Non fare la cosa giusta- Capitolo 1

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(l’esatto opposto)

Non ho mai tradito tua madre. Non che non ci abbia mai pensato, non sono mica un santo. È solo che alla fine ho sempre fatto prevalere il senso di responsabilità. L’etica della famiglia, se così la vogliamo chiamare. Rileggo la frase. Senso di responsabilità, etica della famiglia. Sono ridicolo, ho appena iniziato a scriverti e già me la sto raccontando. Ne prendo atto. Ricomincio da capo. Non ho mai tradito tua madre. Avrei voluto, solo che non l’ho mai fatto. Ho sempre avuto paura. Paura di essere scoperto, di non riuscire a farla franca. Non sono bravo a mentire, Erica, e tua madre è troppo furba per non accorgersene. È per questo che non l’ho mai tradita. L’assurdo trincerarsi dietro una facciata di ipocrita fedeltà coniugale non c’entra nulla. Sono un vigliacco dei sentimenti, uno che non fa le cose solo perché ne teme le conseguenze. Uno che resta colpevole, ma solo nell’anima. Più comodo così. Peccatore ma impunito. Un modo vile per non sporcarsi le mani.

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Ti capita mai di rientrare in casa e di sentirti soffocata da un eccesso di confidenza con le cose che ti ritrovi intorno? A me capita spesso. Ieri, per esempio. Sono tornato verso le cinque. Ho aperto la porta, non c’era nessuno. Non c’eri tu, e non c’era tua madre. Ho provato una strana sensazione, come di morte. Guardando gli oggetti, i mobili, sempre uguali, sempre gli stessi. Ho pensato che tutta la mia vita era lì dentro, e mi è sembrata improvvisamente troppo piccola. Una vita di centotrenta metri quadri calpestabili, immutabile, cristallizzata. C’è qualcosa di incombente in questa casa. Una volta ne ho anche parlato con tua madre, ma lei non ha capito. «Sarà la disposizione dei mobili che non ti piace», mi ha risposto. Ha ridotto il tutto a una specie di Feng Shui. Ma l’arredamento non c’entra niente. È l’idea delle cose che non cambiano e che non cambieranno mai che mi toglie il respiro. L’idea che se mi restano ancora quarant’anni di vita aprirò questa porta altre quattordicimila e seicento volte, e tutto diventerà sempre più familiare, più prevedibile, più noioso. Un giorno tu te andrai e rimarremo solo io e tua madre. E allora questi centotrenta metri calpestabili diventeranno un sepolcro silenzioso, l’anticamera al riposo eterno. A volte mi chiedo cosa pensi di me. L’immagine che ne hai, quello che racconti agli altri. Quando ti chiedono cosa faccio, e tu rispondi l’informatore medico scientifico. Uno di quelli che la gente odia, quando sei dal dottore e ti passano davanti. Un lavoro come un altro, per non farti mancare niente. Vestiti, cellulare, vacanze. Ti ho dato tutto quello che

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potevo darti. Oggetti e tranquillità economica. Il resto, si sa, è facoltativo. E di tua madre, Erica? Che cosa ne pensi di tua madre? Dell’avvocato, come la chiamiamo io e te quando la vogliamo prendere in giro. Di quel suo rigore, di quella sua morale. È tutta di un pezzo l’avvocato, una di quelle che non sbagliano mai. Io un po’ la invidio, in effetti. Quel suo non aver mai dubbi sulle cose, io che di dubbi invece ne ho sempre avuti tanti. Ineccepibile, in tutti i ruoli che è chiamata a interpretare. Madre fantastica, moglie fantastica. Un essere perfetto, l’avvocato. Nulla da ridire. Provo a parlarti del mio senso d’ansia. Non so perché lo faccio, di solito non è con i figli che si parla di queste cose. Solo che farlo con Fabiana non mi sembra davvero il caso. Troppo razionale nelle sue analisi, ho bisogno del tuo punto di vista. Entro nella tua stanza. Stai studiando qualcosa. C’è musica in sottofondo, e un sacco di oggetti di cui non capisco il significato. È il tuo mondo, inaccessibile, impenetrabile. Non lo capisco e non ho gli strumenti per decodificarlo. Ma lo accetto e faccio finta di conoscerlo. È più facile così. Molto meno faticoso. Si accetta l’equazione senza risolverne le incognite. Niente ics e niente ipsilon. Solo numeri certi e valori riconoscibili. Discutibile ma pratico. Impossibile sbagliare. Mi siedo, sposto cose. Ti tocco i capelli chiedendomi se sia un gesto opportuno. Se ne ho ancora il diritto. Se può darti fastidio. Ti guardo.

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Hai poche cose addosso. Mutandine, reggiseno. Avrei dovuto bussare prima di entrare? Ti imbarazza mostrarti in questo modo? Non lo so. Però non ti copri. Quindi va bene. Oppure lo tolleri. Come tutto, del resto. Abbasso la musica. Ti chiedo chi è. «Beth Orton», rispondi, senza alzare la testa, rimanendo sul libro. Lo chiudo. Lo prendo. Lo appoggio per terra. Itinerari della filosofia. La tua materia preferita. «Ho paura Erica». «Paura di cosa?». Ti siedi sul letto, probabilmente infastidita. Ho violato il tuo spazio, non ho chiesto permesso. Ho occupato il tuo tempo e ne ho disposto a mio modo. «Non lo so, non è facile da spiegare. Paura di perdere tutto quello che ho». Non capisci. «Parli dei soldi?». «No, non parlo dei soldi. Non me ne frega niente dei soldi. Parlo di tutto il resto. Di te, di tua madre». Prendi il libro. Ricominci a studiare. «Paura che possa succederci qualcosa? Di dovere passare tutto il resto della tua vita da solo?». Si, è così. «Qualcosa del genere». Sorridi. Alzi lo stereo. Cerchi una traccia. Scegli la sei. «È solo questo?». «Si, è solo questo. Dio santo, Erica, non è mica poco!». Ti alzi, ti vesti.

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«In realtà papà tu hai paura dell’esatto opposto». L’esatto opposto. Che significa l’esatto opposto? «Cosa intendi?», ti chiedo. Infili la maglietta, i jeans, le scarpe. Silenzio. C’è sempre silenzio quando ho bisogno di risposte. «Devo andare, papà. Ne parliamo un’altra volta». Esci dalla stanza. Resto solo con Beth Orton. Non spengo, ascolto la musica. La canzone si chiama Shadow of a doubt. L’ombra del dubbio. Titolo appropriato. Sui mobili c’è un po’ di polvere. Penso all’esatto opposto. Al senso di quella frase, a che cosa volevi dire. In realtà lo so da sempre qual è il significato. Ed è chiaro, evidente, stupido io a far finta di non comprenderlo. Non è di perdere tutto questo che ho paura. Ma di continuare ad averlo per sempre.

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