Africa e Mediterraneo n. 72-73

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Sommario

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o c i e t à

Dossier Le sfide della mediazione interculturale, a cura di Silvia Festi Introduzione Il mediatore consapevole: istituzioni inclusive, dimensione interculturale, percorsi di professionalizzazione La mediazione frammentata. Pluralità di modi di intendere e agire una professione in cerca di futuro Il significato della mediazione interculturale nell’interazione La mediazione interculturale: problemi e prospettive Quando le politiche si fanno culturali. Importanza e ambiguità della mediazione culturale dal punto di vista dell’antropologia La prima mediazione La mediazione culturale con i richiedenti asilo: ascoltare l’inaspettato Mediazione linguistico-culturale: strumento per un welfare egualitario e per la convivenza plurale La mediazione linguistico-culturale nei servizi di prossimità e nel lavoro di strada La mediazione in Emilia Romagna: una base per gestire la migrazione La mediazione interculturale nei servizi alla persona dell’Emilia Romagna Campi “nomadi”. La mediazione socio-culturale e l’estremo delle nostre periferie Introducing the Chinese Community in South Tyrol

di Silvia Festi

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di Antonello Scialdone

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di Lorenzo Luatti di Claudio Baraldi di Massimiliano Fiorucci

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di Barbara Pinelli di Ivana Trevisani di Daniela Peruzzo

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di Gianfranco Bonesso

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di Andrea Morniroli e Maddalena Pinto di Teresa Marzocchi di Marzio Barbieri

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di Dimitris Argiropoulos by Martha Jiménez Rosano

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di Luciana De Michele

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di Fabrizio Corsi di Sandra Federici

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di Riccardo Lo Buglio

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Immigrazione Il Sahara, luogo rivitalizzato dalle migrazioni

Arte Le meraviglie del nuovo mercato d’arte africana Visioni della memoria e del presente: intervista a Theo Eshetu

Fotografia Ritratti dal Senegal - Foto-reportage

Eventi Premier Salon des Auteurs Africains de Bande Dessinée, DevDays 2010, António Ole/Angola

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Libri Paulina Chiziane, Riccardo Staglianò, Dossier Caritas/Migrantes 2010, Calixthe Beyala, Maria Luisa Ciminelli

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DOSSIER

Introduzione

Toni, skateboarder, Bolzano. © Giovanni Melillo Kostner

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di Sivia Festi

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avorare nell’ambito della mediazione richiede un continuo interscambio tra la ricerca teorico/scientifica, l’elaborazione dei dati relativi alle dinamiche migratorie e l’esperienza “dal basso” nel quotidiano dei luoghi in cui “vive” l’immigrazione. L’interscambio continuo tra i piani consente di operare un processo di avvicinamento della realtà alla sua analisi, lettura ed elaborazione e queste azioni costituiscono il primo passo di un lungo cammino che porta all’identificazione dei bisogni, delle risorse e delle potenzialità, tenendo sempre conto del loro modificarsi nel tempo e delle diverse situazioni del contesto (anch’esso soggetto a mutazioni: normative, economiche, politiche, ecc.) È questo approccio che ci ha spinto a volere fortemente un numero dedicato alla pratica della mediazione, proseguendo la nostra ricerca di riferimenti teorici e confronti esperienziali, considerati come cornici dell’agire e del progettare interventi rivolti a favorire il benessere delle comunità locali con particolare attenzione alle persone migranti escluse o a rischio di esclusione. Nella fase di contatto con gli autori del dossier abbiamo sottolineato che questo numero dedicato alla mediazione “interculturale”-“culturale”-“linguistica” parte dal bisogno di includere i diversi punti di vista anche distanti, al fine di far emergere elementi costruttivi e criticità, dubbi, esperienze e nuove sfide per offrire un luogo in cui possano dialogare nella loro complessità. Fin dall’inizio ci siamo imbattuti nella difficoltà di individuare un titolo che potesse comprendere le diverse posizioni che avremmo potuto incontrare, difficoltà effettivamente supportata dalla varietà di approcci che qui presentiamo. L’obiettivo di questa raccolta di contributi è certamente ambizioso: infatti, da un lato intende sostenere coloro che operano la mediazione con nuovi stimoli e inesplorate riflessioni, spazi di ripensamento critico e di rielaborazione del vissuto quotidiano, rivisitazione delle identità professionali quando queste diventano inadeguate ai bisogni; contemporaneamente, dall’altro lato, vuole incoraggiare un cambiamento, un balzo verso il futuro della mediazione, o meglio dell’“integrazione” diffusa, e ancora supportare il sistema dei servizi (sociale, scuola, sanità, servizi per il lavoro, ecc.) nel ripensamento del ruolo del mediatore e delle aspettative riposte nei suoi interventi. Non da ultimo vorremmo offrire agli amministratori elementi per un con-

fronto tra i diversi approcci al tema, affinché possano immaginare le politiche cosiddette “per l’integrazione” con uno sguardo capace di co-creare con i propri concittadini nuovi modelli di relazioni sociali. Quale modello di relazione per la mediazione? È quindi necessario affrontare l’“integrazione”. Ci siamo trovati a riflettere continuamente su questo concetto1 e pensiamo che prima di parlare di mediazione – addentrandoci nei contributi degli esperti – sia innanzitutto necessario chiarire cosa intendiamo con questo termine, e quale sia la nostra visione di integrazione. Chiarimento, questo, che chiunque dovrebbe affrontare, soprattutto se operante in ambito sociale, educativo, culturale, di promozione del benessere. In molti preferiscono utilizzare altri termini (“interazione”, “incontro”): non è sul termine in sé che intendiamo discutere bensì sul suo contenuto. In altre parole vorremmo soffermarci su come ci immaginiamo debbano/possano essere le relazioni tra le persone in un contesto sociale in cui l’immigrazione da altri Paesi è elemento costitutivo, strutturale, futuro. Il lavoro sul campo ci ha permesso di capire che i mediatori stessi hanno diverse idee riguardo al significato del termine “mediazione”; lo stesso utilizzo del termine prioritariamente in associazione ai migranti porta con sé, a nostro modo di vedere, un approccio distorto a monte: “la mediazione utile all’integrazione dei migranti”, “la mediazione quale strumento per l’integrazione dei minori stranieri nelle scuole”, ecc. Allo stesso modo la parola “integrazione” rimanda inevitabilmente a una logica assimilazionista che vede in un gruppo o una categoria sociale (i migranti) una realtà “da integrare” o che “si deve integrare” in un gruppo dominante. Pensiamo per esempio a una mediatrice interculturale che in occasione di un confronto sottolineava come si fosse “adeguata alla nuova realtà, all’Italia, al modo di vivere” e come, pur partendo da una situazione di svantaggio iniziale, avesse potuto capire come fare a “stare al mondo qui”. Proseguiva sostenendo di considerarsi un esempio per i suoi connazionali e gli altri migranti (“anche loro possono farlo, se solo lo vogliono”), rammaricandosi del fatto che “se non c’è impegno, se uno non vuole adattarsi, allora non si merita niente, deve tornare al suo Paese”. Un’altra mediatrice sosteneva invece come fosse impre-


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scindibile per lei svolgere la professione avendo chiaro che l’etnocentrismo è utile nel lavoro perché la consapevolezza di essere “in un certo senso superiori” “ti dà la forza, la conoscenza, gli strumenti” per aiutare gli altri (“inferiori”). Negli anni ci è capitato di frequente di incontrare mediatori che si rifiutavano di effettuare colloqui con persone “appartenenti” a minoranze: ricordiamo ancora una mediatrice che durante un colloquio di lavoro ha posto la condizione di non dovere mediare con persone rom o ancora ad altri casi in cui il mediatore adottava atteggiamenti di evidente chiusura relazionale in occasione di colloqui con persone che facevano riferimento a pratiche relative alla fede islamica (ritenuta invasiva e “arretrata” rispetto alla propria). Alla domanda “cosa è per te l’integrazione” frequentemente abbiamo ricevuto questa risposta “avere gli strumenti per poter vivere qui, imparare come si fa a stare in Italia”. Forse per alcuni questa è una risposta soddisfacente: noi la riteniamo abbastanza lontana dall’idea di società che guida e motiva il nostro lavoro. Ciò che rischiamo di perdere è l’enorme potenzialità di sviluppo culturale, di maggiore apertura alla mondialità, alla pace, alla relazione d’aiuto, la possibilità di cogliere l’opportunità di auto-osservarci criticamente individuando limiti, problematiche, inadeguatezze, aprendoci ad altri sguardi con reciprocità. L’immigrazione – e quindi la presenza di donne, uomini, bambine e bambini giunti da altri Paesi – è occasione di crescita per tutti, nel confronto con “diversità” e “uguaglianze” possiamo co-costruire un nuovo modo di stare “comodi” nelle differenze, superando quella continua tentazione a definire la “normalità”. Per questi motivi non condividiamo l’utilizzo del verbo “integrare” quando questo si riferisce a un solo gruppo, a un solo elemento sociale: pensiamo al contrario che questo implichi un movimento che coinvolge tutte le persone impegnate nella relazione, in cui l’uno “va” verso l’altro. E quell’andare è “voluto”, “intenzionale, “scelto”, anche se spesso necessita di essere “accompagnato”, ed è questo, a nostro parere il fine ultimo del lavoro di mediazione. Concordiamo con le parole di Cecilia Edelstein che sostiene che «per agevolare un processo di integrazione è necessario leggere il fenomeno in termini circolari, relazionali, di reciprocità ed ecologici: il processo integrativo si innesca quando entrambe le componenti – gruppi minoritari e società d’accoglienza – vivono un cambiamento che crea intreccio, senza che questo intreccio sia la semplice somma del vecchio e del nuovo, ma qualcosa di diverso che prima non esisteva, salvaguardando le peculiarità dei diversi gruppi etnici, compreso quello locale. Pur dipendendo da processi macrosociali, un processo di integrazione è, allo stesso tempo, strettamente legato a un micro livello personale di conoscenza reciproca, incontro e scambio di idee, di pareri, di vissuti e di percezioni. Questo micro livello contribuisce alla conoscenza personale e aiuta ad uscire dagli stereotipi e dall’anonimato.»2 Continua Edelstein, facendo riferimento alla teoria dei sistemi di Ludvig Von Bertalanffy: «Per la società d’accoglienza, rimanere tale e quale è impossibile, per definizione: una regola fondamentale della teoria dei sistemi è che un minimo mutamento in una parte del sistema vivente crea un cambiamento inevitabile in tutto il sistema».3 L’approccio che privilegiamo vede quindi l’integrazione come un processo interattivo di cambiamento che intreccia vecchi e nuovi valori, regole, nor-

me, abitudini e linguaggi. Ne emerge qualcosa di inedito che non appartiene né alla cultura d’origine, né alla cultura di accoglienza: si origina un misto nuovo ed unico.4 Complessità degli interventi Se da un lato la mediazione interculturale o linguistico-culturale dovrebbe favorire l’“integrazione“, dall’altro pare perdere terreno rispetto alla complessità delle variabili in gioco. In particolare, la cultura è elemento variabile, dinamico, non solo collettivo bensì individuale, che durante l’esperienza di chi migra interagisce con altri elementi altrettanto dinamici e variabili quali: - la posizione rispetto al soggiorno; - la posizione economica attuale e quella precedente; - il ruolo professionale e le relazioni tra aspettative e possibilità reali; - il successo o fallimento del progetto migratorio e la relativa percezione individuale; - le relazioni personali e sociali nel Paese di arrivo e nel Paese di origine; - il vissuto nelle tappe del processo migratorio (il progetto concreto, la decisione di partire, i preparativi e gli addii, la partenza, il viaggio, l’arrivo nel paese di destinazione, la sistemazione, l’inserimento e l’adattamento, l’integrazione, il ritorno);5 - la comunicazione linguistica; - le caratteristiche storico/culturali/economiche/sociali/ religiose/linguistiche dei luoghi di provenienza e l’elaborazione personale dei singoli rispetto ai suddetti elementi; - i processi identitari e di appartenenza dei singoli e dei gruppi; - la partecipazione e la rappresentanza; - i rapporti con le pubbliche amministrazioni; - i rapporti con le comunità di connazionali; - i rapporti con le altre comunità costituite da cittadini migranti; - i rapporti con le comunità dei territori di accoglienza. Certamente le variabili sopra elencate non esauriscono la complessità degli elementi che vanno considerati, compresi, mediati, bensì si intrecciano ulteriormente con la molteplicità delle condizioni e dei temi del vivere quotidiano (la casa, la salute, lavoro, la scuola, la sfera spirituale e/o religiosa, la socialità, il tempo libero, i bisogni culturali, ecc.), oltre che con le cornici normative che regolano l’esercizio dei diritti/doveri (a cominciare dal soggiorno). Accenniamo di seguito ad alcuni target di riferimento per sottolineare la necessità di agire in questo ambito non per categorizzazioni semplificative bensì procedendo con un costante lavoro di approfondimento e specializzazione: - la cosiddetta “prima generazione”, le differenze a seconda dei tempi e dei luoghi di partenza e di arrivo o di sosta/ transito, della motivazione del percorso migratorio, dei livelli sociali e culturali, della tipologia di impiego nel Paese di origine e in quello di “accoglienza”, delle aspettative proprie e delle famiglie/comunità di partenza; - le coppie miste; - i portatori di disabilità (minori o adulti); - le donne: le specificità della migrazione femminile, il ricongiungimento familiare, le donne impegnate nel lavoro di cura agli anziani; - i minori e i giovani6 nati nel Paese di origine dei genitori o in un Paese terzo, nati in Italia, scolarizzati nel Paese di origine o in Italia, giunti in Italia durante la scolarizzazio-


ne primaria, o secondaria; i minori stranieri non accompagnati, i minori stranieri in stato d’abbandono, i figli di genitori con nazionalità diverse tra loro e diverse da quella italiana, i figli di coppie miste, i minori che hanno soggiornato in Italia per un periodo, che sono rientrati nei Paesi di origine dei genitori permanendovi per un lungo periodo e che nuovamente tornano in Italia; - i richiedenti asilo e i rifugiati; - le vittime di tortura; - le vittime della tratta; - gli uomini e le donne privi dei documenti per il regolare soggiorno; - i migranti giunti da Paesi extra-comunitari e i migranti giunti da Paesi comunitari; - i migranti giunti in Italia per motivi di salute nell’ambito di interventi di assistenza specifici. L’elenco sopra riportato, certamente non esaustivo, dimostra quanto sia necessario porre l’attenzione alla singola persona. Attenzione, questa, che ci obbliga a sospendere le categorizzazioni nella relazione diretta e contemporaneamente a trattenerle come sfondo teorico per l’analisi e l’intervento. Conseguentemente l’attenzione a nostro parere va rivolta prioritariamente alla relazione e alla necessità di promuovere il benessere dei singoli e dell’intera comunità rifuggendo la logica assistenziale e il rischio di passivizzazione in favore di percorsi di empowerment e di promozione delle autonomie. La complessità sopra accennata ci spinge a operare cogliendo e ricercando il contributo irrinunciabile delle varie discipline che possono concorrere a una comprensione “di qualità” di tutti gli elementi in gioco: la sociologia, l’antropologia culturale, la psicologia, la comunicazione, la demografia, l’economia, la storia, la filosofia, l’etnografia, ecc… Ne consegue che proponiamo non solo l’integrazione tra le discipline e la valorizzazione del costante approfondimento teorico, ma anche il rafforzamento dell’auto-osservazione e dell’analisi sul piano operativo, e il lavoro in staff multi-professionali. I contributi del dossier Sono svariati i temi che abbiamo voluto approfondire, tra questi certamente il quadro normativo e le sue tendenze, la questione delle disuguaglianze sociali ed economiche e delle discriminazioni diffuse in cui si svolge la professione, i rischi e i limiti della mediazione stessa, l’enorme divario tra approcci ed esperienze in ambito non solo nazionale ma anche, tra territori limitrofi, in ambito locale. Gli articoli del dossier confermano la presenza di questa varietà nel mondo della mediazione interculturale in relazione a profili, percorsi formativi, riconoscimento o meno della qualifica, compiti e ruoli affidati ai mediatori dalle pubbliche amministrazioni, ambiti di intervento, ecc… Vengono proposti inizialmente articoli che presentano analisi teoriche, visuali diacroniche e panoramiche della situazione e successivamente articoli maggiormente legati ad esperienze concrete relative a un determinato ambito o a una specifica area geografica. Antonello Scialdone fornisce un quadro normativo della mediazione dal punto di vista nazionale, riporta i risultati di diverse ricerche realizzate e numerosi documenti di riferimento sia per la misurazione della qualità degli interventi di integrazione, sia per la formazione/qualificazione

dei mediatori, sia ancora per i servizi che dovrebbero vedere la presenza ordinaria del mediatore quale operatore stabile. La fotografia dell’esistente, soprattutto sul tema delle qualifiche professionali, della definizione del profilo e delle caratteristiche dei percorsi formativi, narra di un patchwork di dispositivi eterogenei, percorsi differenziati per ambito operativo, durata, metodologie e validazione dei titoli. Particolarmente interessanti sono gli stimoli di riflessione sulle contraddizioni tra gli inviti a considerare i migranti quale priorità delle politiche di coesione sociale in Europa e la tendenza opposta nei modelli di politiche migratorie a spingerli nella direzione dell’esclusione e della marginalizzazione. In diversi punti del contributo ritroviamo la sottolineatura del rischio di derive interpretative di alcuni concetti chiave quali cultura e migrazione. Lorenzo Luatti, curatore di un importante Atlante della mediazione linguistico culturale, analizza la pluralità delle azioni e dei ruoli del mediatore, con la necessaria ambiguità di alcune situazioni in cui il mediatore in realtà si sostituisce all’operatore del servizio. Luatti individua nella mediazione triadica la mediazione vera e propria, perché implica un’attività di traduzione linguistica e di interpretariato culturale allo scopo di facilitare la relazione e la comunicazione. Interessante la breve sintesi del dibattito relativo alla proliferazione delle denominazioni per definire la medesima figura professionale, con un intreccio tra il piano prescrittivo-normativo (quello che il mediatore dovrebbe fare) e quello descrittivo (quello che il mediatore fa). Varietà che, come abbiamo detto, ha causato anche a noi qualche incertezza nell’intitolare il dossier. Claudio Baraldi sottolinea che la mediazione interculturale si svolge attraverso la comunicazione, soffermandosi sulla “comunicazione nell’interazione”. L’articolo propone alcune domande fondamentali sulla mediazione, alle quali si può rispondere osservando proprio la comunicazione nell’interazione: 1) la posizione del mediatore nell’interazione (deve essere neutrale, e non prendere posizione, ma piuttosto “posizionarsi” nell’interazione), 2) il processo della mediazione, che si basa appunto sull’interazione, dove entrano in gioco non solo le azioni del mediatore ma anche quelle degli altri partecipanti, 3) il significato dell’aggettivo interculturale, per cui se la mediazione è chiamata in campo in caso di problemi di comprensione linguistica, essa deve diventare opportunità di mediazione culturale, senza generalizzazioni ma tenendo conto del punto di vista individuale e personale dei partecipanti. Infine (ed è la domanda numero 4) l’autore riflette sui risultati e l’utilità della mediazione, che produce sempre cambiamenti nel tessuto sociale in cui si applica, perché promuove una partecipazione che richiede equità e costruisce nuove positive narrazioni. Massimiliano Fiorucci ripercorre una storia della mediazione in Italia in quattro fasi: il periodo della creatività, dell’investimento in formazione, della diffusione sul territorio (ma anche dell’isolamento rispetto all’iniziale spirito di sperimentazione), e la quarta odierna fase, con la ricerca di una nuova definizione professionale. L’autore sottolinea il ruolo fondamentale del mediatore come agente di “democratizzazione”, per la realizzazione di un progetto interculturale di cittadinanza, suggerendo alcune linee-guida per la formazione. Barbara Pinelli analizza la mediazione dal punto di vista dell’antropologia, accennando al dibattito condotto

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nell’ambito di questa disciplina sulla crisi del concetto di cultura e ponendo l’attenzione sul pericolo rappresentato dall’emergere della cultura come “terreno semantico chiave” nella definizione delle politiche rivolte agli immigrati. Questa modalità interpretativa può produrre danni e generalizzazioni soprattutto quando la cultura è intesa in maniera assoluta, reificata e astorica (fondamentalismo culturale). Ivana Trevisani parte dal dato che ogni persona per il fatto di essere nel mondo deve operare una prima essenziale mediazione «tra la propria realtà interna, il mondo interiore, e la realtà esterna, il mondo di fuori». Con una specificità per la donna che vive l’esperienza aggiuntiva di mediazione tra il proprio figlio e il mondo. La mediatrice che ha vissuto la migrazione si trova di fronte alla necessità di esercitare una prima mediazione per sé: tra la fedeltà alle radici originarie e la pressione dal contesto d’approdo ad omologarsi alla nuova realtà. Essa deve essere consapevole della paura della perdita (del proprio linguaggio, della propria cultura, delle proprie radici), che appartiene a lei e alle utenti. Con una «onesta proposta del percorso migratorio in quanto cammino fatto di guadagni e perdite» essa può conquistare «quell’elemento di fiducia che mette un po’ d’ordine nell’intrico delle emozioni e dei sentimenti in gioco». L’articolo di Daniela Peruzzo parte dalla definizione del ruolo del mediatore come previsto dalla regione Lazio per attuare una riflessione sull’esercizio della mediazione nella situazione molto particolare dei Centri di Accoglienza dei Rifugiati. Infatti, il riconoscimento dello status di rifugiato si basa ormai sempre di più sull’esibizione di prove fisiche delle violenze subite, in un clima di sospetto nei confronti della persona traumatizzata, che si trova così a vivere l’ennesima situazione di difficoltà. L’attività del mediatore, propone Peruzzo, deve essere finalizzata, oltre che allo svolgimento dell’iter giuridico e burocratico, alla costruzione di luoghi nei quali il richiedente possa riappropriarsi della molteplicità delle proprie dimensioni identitarie riconfigurando in maniera autonoma la propria soggettività. Nell’argomentazione di Gianfranco Bonesso traspare l’esperienza concreta dell’autore presso il Comune di Venezia, che arricchisce le considerazioni generali sul cammino della mediazione linguistico culturale in Italia negli ultimi 30 anni, fornendo molti spunti per l’azione nella realtà estremamente variegata che gli operatori della migrazione si trovano ad affrontare. Egli spiega come la mediazione debba passare e sia passata in molte situazioni da strumento per l’accoglienza a strumento per l’integrazione e l’aumento del benessere sociale. Da qui una serie di esperienze concrete e preziose sulla mediazione nel lavoro con i rifugiati, nello sviluppo di comunità, nella gestione dei conflitti, nella scuola (non solo nell’accoglienza dei neo arrivati ma anche contro la dispersione), nella promozione di luoghi “misti”, nel coinvolgimento dei ragazzi di seconda generazione. La mediazione linguistico culturale nei servizi di prossimità e nel lavoro di strada, e in particolare nel contatto e nell’aggancio della componente migrante che abita le aree della marginalità urbana, è il tema trattato da Andrea Morniroli e Maddalena Pinto a partire dalla loro esperienza nella cooperativa Dedalus di Napoli. La mediazione è la metodologia che favorisce l’incontro, il primo contatto tra

due parti che non hanno da sole «gli strumenti e i linguaggi che possono facilitare e concretizzare tale disponibilità ad entrare in relazione». È il mediatore, soprattutto all’inizio della relazione, con il suo “esserci in strada”, a rappresentare il servizio stesso. Anche se per l’informalità dell’ambito della strada e la molteplicità delle situazioni è difficile definire un mansionario del mediatori, l’autore indica tra le finalità da attuare la prevenzione e la tutela sanitaria, le azioni di ricerca e analisi dei fenomeni sociali sui quali intervenire, l’accessibilità dei servizi, le azioni di valutazione del servizio, la sensibilizzazione dei cittadini e la mediazione dei conflitti. L’assessore alle Politiche sociali della Regione Emilia Romagna Teresa Marzocchi e il ricercatore Marzio Barbieri tracciano il quadro della mediazione nella regione che ha definito la pratica mediatoria come azione prioritaria all’interno del proprio “Programma triennale per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri 2009-2011”. Si sottolinea la scelta dell’approccio dell’utilizzo universalistico dei servizi e delle prestazioni, con la limitazione dei servizi separati. Una ricerca intrapresa dalla regione e presentata recentemente ha evidenziato il passaggio da una fase di offerta “individuale”, dove il singolo mediatore si mette sul mercato e opera per più datori di lavoro, a una fase più organica dove protagonisti sono i soggetti “collettivi”. Questo sistema più strutturato sul piano organizzativo consente di “accumulare” delle masse critiche di conoscenze permettendo alle imprese della mediazione di proporre, anche in autonomia, nuove offerte e progettazioni innovative dei servizi. Dimitris Argiropulos pone il problema della mediazione con i Sinti e i Rom, partendo da una denuncia molto forte dell’inadeguatezza e dell’ingiustizia della soluzione “campo nomadi”. Tramite la repressione istituzionale sui Rom e Sinti praticata in questi anni – e qui rappresentata dalle foto di Mario Rebeschini, che con la sua attività di fotogiornalismo di strada da anni documenta e “prende posizione” sulle violazioni dei diritti e sulle discriminazioni anche nella sua città, Bologna – si è prodotta “conoscenza” informativa e ufficiale, la quale contribuisce a incentivare le pratiche di allontanamento sociale poiché è costruita sulla descrizione negativa e distorta dell’Altro. «I rapporti consolidati storicamente fra Rom e non Rom e, attualmente, le gravissime situazioni di repressione-discriminazione istituzionale ci invitano, forse ci obbligano, a rivedere i modelli di analisi e di intervento, relativamente al binomio nomadismo-stanzialità, considerato quale unica chiave interpretativa di una realtà difficile e talvolta estrema.» Ed è proprio partendo dalla consapevolezza di questo approccio sbagliato che la mediazione deve costruire conoscenza e impostare buone prassi. Martha Jiménez Rosano racconta il lavoro fatto assieme al fotografo Giovanni Melillo Kostner con la comunità cinese presente in Alto Adige, esposto in mostre a Bolzano e in Cina, e di come un lavoro di ricerca sociale e documentazione fotografica accurato, onesto, protratto nel tempo, possa costituire una vera e propria esperienza di mediazione tra culture, attraverso la creazione di nuove narrazioni delle esperienze, delle aspettative e delle percezioni di vari temi come la vita, il lavoro, il futuro, il welfare, ecc. Dal punto di vista dei Cinesi, si è avuta l’esperienza di prendere parte al processo di creazione dell’immagine, ottenendo ritratti di persone, di famiglie con le loro attività commer-


ciali, di momenti condivisi della comunità, dei luoghi di origine, cercando insieme il significato di “essere cinese”, conoscendo e modellando il loro senso della comunità in questo nuovo posto in cui vivere. Dal punto di vista dei cittadini autoctoni dell’Alto Adige, si è ottenuto di trasmettere un’idea dei Cinesi che abitano nella loro regione, di consegnare un’immagine, una memoria della loro presenza e delle loro relazioni. Ringraziamo Giovanni Melillo Kostner per avere messo a disposizione le sue foto, tratte dal lavoro fotografico a colori Fortuna, vieni da me!, oltre che per illustrare l’articolo di Jiménez, anche per gli articoli del dossier da pagina 3 a pagina 32 (la sua biografia e il progetto sono descritti a pag 72). Conclusione La raccolta di contributi che presentiamo, come spesso accade quando trattiamo temi collegati all’immigrazione, non porta risposte univoche e soluzioni definitive, ma apre alla complessità e alla necessità di perseguire una ricerca costante di riflessioni teoriche, di arricchire le conoscenze rispetto a pratiche innovative e rispetto a verifiche e rivisitazioni di quelle considerate “ordinarie”. Dobbiamo però dire che sono molti i paradossi con i quali fare i conti: - da un lato la necessità di rendere lo studio, l’aggiornamento e l’autoriflessione sulle proprie modalità di intervento, elementi continuativi e strutturali del lavoro di mediazione e dall’altro il mancato riconoscimento di tempi e risorse adeguate per sostenere tale impegno; - l’insistenza sulla continuità e l’ordinarietà degli interventi e la contemporanea tendenza degli enti “richiedenti” la mediazione a praticare con le “imprese della mediazione” tempistiche contrattuali con scadenze sempre più ravvicinate; - l’individuazione dei migranti quale priorità delle politiche di coesione sociale in Europa e il progressivo taglio, in ambiti locali, delle risorse dedicate a tali politiche; - il riconoscimento della figura del mediatore all’interno della classificazione delle professioni sociali e la contemporanea considerazione di tale figura ad opera dei vari servizi come “accessoria”; - la prevalenza nell’ambito delle normative del concetto di mediazione definita come interculturale e la compresenza nella pratica di una varietà di approcci alla mediazione (linguistica, linguistico-culturale, socio-culturale, interpretariato), complicati ulteriormente da numerose variabili potenzialmente determinanti nella reale inclusione dei migranti come gruppi sociali e/o come singoli individui. Riteniamo che gli stimoli e gli approfondimenti possono accompagnare il dibattito in corso, ma soprattutto possono fornire guide alla riflessione che ciascuno “dovrebbe” continuamente fare sull’adeguatezza del proprio operare, sulla visione del proprio ruolo professionale e sugli effettivi risultati di ciascun intervento. Ci auguriamo anche che i livelli istituzionali traggano da questa raccolta una maggiore consapevolezza sull’importanza della qualità degli interventi e sulla necessità di riconoscerla adeguatamente non soltanto in termini di risorse ma con un nuovo sguardo ai propri contesti sociali e ai propri assetti organizzativi/relazionali, dove servizi e persone appaiono sempre più distanti. Silvia Festi, cordinatrice del settore sociale della Cooperativa Lai-momo, si occupa da anni di progetti in favore delle popolazioni migranti

Note 1 - Personalmente ho iniziato a pensare la mediazione in tempi ormai lontani: la mia tesi di laurea in Sociologia dello Sviluppo discussa nel 1994, dopo quasi due anni di ricerca sul campo in Italia e in Francia, aveva per titolo “Alla ricerca degli intermediatori culturali nel rapporto tra immigrati e servizi sociali”. La prima mediatrice con cui ho collaborato era arrivata da Sarajevo in fuga dalla guerra, ed era l’estate dello stesso anno. Da allora ho sempre lavorato con colleghe e colleghi mediatrici e mediatori che inizialmente erano definiti “linguistico-culturali o socio-culturali” e che nel tempo sono divenuti “interculturali” per adeguamento più alla qualifica professionale che a una diversa percezione della propria identità nell’operare. Recentemente, nella provincia di Bologna sono stata coinvolta nella conduzione di circa 70 colloqui di selezione per la partecipazione a corsi finalizzati al riconoscimento della qualifica e successivamente nella realizzazione di docenze. 2 - C. Edelstein, L’integrazione: un approccio dal basso, in «m@gm@ Rivista elettronica di scienze umane e sociali», vol. 4, n. 2, 2006 (www.analisiqualitativa.com). 3 - Ivi. Il riferimento al biologo austriaco autore della teoria generale dei sistemi citato da Edelstein è L. von Bertalanffy, General System Theory, Brasiller, New York 1968, trad. it. Di E. Bellone,Teoria generale dei sistemi, Mondadori 1971. 4 - Cfr. C. Edelstein, Il Counselor Interculturale – Un’introduzione, in «Il Counselor», vol. 1, 2004, pp. 13-19. 5 - Cecilia Edelstein, L’integrazione dal basso, in «m@gm@ Rivista elettronica di scienze umane e sociali», vol. 1 n. 2, 2003 6 - Sul tema delle seconde generazioni citiamo i seguenti testi: Silvia Festi, Le seconde generazioni. Spunti per leggere la complessità, in S. Federici, A. Marchesini Reggiani (a cura di), Approdi 2008/2009 esperienze di laboratorio nella didattica interculturale, ed. Lai-momo, ottobre 2009; M. R. Moro, Maternità e Amore, Frassinelli 2008, G. Dalla Zuanna, P. Farina, S. Strozza, Nuovi Italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro paese?, Il Mulino 2009; M. Ambrosini, S. Molina, Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro dell’immigrazione in Italia, Fondazione Agnelli, Torino 2004; G. Sciortino, A. Colombo (a cura di), Stranieri in Italia. Un’immigrazione normale, Il Mulino, Bologna 2003; A. Sayad, La doppia assenza, Raffaello Cortina, 2002 Milano, In/Out. Giovani, Migrazione e società tra nord e sud del Mediterraneo dossier di «Africa e Mediterraneo», n. 59, giugno 2007, Identità plurali dossier di «Communitas», n. 29, novembre 2008, M. R. Moro, Bambini di qui venuti da altrove, Angeli, Milano 2006; Valori Comuni, guida didattica, ed. Lai-momo, settembre 2005.

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his issue of Africa e Mediterraneo, that is completely dedicated to intercultural, cultural and linguistic mediation, presents different point of views and theories, in order to highlight constructive elements, doubts, experiences and new challenges, as well as to boost the debate on these topics. The three main objectives of this issue are: to support the mediators who use new methodologies and innovative approaches; to encourage the change in integration policies and social relations models; to help the systems of services in rethinking the mediator’s role and his interventions.

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