e la realtà che si attraversa in un costante circolo di ricerca e di cambiamento, da cui l’identità personale e quella collettiva escono consolidate dalla certezza delle conquiste nel percorso di ricerca e di cambiamento e nei luoghi di attraversamento. L’Autrice, richiamandosi a J.C. Gillet, insiste sulla indecidibilità dell’animazione ossia sulla sua impossibilità di una determinazione a priori di tutto il percorso e dei traguardi raggiungibili e, soprattutto, del senso e del significato che i soggetti daranno alla propria esperienza, ai propri vissuti e ai propri apprendimenti. Qui viene prospettata la totale apertura dell’animazione alla costruzione in itinere di percorsi e di significati e, nuovamente, viene richiamata la sua dimensione di avventura come disponibilità all’apprezzamento della pluralità delle possibilità e degli inediti dell’esistenza. Il “viaggio”, pur svolgendosi sempre in una dimensione solitaria, resta un viaggio di gruppo, di una comunità che coltiva partecipazione sociale e che costruisce nel territorio legami di interazione e di reciproca valorizzazione con le dinamiche di un welfare mix che dovrebbe orientarsi sempre più a un welfare society o comunitario al cui centro stanno logiche che intessono risorse, azioni e interazioni positive per la realizzazione di un benessere comune e per la promozione di una cittadinanza attiva. Lo sfondo dell’azione animativa resta, quindi, il territorio sul e col quale dialogare per la costruzione di azioni condivise per obiettivi comuni verso una dimensione del Noi che dal gruppo passa attraverso la comunità e il territorio, generando spazi di promozione umana e di partecipazione attiva nei processi di democratizzazione e di convivialità. Ad una comunità competente animata ed animante, necessitano, quindi, operatori in grado di giustificare scientificamente il proprio agire. La descrizione del “volto” dell’animatore passa attraverso il riconoscimento delle sue competenze, le quali si costruiscono attorno alle finalità sopradescritte dell’animazione in senso partecipato. Sebbene molti ani-

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matori appartengano alla sfera dei volontari, l’Autrice ritiene sia necessario pensare ad una figura forte in termini di competenze, capace di gestire le dinamiche di gruppo ed animative attraverso una pedagogia improntata alla non-direttività, ma soprattutto all’“esserci-con”, al lasciarsi coinvolgere, allo “sporcarsi le mani” e, più ancora, al lasciarsi provocare, interrogare, mettere in crisi dall’azione destrutturante e strutturante dell’intervento di animazione. Si tratta di saper modulare una simmetria educativa che non vuole essere deresponsabilizzata, ma che mira piuttosto a una responsabilizzazione condivisa per la costruzione di percorsi co-progettati, risultato di una progettualità dialogante e costruttrice di senso, in netta antitesi con itinerari che vanno verso una progettualità a-prioristica e lineare. Ne esce una figura di animatore che, soprattutto, è pronto a essere modello di prassi, di progettualità, di dialogicità, di reciprocità, di partecipazione e di “compromissione” con la vita e con la problematicità dei soggetti, della comunità e del territorio alla ricerca di risposte che conducano a nuove domande. Lorena Milani

R. Sani, D. Simeone (a cura di), Don Lorenzo Milani e la Scuola della Parola. Analisi storica e prospettive pedagogiche, Macerata, Eum-Edizioni Università di Macerata, 2011. Il volume, a cura di Roberto Sani e Domenico Simeone, raccoglie gli atti del convegno internazionale che si è tenuto a Macerata (promosso dalla locale Facoltà di Scienze della Formazione) il 6 e 7 novembre 2007 sul tema Don Lorenzo Milani e la Scuola della Parola. Analisi storica e prospettive pedagogiche. Gli interventi che compongono il volume intendono offrire un contributo di riflessione interdisciplinare sulla fruttuosa esperienza pastorale ed educativa di don Lorenzo Milani. Per evitare di alimentare ulteriori controversie sulla figura del sacerdote fiorentino, intorno alla quale sia durante il suo ministero che posteriormente alla sua morte si sono registrate prese di posizione contrastanti, Roberto Sani e Domenico Simeone nella Introduzione al testo propongono di contestualizzare storicamente il pensiero e le opere del priore di Barbiana, così da comprendere fino in fondo la portata del suo messaggio educativo. In particolare, Sani analizza in maniera dettagliata il periodo storico nel quale si colloca l’opera di don Milani (ovvero l’Italia del secondo dopoguerra, l’Italia da ricostruire sotto il profilo non solo materiale ma anche umano, sociale, educativo) e il ruolo della Chiesa in

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quegli anni. A motivo di una personalità spiccata, fuori dagli schemi e sicuramente originalissima (che si ripercuoteva nel suo agire), don Milani appare una figura non inquadrabile in una delle tante correnti politiche ed ecclesiali del tempo. Sebbene agli inizi del suo ministero sacerdotale egli sia stato propenso ad appoggiare l’“ordine nuovo” proposto da Papa Pio XII, ben presto si rese conto, assieme ad altri uomini di Chiesa, della inadeguatezza della cultura e dei modelli cattolici del momento per affrontare le problematiche della società di massa dell’Italia postbellica. Domenico Simeone, nel suo contributo, ripercorre le tappe della vita di don Milani, a partire da quando, nel 1947, questi diventa cappellano nella parrocchia di San Donato (a Calenzano) e proprio l’impatto con un mondo contraddistinto, sia sotto il profilo umano che sotto il profilo religioso, da grandi miserie e difficoltà sarà all’origine di Esperienze Pastorali (1958) che don Milani inizierà a scrivere nel 1954. Fin da subito il sacerdote fiorentino decide di schierarsi dalla parte degli “ultimi”, dei poveri (intendendo con questo termine non solo i poveri in senso materiale, ma anche i poveri di cultura). L’idea di fondo che lo anima è che la mancanza di istruzione costituisce la causa primaria della impossibilità di un esercizio consapevole e autentico della cittadinanza. Di conseguenza, anche la fede viene spesso praticata solo per conformismo, rendendo vano qualsiasi sforzo di evangelizzazione e facendo apparire la società contemporanea, di fatto, scristianizzata. Urge quindi unire la promozione culturale alla fede, in modo da stimolare la capacità critica di ciascuno e incentivare così, in ciascuno, la capacità di prendere posizione di fronte ai fatti. Dunque, al posto di semplici attività di animazione, in Esperienze pastorali don Milani suggerisce di promuovere una esplicita istruzione civile, e quindi religiosa, avente il compito di ricostruire ex novo le coscienze individuali e in grado di accogliere consapevolmente il messaggio del Vangelo. Il testo analizza, inoltre, il “segreto pedagogico” di don Milani, che è da ricercare nello spirito della Scuola di Barbiana: una scuola aconfessionale che assurge a spazio di confronto e di ricerca della verità, una scuola che come obiettivo ha quello di “dare la parola ai poveri” (p. 192). E, perciò – come viene spesso richiamato nel volume – «una Scuola della Parola, che vede nel linguaggio lo strumento essenziale per l’emancipazione culturale e quindi civile» (p. 280) e che aiuta le persone marginali a sconfiggere la loro inadeguatezza. Simeone, come altri Autori, insiste dunque sulla premura che don Milani manifesta nei confronti degli “ultimi”, tanto da definire l’opera del sacerdote fiorentino come un “itinerario educativo al servizio degli ultimi” (p. 197); sottolinea, inoltre, che è lo stesso don Milani, in prima persona, che “si fa povero tra i poveri” abbracciando totalmente “le condizioni di vita del suo popolo” (p. 200). In questo contesto, la scuo-

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la si connota come indispensabile e «offre all’educatore la possibilità di condivisione della condizione del povero che mira ad instaurare processi di cambiamento e di emancipazione». Simeone rileva poi che, per don Milani, il fine di «ogni intervento educativo è far sì che l’altro cresca, si apra e diventi più grande del proprio maestro» (p. 202). Ma la scuola italiana di quegli anni, a suo avviso, non persegue affatto questo fine. Con Lettera a una professoressa don Milani e i suoi ragazzi, prendendo come pretesto la bocciatura di uno di loro agli esami sostenuti presso l’Istituto Magistrale di Firenze, accusano la scuola italiana di essere selettiva e ingiusta (pretende di “fare parti uguali tra diseguali”), anziché svolgere il suo compito primario che è quello di “promuovere un bene particolare che è l’amore al sapere” (p. 210) rinunciando ad essere, soprattutto, un bene per tutti, un diritto inalienabile della persona. La scuola – si legge ancora nel testo che stiamo recensendo – deve prestare attenzione alle differenze individuali ed educare i ragazzi “all’attenzione all’altro e alla responsabilità comune”. I contributi raccolti nel volume, oltre ad una approfondita rilettura dell’attività educativa del Priore di Barbiana, presentano una puntuale analisi del contesto storico nel quale essa si colloca consegnandoci l’immagine di «un ecclesiastico – per dirla con Sani – completamente assorbito dai suoi impegni religiosi e pastorali» (p. 21), di un “pastore d’anime” (p. 49), ma anche di un educatore che ha educato attraverso la “parola” e che ha contribuito non poco a dare la parola agli “ultimi” stimolandoli ad emanciparsi culturalmente e quindi civilmente. Il volume si conclude con una ricca bibliografia ragionata relativa agli scritti di e su don Milani, curata da Domenico Simeone. Erika Nocentini

Aa.Vv., Barbara Micarelli, attualità del carisma, Città di Castello, Grafiche VD, 2011. Gli scritti che compongono questo volume sono frutto del paziente ed abile lavoro di ricerca di studiosi che si sono lasciati progressivamente interessare ed appassionare dall’intuizione e dalla vocazione educativa di Madre Barbara Micarelli. Si tratta di contributi legati alle iniziative culturali realizzate tra il 19 aprile 2008 ed il 19 aprile 2010 (le quali sono state interrotte a causa della drammatica esperienza del sisma del 6 aprile 2009 e poi riprese) e che si pongono “a cavallo” del primo centenario della morte di Barbara Micarelli e dell’inizio del secondo. Tutti i testi degli autori sono scaturiti dal comune intento di rico-

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struire in maniera fedele ed esaustiva le strategie poste in essere dalla Madre con lo scopo precipuo di testimoniare l’amore di Cristo ed i valori della fede in uno specifico contesto al cui interno in pochi avevano osato addentrarsi. I contenuti degli interventi della Prima Parte, intitolata Centotrent’anni di attività educativa nella città di L’Aquila (1878-2008), sono preceduti dal saluto di Sr Maria Felicita Decio e si propongono di fare conoscere Barbara Micarelli (Gianfranco Giustizieri), i tempi in cui visse ed operò (Elpidio Valeri), i caratteri distintivi e comunque più significativi della sua carità educativa e del suo amore pedagogico (Sira Serenella Macchietti) e il suo “coraggio di educare” (Arrigo Novelli). Nella Seconda Parte (Primo Centenario del transito di Suor Maria Giuseppa di Gesù Bambino) vengono presentati il rapporto tra Barbara Micarelli e la Chiesa aquilana, la genesi della fondazione del Suo Istituto, la “potente ispirazione incisa nel suo cuore dallo Spirito Santo” (Sr Maria Felicita Decio), il suo ideale di diakonía (Padre Gianfranco Berbenni) ed alcune significative riflessioni sulla sua “volontà di bene” (cfr. gli interventi di W. Capezzali, A. Novelli), sulla sua pedagogia della carità… (E. Fainella) e le Conclusioni di A. Cesareo. Ad impreziosire il volume contribuisce anche l’Appendice, composta dalla cronaca del riconoscimento, da parte del Comune di L’Aquila, dell’impegno profuso da Barbara Micarelli per l’affermazione della figura femminile nella società e dall’Attribuzione, da parte dell’Istituto di Abruzzesistica e di Dialettologia, del premio Angelo Narducci. In Appendice è collocato inoltre il saggio Barbara Micarelli: tutta una vita per la carità e l’educazione di Maria Pia Cavalieri, il quale ha il merito di sottolineare il valore, il significato, la sensibilità educativa e l’efficacia del contributo offerto dalla Fondatrice aquilana all’educazione della donna. Complessivamente tutti i saggi hanno evidenziato il coraggio della scelta operata da Barbara, a proposito del quale giova ricordare che, come scrisse, una decina d’anni fa, Matilde Parente: «Il coraggio non è una qualità innata, una dotazione genetica riservata a pochi, un privilegio; è una conquista dinamica, paziente, una dimensione educabile della personalità, un potenziale da far emergere e valorizzare a livello umano, spirituale, morale. Avere coraggio è la forza stessa di vivere, di dare un senso alla propria vita». Per quanto riguarda l’impegno educativo il pensiero dei vari autori può essere rapidamente riassunto con le parole di Elda Fainella la quale sostiene che quella di Barbara «è una pedagogia che è stata calata nelle Costituzioni dell’ordine e si fonda sulla centralità del rapporto e della collaborazione tra religiose e laici, tema portante del Carisma, riproposto in occasione del Capitolo generale del 2006, con particolare riferimento alle istanze poste dalla forte richiesta sociale di educazione. È sul rapporto

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religiose-laici, sulla necessità di dare ampio spazio all’accoglienza dell’altro che si fonda il suo progetto educativo, ispirato alla “casa di Nazareth”, casa di pace, di preghiera, di semplicità, di fede, di carità, di unione con Dio, di vera povertà» (Assisi, 27 dicembre 2009). Infine per concludere si può affermare che Barbara Micarelli, è una «donna che ha saputo guardare lontano con gli occhi dell’umano e del divino», che «ha una parola da dire, oggi; può essere, ancora oggi, un punto di riferimento per la sua fedeltà a Dio e alla persona; per la sua lungimiranza e intraprendenza, per la sua laboriosità e fermezza, per la sua generosità nel prendersi cura dei bisognosi, per la sua volontà di amare e di donare in umiltà, di operare e di confidare nella collaborazione per il rinnovamento della famiglia e della società» (Sr Maria Felicita Decio, L’Aquila, 19 aprile 2008). Alessandro Cesareo

Alessandro Artini (a cura di), Formazione tra scuola e impresa. Formazione e sviluppo di un consorzio di scuole come agenzia formativa, Trento, Erickson Live, 2011. Formazione tra scuola e impresa. Formazione e sviluppo di un consorzio di scuole come agenzia formativa è un volume agile, scritto da vari autori e curato da Alessandro Artini, dirigente scolastico e sociologo dell’educazione extrascolastica dell’Università degli Studi di Siena (sede di Arezzo). Come indica il sottotitolo, esso si occupa soprattutto della nascita e sviluppo di un consorzio di scuole, Arezzo Formazione Abaco, che opera nel mercato della formazione extrascolastica. Il volume, tuttavia, contiene altresì dei saggi che hanno come oggetto il rapporto tra scuola e impresa, i cambiamenti che ha prodotto la riforma della scuola superiore e infine la riflessività come motore di mutamenti sociali. La vicenda di Abaco viene narrata da Artini nel primo capitolo. Essa racchiude alcuni originali aspetti, perché la formazione dei consorzi, nonostante sia espressamente prevista dal D.P.R. 275/99, rappresenta una modalità organizzativa raramente praticata. Quali sono le finalità di Abaco? Esso si occupa, in senso lato, di politiche formative, ma la sua caratteristica peculiare è quella di essere agenzia formativa. Sotto questo ultimo profilo esso persegue vari obiettivi. In primo luogo quello di dotare le scuole di una maggiore forza contrattuale rispetto alle agenzie concorrenti nel mercato della formazione extrascolastica, che spesso hanno mostrato una maggiore capacità di azione rispetto alle scuole stesse.

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In secondo luogo quello di consentire alle scuole una razionalizzazione delle loro attività. Il Consorzio, infatti, è capace di una maggiore efficienza organizzativa rispetto alle singole agenzie scolastiche preesistenti. In terzo luogo, il Consorzio incoraggia l’attività di sperimentazione didattica, operando affinché la formazione extrascolastica, con le sue specifiche modalità, contamini la tradizionale didattica scolastica consentendo a quest’ultima di innovarsi. Queste, in sintesi, sono le ragioni per cui diciotto scuole, nel gennaio 2009, hanno dismesso le rispettive agenzie per fondarne una sola, quella del Consorzio, che svolge soprattutto corsi professionalizzanti (per idraulici, parrucchieri, ecc.), corsi successivi al diploma (quelli IFTS, ad esempio), corsi di specializzazione, ecc. A questo punto è opportuno precisare che Abaco, pur promanando da scuole statali, è un soggetto privato, regolato dal Codice Civile. In altri termini, Abaco richiede anche una dimensione di razionalità esterna alle scuole che è quella tipica della gestione economica. La sfida, pertanto, diventa quella dei “servizi d’interesse generale”, che sono da considerare “pubblici” proprio perché sono d’interesse generale, a prescindere dalla natura dell’ente proprietario o erogatore del servizio. Nel secondo capitolo Claudio Gentili, responsabile Education di Confindustria, afferma l’importanza del rapporto tra mondo scolastico e sistema socio-economico. In questa luce il dialogo tra scuola e impresa si fa essenziale e riguarda in primo luogo l’istruzione tecnica. Essa è stata tradizionalmente una struttura fondamentale per lo sviluppo delle imprese del nostro Paese e oggi, con l’attuale riforma, sta riacquistando un ruolo centrale. L’alternanza scuola-lavoro, gli stage e i tirocini rappresentano, dunque, momenti formativi fondamentali per l’apprendimento. Nel terzo capitolo Fortunato Nardelli, dirigente scolastico, individua nella riforma Gelmini alcuni elementi pedagogici innovativi, ancorché non sempre esplicitati. Emerge, ad esempio, l’importanza di un’impostazione didattica basata sulla personalizzazione e sull’attività laboratoriale, intesa in senso metodologico. Ciò rappresenta una vera e propria rivoluzione culturale che costringe i docenti a mettere in discussione il proprio ruolo e la propria funzione, visto che la prassi didattica attualmente più diffusa consta dell’insegnamento trasmissivo fondato sull’epistemologia delle discipline. Nel quarto capitolo Matteo Martelli, dirigente scolastico, esamina innanzi tutto il mancato decollo dell’autonomia a dieci anni dal riconoscimento formale e osserva che il ritardo nel processo autonomistico influenza negativamente il processo di riforma del sistema scolastico. Egli afferma, in termini critici, che il riordino si è tradotto di fatto in una destrutturazione del sistema, caratterizzata soprattutto da tagli. In que-

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sto quadro anche la realizzazione dell’alternanza scuola-lavoro vive una condizione di stallo. Nell’ultimo capitolo, Artini cerca di evidenziare un elemento che, in ambito educativo non sempre gode della dovuta attenzione. Si tratta della riflessività che indica, in senso comune, la capacità di pensare, ma che, in prospettiva sociologica, rappresenta una delle caratteristiche decisive della vita sociale degli individui, in base alla quale essi organizzano i loro specifici percorsi esistenziali nella società. Intesa in questi termini, la capacità di riflettere ha a che fare con la questione della mobilità o della non mobilità sociale degli individui, che è molto rilevante in senso educativo, poiché la scuola rappresenta il principale motore di ascesa sociale. Il volume, in conclusione, presenta alcuni saggi interessanti e ricchi di suggestioni su vari aspetti dell’attività educativa. In questo contesto la vicenda di Abaco costituisce il filo conduttore che unisce le riflessioni contenute nei saggi. La narrazione di tale vicenda, infine, rappresenta senz’altro una sollecitazione a dibattere e approfondire il tema di una così interessante esperienza. Essa, infatti, riveste un valore paradigmatico, cui molte altre scuole potrebbero ispirarsi per l’implementazione di nuovi consorzi. Nota redazionale

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