Africa e Mediterraneo n. 81 (2/14)

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2/2014

Sommario

A

frica e Mediterraneo

Cultura

e

Società

Dossier: Cibo, intercultura, Africa a cura di Francesca Romana Paci e Anna Casella Paltrinieri Editoriale Cibo e narrativa africana C’è gusto a parlare di cibo La cucina araba secondo un manuale andaluso Gusti, abitudini, colori: il cibo in Africa Occidentale Il ficodindia, un messicano nel Mediterraneo “Nabad iyo Caano”. Pace e latte Il faut donner à manger aux gens. Pratiche culturali dell’alimentazione in Camerun Il documentario “Il Mondo in tavola” Abitudini alimentari, obesità e malattie croniche in Africa e nei migranti Uomini e animali di Niamey Cibo in evoluzione Chicchi, semi e semolini in Swahili. Categorizzazione di genere e reduplicazione L’arte di mangiare in mostra al museo Dapper Il sapore è un sapere. Gusto e disgusto nel candomblé italiano Il piede nel piatto del riso col pesce Canto al riso

Situazioni

Grand Hotel Beira

di Sandra Federici di Francesca Romana Paci di Anna Casella Paltrinieri di Jolanda Guardi di Nelly Diop di Alessandra Guigoni di Kaha Mohamed Aden

2 5 14 20 24 31 34

a cura della redazione di Silvia Riva di Giulio Marchesini Reggiani e Luca Montesi di Mauro Armanino a cura della redazione

39 40 44 50 51

di Marina Castagneto 52 di Sandra Federici 58 di Luisa Faldini 60 di Pap Khouma 66 di Cheikh Tidiane Gaye 71 foto di Donatella Penati e Mario Negri

72

di Silvia Bruzzi e Federica Gazzoli di Pietro Pinto

78 84

a cura della redazione di Alessandra Migani

86 88

by Carlos Carmonamedina

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di Daniela Buccioni e Alain Mutela Kongo

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Immigrazione

Ricostruire – ancora una volta – una casa in Emilia: esperienze e narrazioni di donne migranti dopo il terremoto Il Dossier Statistico IDOS/UNAR 2014

Arte

Marocco contemporaneo all’IMA di Parigi 15 ottobre 2014-25 gennaio 2015 1:54 Contemporary African Art Fair (16-19 ottobre, Londra)

Fumetto

If you can’t be white, at least be rich

Filosofia

Filosofi africani del ’900 a confronto con l’Occidente

Libri

Gitti Salami e Monica Blackmun Visonà, Paul Dakeyo, Francesco Niccolini e Dario Bonaffino

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EDITORIALE

Cibo, intercultura, Africa

2

di Sandra Federici

D

ato che l’uomo per vivere deve mangiare, la necessità di procurarsi cibo sufficiente e sempre migliore ha plasmato nei secoli i suoi comportamenti a ogni livello e investito il cibo della centralità culturale e del potere socio-economico e quindi politico che oggi tutti gli riconoscono. Il potere del cibo è tanto vasto che uno studio esaustivo della sua storia e del suo presente è inaffrontabile in una sede come questa, per cui si sono scelti alcuni ambiti e di essi alcuni spunti per mostrare la varietà delle discipline che possono fare ricerca su questo aspetto della vita umana, così complesso ma – ce ne accorgiamo continuamente – anche molto, molto concreto... Nelle strutture di accoglienza dei richiedenti asilo nel nostro Paese, ad esempio, il momento del pasto è spesso cruciale e atteso con particolare impazienza. Esso si svolge secondo le modalità indispensabili delle comunità numerose: il cibo viene distribuito dagli addetti alla mensa, gli ospiti si mettono in fila per ritirarlo, mostrando il tesserino personale per il controllo dell’avvenuta somministrazione, si accomodano poi ai grandi tavoli dove consumano il pasto. È il momento delle chiacchiere, del ritrovarsi seduti “con i piedi sotto la tavola” e con un bel piatto fumante davanti. Il cibo in queste situazioni è anche uno degli strumenti principali che i richiedenti asilo hanno per esprimere le proprie necessità culturali. A volte gli ospiti di una nazionalità rifiutano categoricamente un tipo di cibo (ricordo il caso di un couscous, di cui alcuni giovani nigeriani dicevano che “non potevano assolutamente mangiarlo”, senza per altro spiegare perché, mentre ospiti di altre nazionalità mostravano invece di apprezzarlo). Qualche volta, purtroppo, qualcuno ne approfitta per cercare di affermare un proprio presunto diritto alla precedenza nella fila, ma questo è un altro discorso. Altre richieste avvengono per questioni religiose, per la carne halal ovviamente, perché si chiede alla struttura di poter rispettare gli orari del Ramadan o si vuole cenare dopo gli orari stabiliti perché ci si è attardati in moschea. Nella formazione degli operatori, che possono restare spiazzati da queste richieste, risulta utile la schematizzazione della “piramide di Maslow”, che definisce una gerarchia nei bisogni carenziali delle persone in difficoltà, partendo

dai bisogni fisiologici, collocati alla base, salendo a quelli legati alla sicurezza e alla protezione, al bisogno di affetto, arrivando infine al bisogno di appartenenza, stima, riconoscimento. Le rivendicazioni legate al cibo si collocano proprio nella fase avanzata di manifestazione dei bisogni: esse costituiscono a tutti gli effetti una richiesta di riconoscimento che si potrebbe definire completo, composto di elementi non solo fisici, ma anche culturali e psichici, incluse indichiarate o mal dichiarate o inconsce istanze affettive. Tutte quelle che seguono sono solo possibili scelte e interpretazioni connesse con l’atto del nutrirsi, declinando il tema in relazione al continente africano, grazie alle competenze disciplinari di riferimento delle due curatrici, Francesca Romana Paci, anglista ed esperta di letterature postcoloniali non solo anglofone, e Anna Casella Paltrinieri, antropologa culturale impegnata in numerose ricerche “sul campo”. Francesca Romana Paci passa in rassegna opere di importanti scrittori africani, dando conto di come il cibo è rappresentato e con quali funzioni narrative e testimoniali, sia che evochi «forme tradizionali dell’alimentazione del passato», sia che prenda «in considerazione l’incontro, il confronto e la convivenza, non sempre facili, della tradizione africana con la tradizione europea e nordafricana». Il cibo è presenza e segno dalle molteplici implicazioni socio-culturali e affettive, fondamentale non solo in scrittori recenti e contemporanei come Amos Tutuola, Chinua Achebe, Tsitsi Dangarembga, Yvonne Vera, Ahmadou Kourouma, ma anche se si risale all’epica orale di Soundjata, dove si trovano luoghi in cui il cibo è rappresentato come segno di potere e forte elemento identitario. L’analisi di Anna Casella Paltrinieri della coltivazione, preparazione e consumo degli alimenti in diverse culture africane ci porta a riflettere sul dato di fatto che «sempre il cibo “dice” qualcosa della comunità nella quale viene realizzato e consumato, che sia la storia alimentare, la relazione con la natura o quella con le divinità». Perché il cibo, che «è affare di donne» e quindi anche «esercizio di seduzione», è anche una continua e simultanea frontiera simbolica tra «ciò che è buono per la vita e ciò che non lo è», una frontiera che implica pratiche e tecniche ben


precise per prevenire e impedire l’azione di forze nefaste. Nel mondo arabo, mostra Jolanda Guardi analizzando un manuale andaluso di cucina del XIII secolo, la Fuḍāla di at-Tuğībī, la cucina era considerata «un’arte della quale era necessario dare un resoconto scritto», con indicazione delle tecniche di preparazione, degli utensili, dell’importanza di una dieta sana, delle pratiche igieniche. Un esempio di letteratura culinaria che aiuta a conoscere le abitudini e la cultura alimentare del mondo arabo all’epoca dei Marinidi, e offre una via di comprensione più ampia della potente centralità del cibo nella cultura islamica. Nelly Diop dà conto dei principali piatti consumati in Senegal, dove le tradizioni legate alla preparazione del cibo sono essenziali nel perpetuare una certa idea della famiglia, e principalmente del ruolo della donna e del suo potere, ma anche dei suoi obblighi quotidiani, in quanto signora della preparazione del cibo. La studiosa sottolinea come i rituali del cibo e le buone maniere nei confronti dei commensali siano talmente importanti da reggere il buon funzionamento delle interazioni sociali. Mentre evoca la ricchezza delle arti culinarie del Paese, Diop ne sottolinea anche la capacità di integrare e valorizzare gli apporti di altre culture più o meno lontane. L’Africa ha sempre accolto e interpretato, infatti, cibi arrivati da fuori, a cominciare dal riso, originario dell’Asia e introdotto dal commercio degli Arabi. Che la storia del cibo sia una storia di incontri lo conferma poi l’articolo di Alessandra Guigoni sul ficodindia che, proveniente dalle Americhe, oggi «accomuna i paesaggi del cibo dell’Europa meridionale con quelli dell’Africa del Nord». «Emblema della globalizzazione ante-litteram che è stata la scoperta dell’America» e il conseguente «scambio colombiano», questa pianta proviene dal Messico, ma in ogni Paese è stata chiamata con un nome diverso che riconduce, sempre, a una provenienza altra (l’India, la Barbária, i Mori…). Un’umanità che si muove trasferendo i propri gusti e disgusti alimentari, racconta Luisa Faldini, è anche quella rappresentata dal candomblé, religione estatica afrobrasiliana creata dagli Yoruba deportati in Brasile ed esportata poi in altri Paesi, tra cui anche l’Italia. Questo credo lega ogni fedele a una divinità, che a sua volta è collegata a poteri, colori e cibi specifici, cosa che porta a una vera e propria modifica delle abitudini alimentari. Marina Castagneto, con una complessa analisi linguistica delle classi di attribuzione dei sostantivi nella lingua e grammatica swahili, mostra che i semi e le pietanze alimentari che su di essi si basano rimandano, entro un processo essenzialmente semantico, a rappresentazioni mentali che si riflettono nei sostantivi che li definiscono e nella loro classificazione a seconda che siano percepiti come cibi più o meno liquidi, o necessariamente prodotti con una grande quantità di piccoli elementi, oltre che a seconda di un loro implicito valore nutrizionale. La testimonianza di Mauro Armanino, dura e realistica, ci permette di immergerci nel caotico mercato di Niamey e vivere l’attesa della festa della Tabasky, la cui caratteristica sarà il sacrificio di innumerevoli capri e polli, mentre la collaborazione servizievole degli asini contribuirà al fermento organizzativo. Il nostro dossier è arricchito dall’apporto di tre esponenti della cosiddetta letteratura della migrazione: Kaha Mohamed Aden, appoggiandosi a dati reali e

accuratamente esposti, racconta come il dromedario, con la sua carne e soprattutto il suo latte, ma anche con le sue capacità di trasporto e il suo valore economico, sia elemento strutturale della cultura, del sostentamento e dell’equilibrio delle popolazioni nomadi della Somalia; Pap Khouma ci trasporta in una casa senegalese, dove si alternano vivacemente tre voci narranti, due donne e un ragazzo: una mamma e una sorella parlano di cucina e di relazioni familiari mentre si preoccupano per il figlio/ fratello, la terza voce, sotto l’influsso di qualche infuso che ha bevuto, ha combinato un guaio rovinando in maniera sacrilega un piatto di riso preparato con cura e speciali intenzioni dalla sorella per la famiglia del fidanzato; Cheikh Tidiane Gaye celebra poeticamente la quotidianità della preparazione del riso, cibo della famiglia e della comunità, mostrandone la ricchezza di significati affettivi e culturali al punto da conferire un’aura di sacralità a oggetti e gesti in cui tutti si possono riconoscere. Silvia Riva racconta gli esiti di un laboratorio sull’“Uso del video come strumento di ricerca nella pratica del mediatore interculturale”, dove è stata filmata la creazione di una start-up di catering interculturale, con la preparazione di piatti attraverso la collaborazione e la mediazione tra i gusti di varie culture e dove, soprattutto, si sottolinea il processo della «negoziazione del fare organizzativo ed economico (…) con cui il gruppo aveva la necessità, e talvolta la difficoltà, di confrontarsi». I cambiamenti dovuti alla modernità sono inevitabili anche nel campo dell’alimentazione, e non sempre sono positivi in tutti i loro possibili esiti. Luca Montesi e Giulio Marchesini Reggiani, con approccio medico ed epidemiologico, evidenziano come, a fronte di un calo della malnutrizione, stiano pericolosamente aumentando in Africa, e presso gli immigrati in Europa, l’obesità e le malattie croniche non trasmissibili (diabete, malattie cardio-vascolari e tumori), con differenze alle quali «concorrono una serie di fattori (…) quali il livello di istruzione e occupazione, l’etnia e il processo di urbanizzazione». Soprattutto quest’ultima incide profondamente sugli stili di vita, in quanto crea infrastrutture per la grande distribuzione e promuove la globalizzazione delle abitudini alimentari, agendo in particolare nei confronti delle classi più povere, che peggiorano la loro dieta con cibi di veloce preparazione ed economicamente più convenienti. La storia del cibo, che in EXPO 2015 sarà celebrato in una kermesse globale, già da tempo preparata da una quantità di ricerche e iniziative in Italia e fuori, racconta molto della storia di qualunque Paese, intrecciandosi ai percorsi, alla pace, alle guerre, ai mutamenti spontanei o violenti della società in cui viene prodotto, o importato, e consumato. Persino le ricette e i loro nomi conservano le tracce degli incontri avvenuti nel passato, delle influenze culturali accolte, delle lingue arrivate da fuori. Con il tempo le novità hanno preso piede accanto alla difesa delle preziose tradizioni di ogni cultura, africana e non, ma probabilmente passerà ancora molto altro tempo prima che tutti impariamo, anche ma non solo in Africa, come armonizzare la necessità del sostentamento del corpo con la conservazione dei tesori del passato, le nuove esigenze produttive e, soprattutto, la difesa della nostra salute.

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AeM 81 dicembre 14


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