I caratteri da stampa // dall'invenzione all'open type

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i caratteri da stampa Dall’invenzione all’Opentype

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i caratteri da stampa Dall’invenzione all’Opentype

Tommaso Agostini Agata Brilli

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Indice Introduzione 5 i.

I caratteri mobili Da Gutemberg ai primi tipografi Claude Garamond e il suo romano antico Giambattista Bodoni e il suo romano moderno Studio dei caratteri

ii.

La meccanizzazione del xix secolo Le innovazioni nel disegno La linotype La monotype Studio dei caratteri

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iii.

La fotocomposizione Le nuove tecniche tra ottica e chimica Studio dei caratteri

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La rivoluzione informatica Le font e l’open type Il disegno digitale dei caratteri Studio dei caratteri

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Conclusioni

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Bibliografia

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iv.

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Introduzione La storia dei caratteri da stampa è quella della comunicazione scritta e si lega indissolubilmente a tutto lo sviluppo dell’editoria e dell’informazione di massa. Una storia che vive diversi cambiamenti, che segue le evoluzioni tecniche dal Quattrocento ad oggi. Il carattere da stampa si modifica in relazione alla tecnica utilizzata per realizzarlo, ereditando da quest’ultima pregi e difetti del procedimento. Di questo percorso cerchiamo di indagare i principali passi che hanno portato il carattere tipografico da un blocchetto in piombo ad un disegno vettoriale, ponendo l’attenzione ai diversi processi di produzione. Il periodo di evoluzione dei caratteri da stampa può essere diviso all’incirca in tre periodi principali: • dall’invenzione dei caratteri mobili, nel 1450, al 1550. Un secolo di creazione, costellato da grandi tipografi che influenzano l’arte tipografica ancora oggi. • l’era di consolidamento, dal 1550 al 1800; Secoli in cui si perfezionarono i risultati raggiunti nel periodo precedente. • dal 1800 ai nostri giorni; periodo di grandi innovazioni e cambiamenti, che stravolsero completamente il processo di realizzazione dei caratteri tipografici. Il discorso che intraprendiamo tocca tutte e tre le fasi; si pone l’attenzione in special modo sulla terza, la più ricca di mutamenti, di passi in avanti che modificheranno radicalmente il modo di porsi di fronte alla progettazione ed alla produzione dei caratteri tipografici da stampa. L’approfondimento che intendiamo intraprendere viene illustrato attraverso l’ausilio di due importanti famiglie di caratteri tipografici, ossia il Garamond ed il Bodoni.

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capitolo primo

i caratteri mobili

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Johann Gutenberg e la sua invenzione

Il punzone e la matrice Esempio di un punzone di 112 pt di dimensione (in alto) e le matrici originali del moyen canon di Garamond (in basso)

L’invenzione della stampa a caratteri mobili segna l’inizio della storia della riproduzione meccanica nella comunicazione scritta. Le testimonianze disponibili riguardo quest’ invenzione sono poco chiare e definite ma la ricerca storica ne ha vagliato l’attendibilità, individuando in Gutenberg colui che per primo brevettò tale procedimento. Johann Gensfleisch zum Gutenberg nato a Magonza attorno al 1400, visse in molte città tedesche, praticando differenti mestieri e sperimentando, verso il 1440, la modalità di produzione di uno scritto “meccanizzato”. La prima opera stampata da Gutenberg è la celebre Bibbia a 42 linee. Il grande vantaggio della stampa a caratteri mobili fu quello di poter utilizzare gli stessi caratteri per altre composizioni, e dunque la possibilità di stampare un numero più elevato di copie identiche in minor tempo. Il procedimento di realizzazione dei caratteri mobili consiste nel fabbricare, per ogni lettera, un punzone di metallo molto duro, recante all’estremità la lettera incisa a rilievo. Questo punzone serve a incidere una matrice di metallo meno duro, processo chiamato punzonatura, dove la lettera è impressa in un incavo. In quest’ultimo si possono quindi fondere in quantità desiderati i caratteri tipografici che saranno in rilievo come il punzone.

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Il carattere tipografico si presenta, fin dall’inizio della sua storia, come un piccolo parallelepipedo di lega metallica formata da piombo, stagno e antimonio, su un lato minore del quale compare, a rilievo e rovesciata, la forma del carattere da imprimere. Delle tre dimensioni del parallelepipedo (altezza tipografica, corpo e larghezza) solo la larghezza è variabile poiché dipende evidentemente dal disegno del carattere stesso. Per produrre i caratteri viene utilizzato uno stampo particolare, detto forma; essa è composta di due elementi metallici a forma di L, rivestiti di legno per isolarli, uniti per formare un contenitore e regolabili tramite un registro. La matrice è sistemata a faccia in su alla base della cavità formata dai due elementi, mentre nell’incavo così formato si versa la lega metallica fusa.

Un carattere mobile Nomenclatura specifica di ogni parte di un carattere mobile

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Attrezzi per la fusione Cassaforma e matrice originali di Bodoni per produrre una B del carattere Crema a 24 pt

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Una volta prodotti i caratteri venivano conservati nella cosiddetta cassa tipografica, da cui erano estratti e accostati per comporre la pagina. Il compositore, attingendo dalla cassa, prelevava direttamente i singoli caratteri e, aiutato dalla tacca che ognuno di essi aveva, senza dover ogni volta controllarne l’orientamento, li affiancava rovesciati, da sinistra verso destra, su uno strumento chiamato compositoio, un piano recante piccolo regolo a squadra con cursore di misurazione, sul quale formava la riga di parole debitamente spaziate, fino a raggiungere la giustezza voluta. A questo punto ogni singola linea di caratteri veniva raggruppata sul compositoio, dove si andava progressivamente formando l’incolonnamento della pagina, che alla fine veniva legata strettamente da fili. Eventuali aumenti di spaziatura tra le linee si ottenevano interponendo sottili lastre metalliche, le interlinee.

La cassa del tipografo Cassa utilizzata per riporre in ordine i caratteri mobili

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Modello di pressa Pressa presente al Musée de l’Imprimerie di Lyon che segue il modello di Gutenberg

Si procedeva poi alla composizione della pagina seguente, fino al completamento dell’intera forma tipografica, composta da un numero di pagine variabile a seconda della struttura dei fascicoli: due, quattro, otto, dodici o sedici. Il torchio fu lo strumento utilizzato fin dagli albori per la stampa a caratteri mobili; molto probabilmente Gutenberg stesso apportò modifiche importanti per il suo funzionamento. Rispetto ai tipi di torchio fino ad allora in uso, il torchio tipografico si distingueva per una maggiore velocità di discesa dell’elemento che esercitava la pressione e dall’introduzione del carrello mobile per facilitare l’inserimento e l’estrazione del foglio. Conseguenza dell’uso del torchio tipografico è l’espansione, ad opera della pressione esercitata sul foglio, dell’inchiostro che delinea i disegni dei caratteri tipografici. Questi ultimi subiscono dunque una maggiorazione dei filetti, specie nelle parti terminali delle aste e sulle grazie.

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Dopo alcuni decenni dall’invenzione, la stampa a caratteri mobili è diffusa in tutta Europa e la produzione stampata aumenta in maniera vertiginosa. I primi tipografi non sono, come si potrebbe pensare, artisti della xilografia o amanuensi, ma specialisti nella lavorazione dei metalli. Sono specialmente orafi, come lo stesso Gutenberg, che sperimentano le varie leghe metalliche da utilizzare e conoscono bene le tecniche di fusione. Nascono a mano a mano gli specialisti della professione: i disegnatori di caratteri, gli incisori, i fonditori, i torcolieri. Claude Garamond (1480-1516) fu tra i primi a dedicarsi completamente al disegno, all’incisione ed alla fusione dei tipi. I tipografi diventano inoltre anche editori, entrando in contatto con gli intellettuali del tempo e determinandone, a volte, il successo. Le tipografie assumono sempre più importanza, non solo come luoghi di produzione ma anche come punti di incontro e scambi culturali. Fino al 1800 il processo tecnico di produzione dei caratteri tipografici non subisce grandi cambiamenti ma solo miglioramenti dei vari procedimenti. Furono soprattutto secoli di consolidamento del lavoro e della progettazione di grandi personaggi che , con il loro lavoro, influenzarono in maniera costante e perenne tutta l’arte tipografica. Tra tali personalità si parlerà di Claude Garamond e di Giambattista Bodoni con particolare riguardo, analizzando il loro lavoro e come esso è cambiato nel corso dei secoli con le diverse tecnologie di produzione.

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La fusione dei caratteri Il fonditore sta colando il piombo fuso all’interno delle matrici Illustrazione di Jost Amman, per il libro Das Ständebuch (Libro dei mestieri), 1568

Gli stampatori Illustrazione di Jost Amman, per il libro Das Ständebuch (Libro dei mestieri), 1568

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Claude Garamond e il suo romano antico

Claude Garamond nasce intorno al 1500 in una famiglia di stampatori. Già nel 1510 circa inizia il suo apprendistato da Antoine Augereau dal quale impara l’arte che l’avrebbe poi reso famoso fino ad oggi. A partire dagli anni 20 del sedicesimo secolo Garamond inizia la collaborazione con Robert Estienne, un maestro stampatore parigino, per la creazione di una nuova serie di caratteri romani. Estienne stava portando avanti la stamperia fondata dal padre Henri nel 1502, trasformandola in una vera e propria istituzione della tipografia francese. Pertanto i primi lavori che emergono dall’apprendistato come punzonatore di Garamond risalgono al 1530, quando il suo romano apparve in Paraphrasis in Elegantiarum Libros Laurentii Vallae di Erasmo da Rotterdam stampato proprio da Estienne che quell’anno si avvalse dei caratteri incisi da Garamond per stampare moltissimi libri. Il biennio 1532-1533 vide la realizzazione di caratteri ispirati più ai punzoni creati da Francesco Griffo per l’edizione del 1495 del De aetna di Pietro Bembo edito dal veneziano Aldo Manuzio. È probabile che l’amicizia di Garamond con Geoffroy Tory, il primo Imprimeur du Roi francese, sia un punto importante nello sviluppo estetico stesso del punzonista, dal momento che Tory era in possesso di una copia del De aetna Manuziano, che potrebbe essere dunque entrato in contatto con Garamond. Il 2 novembre 1540, Pierre Duchâtel, consigliere e cappellano del Re e guardiano della biblioteca reale firma un accordo con Robert Estienne commissionando

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a Claude Garamond la creazione di punzoni per lettere greche basate sul modello e sulle istruzioni derivanti dal calligrafo reale Angelo Vergezio. Garamond dapprima inzia a lavorare sotto la direzione di Vergezio stesso, il qule stabilÏ il numero e la dimensione della varie lettere. L’incisione e la creazione delle matrici furono effettuate sotto il giudizio e la guida dello scrittore di lettere greche reale e il risultato finale venne poi ricordato con il nome di Grecs du Roi, gelosamente conservato a Parigi presso l’Imprimerie National.

Il Grecs du Roi Carattere disegnato ed inciso da Claude Garamond per il Re Francesco I di Francia, sotto la guida del calligrafo Angelo Vergezio

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Tra il 1543 e il 1550 Garamond crea i punzoni per tre caratteri diversi, incoraggiato anche da Jean de Gagny, cappellano di Francesco I di Francia, creando un carattere italico ispirato al modello Aldino. Dopo che i suoi punzoni cominciano a guadagnarsi la scena parigina in tutte le maggiori stamperie, Garamond fonda il suo laboratorio di incisione nel quale crea una serie di caratteri per Robert Estienne in varie grandezze (Gros Canon 40-44 punti e Saint-Augustin 12-13) per la composizione di opere religiose. I libri che pubblicava egli stesso erano curati nei minimi dettagli, accompagnati da una meticolosa ricerca di quello stile classico che contraddistingueva i lavori dell’elite artigianale veneziana, ammirando e stimando sempre più il pregio delle produzioni aldine. Garamond insisteva in un design chiaro, fatto di margini generosi, superba qualità della composizione, della carta e della stampa, il tutto coronato da una rilegatura ad opera d’arte. Claude Garamond muore nell’autunno del 1561, lasciando ad amici e famigliari tutti i suoi beni. Il suo laboratorio divenne proprietà di Guillame Le Bé e Jean Le Sueur i quali, assieme a Christophe Plantin e André Wechel presero possesso della maggior parte delle matrici e dei punzoni del maestro scomparso.

Notazioni di Guillaume II Le Bè su testi prova con i caratteri di Garamond “Lettre ditte en France Gros Romain taille de Claude Garamond” (carattere chiamato Gros Romain in Francia, inciso da Claude Garamond)

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L’importanza del lavoro del punzonista francese sta nell’accuratezza del disegno e nella cura dei dettagli che riguardano sia i punzoni che l’impaginazione e produzione tipografica, portandolo ad essere uno dei capisaldi della scena artistica tipografica di tutto il mondo. È indubbia l’eredità a noi pervenuta e la ricchezza di contenuti che ad oggi si contano se si intraprende una ricerca sul tipografo francese. Nell’intera storia della tipografia il lavoro di Garamond ha avuto un’ influenza cosi ampia e cosi grande che è impossibile non prendere in considerazione i suoi caratteri romani, poiché rappresentano il primo vero esempio, assieme ai lavori di Griffo, di un cambiamento nel disegno dei caratteri. Portando alla luce lo stile dell’antiqua francese, contrapposto all’antiqua veneziano, Garamond si pone come uno dei pionieri della fusione e dell’incisione dei caratteri che rispondono a questi stili emergenti coniugando tra loro maiuscole romaniche e minuscole carolingie.

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Gianbattista Bodoni e il suo romano moderno

Bodoni fu tipografo nel senso più ampio del termine poiché stampatore, disegnatore, incisore e fonditore di caratteri con risultati di eccellenza formale sempre esemplari. Nato il 26 febbraio 1740 a Saluzzo (Cuneo) da famiglia di tipografi, compie nella città natale gli studi umanistici e nell’officina del padre, Francesco Agostino, le prime esperienze professionali, proseguendo poi a Torino la sua formazione. Desideroso di perfezionarsi a Roma, parte da Saluzzo nel 1758. A Roma è impiegato presso la Stamperia della Congregazione di Propaganda Fide, prima come compositore di opere “esotiche” quindi nel delicato compito di riordinare le serie di punzoni di caratteri orientali che Sisto V aveva fatto incidere ai rinomati Garamond e Le Bè. Nel febbraio del 1768 viene chiamato dal Duca Ferdinando di Borbone a Parma, per impiantarvi e dirigervi la governativa Stamperia Reale, di cui resterà alla direzione per il resto della vita. Bodoni cura la costruzione dei torchi e degli altri utensili tipografici e le pubblicazioni dei primi anni di attività sono realizzate utilizzando caratteri provenienti dalla Francia. Già a partire dal 1771 Bodoni inizia il disegno e la produzione dei propri caratteri. Lo studio della forma delle lettere alfabetiche diviene oggetto esclusivo di presentazione nei “manuali”, ossia i campioni di caratteri che Bodoni andava via via redigendo e perfezionando, appunto dal 1971. Sono del 1788 il primo Manuale tipografico con cento alfabeti tondi latini, cinquanta corsivi e ventotto greci e la Serie di majuscole e caratteri cancellereschi; strepitosa esaltazione, al limite dell’astrazione, dei suoi alfabeti. L’impronta severa neoclassica delle lettere, connotata dal

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netto contrasto tra lo spessore delle aste e la sottigliezza dei filetti e delle grazie; la nuda composizione dei frontespizi e delle dediche; l’arioso giusto rapporto tra testo e immagini, fra riga e riga, fra chiari e scuri fanno della pagina bodoniana una sintesi di armonia e leggibilità. Nel 1791 Bodoni ottiene dal Duca il permesso di aprire una privata stamperia da cui uscirono in seguito tutti i capolavori della sua produzione, restando la Tipografia Reale impegnata in stampe di minor importanza e di ordinaria necessità governativa. L’officina privata di Bodoni impiegò non più di dodici lavoranti, tra compositori e torcolieri, mentre la Stamperia Reale circa una ventina. Tra le edizioni più conosciute risaltano Epithalamia exoticis linguis reddita del De Rossi (1775), I lavori di Orazio (1791) e Poliziano (1795), La Gerusalemme Liberata , la famosa Iliade e l’Oratio Dominica (1806). Quest’ultima contiene la traduzione in 155 lingue del Padre Nostro ed è il più vasto catalogo alfabetico e di caratteri tipografici mai pubblicato fino a quel momento. Bodoni stesso incise e preparò la matrice per realizzare l’opera. Ogni pagina è un’opera di eleganza e architettura tipografica e la magica successione dei più strani caratteri delle lingue quasi sconosciute in Europa all’inizio del secolo XIX, aumenta l’incanto di questo libro unico al mondo.

Edizioni Bodoniane La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, co’ tipi Bodoniani, 1794

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Intorno al 1798 Bodoni disegna un carattere con un gran contrasto nelle sue linee che significò una rivoluzione per la comunità tipografica, costituendo il punto di partenza dei caratteri “moderni”. Fu la moglie Margherita che, rimasta vedova, pubblicò alcuni anni dopo la morte di Bodoni (1813), la sua opera magna: Il Manuale Tipografico (1818). Nella sua prefazione al manuale, Bodoni espone i quattro principi o qualità che costituiscono la bellezza di una famiglia di caratteri tipografici. La prima è l’uniformità o regolarità del disegno che consiste nel comprendere che molti dei caratteri in un alfabeto hanno elementi in comune che devono rimanere gli stessi precisi in ognuno di essi. Il secondo è l’eleganza unita alla nitidezza ovvero il giusto taglio e la rifinitura meticolosa dei punzoni che producono una matrice perfetta dalla quale ottenere caratteri nitidi e delicati. Il terzo principio è il buon gusto: il tipografo deve restare fedele ad una nitida semplicità e non dimenticarsi mai del suo “debito” con le migliori lettere scritte nel passato. La quarta ed ultima qualità, afferma il Bodoni, è l’incanto, una qualità difficile da definire, ma che è presente in quei caratteri che danno l’impressione di essere stati scritti non con svogliatezza né con rapidità, ma con somma calma come in un atto d’amore.

Manuale tipografico Collezione dei caratteri incisi da Gianbattista Bodoni edito dalla moglie cinque anni dopo la morte dell’incisore

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capitolo secondo

la meccanizzazione del xix secolo

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Il progresso tecnico

La storia dell’arte tipografica e della comunicazione scritta è, sino al XVIII, la storia di singoli uomini che con il proprio lavoro promuovono la diffusione dell’informazione e della stampa. Il XIX secolo è un periodo di grandi cambiamenti che sconvolgono, sotto il profilo tecnico, il processo di produzione nei principali settori della tipografia. Tutto quello che veniva eseguito manualmente viene ora meccanizzato: il torchio tipografico viene sostituito dalla macchina piano-cilindrica e poi, successivamente, dalla rotativa; la composizione a mano sostituita dall’invenzione di macchine quali la linotype e la monotype. L’organizzazione del settore tipografico assume un aspetto sempre più capitalistico; la produzione tende ad un aumento vertiginoso, i tempi vengono massimizzati, il lavoro viene sempre più parcellizzato. In un primo momento, però, i miglioramenti non furono adottati su grande scala ma solo in campi specializzati, quali la produzione di giornali quotidiani, dove le nuove tecniche si imposero con estrema rapidità.

Pressa pianocilindrica Schema di funzionamento della macchina con l’indicazione del percorso del foglio nella macchina

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La prima grande innovazione tecnica del secolo è la pressa piano-cilindrica, realizzata da Friedrich Koenig e messa in moto per la prima volta nella stamperia del «Times» di Londra nel 1814. Fino ad allora i tipografi utilizzavano ancora, seppur con dei miglioramenti, il torchio utilizzato da Gutenberg per la Bibbia a 42 linee. La macchina di Koening è azionata a vapore, il che, oltre a sollevare l’uomo da un lavoro pesante, quadruplica i tempi di produzione. Il piano di pressione è sostituito da un cilindro e la forma viene fatta correre sotto il cilindro stesso. Pochi anni dopo, nel 1828, viene introdotta la macchina “a quattro cilindri” costruita da Applegath e Cowper sempre per il «Times», mentre la rotativa, in grado di stampare contemporaneamente in bianca e volta un nastro continuo di carta e nella quale anche la matrice è curva e montata su un cilindro, è della metà del secolo (1870 circa).

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Il pantografo Disegno che ne mostra il funzionamento: l’operatore segue il disegno originale e il pantografo lo riproduce identico secondo la scalatura prefissata

Nel 1885 il tipografo Linn Boyd Benton mette a punto il pantografo, uno strumento che consente di trasferire un disegno, ingrandendolo o rimpicciolendolo, seguendo il tracciato dell’originale. Il pantografo usato per l’incisione di punzoni ha permesso di rendere molto più semplice il trasferimento del tracciato del carattere sul punzone, gettando le basi per una composizione meccanica sempre più rapida. Grazie a questo strumento non fu più necessario disegnare tutte le dimensioni del carattere tipografico poiché in breve tempo si poteva scalare l’originale nelle dimensioni desiderate. La velocità di progettazione e produzione di una famiglia tipografica fu dimezzata a discapito di qualità e precisione nel disegno, specialmente in corpi molto piccoli o molto grandi. Fino a quel momento, infatti, si ridisegnava il carattere, apportando le dovute correzioni ottiche, per ogni grandezza. Il pantografo portò invece alla delineazione di un’anima comune più possibile adattabile alle varie dimensioni. La necessità di velocizzare il processo di produzione dei caratteri ebbe come conseguenza la perdita di precisione del disegno, non più inciso ad hoc in funzione della sua dimensione.

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La composizione a caratteri mobili, così come la pratica del tornitore, avveniva nello stesso modo ad inizio Ottocento come al tempo della sua invenzione. L’operazione di mettere in sequenza, riga per riga, i caratteri da stampare risultava lenta e di certo inadeguata all’aumento della produzione editoriale. Il principale svantaggio della composizione manuale era quello di dover comporre per poi scomporre tutto il testo, rimettendo i caratteri mobili nelle apposite celle della cassa; un’operazione laboriosa e costosa che solo personale giovane e a basso costo poteva condurre per avere qualche risvolto economico. Quello che occorreva era una macchina che fondesse e componesse i caratteri nella giusta sequenza. Sotto la denominazione di «macchine compositrici» si comprendono tutti gli apparecchi, tutti i meccanismi che vennero via via sperimentati per sostituire la composizione manuale con la composizione meccanica. Dopo diversi tentativi compiuti da molti inventori, al termine del 1800 emersero le due macchine che divennero fondamentali per la composizione tipografica: la linotype e la monotype. Queste ultime innovazioni trovarono un valido supporto nella crescente produzione di stampa periodica e libraria del XIX secolo, e rimasero in auge fino a oltre la metà del secolo successivo; dagli anni ‘50 del Novecento, la composizione tipografica a caratteri metallici venne progressivamente ad essere sostituita dai sistemi di fotocomposizione: dalle officine scomparivano così i vapori tossici delle caldaie del piombo fuso, ma con essi scompariva anche la materialità tangibile dei segni tipografici.

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La linotype

Intorno al 1885 un orologiaio tedesco emigrato negli Stati Uniti, Ottmar Mergentaler, fabbrica una macchina per comporre chiamata in seguito linotype, da “line of type”, installata per la prima volta nel 1886 al New York Tribune. La macchina linotype è costituita da una tastiera letterale su cui il linotipista compone le parole comandando, per ogni singolo tasto, una leva che libera la corrispondente matrice situata nel magazzino. Le matrici vanno a disporsi nel compositoio fino a completamento della riga, quindi con un primo elevatore passano alla forma dove, da un crogiolo, è immesso il metallo fuso che fonde tutta intera la riga; un secondo elevatore affida poi le matrici al meccanismo della distribuzione, dove un sistema di ridistribuzione si incarica di riporre le matrici nei rispettivi canali del magazzino. La macchina è dunque composta da tre sezioni: il “magazzino”, in cui sono disposte le matrici richiamate dalla tastiera; la caldaia, contenente il piombo fuso che viene pressato sopra le matrici per prenderne l’impronta; infine i meccanismi che prendono e ripongono le matrici. Attraverso la linotype si risolvono tutti i problemi di composizione, fusione dei caratteri e scomposizione delle matrici attraverso un unico macchinario. Nel giro di pochi anni la linotype ha una grande diffusione, dapprima in tutti gli Stati Uniti, poi in tutta Europa ed Inghilterra. L’uso della linotype velocizza in maniera sorprendente la produzione, passando dalle circa 1000 lettere che componeva a mano un buon compositore alle 8/10000 battute all’ora di un buon linotipista.

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I limiti della linotype consistono nella correzione, che si effettua sostituendo l’intera riga nella quale risiede l’errore. Ulteriore caratteristica della linotype è la sua impossibilità di agire sulla crenatura, cioè sulla riduzione dello spazio in eccesso fra coppie di caratteri, attuata al fine di dare un aspetto più omogeneo al testo. L’operazione di crenatura, che è divenuta parte integrante della progettazione di una font al giorno d’oggi, non teneva conto delle coppie di caratteri tipografici che venivano accostati e della loro interazione dal punto di vista delle forme. La conseguenza della mancanza di crenatura (kerning, in inglese) negli stampati linotype è uno squilibrio tra pieni e vuoti.

Linotype Si può vedere bene la posizione del linotipista e la tastiera tramite la quale componeva la pagina

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Schema di funzionamento della linotype 1- Magazzino delle matrici 2- Dispositivo per fondere il piombo 3- Meccanismo per la restituzione delle matrici al magazzino: (A) le matrici, richiamate dalla tastiera, lasciano il magazzino e vengono trasportate al compositoio (B). Dopo la giustificazione e la spaziatura (C) vengono passate alla “fonderia� (D); qui si formano le righe (E). Le matrici raggiungono la barra di ridistribuzione (F) e ritornano nei rispettivi canali del magazzino

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Linotype Pagina composta con linee linotipiche

Linotype Linea e doppia matrice linotipica

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La crenatura: Dall’alto: La crenatura nei caratteri mobili a piombo, applicata alla coppia di tipi “fa”. Sotto, linee di caratteri in linotype dove non viene effettuta tale correzione. La mancanza di crenatura nella linotype porta ad una disomogeneità nell’equilibrio tra vuoti e pieni ed era una delle principali problematiche di tale processo di produzione dei tipi.

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Analizzando gli stampati in caratteri mobili e linotype di Bodoni, si può ben osservare il problema della crenatura di cui abbiamo parlato nel corso del capitolo. Prendiamo in esame la coppia di lettere “ty”: In alto notiamo come sia stata messa a punto il kerning tra le due lettere, che risultano spaziate correttamente. In basso presentiamo un testo stampato in linotype nel quale, la stessa coppia di lettere, non presenta alcuna sistemazione della crenatura tra glifi. delimitazione tra il tipo “t” e quello “y”.

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La monotype

Ulteriore passo in avanti nella composizione meccanica avviene alcuni anni piÚ tardi dell’installazione della linotype al New York Tribune. Verso la fine del secolo, Tolbert Lanston inventa la monotype che, sempre in modo meccanico fonde, a differenza della linotype, le singole lettere dalle matrici che si trovano nel magazzino. Questo miglioramento permette una maggior facilità nella correzione dei testi. Inoltre, mentre per la linotype la composizione e la fusione sono un unico processo, nella monotype le due fasi avvengono in tempi diversi, su due macchine diverse. Lanston fu il primo ad adottare il nastro perforato per controllare una macchina in grado di comporre caratteri. Il sistema monotype consiste dunque di due macchine, la tastiera e la fonditrice. Alla tastiera viene battuto il testo da comporre e perforato un nastro di carta attraverso un dispositivo di aria compressa.

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Monotype La macchina monotype nelle sue due parti: la prima a sinistra per la creazione del nastro perforato (dettaglio a destra) come risultato della battitura e la seconda a sinistra per la composizione della pagina

Nella seconda macchina, il cui apparato più importante è un telaio a cornice quadrata entro il quale si trovano le matrici in numero variabile, è fatto scorrere il nastro di carta perforato. Un lettore pneumatico aziona, in base alla disposizione di fori, un sistema di leve, le quali, spostando il telaio, posizionano la matrice della lettera desiderata nella forma di fusione; qui il metallo fuso viene compresso sulla matrice per ottenere il carattere tipografico. Le lettere composte vanno poi a collocarsi su di un compositoio regolabile. I caratteri prodotti con il sistema monotype sono di maggior qualità rispetto a quelli linotype; la monotype però è più costosa e meno rapida, utilizzata solo per lavori di alta qualità e per composizioni di particolare difficoltà, come i testi a carattere scientifico. La monotype aveva la stessa problematica con la crenatura che abbiamo esposto per la linotype.

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La monotype La forma composta di tutto l’impaginato in monotype. Si può notare come questo processo fosse utilizzato per testi di carattere scientifico, come conseguenza della maggior precisione della tecnologia monotype rispetto a quella linotype

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La monotype Il porta matrici con le matrici per la produzione del Garamond 12pt (sopra) Una riga di testo prodotta in monotype (sotto)

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capitolo terzo

la fotocomposizione

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La fotocomposizione

A partire dalla fine dell’Ottocento si fece strada l’idea di far a meno della pesantezza del piombo nella produzione dei caratteri tipografici. Vari furono le sperimentazioni in questa direzione, anche se l’industria grafica non era pronta a questa innovazione e i nuovi sistemi di fotocomposizione non si affermarono se non dopo la seconda guerra mondiale. La crescente espansione del sistema di stampa offset, basato su tecniche fotografiche e quindi strettamente affine alla fotocomposizione, costituì un ulteriore incentivo in tale direzione. Le nuove sperimentazioni ruotano intorno ai processi fotosensibili che permettono l’eliminazione definitiva della lega metallica e l’introduzione di materiali e supporti più leggeri e meno ingombranti. La fotocomposizione viene distinta tra fotocomposizione ottico-meccanica, quella CRT e quella a raggio laser. In tutti i tre i casi il prodotto ottenuto è una immagine fotografica, tipicamente in una lastra di vetro o in una pellicola, esposta e che impressiona la carta attraverso un sistema di lenti. Alla fine degli anni Sessanta comparvero sul mercato veloci macchine per la fotocomposizione che rivoluzionarono il settore grafico.

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Nel primo caso, quello ottico-meccanico, si ha una matrice che reca le incisioni delle lettere in negativo; mentre nel secondo e terzo caso non esiste una vera e propria matrice ma è il raggio di luce che, guidato, produce il disegno del carattere sulla pellicola o sulla carta. In tutti i casi le macchine per la fotocomposizione sono costituite da più parti; le principali sono la testiera, il calcolatore, la memoria e l’unità fotografica. La memoria del macchinario permette di non perdere la sequenza di caratteri che è stata utilizzata ma di memorizzarla per poterla riutilizzare e correggere. Il testo che reca un errore, difatti, può essere richiamato dalla memoria, letto tramite video e corretto con estrema facilità e velocità rispetto al passato.

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Pellicole per la fotocomposizione Film-strip del carattere completo del Bodoni (sotto) Lastra Linofilm Europa (segue)


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Questa nuova tecnologia vide svariate proposte di macchine che cercarono sempre più di rispondere a necessità di varietà di corpi, pesi, interlinee nella composizione tipografica. L’intero alfabeto è ora disegnato in un solo corpo e poi, attraverso strumenti ottici, scalato senza preoccuparsi delle necessarie correzioni ottiche, che dovrebbero essere accuratamente progettate e pensate in base alla grandezza del carattere stesso. La qualità del singolo carattere tipografico viene a mancare in cambio di una sempre più sorprendente velocità di produzione. La composizione fotografica porta con sé un problema analogo ma opposto a quello delle tecniche che utilizzano matrici in metallo. Il disegno dei caratteri prodotti con matrici piombiche tende, come detto nei capitoli precedenti, ad espandersi sotto la pressione esercitata dal tornio o dalla piano-cilindrica.Al contrario il disegno dei caratteri ottenuti con fotocomposizione tende a ridursi nelle terminazioni delle grazie e nei filetti. Per un fenomeno di rifrazione di luce, durante l’esposizione della pellicola fotosensibile, gli angoli interni ed esterni delle figure subiscono degli arrotondamenti e una riduzione di spessore dei filetti sottili. Queste minorazioni si traducono in un cambiamento del disegno del carattere che, oltretutto, tende a peggiorare nel momento dello sviluppo. Conseguenza di tale problematica è che, se non si modifica opportunamente il disegno di partenza, il risultato tipografico stampato risulterà assottigliato, con menomazioni nei punti più critici del disegno.

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Linotype 505 Struttura completa di fotocomposizione contenente: - una unità di controllo - un riproduttore con quattro griglie foto-matrici di 238 caratteri ciascuna e un crt - una unità tastiera


Fotocomposizione Problema della fotocomposizione è una tendenza al restringersi del disegno, a causa di fenomeni di rifrazione. Per ovviare a ciò, il carattere tipografico doveva essere disegnato in previsione di tale cambiamento, altrimenti il risultato sarebbe stato in parte differente dalle aspettative

Problema della fotocomposizione nel Garamond

Problema della fotocomposizione nel Bodoni

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Dante Alighieri, Divina Commedia Canto V° dell’Inferno Editoriale Vita - 1968 Composizione in carattere Garamond corpo 16 Fotocomposizione

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capitolo quarto

l’era opentype

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Desktop Publishing

Il primo rilevante cambiamento nel settore della grafica dopo l’introduzione della fotocomposizione avviene intorno alla metà degli anni ’80. È infatti in quel periodo che una serie di innovazioni nel campo dell’informatica permette di realizzare un nuovo metodo per comporre i caratteri tipografici, il cosiddetto Desktop Publishing (editoria da scrivania, abbreviato in DTP). Si tratta di un sistema costituito da tre elementi: un computer innovativo, un programma specifico e una stampante laser. Benché caratterizzato nelle sue fasi iniziali da diversi limiti tecnici, il DTP costituisce una novità sostanziale in un settore in cui la progettazione di un carattere tipografico e la sua realizzazione erano rimaste fasi nettamente separate. Il primo dei tre elementi di un sistema DTP è un computer, realizzato dallo statunitense Steve jobs che, in società con Steve Wozniak, aveva fondato la Apple Computers. Jobs ebbe l’idea di produrre un elaboratore di facile utilizzo che, diversamente dai computer esistenti, non richiedesse conoscenze tecniche apporfondite da parte di chi lo utilizza. Mettendo a frutto alcune ricerche iniziate alla fine degli anni ’70 nei laboratori della Xerox, la nascente Apple mette in commercio nel 1984 il Macintosh, un elaboratore che si presenta all’utente con uno schermo che simula una scrivania e visualizza il suo contenuto sotto forma di oggetti (cartelle, fogli).

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Apple Macintosh La rivoluzione del mondo tipografico racchiusa in uno schermo ed una tastiera unita ad una stampante laser

Accanto alla facilità d’uso, il Macintosh ha un’altra caratteristica che lo rende particolarmente adatto all’uso nel campo della grafica: la capacità di visualizzare sullo schermo, in modo fedele, il risultato delle istruzioni ricevute. Questa particolarità viene chiamata WYSIWYG, acronimo dell’espressione inglese what you see is what you get (quello che vedi è quello che ottieni). In questo modo per la prima volta chi progetta uno stampato può lavorare direttamente sul computer, senza il tramite di un operatore.

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Il secondo elemento è il primo programma destinato al desktop publishing, Aldus Pagemaker, messo in commercio nello stesso periodo dalla società americana Aldus. Esso permette di disporre nella pagina testo, immagini ed elementi grafici, rendendo molto più rapido il lavoro di impaginazione. Il terzo elemento è la stampante laser, che si distingue dalle stampanti esistenti per l’utilizzo di un linguaggio di descrizione della pagina, denominato PostScript, realizzato nel 1985 dalla Adobe Systems; esso fa da tramite tra il computer e la stampante laser, permettendo di riprodurre sulla carta tutto ciò che è visualizzato sullo schermo. Aldus Pagemaker Uno dei primi software dedicati esclusivamente alla produzione tipografica gestibile senza l’aiuto di un esperto

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L’evoluzione della Font

Le font possono essere considerate come dei veri e propri software: il loro compito è fornire una versione digitale del carattere tipografico in modo che il computer lo possa riprodurre. Esistono vari linguaggi di descrizione dei font, vari formati che si sono succeduti nel corso del tempo; i formati che oggi conosciamo sono essenzialmente il frutto degli storici scontri o delle alleanze tra Apple, Microsoft e Adobe. Infatti, come si può immaginare, in una situazione segnata da questi scontri e rivalità commerciali, la guerra si è giocata anche sul fronte dei formati dei font e la loro compatibilità o incompatibilità con l’uno o con l’altro sistema operativo. La prima macchina in assoluto ad aver utilizzato caratteri digitalizzati fu la Digiset dell’ingegnere Rudolf Hell. I caratteri creati su base bitmap venivano poi visualizzati su un CRT, un piccolo schermo a tubo catodico e l’immagine veniva poi proiettata su una pellicola o su carta fotosensibile usando un sistema di lenti raggiungendo una produzione di circa 1000 caratteri impressi al secondo. Nel 1985 Adobe introdusse una grande novità: il PostScript, un linguaggio di descrizione pagina che permetteva di stampare alla massima risoluzione e che supportava due tipi differenti di font: Type 1 e Type 3. Il primo era un formato più sofisticato del secondo, poiché supportava l’hinting, una tecnica che permetteva di aumentare la qualità di output a basse risoluzioni o a minori dimensioni del font, e inoltre supportava un migliore e più efficiente algoritmo di compressione dei dati. Il Type 3 invece offriva alcune funzionalità che non erano presenti nel Type 1 pur essendo meno avanzato. Adobe tenne, per questo motivo, le specifiche del Type 1,

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costruendo una intera libreria di font che i clienti potevano comprare, sommandole ai 36 che ogni dispositivo dotato di PostScript includeva già. Le specifiche per la creazione di font Type 3 vennere pubblicate e in breve gli strumenti per costruirle emersero nella scena tipografica. Le fonderie, come per esempio MonoType, rilasciarono una loro intera libreria di font. Il fatto che il formato Type 1 di Adobe non fosse completamente libero risultò alla lunga un po’ limitante per Apple, che decise così di allearsi alla nascente Microsoft per creare un formato vettoriale nuovo: il formato True Type (TTF). Su Mac il True Type serviva come sostituto del Type 1 e rimase perciò un formato riservato alla stampa. Su Windows, invece, quel formato venne integrato nei sistemi operativi e fu possibile vederlo e usarlo anche a schermo, non solo per la stampa. Adobe allora cercò di ‘correre ai ripari’: rese più accessibile il suo Type 1; in più, creò l’ATM, una specie di estensione che rendeva visibili anche a schermo tutti i font del formato Type 1. Si venne a creare così una netta divisione tra Mac e Windows ; i primi adottarono l’accoppiata Type 1 e ATM, i secondi continuarono con True Type. Nel mondo della stampa, però, il True Type si fece una cattiva fama: tipografi e stampatori preferivano usare il Type 1, più compatibile con le stampanti PostScript. Dovettero pazientare per qualche anno, finché Adobe e Microsoft si accordarono per creare un nuovo formato che sintetizzasse le migliori caratteristiche di Type 1 e True Type. Nacque così il formato Open Type (OTF), che portava con sé molti vantaggi e con il tempo si affermò come standard adottato anche da Apple. Entro il 2002 Adobe converte infatti tutta la sua libreria font in questo nuovo formato. Le font Open Type presentano svariati vantaggi tra i quali la possibilità di essere utilizzati con qualsiasi sistema operativo; ma soprattutto l’introduzione del codice Unicode che li rende capaci di supportare contemporaneamente varie lingue, unite in un unico pacchetto di dati che diviene cosi ricco di migliaia di caratteri.

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Diversi formati Garamond True Type (alto) Disegno con le curve di BeziĂŠr (basso) Parte del file del Bodoni Opentype (segue)

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Con l’introduzione del carattere tipografico digitale cambia completamente l’approccio progettuale del designer grafico che non può solo adattare il suo lavoro alle nuove tecnologie ma sfruttare al massimo gli strumenti che i software offrono. Questo porta un avvicinamento del progettista grafico con personalità di formazione tecnico-informatica. Le font permisero, al contrario della fotocomposizione, di recuperare quella precisione del disegno che aveva caratterizzato l’incisione di ogni singolo punzone di caratteri mobili e che, nella meccanizzazione, è andata perduta in favore di maggior velocità. Nel 1991, Adobe introduce la tecnologia multiple-master per le font.Il multiple-master è come un prototype dal quale le nuove font sono generate, attraverso un set di controlli che gestiscono le variazioni della font stessa. Lo spessore, la larghezza, l’altezza, le correzioni ottiche ed anche i cambiamenti delle grazie in base alla dimensione del corpo, vengono interpolate da un calcolo computazionale. Oltre a questo approccio, ve ne è un altro che affida tutti i compiti di correzioni e perfezionamenti, nella famiglia della font, al designer che sta disegnando il carattere. Entrambi i sistemi, sia analogico che digitale, consentono di migliorare esponenzialmente la qualità progettuale del disegno di una font. Problemi come quelli della crenatura, tipici della linotype, sono ampliamente superati dalla digitalizzazione delle famiglie di caratteri; quest’ultime possono essere soggette anche a crenatura negativa (lo spazio della prima lettera deve entrare in quello della seconda).

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Alcune fasi della progettazione di una Font digitale: Il passaggio della lettera “a” del font Bodoni tondo chiaro dalla descrizione geometrica al risultato stampato passando per la rappresentazione su schermo come insieme di pixel (in alto). Correzioni ottiche per caratteri utilizzati in corpi piccoli: le curve e gli incavi che si trovano in corrispondenza di spigoli e vertici servono per correggere l’efficacia ottica della lettera e per contrastare l’espansione dell’inchiostro (in basso). Programma per la gestione del hinting (uso di istruzioni matematiche per correggere il risultato in pixel del tracciato di una lettera) nel TrueType di un carattere a 16pt (segue in alto). Esempio di hinting: i caratteri in alto sono senza correzione mentre quelli in basso sono stati “scremati” dai pixel in eccesso. Si può vedere bene come aumenti sia la definizione che la leggibilità a corpi ridotti (segue in alto).

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Diversi formati L’interpolazione tra pesi differenti permette di creare automaticamente una intera famiglia di caratteri partendo per esempio da un bold e un light per arrivare ad un regular

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Nel 1991 l’International Typeface Corporation (itc) decise di inviare in “pellegrinaggio” un team di type designer al Museo Bodoniano di Parma per creare, più fedelmente possibile la font digitale del Bodoni. Il team, di fronte all’enorme quantità di punzoni metallici prodotti dal tipografo parmense, doveva scegliere quale serie di caratteri fosse la migliore per essere digitalizzata. Tuttavia l’intera produzione bodoniane obbligava ad un approccio diverso, portando i componenti del team a sviluppare l’idea di disegnare tre differenti font, specifici per determinati corpi. Ne seguirono un set con corpo 72pt (itc Bodoni seventy two), uno a 12pt (itc bodoni twelve) e uno a 6pt (itc bodoni six). Il motivo per cui si rese necessario un triplo set di caratteri per il Bodoni è ben rappresentato dall’immagine qui sotto che mostra le tre serie portati alla stessa dimensione: le correzioni e le differenze sono evidenti e risolvono il problema di scalatura che nella fotocomposizione e nelle prime font digitali caratterizzavano il Bodoni.

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Conclusione

Nel corso degli avvenimenti legati al carattere da stampa, dalla sua nascita ad oggi, si può rilevare come sia cambiato anche l’approccio del progettista nei suoi confronti. Un rapporto del tipografo sempre più attivo e tecnico al giorno d’oggi, un ritorno alla poliedricità professionale di Claude Garamond. La digitalizzazione delle famiglie dei caratteri da stampa ha portato il type designer ad un lavoro più specialistico e informatizzato, ad una progettazione sempre più complessa ma completa. Il rapporto del designer con il processo di produzione è sempre più stretto; dal disegno alla creazione dell’intera famiglia e poi la realizzazione della font ultimata. Tutto ciò a discapito di quelle professioni che ruotavano attorno alla produzione del foglio stampato: compositori, fonditori, punzonisti, torcolieri e battitori, mestieri che accompagnavano la creazione di caratteri mobili; il linotipista ed il monotipista, figure della realizzazione meccanica. Quello che senza dubbio è rimasto costante in tutto il periodo preso in esame, superando i grandi cambiamenti tecnici, è il punto di partenza del progetto: l’inizio che porta un designer tipografico, sia esso del secolo scorso o di questo, ad intraprendere il disegno di una nuova famiglia di caratteri è la presenza di spontanea creatività e meticolosa progettualità.

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Bibliografia

•“Cinque secoli di stampa”, S.H. STEINBERG, Piccola biblioteca einaudi •“Grafica e stampa”, Giorgio Fioravanti, Zanichelli editore •“Type & typography”, Waston-Guptill Publication/ New York. •“Revival of the fittest: digital version of classical typefaces”, Carolyn Annand, Philip B Meggs, Roy McKelvey, Ben Day; New York : RC Publications ; Cincinnati, Ohio. • “L’eredità Gutenberg: per una semiologia della tipografia”, Blanchard, Gérard, edizione G. Altieri, 1989. • “Manuale tipografico”, Bodoni, Giambattista. •“Giambattista Bodoni”, P. Di Rienzo e M. Wittock, Biblioteca Wittockiana, Bruxelles. •“Les caracteres de l’Imprimerie Nationale”, Imprimerie Nationale Edition. •“Fotocomposizione e caratteri di testo. Problemi di progettazione”, articolo di “Graphicsus”, Torino, Ottobre 1966 •http://www.linotipia.it •http://typefoundry.blogspot.it •http://www.garamond.culture.fr •http://www.giofugatype.com •http://paris.blog.lemonde.fr/2006/09/21/2006_09 _garamond_vs_gar •http://www.linotype.com •http://www.prepressure.com/fonts/basics/history •http://www.fonts.com/content/learning/fyti/usingtype-tools/digital-format

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