Affari di Gola ottobre-novembre 2022

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Anno XXII n. 4Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento PostaleD.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bergamo€ 2,60 LA BUONA TAVOLA RACCONTATA DA affaridigola . it OTTOBRE-NOVEMBRE 2022 Tesori d'autunno IL PIACERE DI RITROVARE GUSTI INTENSI E AVVOLGENTI

Sarà un autunno contrassegnato dalla pesante crisi energetica che ci obbligherà a grandi sacrifici. Perché, a parte le provocazioni della pasta cotta a fuoco spento, per stare bene a tavola servono: fuoco, caldo e luce. Coraggio, comunque. Supereremo anche questo e ne usciremo ancora più forti, sperando che l’emergenza rientri il prima possibile.

Cogliamo quanto c’è di positivo in questo momento. Quanto sta accadendo non intacca la nostra rinnovata voglia di convivialità e di viaggiare. Ottobre apre un periodo meraviglioso e ricco di novità. L’autunno, con il suo clima gradevole e i colori accesi, ci trattiene ancora all’aperto, alla ricerca dei prodotti bagnati dalla rugiada e dei tesori del sottobosco nascosti tra le foglie e la prima bruma.

Insomma, siamo pronti per un nuovo incredibile viaggio tra profumi e sapori.

L’acquolina in bocca ci muove verso piatti ricchi e succulenti accompagnati da un inebriante bicchiere di vino, con il desiderio di sperimentare tutti insieme un nuovo sapore. Al ristorante innanzitutto, perché l’atmosfera è il segreto - il più intangibile ma fondamentale - del mangiar bene. Stare al ristorante è un’esperienza triplice come un viaggio: il desiderio di partire, con il nome del ristorante che ci ispira, il momento vissuto, come esaltazione dei sensi, e il ricordo, come mistificazione dell’esperienza.

Postiamo le foto sui social, ma l’evento continuiamo a viverlo realmente. Perché questi semplici, ma ricchi, momenti di gioia, ci fanno stare bene. E ne abbiamo bisogno.

Buona lettura a tutti

O ttobre-Novembre 2022

Direzione e Redazione: Iniziative Ascom S.p.a. Via Borgo Palazzo 137, 24125 Bergamo tel. 035 4120322, fax 035 4120182, affaridigola@larassegna.it

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Registrazione Tribunale di Bergamo – n. 48 del 22 novembre 2001

Collaboratori: Lara Abrati, Luca Bassi, Sergio Cotti, Rosanna Scardi, Marco Offredi

Progettazione grafica: Samanta Cattaneo, Mozzo, Bg

Stampa: Litostampa Istituto Grafico, Bg

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OMMARIO
4. No alle scelte in serie
Profumi d'autunno
Massari, meno zucchero più sapore
La zuppa che scalda l'anima
Intervista ad Alessandro Haber
Rub, il gusto in più che avvolge
Il Km zero conquista il cielo
La carne per la ricetta perfetta? Una questione di razza
Il gusto intenso della Valpolicella
Leggere di gusto S
Oscar Fusini
Direttore EDITORIALE
Presente in tutti gli uffici Ascom del territorio Sportello energia Vieni da noi per verificare la convenienza delle tue utenze, analizzare le possibilità di risparmio energetico e determinare il tuo credito d’imposta Per informazioni: 035 4120325 • gestionale@ascombg.it Per appuntamenti: 035 4120304 • soci@ascombg.it

Un nome, uno slogan; una filosofia di cucina, più che un elenco di piatti. L’idea di "ristorante" si sta allontanando da quella di un luogo dove andare semplicemente a pranzo o a cena; è un posto dove ci s’incontra, in cui si cerca un’esperienza, una storia da ascoltare, in cui immedesimarsi e poi da raccontare, magari anche quando la si sta ancora vivendo, attraverso foto e commenti postati sui social. E cosa c’è di peggio, dunque, di ritrovarsi in un posto anonimo, uguale a tanti altri, senza un carattere distintivo, né un’idea che possa in qualche modo farci sognare, non fosse che per il tempo di un piatto di spaghetti?

Eccola la nuova frontiera, quella che i ristoratori sono chiamati ad oltrepassare in questo periodo di post pandemia, per provare a rimanere in piedi. Messa alle spalle con fatica e pazienza l’emergenza sanitaria, nel bel mezzo di una crisi energetica senza precedenti e con lo sguardo rivolto a un futuro mai così incerto, le quasi 340 mila aziende di ristorazione italiane (dati Fipe 2021) sono chiamate a rimboccarsi le maniche e a lavorare sull’evoluzione del proprio business, ottimizzando fatturati e profitto, migliorando la gestione e il flusso del lavoro, formando se stessi e il personale, ma soprattutto individuando una strategia di marca per instaurare una comunicazione profonda tra il brand e i propri clienti, per essere ricordati, scelti e amati, favorendo, quindi, la fidelizzazione e il passaparola. «Il brand (o la marca) è l’essenza che custodisce i motivi per cui un cliente sceglie una determinata azienda o offerta. Si imprime nella testa e nel cuore, diventa memorabile e richiama l’insieme dei valori che lo posizionano sul mercato, presso il proprio pubblico di riferimento». È

5 ottobre - novembre 2022
LA NUOVA FRONTIERA DELLA RISTORAZIONE ITALIANA ORMAI NON È SOLO UNA QUESTIONE DI GUSTO, MA DI FILOSOFIA E DI STILI DI VITA. CHI LAVORA SU UNA PROPOSTA CHE RISPECCHI LA PROPRIA ORIGINALITÀ OTTIENE SEMPRE BUONI RISULTATI. NE ABBIAMO PARLATO CON NICOLETTA POLLIOTTO
No alle scelte in serie Dai personalità al tuo locale

LE

questo il pensiero di Nicoletta Polliotto e Ilaria Polegato, che sull’argomento hanno scritto un libro dal titolo "Creative Restaurant Branding. Il metodo per far emergere l’identità straordinaria del tuo locale", edito da Hoepli. Un compendio in otto lezioni per suggerire ai ristoratori una serie di buone pratiche da mettere in atto per fare della loro attività una vera e propria attrazione per i clienti. Mezzi termini non ce ne sono: anche il mondo della ristorazione sta cambiando in fretta dopo la pandemia, e il mantra è: "reinventarsi per essere riconoscibili". «Serve innanzitutto una profonda riflessione su di sé e sulla propria identità di marca –spiega Nicoletta Polliotto–, che diventa l'elemento distintivo che fa emergere un’attività dalla massa indistinta che oggi purtroppo arranca faticosamente, anche per problematiche contingenti che non dipendono direttamente dalla volontà o dalla qualità del lavoro del singolo ristoratore». Il brand diventa così un primo punto di riferimento, un elemento capace prima di tutto di attrarre la curiosità e poi di creare una sorta di "zona di conforto" nella quale il cliente si trova a suo agio e vuole ritornare.

Qualsiasi locale, come un paio di scarpe o un vestito, non è per tutti, anche se l’obiettivo è quello di piacere a un numero sempre più ampio di persone. Anche il ristoratore che non si propone per essere di nicchia e che nel menù ha inserito un’ampia gamma di proposte nazionali o internazionali, deve sapere che dovrà scegliere, in qualche modo, la propria clientela. «Ogni attività ha necessariamente un target di riferimento – conferma Polliotto – e per individuarlo è importante innanzitutto conoscere se stessi. Per questo il motto diventa “Conosci te stesso per capire cosa puoi fare per il mondo”, ovvero per il tuo pubblico». Ed è a questo punto che il ristoratore sbatte addosso alla necessità di avere un nome che lo identifica e che possibilmente non sia uguali a tanti altri. In altre parole (e non se la prendano i ristoratori che leggono il nome del loro locale in queste righe), è finito il tempo dei ristoranti Da Peppino (tanto per citarne uno), Lo scugnizzo, o A casa mia, o delle pizzerie Miramare o Belvedere: «Il nome deve essere unico e riconoscibile –spiega l’autrice di Creative Branding Restaurant– anche, banalmente, per una ricerca più facile in internet, per l’acquisto di un dominio o la creazione di una pagina sui social. In tanti si stanno accorgendo che i nomi generici non sono più convenienti. Del resto, perché confondersi tra la folla?».

Ma il nome da solo non basta: il brand di un ristorante, come quello di qualsiasi azienda, è fatto anche di altri elementi: il logo, i colori e le parole che si scelgono per raccontare la propria attività, in un percorso che rappresenta un po’ l’avvicinamento del cliente al proprio tavolo e ai piatti che escono dalla cucina. Sono passati solo un paio d’anni e già sembrano lontanissimi i tempi in cui al centro dell’attenzione c’erano gli ingredienti

IL MARCHIO E TUTTO CIÒ

CHE GLI RUOTA ATTORNO, COMPRESO IL MARKETING, SONO PROBABILMENTE IMPORTANTI TANTO QUANTO CIÒ CHE SI TROVA NEL PIATTO

e la loro qualità. Il colpo d’acceleratore impresso dalla crisi e la necessità di trovare formule nuove per sopravvivere in un mercato che sta attraversando una fase di rapido cambiamento, stanno costringendo gli addetti ai lavori ad allargare lo sguardo. Oggi si parla di brand, più che di qualità, come se il contenitore fosse più importante del contenuto. Senz’altro non è così (o, almeno, non dovrebbe esserlo), ma di sicuro il marchio e tutto ciò che gli ruota attorno, compreso il marketing, sono probabilmente importanti tanto quanto ciò che si trova nel piatto. «Il brand non è solo un bel logo, una pietanza ben impiattata o un arredamento interno fatto bene –ricorda Nicoletta Polliotto–. Il prodotto e il suo bel packaging, da soli, sono superati. Negli anni abbiamo capito è importante corredarli, per esempio, con un servizio all'altezza. Ecco dunque che sala ed accoglienza hanno assunto un ruolo sempre più rilevante, e non è un caso che il 50% di una stella Michelin dipenda proprio dal contesto e dal modo in cui l’ospite è trattato. Siamo passati in una fase in cui bisogna dare di più: l'ospite ha bisogno davvero di qualcosa di diverso, un’idea di condivisione, di complicità, ma anche informazione. Non è raro trovare clienti che vogliono sapere la provenienza dei cibi, capirne le proprietà, scoprire i dettagli».

L’offerta è amplissima e ciò che muove le persone verso la scelta del ristorante è un percorso molto più complesso rispetto al passato: da una parte le aspettative si alzano, dall’altra –forse di conseguenza– clienti si sono fatti più selettivi ed esigenti: «Il cibo non è più soltanto la soddisfazione di un bisogno primario, ma è anche sinonimo di convivio, dello stare insieme –svela l’autrice–. Frequentare un locale può diventare uno status symbol e la scelta può cadere sul posto che esprimi valori ai quali ci sentiamo più vicini. Non è più soltanto una questione di gusti, ma di “filosofia” e di stile di vita. D’altronde, le scelte in fatto di cibo sono sempre molto nette, anche quando si tratta di ordinare qualcosa da casa. Il rapporto tra ristoratore e cliente è dunque destinato a rafforzarsi, fino a diventare qualcosa che assomiglia a un rapporto esclusivo, quasi un matrimonio. Anche a questo aspetto, attraverso soprattutto una comunicazione efficace, devono fare attenzione i ristoratori». Dalle parole ai fatti, non sono tanti ancora gli imprenditori che hanno intrapreso questa strada, ma di esempi in Italia ce ne sono parecchi. «Chi decide di investire del tempo dell'energia in queste strategie sono in pochi –ammette Nicoletta Polliotto–, ma chi lo fa ne trae senz'altro molto beneficio. Innanzitutto non è da tralasciare un altro aspet-

to molto importante: chi è in grado di lavorare sul proprio brand, a sua volta è capace anche di trasmettere l’amore e la passione per il suo lavoro ai collaboratori, che in questo modo si sentono coinvolti nel progetto di restyling del locale».

A Firenze, il ristorante La leggenda dei frati dello chef Filippo Saporito ha bruciato le tappe, dopo il trasloco dalla provincia di Siena a villa Barbieri, una location di prestigio che annovera nelle sue stanze anche un museo di arte moderna. «Questo locale –racconta Polliotto– ha costruito un grande cambiamento attraverso il branding e nel giro di poco tempo ha conquistato la stella Michelin. Non succede sempre così, ma chi lavora sulla propria identità ottiene sempre dei riscontri importanti».

Fud Bottega Sicula è un esempio di come l’individuazione di un brand possa rappresentare la base per un’attività di franchising: da Catania a Palermo fino a Milano, il concetto di fondo ruota attorno alla cucina e ai prodotti siciliani, ma con una particolarità: «Hanno fatto la scelta di utilizzare le parole inglesi così come si pronunciano in italiano –dice Nicoletta Polliotto–. Un escamotage per rendere complici i loro clienti, coinvolgendoli in un gioco che tutti, da bambini, abbiamo fatto almeno una volta».

E ancora: all’Art Hotel di Prato c’è un ristorante che ha fatto del connubio tra cibo, arte e musica il suo marchio di fabbrica, valorizzando la presenza delle opere d’arte al suo interno e l’organizzazione di spettacoli dal vivo. «Trovare un equilibrio non è stato facile –conclude Polliotto–; abbiamo affrontato il tema della personalità di questo luogo oltre che dell’aspetto estetico e puntato molto sull’accoglienza».

ottobre - novembre 2022 7 ottobre - novembre 2022

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CHE
AZIENDE DI RISTORAZIONE ITALIANE SONO CHIAMATE A RIMBOCCARSI LE MANICHE INDIVIDUANDO UNA STRATEGIA
INSTAURARI UNA COMUNICAZIONE PROFONDA CON I PROPRI CLIENTI
Nicoletta Polliotto

Profumi d’autunno

L’

autunno è una stagione strana. C’è chi la odia con tutto se stesso e chi la ama profondamente. È la stagione che decreta la fine dell’estate, del caldo, del mare e delle vacanze; è la stagione della ripresa delle scuole e del lavoro; è la stagione dei primi freddi e delle giornate con meno luce. Ma è questione di come si guarda il bicchiere: mezzo vuoto o mezzo pieno. Già, perché l’autunno può essere anche la stagione dei progetti che prendono il via, dei nuovi inizi e delle ripartenze. L’autunno per molti significa alberi colorati, paesaggi magnifici e profumi caratteristici; significa primi caminetti accesi e foto spettacolari. Chi ama profondamente l’autunno lo fa anche per quello che la natura sa donare in questa stagione particolare: tra settembre, ottobre e novembre sulle nostre tavole arrivano infatti prodotti unici e gustosi come il fungo, la zucca e la castagna.

La zucca

Povera di calorie e ricca di nutrienti, la zucca è un ortaggio dalle incredibili proprietà e dai molteplici benefici e può essere consumata in tantissimi modi diversi. È caratterizzata da un basso contenuto di calorie (26 kcal per 100 gr) e un ridotto quantitativo di glucidi e di grassi, per questo è suggerita anche ai diabetici nelle diete ipocaloriche, è costituita per il 90% d'acqua, ed è ricca di fibre.

È ricca di beta-carotene, una sostanze che l’organismo utilizza per la produzione di vitamina A, utile per la salute di pelle, mucose e vista, soprattutto con luce scarsa, e dal fortissimo potere antiossidante, che limita la formazione di radicali liberi e aiuta anche nella prevenzione dei tumori. Contiene, inoltre, molti altri minerali e vitamine, tra cui calcio, potassio, sodio, magnesio, fosforo e vitamine C ed E. Il potassio aiuta a mantenere un corretto equilibrio idrico dell’organismo e delle mucose, mentre la vitamina C aiuta la guarigione delle ferite, attenua i dolori articolari, riduce gli effetti negativi dello stress e previene malattie degenerative.

La zucca ha poi un'alta concentrazione di acqua e fibre, aiuta a migliorare il transito intestinale, combatte la stitichezza, riequilibra la flora, ha ottime proprietà diuretiche e contrasta la ritenzione dei liquidi. È ricca di Omega-3, un grasso buono che aiuta a ridurre il colesterolo del sangue, ad abbassare la pressione sanguigna e a migliorare la circolazione, evitando quindi l'insorgere di ictus, infarti e altre malattie cardiovascolari.

I funghi

È un prodotto senz’altro unico nel suo genere, nonostante vengano comunemente considerati verdure, non appartiene al regno vegetale come ad esempio le carote, le patate, le insalate o i cavoli, ma costituisce un regno a sé, dotato di caratteristiche biologiche uniche. Si tratta di un insieme di tanti microrganismi che per sopravvivere hanno la necessità di reperire dall’esterno le sostanze

nutritive (eterotrofi), distinguendosi pertanto dalle piante e quindi dal regno vegetale.

Nel parlare del fungo si rischia sempre di essere troppo generici, perché questo prodotto comprende più di 100mila varietà che meriterebbero, ognuna, un discorso a sé.

I funghi più comuni sono il porcino, tra i più pregiati in assoluto, che si distingue per il suo grande cappello marrone; il chiodino, piccolissimo, da consumare con la massima attenzione perché in questa famiglia sono comprese anche varietà tossiche; il cardoncello, spontaneo, diffusissimo nel centro e nel sud Italia; il prataiolo, il più comune e il più coltivato in Italia; lo champignon; “cugino” del prataiolo e caratterizzato da una consistenza soda e carnosa.

La castagna

Ma se pensiamo all’autunno non possiamo assolutamente dimenticare la castagna, prodotto che più autunnale non potrebbe esistere. Un tempo pane dei poveri, è da sempre molto amato grazie alla quantità generosa di carboidrati, zuccheri facilmente assimilabili, fibre, importanti per la funzionalità intestinale, vitamine (A, B1, B2, B3, B5, B6, B9, C, D), sali minerali, in particolare, potassio, sodio, magnesio, calcio, cloro, ferro, rame, fosforo e zolfo. Parliamo di un piccolo frutto che dà una sferzata di energia, un vero e proprio ricostituente naturale, con benefici anche sul sistema nervoso, indicato anche in caso di anemia, per abbassare il colesterolo nel sangue e contro l’invecchiamento cellulare. Un frutto adatto anche ai diabetici e, grazie all’acido folico, alle donne in gravidanza per prevenire le malformazioni del feto, mentre la sua vitamina C favorisce la produzione di collagene per una pelle turgida ed elastica. Le sue virtù sono conosciute da secoli. Nell’antichità, ad esempio «l’acqua di lessatura delle foglie e delle bucce delle castagne veniva consiglia ta a chi soffriva di dolori cardiaci» spiega la Fondazione Campagna Amica di Coldiretti, che ricorda anche come l’infuso e il decotto del frutto siano utilizzati anche contro tosse, bronchiti e diarrea.

9 ottobre - novembre 2022
I PRODOTTI DAI COLORI CALDI E DAI SAPORI AVVOLGENTI REGALANO UN’ATMOSFERA PARTICOLARMENTE INCANTATA CHE INVITA A INDUGIARE NEI PIACERI DELLA TAVOLA
di Luca Bassi

Andrea Fresia, CUT (Caravaggio)

«Nel nostro ristorante usiamo quasi esclusivamente prodotti di stagione. I funghi in autunno non mancano mai, quelli che preferisco sono i cardoncelli per la loro consistenza carnosa. La zucca, invece, la uso poco perché non sono un grande estimatore, però -spiega Fresia- quest’anno la sto utilizzando come crema, con aggiunta di senape, per accompagnare la guancia brasata. Le castagne sono invece un prodotto che cerco di inserire sempre, quando sono disponibili: le uso sia nei piatti dolci, sia nei piatti salati, magari abbinate a un raviolo di carne o, come fatto in passato, anche a dei tortelli di gamberi rossi».

Nafi Dizdari, One Love Restaurant (Bergamo)

«Penso che la parte più bella del mio lavoro sia proprio il cambio delle stagioni, grazie alle quali nascono quasi spontaneamente nuovi piatti con abbinamenti a volte del tutto casuali ma con risultati sorprendenti. La zucca -spiega la chef del ristorante di Colognola a Bergamo- è uno dei miei ingredienti preferiti: la uso principalmente nei primi piatti o come contorno, anche se mi piacerebbe quest’autunno farci un dessert. E che dire delle castagne? Per anni da piccola ho atteso con ansia l’arrivo dell’autunno per deliziarmi con le castagne arrosto: le adoravo. Da quando faccio la cuoca spesso le utilizzo nei miei piatti, ma dove le preferisco di più è nei dolci. Da qualche anno nella carta dei dolci al One Love c’è Cachi e castagne, un abbinamento che è piaciuto davvero molto ai nostri clienti».

Giacomo Ercoli, Ribelle e Rascasse (Treviglio)

«In generale preferisco usare prodotti stagionali perché, oltre che essere più saporiti, spesso provengono solo dalla zona, consentendo una maggiore sostenibilità del piatto finale sia a livello di costi per l’azienda nella quale lavoro, sia per l’ambiente. Il mio fungo preferito? Non potendo conoscerli tutti dico il cardoncello, perché ha una fibra molto compatta e si presta a varie tipologie di cotture, dalla piastra alla trafilatura. Per quel che riguarda la zucca, non la amo particolarmente, ma mi piace utilizzarla perché molto versatile: è molto interessante come cambiando varietà cambiano anche sensibilmente le caratteristiche organolettiche di questo prodotto. Ad esempio -spiega lo chef- la zucca mantovana è molto amidacea e ha un sapore che ricorda molto la castagna in cottura, mentre la zucca lunga ha una polpa più acquosa è un gusto più fresco ed erbaceo. Infine la zucca potimarron, è sensibilmente più dolce ed ha la particolarità di avere la buccia edibile. Questo permette di spaziare tra preparazioni dolci e salate con un solo ingrediente base, cosa che mi piace molto fare nella mia cucina. Come dicevo prima, prediligo usare i prodotti quando sono in stagione, per il caso specifico delle castagne le uso principalmente in autunno, ma non solo arrostite, anche bollite, tritate e messe in una riduzione di Marsala per esempio».

RICETTA

QUICHE ALLA ZUCCA, SPECK E ROSMARINO

Ingredienti

3 230 g di pasta brisée (o sfoglia) 3 500 g di zucca pulita 3 1 scalogno piccolo 3 50 g di speck (fetta unica) 3 180 ml di panna liquida 3 150 g di scamorza affumicata 3 50 g di Grana Padano 3 3 Uova 3 qb Olio extravergine di oliva 3 qb Sale fino 3 qb Pepe nero 3 qb Rosmarino tritato

Procedimento

Affettare finemente lo scalogno e tagliare la zucca a cubetti piccoli. In una padella rosolare lo speck tagliato a listarelle fino a renderlo croccante. Toglierlo dalla padella e mettervi lo scalogno e la zucca con un po’ di olio. Cuocere per una quindicina di minuti a fiamma vivace aggiungendo, se necessario, un po’ di acqua, poi regolare di sale e pepe. In una ciotola unire le uova, la panna, il formaggio grattugiato, un pizzico di sale, pepe e rosmarino. Mescolare fino a ottenere un composto omogeneo. Con la pasta brisée rivestire uno stampo da 26 cm di diametro. Bucherellare il fondo con i rebbi di una forchetta, quindi aggiungere la zucca con lo scalogno, lo speck croccante, la scamorza tagliata a pezzetti e poi versare la miscela a base di uova. Cuocere in forno a 180 gradi per circa 50 minuti. Sfornare la quiche e lasciarla intiepidire prima di servire.

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Abbiamo chiesto a tre chef del territorio di raccontarci come utilizzano i tre prodotti e quali piatti propongono nei loro menù.

«In aeroporto non prende bene, dev’esserci un problema con la riaccensione dei cellulari». È lui a richiamare, come promesso. Dopo 4 tentativi, la connessione è finalmente accettabile. «Sono a Linate, appena rientrato dalla riunione tecnica annuale dei Relais Dessert, alle porte di Parigi». Iginio Massari, 80 anni compiuti il 29 agosto scorso, miglior pasticciere al mondo nel 2019, è ancora una delle voci più ascoltate nel gotha della pasticceria internazionale.

Di cosa avete discusso?

Di caro energia e di materie prime, in particolare di quelle che hanno bisogno di spostamenti e di quelle che richiedono più energia.

E a quali conclusioni siete arrivati?

Che tutti dobbiamo contribuire al benessere del pianeta, ma che sarebbe più semplice se lo facessero gli Stati. Servono delle buone leggi e che siano rispettate. Chi le fa di solito non ha un buon successo, ma dobbiamo smetterla di pensare sempre a noi, e provare a fare qualcosa per bambini e per quelli che verranno dopo di loro.

Quali sono le materie prime che esprimono lo spreco maggiore di energia?

Abbiamo preso in considerazione solo due ingredienti, il cioccolato e il limone. Quello che “spreca” di più è il limone, mentre tra i vari tipi di cioccolato, quello con valori più bassi è il cioccolato fondente. D’altronde, il latte è prodotto dalle mucche, che hanno un peso molto elevato in fatto di inquinamento.

Rischiamo insomma di avere meno dolci al cioccolato o torte al limone?

No. Abbiamo solo analizzato questi ingredienti, presi a campione da due studiosi universitari parigini. Comunque, tra i cibi più inquinanti ci sono senza dubbio i surgelati.

Qual è la criticità maggiore di cui soffrono i pasticcieri in questo momento?

È aumentato tutto, non solo le bollette. Le aziende non producono più vetro, né carta perché costa di più l’energia del prodotto, e anche questo è un problema. Aumentano il riso e il frumento, ma anche i costi di produzione: tra un po’ i ristoratori non compreranno più i piatti e finiranno per sistemare quelli rotti con l’attaccatutto. È come se si fosse rovesciato all’improvviso sulla Terra il vaso di Pandora. Ma forse è già tanti anni che si sta rovesciando e noi non l’abbiamo mai voluto vedere.

Chi li pagherà questi aumenti?

I prezzi andranno alle stelle, perché gratis o sottocosto non lavora nessuno e chi ha una pensione bassa rischia di morire di fame. Ma non è così dappertutto; la Francia, per esempio, è straricca per via dell’energia. Noi invece…

Qual è l’alternativa alla minore produzione di carta?

Io alla carta sono molto affezionato e non posso chiedere al cliente di presentarsi col cappello in mano per metterci dentro dolci. Io ricordo quando da bambino andavo a fare la spesa con mia madre: aveva una borsa intrecciata dalla nonna con le foglie della pannocchia e il pane si metteva lì; lo zucchero, poi, arrivava nei negozi in sacchi da mezzo quintale. Se il progresso significa tornare indietro…

C’è anche tra voi pasticcieri una difficoltà di reperimento del personale, come nella ristorazione e in altri settori dell’industria?

A Parigi parlavo con i colleghi americani e loro questo problema non ce l’hanno. Francesi e tedeschi un po’ di più; è una malattia europea, ma è molto più sviluppata in Italia che altrove, perché se ai francesi manca il 5% degli

AI FRANCESI MANCA IL 5% DEGLI ADDETTI, NEL NOSTRO SETTORE MANCA FINO AL 50% DEL PERSONALE DI SERVIZIO. LE LEGGI DELLO STATO HANNO CONTRIBUITO A QUESTA SITUAZIONE, NON SI PUÒ PIÙ FARE FINTA DI NIENTE

addetti, nel nostro settore manca fino al 50% del personale di servizio. Le leggi dello Stato hanno contribuito a questa situazione, non si può più fare finta di niente.

Avremo un Natale con meno dolci in tavola?

Non lo so, ma non penso. Ho visto che, nei periodi di crisi, a Natale si lavora di più, perché resta un momento sacro, soprattutto per gli italiani che sono ancora fortemente vincolati alla tradizione della famiglia.

Il Natale è sinonimo di panettone e il suo è uno dei più apprezzati al mondo. L’idea di sdoganarlo tutto l’anno non rischia di fargli perdere il suo fascino?

Sono stato il primo a sdoganare il panettone nel 1975, l’anno in cui è nata mia figlia. L’ho fatto in onore della sua nascita; lo trovavo talmente buono che consideravo assurdo mangiarlo solo col paniere di Natale. È sempre stata una mia idea e le vendite mi hanno dato ragione.

Dopo quasi 50 anni la pensa allo stesso modo?

Guardi, le vendite sono sempre aumentate, le aziende continuano a produrlo e lo si inizia a vendere seriamente già dal 15 agosto. Adesso poi certe usanze stanno modificandosi: viviamo un po’ di ricordi, un po’ di tradizioni e un po’ di innovazione.

Lei che è nato a fine agosto, ha mai festeggiato il compleanno con il panettone?

Sempre, anche quest’anno.

Ho letto che per i suoi 80 anni non ha voluto la torta, né soffiare sulle candeline, eppure era un compleanno speciale. Perché?

Non volevo i regali e se avessi invitato le persone al mio compleanno, si sarebbero sentite obbligate a farmene.

Così l’ho chiamata “festa di fine estate”.

Geniale, non c’è che dire. Ma mi dica, crisi economica a parte, da qualche tempo la tendenza è quella di preparare dolci sempre meno dolci, arrivando fino ad utilizzare il 70% in meno di zucchero. Com’è possibile,

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AVREMMO DOVUTO PARLARE DEL SUO OTTANTESIMO COMPLEANNO E DEL SUO BILANCIO PROFESSIONALE MA CI HA ABILMENTE CONDOTTO SUI TEMI CHE AFFLIGGONO OGNI GIORNO I PASTICCIERI: COSTI DELLE MATERIE PRIME, RINCARO DELLE BOLLETTE E RICERCA DEL PERSONALE
IGINIO MASSARI
Meno zucchero più sapore
©iginiomassari.it
di Sergio Cotti
SE

senza stravolgere le ricette tradizionali?

L’eccesso di dolce porta via la parte aromatica. Ci sono 5 sapori ufficiali e uno ufficioso: quelli ufficiali sono il dolce, il salato, l’acido, l’amaro e il sapido, o umami, come lo chiamano gli snob. Poi c’è quello “ufficioso”, che è l’untuoso, che può essere percepito da alcune molecole. La percezione della parte aromatica avviene grazie al sale e allo zucchero, con il sale che ha una forza 20 volte superiore a quella dello zucchero. Se un dolce è troppo zuccherato, si rischia di coprire l’aroma degli ingredienti. Così quando si fanno i dolci meno dolci, si mette un po’ più di sale nell’impasto, andando per tentativi fino a quando, assaggiando, non si sente il sale né all’inizio né alla fine. Il dolce risulterà un po’ meno dolce, con una compensazione di piccole quantità di sale.

Ci rassicuri, cambieranno i sapori di Tiramisù e Profiteroles?

I gusti non cambiano, semmai aumenta l’aroma. Prenda per esempio le fragole: se le assaggia bendato e al naturale percepirà un’acidità più intensa rispetto alla parte aromatica. In questo caso aggiungere un po’ di zucchero è necessario. È una questione di equilibrio.

Zucchero e limone, certo.

Il limone no! Si metteva una volta, quando la fragola aveva il gusto di fragola e c’era bisogno di un pizzico d’acidità per dare un po’ di freschezza. Adesso non è più il caso. In passato si aggiungeva tanto zucchero nei dolci per riuscire a legare più acqua libera possibile, perché non essendoci frigoriferi, i prodotti si deterioravano più velocemente. Oggi sono rimasti così i dolci dei Paesi arabi, per esempio.

Il tempo corre e Iginio Massari è quasi arrivato a Brescia. Maestro, io la ringrazio per la chiacchierata, però avevo preparato tutt’altre domande. Me ne concede almeno un paio sul motivo per cui abbiamo voluto intervistarla?

«Prego».

Il 2023 sarà per Bergamo e Brescia, le nostre città, l’anno della Capitale della Cultura. Il Comune di Brescia le ha chiesto di pensare a un dolce speciale.

Lo ha già fatto?

Il dolce tipico della cultura bresciana è il bussolà, che per qualcuno nasce con la Repubblica veneta: era simile al vecchio salvagente che veniva gettato dai galeoni per salvare le persone in mare e che, essendo di legno, se qualcuno veniva colpito in testa annegava più in fretta.

Per altri è nato dai celtici e il nome deriva dal dialetto “bisciolà”, ovvero biscia attorcigliata, simbolo del potere del re longobardo.

Sarà dunque una rivisitazione di questo dolce?

A dire il vero una rivisitazione l’ho già fatta e la vendiamo tutto l’anno.

Quindi?

Per il 2023 cercherò di rifare il bussolà, con un po’ d’essenza del dolce Donizetti, che è molto buono, nonostante non abbia mai avuto una grande fortuna, forse perché non pubblicizzato dall’industria.

Avrà un nome?

Non vorrei essere io a darlo. Sarebbe bello coinvolgere le città, indire un concorso tra i ragazzi delle scuole e far loro studiare, oltre al nome, anche una scatola ad hoc.

Più persone si coinvolgono, di entrambe le città, meglio è.

L’antagonismo mi ha sempre fatto arrabbiare: 160 anni fa c’è stato un mezzo matto che ha voluto fare l’Italia, poi è arrivato il Covid e, con questo, tanti piccoli re (i presidenti delle Regioni, ndr) che hanno provato a distruggere tutto.

La Capitale della Cultura è una buona occasione per lavorare insieme, proviamoci.

Forme Infinite

Il mondo del formaggio non ha confini

"Forme infinite” è l’evocativo titolo della settima edizione di Forme. L’aggettivo rimanda a tradizioni e saperi che si perdono in una storia millenaria, mai come oggi così viva e vitale, ma già proiettata verso il futuro. Il nome vuole essere anche il simbolo di una filiera che deve innovare, evolvendo verso la sostenibilità, in un infinito ricevere e dare ai territori in cui si sviluppa. Circolare, responsabile e rilevante, l’economia del latte e del formaggio è un fattore imprescindibile di valore per l’agro-alimentare italiano e internazionale.

La manifestazione, che si svolge a Bergamo il 22 e il 23 ottobre 2022, è infinita anche nelle modalità di approccio al formaggio, che non solo verrà ammirato, degustato e acquistato, ma sarà oggetto di convegni e dibattiti, nonché elemento centrale di concorsi caseari-gastronomici. Il nucleo dell’evento sarà, com’è ormai tradizione, Piazza Mercato del Formaggio, la mostra-mercato ospitata nella Loggia di Palazzo della Ragione, in una delle piazze più belle del mondo, Piazza Vecchia. La novità di quest’anno è la presenza, accanto ai formaggi DOP delle Cheese Valleys, di alcune produzioni d’eccellenza di Parma e Alba, Città Creative Unesco della Gastronomia come Bergamo. Sarà possibile assaggiare formaggi e prodotti selezionati, in

abbinamento con vini dei consorzi di tutela lombardi, presso corner di presentazione e degustazione presidiati da Maestri Assaggiatori e Sommelier, con la presenza istituzionale di Ascovilo (Associazione dei Consorzi di Vino Lombardi). Alba, Bergamo e Parma saranno protagoniste anche della coreografica mostra-museale allestita nel prestigioso spazio dell’Ex Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Città Alta, dedicata ai prodotti tipici delle tre città. Per Bergamo protagonisti saranno i formaggi, con le 9 DOP casearie e le eccellenze delle Cheese Valleys Orobiche, alla base del riconoscimento Unesco, mentre per Alba e Parma saranno prodotti più identitari e profondamente legati alla cultura e alla storia dei luoghi.

Il presente e il futuro del formaggio saranno anche al centro dei convegni e delle tavole rotonde “Incontri e racconti”, sui temi della sostenibilità economica, sociale e ambientale. Ci sarà spazio per un’esperienza multisensoriale nelle master class dei Cheese Labs, organizzati in collaborazione con Maestri Assaggiatori ONAF e con i sommelier AIS per l’Associazione Ascovilo nella suggestiva sala S.Agata del Circolino di Città Alta.

Altrettante sfide alla creatività di produttori e chef saranno infine i ben quattro concorsi caseari-gastronomici, in cui i formaggi recitano un ruolo di primo piano.

ottobre - novembre 2022 15 ottobre - novembre 2022

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A
È
E
MI
SONO STATO IL PRIMO
SDOGANARE IL PANETTONE NEL 1975, L’ANNO IN CUI
NATA MIA FIGLIA. LO TROVAVO TALMENTE BUONO CHE CONSIDERAVO ASSURDO MANGIARLO SOLO A NATALE. È SEMPRE STATA UNA MIA IDEA
LE VENDITE
HANNO DATO RAGIONE
TORNA A BERGAMO IL 22 E 23 OTTOBRE LA MANIFESTAZIONE DEDICATA ALL’ARTE CASEARIA ©iginiomassari.it

La zuppa che scalda l'anima

Catalfamo, 46 anni, di Vignate, che nel 2013 ha aperto a Milano Casa Ramen e poi Casa Ramen Super, ristorante dove si possono prenotare altri piatti, abbinando un bicchiere vino o birra. Nel libro Casa Ramen, pubblicato da Giunti, Catalfamo racconta la sua storia, una giornata nei suoi locali e non manca la ricetta per preparare un ottimo ramen a casa.

La scoperta del Ramen

IL RAMEN È UN BRODO

CALDO TIPICO DEL MONDO ASIATICO CHE HA INIZIATO A CONQUISTARE ANCHE I NOSTRI PALATI. NE ABBIAMO PARLATO CON LUCA CATALFAMO, UNICO CHEF NON GIAPPONESE CHE HA TRASCORSO DUE ANNI NELLA FOOD COURT DEL MUSEO DEL RAMEN DI SHIN-YOKOHAMA

«Una dozzina di anni fa lavoravo nelle cucine dei ristoranti di New York quando ho scoperto il ramen per caso, come accade per tutte le cose belle –racconta Catalfamo-. Finito il turno, passando fuori dai locali nell’Est Village, mi colpì una lunghissima coda. Era gente che aspettava di entrare a Ippudo, iconico ramen bar. Entrai e fu un colpo di fulmine». Lo chef si è messo a ricercare, ha studiato, assaggiato, testato, ponendo fin da subito un confine netto tra la sua attività culinaria tradizionale e la sua passione. «Il mio approccio era da cliente affezionato, cercavo di assaggiare più tipologie differenti –dice–. Così sono volato a Sidney e a Londra, l’idea era di aprire un ramen bar a Milano. E così è stato, nel 2013, con Casa Ramen, quando nessuno sapeva cosa fosse questo piatto: ho spianato la strada a tanti professionisti, dando un’impostazione». Dopodiché è ripartito per il Giappone per un’immersione totale nella cultura che ha dato origine al ramen per poterne catturare l’anima.

Una zuppa, tante ricette

prova è dimostrata facilmente assaporando il tonkotsu ramen. «Il migliore, quello che ho introdotto per primo, dal brodo denso, lattiginoso, preparato con carne e ossa di maiale che cuoce per 12-14 ore e riposa un’intera notte -conferma lo chef-. È anche la variante più diffusa e gustosa».

I segreti per gustarlo

Il ramen è un piatto unico, semplice ma saporito, diventato lo street food per eccellenza in Giappone. Esistono decine e decine di varianti della ricetta, dal brodo di carne a quello di pesce, dalle spezie alle verdure, e in Giappone ogni regione ha la propria specialità. Fino agli anni ‘50 era chiamato shina soba cioè zuppa cinese, in quanto servito dai ristoratori cinesi. Il piatto simboleggiava l’imperialismo giapponese; gustare una ciotola di shina soba in quegli anni significava ingurgitare la stessa Cina. Il nome fu cambiato in ramen, che richiama la parola cinese lamian, ossia tagliolini tirati a mano. A introdurre la specialità, per primo, in Italia è stato lo chef Luca

Il ramen è una zuppa calda. «Questo secondo la visione italiana il ramen –afferma Catalfamo-. Ma è riduttivo definirlo tale, è molto di più: è il comfort food asiatico, composto da noodles freschi fatti con farina di frumento, brodo di carne o pesce e tanti altri ingredienti come pollo, uova sode, alghe. Si definisce da solo». Ci sono quattro macrocategorie: shio (brodo chiaro e molto saporito che combina carne di pollo con pesce, verdure e alghe, spesso guarnito con prugne sotto aceto), shoyu (brodo di carne scuro con salsa di soia, alghe, germogli di bambù, fagioli, uova sode e spezie), miso (brodo di miso con pesce o pollo) e tonkotsu (brodo di maiale, spesso servito con zenzero sotto aceto). «Ma non c’è una regola, la differenza la fa chi lo cucina, in base al proprio gusto, esperienza e anche umore -afferma l’esperto-. Varia a seconda del luogo, come accade in Italia per piatti regionali. Il sapore del brodo non è mai identico. La regola semplice è cercare di non copiare, ma riprodurre l’anima con gli ingredienti del territorio. Il fine è portare chi lo gusta in Giappone o regalare un assaggio a chi desidera andarci».

Il Tonkotsu Ramen e l'Umami

Si narra che il ramen sia uno dei pochissimi piatti che consente di sentire l’umami, il quinto sapore, separato rispetto al dolce, al salato, all’aspro e all’amaro, che noi occidentali non conosciamo affatto. In questo caso, la

Il ramen è anche divertente da mangiare: si usano la bacchette, ma anche un mestolino per il brodo. Ecco alcune regole per gustarlo al meglio. «Girare noodles con bacchette e cucchiaio fa molto spaghetto all’italiana, ma è parte della nostra cultura, dunque è bello da vedere -sorride Catalfamo-. Poi suggerisco di consumarli al dente e velocemente, altrimenti la pasta si ammorbidisce. Prima però si assaggia il brodo e prima ancora, lo si annusa. Gli ingredienti non vanno mescolati per godere di tutti i sapori e delle diverse sfumature, ma si mangiano uno alla volta, partendo dal topping. Seconda cosa: il brodo si beve alla fine, alzando la ciotola, senza badare all’etichetta».

Dal dilm Ramen Heads al Museo del Ramen

“Ramen heads” di Koki Shigeno, più che un documentario è un atto d'amore verso questa pietanza che rivela, passo dopo passo, i segreti dei migliori chef di questa zuppa, a partire da Tomita Osamu considerato l'imperatore indiscusso del ramen. Per far capire quanto è grande la sua fama, il Tomita Ramen, a Matsudo, ha solo undici posti ed è un luogo di culto tra i più visitati in Giappone tanto che ha dovuto sviluppare un sistema di biglietteria digitalizzato per le prenotazioni. Esiste anche il Museo del ramen di Shin-Yokohama, vero parco a tema dedicato a questo piatto. Luca Catalfamo è stato invitato a presenziare nella food court, dove è rimasto per due anni, unico chef non giapponese.

16 ottobre - novembre 2022 17 ottobre - novembre 2022

di Rosanna Scardi Luca Catalfamo

Alessandro Haber

Il sapore è un piacere, il cibo è godimento

Forte e carico di emozioni è il legame che da sempre unisce cinema e cibo. Tra i buongustai dei fornelli e maestri della settima arte c’è Alessandro Haber, che a Bergamo ha girato un film, calcato il palco del Teatro Donizetti, mentre a fine agosto è stato ospite della nona edizione del Food Film Fest, in piazza Mascheroni, sotto le stelle.

Haber, lei ha sempre definito sua mamma un’ottima cuoca. Cosa le preparava?

Mio papà era romeno di origini ebraiche e lei era

bolognese. Si chiamava Tommasina Fanti ed era davvero eccellente ai fornelli. Aveva imparato a mescolare nella sua cucina profumi e sapori di varie culture e Paesi. A Tel Aviv, dove i miei genitori hanno vissuto e io ho trascorso l’infanzia fino ai nove anni, mia mamma aveva imparato dai miei nonni paterni la cucina austroungarica, come la salsa de vinete, una mousse di melanzane di origine balcanica, squisita se spalmata sul pane o sui crostini, meravigliosa per accompagnare carne o pesce; e i knaidel, gnocchi di pane conditi con speck, tipici della cucina degli ebrei dell’Est. E adoravo le sue polpette di

ogni tipo, specialmente in agrodolce, che non ho più riassaggiato in nessun ristorante, le sue cotolette sottili, piccole e tante che io mangiavo con le mani. Adoro farlo ancora, quando è possibile ovviamente. E poi preparava delle torte eccezionali, dalla sacher a quella di mele.

Anche il suo debutto avvenne in Israele e con sua mamma in platea… Avevo sei anni, accadde alla prima recita in collegio, a Tel Aviv. Mi affidarono il ruolo del protagonista. Qualcuno tra i miei compagni fece una battuta e scoppiammo tutti a ridere. Mi feci la pipì addosso, così tanta che il rigagnolo scese dal palco fino in platea, raggiungendo i piedi del preside. Mia madre si vergognò e se ne andò. Comunicare, con la voce e il corpo, è sempre stata la mia vocazione. Sul set o sul palcoscenico mi sento bene, a casa. Non amavo i libri, lo studio per me è la vita.

Il cibo spesso è parte del copione. Mi fa qualche esempio di film memorabile?

Il più importante è “La grande abbuffata” di Marco Ferreri, che racconta una storia di amicizia e sesso. In fondo, da come mangi si capisce come fai l’amore. E poi “Storie di ragazzi e di ragazze” di Pupi Avati. Io impersono il patriarca contadino, ma ricco, che fa sposare la figlia, interpretata da Lucrezia Lante della Rovere, a un giovane proveniente da una famiglia altolocata, ma squattrinato. Sono spesso brillo, faccio avances a tutte, talmente insistenti che oggi mi arresterebbero. E le scene si svolgono tutte a tavola. Indimenticabile è il menù di venti portate che il parroco del paese religiosamente elenca prima di iniziare il pranzo di fidanzamento. Il cibo permette spesso di giocare con la psicologia dei personaggi.

Qual è il suo rapporto con il cibo?

Gusto tutto, tranne la pajata o altri piatti con le interiora che proprio non sopporto. Amo la pasta, anche se i carboidrati sono deleteri per la linea e io sono sempre a

MI PIACE SCOPRIRE LA CUCINA REGIONALE E COSÌ VADO ALLA RICERCA DEI PIATTI TIPICI DURANTE LE LUNGHE TOURNÉE TEATRALI, INFORMANDOMI PRIMA SULLE MIGLIORI TRATTORIE DEL POSTO. OBBLIGO ANCHE I MIEI COLLEGHI A ORDINARE PIETANZE DIVERSE DALLE MIE COSÌ ASSAGGIO TUTTO

QUANDO SONO NELLE CITTÀ

CHE CONOSCO VADO NEI RISTORANTI DOVE I CUOCHI SONO AMICI E MI TRATTANO BENE

dieta. Pertanto, cerco di mangiarli a pranzo, lasciando le proteine per la cena. Mi piace scoprire la cucina regionale e così vado alla ricerca dei piatti tipici durante le lunghe tournée teatrali, informandomi prima sulle migliori trattorie del posto. Obbligo, inoltre, miei colleghi a ordinare pietanze diverse dalle mie così assaggio tutto. Quando sono nelle città che conosco vado nei ristoranti dove i cuochi sono ormai amici e mi trattano bene. A Milano non rinuncio a risotto e cotoletta, a Bologna alle tagliatelle al ragù, le migliori in Italia. Il sapore è un piacere, come il sesso (ripete, ndr), il cibo è godimento. Mangiare bene significa stare bene, convivialità, allegria.

Le piace bere?

E’ un altro piacere irrinunciabile della vita. Non esiste non bere uno, due o tre bicchieri di un buon vino rosso a cena. Diffido poi dalle donne che sono astemie…

Tra i suoi colleghi chi si distingue per talento ai fornelli? Il produttore Pietro Valsecchi cucina da Dio. Anche Massimo Ghini è molto bravo. Altri talenti non mi vengono in mente. Ricordo, però, le cene a casa di Maria Amelia Monti, dove la storica governante mi preparava un coniglio arrosto con le patate sublime che oserei definire migliore perfino di quello di mia mamma. A tavola, poi, si può parlare di banalità, ma nascono anche progetti artistici.

Chi desidererebbe avere come commensale alla sua tavola?

Mia mamma che mi manca molto e Ugo Tognazzi, di cui quest’anno ricorre il centenario dalla nascita, perché sa cucinare ed è stato un grande attore.

Nel film cult “Io la conoscevo bene” di Antonio Pietrangeli l’attore cremonese interpretava Gigi Baggini. E lei ha intitolato la sua autobiografia “Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini)”, edita da Baldini+Castoldi. Perché?

Tognazzi interpretava magistralmente un attore sfigato e disperato che cercava di sfangarla ed era preso in giro da tutti. Mi ha insegnato a essere forte, a scavalcare le montagne. Per tutta la vita ho riscattato quel personaggio, che cerca un copione. Ma è un simbolo. Vorrei dare una speranza agli ultimi, in generale, i meno fortunati, che sono anche gli immigrati che arrivano con i barconi sperando in una vita migliore.

L’INTERVISTA
18 ottobre - novembre 2022 19 ottobre - novembre 2022

Siamo aperti tutte le mattine dalle 8.45 alle 12.00 lunedì, mercoledì e giovedì pomeriggio dalle 14.15 alle 17.00

BERGAMO È UNA CITTÀ CHE MI PIACE MOLTO PERCHÉ RICCA DI CULTURA, DOVE SI PRODUCONO SPETTACOLI E C’È UN’ATTENZIONE SPECIALE VERSO IL PUBBLICO

Ha frequentato il grande Tognazzi?

Sì, partecipavo ai leggendari tornei di tennis di fine agosto a Torvaianica dove si vinceva lo “scolapasta d’oro”, nato come risposta all’insalatiera d’argento, la Coppa Davis. Diventò un evento dalle proporzioni gigantesche che radunava i personaggi dello spettacolo. Incontravo Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Gigi Proietti, Paolo Villaggio, Gilberto Pontecorvo. Dopo le partite, Tognazzi cucinava in modo sorprendente, amava stupire. E ci riusciva.

Il suo esordio sul grande schermo è avvenuto nel 1967 con Marco Bellocchio che l’ha diretta nel film “La Cina è vicina”. Fa effetto… Ormai è arrivata la verità, quel film è stato premonitore. Alla luce del Covid, fa impressione. I cinesi hanno un grande potere, la loro è un’invasione lenta.

Se non fosse diventato Alessandro Haber, cosa avrebbe fatto nella vita?

Non ho mai avuto un piano B. Forse sarei diventato un missionario in Africa. Anche in questo modo avrei fatto qualcosa per chi ha bisogno.

Che ricordi ha di Bergamo?

Meravigliosi. Di piazza Vecchia dove ho girato il film in costume “Il manoscritto” diretto da Alberto Rondalli insieme ad Alessio Boni, del Teatro Donizetti che ho calcato più volte. E’ una città che mi piace molto perché ricca di cultura, dove si producono spettacoli e c’è un’attenzione speciale verso il pubblico. Ho anche mangiato alla trattoria D’Ambrosio di Giuliana, una cucina semplice, ma ben fatta. E poi…

E poi?

Non dimenticherò mai la prima fidanzatina, che era bergamasca. L’avevo conosciuta durante un’estate al mare. Si chiamava Luciana ed era molto carina, chissà che fine avrà fatto. Mi piacerebbe incontrarla.

20 ottobre - novembre 2022 21 ottobre - novembre 2022
©Associazione Culturale Art Maiora – FoodFilmFest 2022
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Rub, il gusto in più che avvolge

MIX DI SPEZIE E AROMI

DA STROFINARE SU CARNI, PESCE O VERDURE PRIMA DELLA COTTURA. UN TOCCO IN PIÙ PER PORTARE IN TAVOLA CONSUETUDINI APPARTENENTI AD ALTRE CULTURE

relazione alla presenza di piccante o meno, e possono essere anche umidi, utilizzati cioè nelle marinate.

Ieri gli insaporitori, oggi i rub. Fino a pochi anni fa erano i primi a farla da padrone nelle cucine domestiche (ma anche professionali, purtroppo) al fine di dare la spinta gustativa alle pietanze cucinate, sia che fossero carni, pesci o verdure. E anche per le preparazioni semplici non era in uso strofinare le materie prime con una miscela di spezie buona e bilanciata. Oggi, iI rub, mix di spezie e aromi da strofinare (come suggerisce il nome) sulle carni, utilizzato comunemente nel nord Europa, negli Stati Uniti e più in generale nelle Americhe, con lo sbarco della cultura del barbecue americano, ha iniziato a spopolare anche da noi. Basta andare in una qualsiasi rivendita dedicata agli appassionati del settore per trovarne di creativi.

Ma di cosa si compone un buon rub? Vi sono sicuramente le spezie, che danno il tocco aromatico, ma anche il piccante, le aromatiche essiccate ridotte in polvere, così come aglio, ma anche cipolla sempre secchi e tritati fini, il sale e, in relazione alla preparazione, un poco di zucchero che contribuirà alla formazione della crosticina (chiamata in gergo “bark”) sulla superfice dei nostri pezzi di carne, di verdure o sul pesce.

Ogni rub incide profondamente sulle caratteristiche gustative del piatto che andremo a preparare, per questo motivo non è consigliabile crearlo senza criterio. Il rischio è quello di insaporire le nostre carni con miscele non adeguate.

Ma senza acquistare prodotti industriali, con il carico di additivi artificiali presenti negli stessi, è possibile preparare i propri rub in cucina: dai più semplici, a cui siamo abituati, ai più complessi. Essi si dividono in dry rub o spice, in

I rub più semplici da preparare, perfetti per ogni pietanza, sono l’SPG e lo SPOG, che si differenziano tra loro per la presenza della cipolla in polvere. Il primo è composto da sale, pepe e aglio (in proporzione uguale), mentre il secondo possiede anche la cipolla. Se siete alle prime armi, provate a prepararne uno di questi e a cospargere le vostre carni prima di una lunga cottura in forno o al bbq (esempio per il roast beef): verranno una meraviglia. A partire dalle componenti del rub SPG si possono iniziare a sperimentare le varianti, con l’aggiunta ad esempio della paprika (dolce o piccante in relazione ai propri gusti), del peperoncino (magari scegliendo quello che più vi aggrada in termini di piccantezza e aromaticità). Tra i più famosi rub troviamo il Cajun Rub, che prende il nome dal gruppo etnico Cajun, costituito dai discendenti di canadesi francofoni deportati in Louisiana. Questo rub è perfetto per pesce, pollo, maiale, ma anche per i frutti di mare e si prepara unendo 3 cucchiai di paprika dolce, 2 di sale fino, 1 di peperoncino, 1 di cipolla essiccata, 1 di aglio in polvere, 1 di origano, 1 di timo, mezzo cucchiaio di pepe nero in polvere e mezzo di pepe bianco.

Dalla Jamaica invece arriva il Jerk rub, famoso per la preparazione di uno dei piatti simbolo della cucina di questa zona: il Jerk chicken. In realtà quello originale è una vera e propria marinata, un rub umido, ma lo si può utilizzare anche a secco con risultati ottimi su pollo e maiale. Si compone di diverse spezie e la nota piccante lo caratterizza particolarmente. Servono 4 cucchiai di habanero in polvere, 8 di cipolla essiccata, 2 di aglio in polvere, 8 cucchiaini di pimento (chiamato Allspice o pepe della Giamaica), 2 cucchiaini di noce moscata, 2 di cannella, 1 di chiodi di garofano, 8 di timo secco, infine 4 di pepe e 4 di sale. Le dosi, come in tutti i rub, possono variare a piacere. È possibile anche preparare rub dolci per accompagnare la frutta; per esempio unendo lo zucchero di canna con la cannella macinata, un poco di chiodi di garofano e una punta di pepe. Insomma, in relazione al mix di spezie scelto possiamo dare alla nostra materia prima caratteristiche aromatiche molto diverse: dai sentori mediterranei se si utilizzano aromatiche tipiche della macchia, fino a sentori più pungenti e forti se si utilizzano pepi di diversa provenienza e aroma, ma anche peperoncini essiccati con diverso grado di piccantezza. Ad ognuno il proprio rub da preparare nella propria cucina.

23 ottobre - novembre 2022

Il km zero conquista il cielo

L'agricoltura punta in alto, o meglio alla terza dimensione. Il vertical farming rappresenta senza dubbio il futuro per rispondere alla progressiva riduzione della terra coltivabile pro capite. L'idea di conquistare nuove dimensioni accompagna l'uomo dalla notte dei tempi, basti pensare ai mitici giardini pensili di Babilonia. Superato lo scoglio tecnologico, da anni lo sguardo si innalza verso germogli e insalate in serre sospese che sfidano la forza di gravità. A dare un impulso decisivo all'agricoltura in verticale di casa nostra è stata Expo 2015: «Ha incoraggiato, in particolar modo in Lombardia, la nascita di grandi vertical farms, che nel resto del mondo, dagli Stati Uniti al Giappone, da Israele ai Paesi Bassi esistevano da anni» spiega l'ingegnere Matteo Benvenuti, esperto in agricoltura verticale, che dopo la tesi di laurea premiata da una borsa di studio della Regione Umbria, ha girato mezza Italia con una vertical farm dimostrativa. «Per sensibilizzare le amministrazioni sulle nuove prospettive della tecnologia in agricoltura, mi sono mosso

con una vertical farm di 4 metri quadri e 4 metri di altezza dove venivano coltivate 600 piante e allevati contemporaneamente in acquaponica fino a 10 chili di pesce -continua l'esperto-.Ma possono bastare anche solo un metro quadro per coltivare 400 piante e un metro cubo d'acqua per 60 chili di pesci». Uno dei maggiori vantaggi della coltivazione su più livelli è l'ottimizzazione dello spazio e quindi del consumo di suolo, unitamente a un risparmio idrico che può arrivare al 90%. «La coltivazione in idroponica fa sì che le radici delle piante invece che essere ancorate al terreno, siano immerse in acqua e nutrienti,quali azoto, fosforo e potassio, con la possibilità di creare la formula perfetta per ogni pianta -continua Benvenuti-. Inoltre nell'idroponica a ciclo chiuso l'acqua e sali minerali che non vengono assorbiti dalle colture, vengono reintegrati e rimessi in circolo». Il controllo costante di temperatura, umidità e anidride carbonica mette al riparo da stress dovuti a intemperie, attacchi di parassiti, competizione con infestanti e sbalzi termici: «Ogni giorno si ricrea il perfetto giorno d'estate per ogni diversa pianta -sottolinea Benvenuti-. Basti pensare a come l'Olanda, grazie all'impiego massiccio di serre idroponiche ad alta tecnologia, sia diventato il paese maggior esportatore di pomodori». È un errore tuttavia pensare che le vertical farms rappresentino già delle soluzioni perfette: «Luci artificiali, climatizzazione e automazione della produzione richiedono molta energia con i relativi costi economici e alti investimenti iniziali. Non a caso in Italia si sono sviluppate principalmente vertical farm di grande dimensione che sfruttano economie di scala e mantengono uno stretto rapporto con la rete della gdo. La ricerca sta lavorando per migliorarne l’efficienza». Idealmente tutto si potrebbe coltivare in verticale, ma in generale la produzione si concentra principalmente -per i notevoli costi di mantenimento in serra- su piante a ciclo breve, dalle baby leaf, insalatine da taglio, ortaggi in foglia, fragole e piccoli frutti, erbe aromatiche e piante officinali. «Tra le produzioni di maggiore interesse i microgreens, micro-ortaggi allo stato di crescita successivo al germoglio, superfood sempre più richiesti nell'alta ristorazione per le loro proprietà» spiega l'ingegnere. I plus gastronomici dei prodotti “in verticale” sono particolarmente evidenti, tanto da conquistare gli chef più prestigiosi e attenti. I fratelli Alajmo hanno voluto un orto verticale per il loro ristorante “Amor in Farm” nel campus tecnologico H-Farm di Roncade,

POSSONO BASTARE ANCHE SOLO UN METRO QUADRO PER COLTIVARE 400 PIANTE E UN METRO CUBO D'ACQUA PER 60 CHILI DI PESCI

in provincia di Treviso: lungo le pareti in vetro progettate da Philippe Starck crescono in idroponica ortaggi per una cucina innovativa ed esigente. I fratelli Cerea hanno costruito in collaborazione con Planet Farms, azienda innovativa di Cavenago di Brianza, una vertical farm nel loro ristorante Da Vittorio, 3 stelle Michelin, a Brusaporto per fornire la cucina di insalatine, erbe aromatiche e altre primizie. Un sodalizio nato durante il primo lockdown: tra gli ortaggi donati alla mensa dell'ospedale degli alpini in Fiera da Planet Farms, il basilico sorprese con il suo gusto a tal punto Cerea da spingerli a creare il loro “orto” in idroponica.

Gusto e qualità nutritive sono espresse al meglio in cielo più che in terra: le insalate e tutte le baby leaf esprimono tutta la loro croccantezza e valori nutrizionali e vitaminici, grazie all'assenza di contatto diretto con l'acqua e a una fotosintesi ottimale. Non vengono inoltre usati pesticidi e fitofarmaci e, nelle aziende con filiera completamente integrata, dal seme al prodotto per il consumo già imbustato, non vi sono passaggi e trasporti e gli scarti sono azzerati.

Per capire quali sono le nuove frontiere dell'agricoltura più hi-tech abbiamo

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ottobre - novembre 2022
ottobre - novembre 2022
CON
E ALL'EMERGENZA
INSALATINE,
E BABY
AL
CROCCANTEZZA E PROPRIETÀ
L'AGRICOLTURA IN VERTICALE
SERRE SOSPESE RISPONDE ALLA RIDUZIONE DEL SUOLO COLTIVABILE
IDRICA.
ERBE AROMATICHE
LEAF ESPRIMONO
MEGLIO GUSTO,
NUTRIZIONALI
Matteo Benvenuti

contattato due aziende lombarde, punto di riferimento del settore. A Cavenago di Brianza ha sede la più grande vertical farm in Europa: la già citata Planet Farms, nata dal sodalizio tra due imprenditori, Luca Travaglini e Daniele Benatoff, si avvale di 88 esperti tra cui agronomi, biologi e ingegneri per produrre insalate, dai mix esotici, vivaci o delicati, oltre a rucola e pesto (che si trovano sugli scaffali dei principali punti vendita della gdo). I prodotti, monitorati costantemente, non hanno bisogno di essere lavati: il basilico può così mantenere intatti gli oli essenziali della foglia, esprimendo appieno la sua aromaticità. L'azienda, pluripremiata per l'innovazione, vanta un laboratorio di ricerca che si impegna per il miglioramento di qualità e produttività dei raccolti; oltre ai prodotti rivolti ai consumatori, in Planet Farms trascorrono la prima vita piante di vite e altre specie arboree. «Abbiamo piani di espansione molto ambiziosi: nel 2023 apriremo due nuove imponenti vertical farms in Italia e una in Inghilterra, alle porte di Londra» spiega Luca Travaglini, co-Ceo e cofondatore di Planet Farms.

Alle porte di Milano, a Melzo, Agricola Moderna mette

in società l'esperienza nel food di Pierluigi Giuliani con quella di Benjamin Franchetti, ingegnere energetico. Dal 2018 a oggi i due soci hanno selezionato dopo un periodo dedito alla ricerca, i migliori semi di baby leaf e le ricette e condizioni di crescita ottimali per il vertical farming. «Lattughe, senapi e le brassiche in generale esprimono al meglio i loro gusti caratteristici -spiega Pierluigi Giuliani-. Stiamo lavorando proficuamente anche su piccoli frutti e altri ortaggi, con l'obiettivo di renderli accessibili per il consumatore finale». La ricerca procede con successo:«Il vertical farming porta all'ottimizzazione e al miglioramento delle coltivazioni, attraverso un costante monitoraggio di una mole di dati, che in campo non è possibile- spiega Benjamin Franchetti-. Dal 2018 a oggi abbiamo fatto passi importanti anche sul fronte del miglioramento energetico: la tecnologia Led è più efficiente del 15%». Le sfide alla conquista del “cielo”per rendere più autonome città e metropoli sono continue, ma non mancano progetti sottoterra: «A Torrita di Siena –svela Matteo Benvenuti- in un ex rifugio della seconda guerra mondiale creeremo una vertical farm produttiva e didattica».

26 ottobre - novembre 2022 27 ottobre - novembre 2022 Per informazioni via Borgo Palazzo, 137 • tel 035.4120321 • info@fogalco.it • www.fogalco.it CONFIDIamo nella Ripresa Per la TUA IMPRESA un finanziamento fino a 20mila euro e un contributo a fondo perduto BANDO APERTO
Benjamin Franchetti e Pierluigi Giuliani di Agricola Moderma di Melzo (MI) Luca Travaglini di Planet Farms di Cavenago di Brianza (MB)

La carne per la ricetta perfetta?

Una questione di razza

SONO MOLTE LE RAZZE

CHE COMPAIONO NEI MENU DEI RISTORANTI E NELLE CELLE DI FROLLATURA DELLE MACELLERIE. PER PROPORRE UN PIATTO CHE SODDISFI LE ESIGENZE DELLA CLIENTELA È NECESSARIO CONOSCERNE NON SOLO LA PROVENIENZA MA ANCHE LE CARATTERISTICHE. ECCO LE PRINCIPALI RAZZE E ALCUNE CONSIDERAZIONI

In questi ultimi anni anche la tendenza nello scegliere la carne da portare sulla propria tavola sta cambiando; fino a poco tempo fa era prediletta la carne molto magra, senza infiltrazioni di grasso. Una tendenza tutta italiana, infatti basta frequentare qualsiasi macelleria di altri paesi europei o oltreoceano per capire come in altri luoghi del mondo non sia così. Oggi, anche in Italia, si è iniziato a richiedere sempre più una carne frollata il giusto (andando a volte a “stagionare” la carne, senza però necessariamente ottenere dei buoni risultati), con una marezzatura evidente, proveniente da animali allevati in modo estensivo o semi-estensivo. Ecco che la selezione di carni da mettere sul banco macelleria o sul piatto del ristorante deve necessariamente seguire ciò che il consumatore chiede. Ma cambiare direzione e produrre carni con queste caratteristiche non è cosa semplice: bisogna ripensare al sistema di allevamento, partendo dal luogo, arrivando poi alla selezione della razza, fino alla sua alimentazione, al garantire il corretto movimento e l’idonea macellazione.

Il mondo delle carni sta subendo cambiamenti importanti, sia per quanto riguarda la quantità di prodotto consumato che la ricerca e l’attenzione alle caratteristiche delle carni, alla loro provenienza, al sistema di allevamento e, dulcis in fundo, alla loro genetica. Forse non tutti lo sanno, ma esistono razze bovine che per le loro caratteristiche sono più adatte alla produzione di carne, altre invece dedite alla produzione di latte. In ogni caso, la nostra conoscenza in merito è molte volte troppo limitata e si fa molta confusione, cosa che avviene anche tra gli addetti ai lavori. L’esempio più comune? C’è ancora qualcuno che pensa che la scottona sia una razza, quando invece il termine si riferisce alla femmina di bovino (di qualsiasi razza) che ha un’età tra i 15 e 22 mesi e che non ha ancora partorito.

Ci sono allevatori che, insieme ai macellai, hanno iniziato a allevare nei nostri pascoli e nelle nostre zone razze provenienti dall’estero. Ma il processo è lungo e, soprattutto, capi sono ancora pochi. Quindi la ricerca di materia prima è andata oltre confini, importando ormai carni da tutto il mondo. È ormai frequente sentire parlare di Angus, ma anche di Sashi finlandese, di Rubia Gallega, di Wagyu; e scegliere tra vere e proprie “carte delle carni”. Tra le italiane, è frequente trovare la razza Piemontese, la Chianina, la Marchigiana, ma anche la Romagnola, che producono le carni a cui siamo abituati: tenere (perché provengono in genere da animali giovani, le cui carni necessitano di una frollatura non eccessiva) e saporite, ma non troppo. Poi ci sono le razze estere, conosciute per le loro carni ben marezzate, che provengono soprattutto da animali adulti (a volte “vecchi”) e che vivono al pascolo. Queste necessitano di frollature ben più lunghe, a garanzia di tenerezza, ma anche di sapore e aroma. Gli americani lo chiamano aroma “beefy”: il sentore intenso di carne, per cui gli amanti del genere impazziscono. Tutte queste caratteristiche è facile trovarle nelle carni di Aberdeen Angus, una delle razze più allevate al mondo, la cui provenienza è varia: Irlanda, Argentina, Australia e Scozia, che è probabilmente il suo luogo d’origine. Si caratterizza per avere un’elevata quantità di grasso intramuscolare a garanzia di sapore e tenerezza. Poi c’è la Wagyu (in realtà comprende diverse razze), una razza giapponese molto conosciuta per l’intensa marmorizzazione delle sue carni. La si mangia sia cruda (a carpaccio) che cotta e in ogni caso si scioglie in bocca letteralmente. Il sapore e l’aroma sono talmente intensi che risulta impossibile farsene una bella scorpacciata (anche il costo non è da sottovalutare). Dalla Finlandia arriva poi la Sashi finlandese, ricchissima di grasso intramuscolare. La si potrebbe considerare l’alternativa alle carni giapponesi. Ma attenzione, la Sashi finlandese non è una razza; le razze bovine utilizzate per la produzione di questa carne sono la Frisona e una razza poco conosciuta, la Ayrshire. Ci sono anche razze che non si caratterizzano per l’eccesso di grasso, ma che la maturità delle loro carni regala sapore e tenerezza. In questo caso la frollatura e la sua corretta conduzione giocano un ruolo

NEI PASCOLI DELL'ALTO ADIGE MOLTI GIOVANI ALLEVATORI STANNO INIZIANDO AD ALLEVARE IN MODO ESTENSIVO

28 ottobre - novembre 2022 29 ottobre - novembre 2022

fondamentale. La Rubia gallega è una di queste, una razza autoctona della Galizia che si caratterizza per raggiungere il suo stadio di massimo sviluppo in molti anni. Gli animali vengono infatti macellati ad un’età minima di 5-10 anni, la loro carne non è eccessivamente marezzata, ma l’aroma e sapore sono davvero intensi: difficile mangiarne in grandi quantità. Poi, anche se molto meno conosciuta, la scozzese Highlander, con il suo mantello peloso e le grandi corna. Avendo questo mantello a protezione, l‘animale non dovrà sviluppare una grande quantità di grasso. Per questo le sue carni sono saporite, grazie al movimento e all’allevamento al pascolo, ma molto magre.

Per una carne che ha a cuore l'ambiente

C’è anche chi sta credendo molto nell’allevamento estensivo di tali razze, che possono dare carni eccezionali e perfette per le odierne richieste di mercato, seppur con costi ovviamente diversi per il loro acquisto rispetto all’allevamento intensivo tradizionale. Sono ancora esperienze che possiedono una dimensione micro, ma per cui la ricerca è sempre maggiore: “mangiarne meno, per mangiarne meglio”, una necessità, per salute e ambiente. In Alto Adige, complice la presenza anche di molti pascoli, ci sono molti giovani allevatori che stanno iniziando ad allevare in modo estensivo. Ormai molto conosciuto è l'allevamento allo stato brado di animali di razza Black Angus di Placido Massella, Mr Beefy, a Mozzecane in provincia di Verona, a cavallo tra Veneto e Lombardia; a Bergamo, a Dossena, Hans Quarteroni alleva bovini di razza Highlander liberi al pascolo, producendo carne grass feed, ovvero bovini alimentati esclusivamente a erba.

Una questione di sostenibilità

Ma attenzione, siamo tutti d’accordo che bisogna mangiare meno carne, che bisogna scegliere carni allevate secondo alcuni criteri a garanzia di sostenibilità, sicurezza e ambiente, ma alcune criticità emergono. In prima battuta, le carni hanno una provenienza estera e percorrono quindi numerosi chilometri prima di arrivare sulle nostre tavole, con necessità di essere conservate al meglio, con packaging spesso eccessivi. Inoltre, osservando le vetrine di conservazione e frollatura delle carni, le lombate la fanno da padrone. E il resto? Il bovino non è composto solo da filetto e lombata: è sostenibile tutto questo? Mangiare meno carne, mangiare carne più buona. Sarebbe bello fosse anche allevata localmente. Qualcosa si sta muovendo. L’invito è comunque di sceglierla con cura.

DIAFRAMMA ALLA GRIGLIA

Il diaframma va marinato per circa una giornata e successivamente cotto alla griglia o al barbecue, sino ad ottenere una temperatura al cuore di circa 52°C o poco più. Si consiglia di non portare la cottura a temperature eccessivamente alte per evitare che la carne diventi troppo tenace. Per una cottura perfetta, il diaframma dovrebbe essere cotto con la tecnica del “Flip and Brush”: le due facce del taglio anatomico devono essere spennellate con olio e poi cotte su piastra o griglia ad alte temperature, girandole ogni 30 secondi circa e spennellando ogni volta la parte superiore con l’olio. Questo è il metodo ideale per evitare che le fibre diventino rigide e la carne diventi dura alla masticazione.

Ingredienti per la marinatura 3 100 ml di olio extravergine di oliva 3 100 ml di aceto balsamico 3 100 ml di salsa di soia 3 100 ml di salsa Worcestershire 3 1 cucchiaino di senape 3 1 rametto di rosmarino 3 1 cucchiaino di timo È consigliato emulsionare tutti gli ingredienti con un frullatore a immersione e successivamente utilizzare la marinatura per massaggiare e insaporire il diaframma il tempo necessario perché assorba tutti i sapori e profumi.

Il diaframma è un muscolo del bovino che viene catalogato quale taglio anatomico del quinto quarto dell’animale. Si trova all’interno della cassa toracica che percorre lungo tutta la sua circonferenza, sino a riunirsi in un unico tratto muscolare aderente alla colonna vertebrale dove prende il nome di lombatello. Il diaframma è caratterizzato da numerose fibre muscolari di grandi dimensioni e da una vascolarizzazione molto abbondante che gli donano un gusto leggermente ematico e un sapore ben deciso, oltre a renderlo particolarmente indicato per le persone anemiche in quanto dotato di abbondanti quantità di vitamina b12. Per questa sua peculiarità anatomica, inoltre, il diaframma deve essere tagliato rigorosamente in modo perpendicolare alle fibre muscolari, in modo da ottenere il massimo della morbidezza. Per esaltarlo al massimo, si consiglia una cottura alla griglia o barbecue mantenendo una cottura media al cuore del muscolo, che non dovrebbe superare i 52°C. Il lombatello è leggermente diverso dal diaframma intercostale, poiché è formato da due parti distinte, divise da una parte di tessuto connettivo, il quale risulta tenace alla masticazione; per tale motivo la parte centrale in connettivo deve essere rimossa prima di procedere al taglio delle due porzioni muscolari. L'approfondimento

30 ottobre - novembre 2022 31 ottobre - novembre 2022

RICETTA a cura del Gruppo macellai d Ascom Confcommercio Bergamo

DA BIO

ARMONIA LA SPESA È SFUSA

Cereali, biscotti, pasta, anche senza glutine, riso, legumi, the, infusi e tisane: per chi vuole fare una spesa nel segno dello spreco zero la bottega Bio Armonia di Casazza è il posto giusto. Qui il sogno nel cassetto della titolare Katia Gibbi si è realizzato e concretizzato in una bottega come quella di una volta, dove tutto si pesa, e dove non mancano specialità locali bio o a km 0. «Con la spesa sfusa diamo una mano al pianeta e con un prezzo più basso abbiamo un prodotto buono e sicuramente di qualità -spiega Katia-. Siamo una piccola bottega dove oltre a un rapporto commerciale favoriamo anche il dialogo, lo scambio di idee e consigli utili con la clientela». Prodotti sfusi alimentari ma non solo: tra gli scaffali di Bio Armonia anche tanti prodotti per la cura del corpo con cosmesi naturale viso e corpo, prodotti biologici per neonati e detersivi biologici per la pulizia e l'igiene. Tutto selezionato sempre in base a criteri di qualità e sostenibilità.

A SANTA

CROCE

RIAPRE DA MARIO

EASY BAR, IL BELLO DI STARE SUL LAGO

L’autunno porta nostalgia del mare? Basta fare un giro a Predore dove sul lungo lago il vecchio chiosco -ora Easy Bar- si è rifatto il look e tutto il servizio. Merito di Marcella Verderio e suo figlio Luca che hanno riqualificato il locale, a due passi dal Lido San Rocco, investendo nel suo rilancio e accogliendo i clienti sempre con il sorriso. «Siamo un locale a 360 gradi da vivere in tutti i momenti della giornata: dalle luci del mattino fino a tarda sera proponiamo colazioni, aperitivi, pranzi e cene –spiega Marcella-. Insalatone, hamburger, pizze, oltre alla nostra selezione di birre (8 spine) tutte artigianali e in continua rotazione, e a una ricca carta drink per aperitivi con happy hour vista lago. E ovviamente organizziamo compleanni, feste di laura, concerti sulla terrazza. Tutto quanto fa divertimento vi aspetta all’Easy Bar».

IN CITTÀ LA TAQUERIA È SENZA GLUTINE

Nel rilancio turistico di San Pellegrino Terme anche le frazioni giocano la loro parte. Tenere viva la comunità e offrire un punto di ritrovo è infatti la sfida -possiamo dire già vinta- della famiglia Sonzogni che a Santa Croce, frazione di San Pellegrino, ha riaperto il bar-pizzeria, chiuso da più di cinque anni. Una doppia sfida soprattutto per Angela che ha deciso di lasciare il posto fisso da impiegata per prendere in mano le redini dell'attività, acquistata dal papà all’asta, e ora gestita insieme a sua sorella Lara con l'aiuto di tutta la famiglia. «Crediamo nello sviluppo della nostra frazione -spiega Angela-. Con il bar, vogliamo infatti dare di nuovo un punto di ritrovo agli abitanti, un servizio che da anni ormai era scomparso». Dagli impianti agli arredi interni, il locale è di fatto ora completamente rinnovato: «Abbiamo messo anche un nuovo forno per la pizza e una nuova cucina -prosegue Angela-. Del vecchio locale, in pratica, è rimasto solo il bancone»

Una gustosa novità ha aperto nel cuore di Bergamo: su viale papa Giovanni XXIII al civico 84 è stato infatti inaugurato Shaan, la Taqueria Mexicana. Un’idea che nasce da Lucky Singh che dopo anni di esperienza ha deciso di aprire una taqueria messicana in città che propone street food di qualità con tacos, nachos e l’immancabile guacamole. Tutto rigorosamente senza glutine e con piccante a scelta. «Siamo l’unico ristorante messicano iscritto all’Aic Lombardia -spiega Lucky che da 10 anni gestisce anche il ristorante messicano Shaan a Seriate-. Oltre alle specialità messicane abbiamo anche una carta di ottimi vini italiani e esteri e tante proposte di cocktail e sangria».

32 ottobre - novembre 2022 33 ottobre - novembre 2022

IN EVIDENZA IN EVIDENZA DA MARIO San Pellegrino Terme (BG) Frazione Santa croce Tel.
SHAAN, LA TAQUERIA MEXICANA
Papa Giovanni 84 Bergamo Tel. 389.0025051 BIO ARMONIA Casazza
Nazionale, 68/B
EASY BAR Via S. Rocco, 2 Predore BG Lungolago Iseo Tel.
0345.1630787
Viale
Via
Tel. 349.7598177
393.5641159
Lara e Angela Sonzogni Katia Gibbi Gina e Lucky Singh

Preparare un primo impasto mescolando 50 grammi di latte, 50 grammi di acqua, il lievito e 95 grammi di farina (presa dalla dose totale). Si otterrà un composto colloso. Coprire con una pellicola e lasciare lievitare per circa un’ora a temperatura ambiente (la pasta deve raddoppiare). Trascorso il tempo aggiungere all’impasto la restante farina, la restante acqua, il restante latte e lo zucchero. Mescolare a mano, o a bassa velocità in una planetaria, fino a che l’impasto risulterà non più colloso. Aggiungere 5 cucchiai di olio, uno alla volta, impastando ad ogni cucchiaio così da favorire l’assorbimento dell’olio. Spolverare il piano di lavoro con mezzo cucchiaino di farina, rovesciare l’impasto e formare una palla. Inserire il panetto in una ciotola spolverata con pochissima farina poi coprire con una pellicola e lasciare lievitare l’impasto per almeno 3 ore, fino a quando non ha triplicato il suo volume. Nel frattempo lavare e asciugare l’uva. Quando il panetto sarà lievitato, rovesciare l’impasto su un piano di lavoro con un

pizzico di farina e dividete a metà il panetto. Nel frattempo spennellare una teglia da forno classica con dell’olio extravergine. Adagiare il primo panetto in teglia e stenderlo. Aggiungere metà dose dell’uva e spolverare con 2 cucchiai di zucchero e distribuire in superficie 2 cucchiai d’olio. Stendere l’altro panetto, sulla spianatoia, allungarlo e trasferirlo sopra la base appena realizzata. Allargare i lembi in modo che combacino con quelli della base e schiacciare con le dita, in modo che la schiacciata si allarghi meglio anche sui lati della teglia. Decorare la schiacciata con la restante uva, senza affondare troppo gli acini ma facendo in modo che restino fermi. Lasciare lievitare la schiacchiata in forno spento per 2 ore circa. Al termine del tempo indicato, la schiacciata avrà raddoppiato il suo volume. Completare cosparagendo sulla superficie gli ultimi 2 cucchiai di olio e 2 di zucchero. Cuocere in forno statico pre riscaldato a 180° gradi per circa 30 minuti.

34 ottobre - novembre 2022 35 ottobre - novembre 2022
RICETTA Ingredienti 3 600 g di uva fragola 3 500 g di farina 0 3 100 g di zucchero 3 10 g di lievito di birra fresco 3 200 g di acqua 3 100 g di latte 3 5 cucchiai di olio extravergine 3 2 pizzichi di sale 3 4 cucchiai d’olio extravergine 3 4 cucchiai di zucchero SCHIACCIATA ALL’UVA FRAGOLA Procedimento Per informazioni e abbonamenti Ascom Confcommercio Bergamo | tel 035.4120304 | info@ascombg.it www.larassegna.it/abbonamenti a ffaridigola . it Tante le storie da assaporare e raccontare Non perdere il gusto di informarti Regala o regalati l’abbonamento

Nel bicchiere il gusto intenso della

L’autunno è arrivato e, con lui, anche le prime voglie di cibi di sostanza, lunghe cotture o piatti importanti. A questi, non c’è di meglio che abbinare vini rossi corposi, che li sostengano a tutto tondo. Quando pensiamo ai grandi rossi italiani, la mente va a quelli prodotti in Piemonte, ma anche in Toscana, dimenticando spesso una zona molto vicina a noi e altrettanto importante: la Valpolicella. Questa zona si trova in provincia di Verona e si caratterizza per i tipici vigneti in collina. Una località molto bella, anche da visitare, le cui strade e sentieri ben si prestano a escursioni a piedi o in bicicletta. E’ qui che si producono i grandi vini rossi veneti, dalla colorazione carica e perfetti per l’invecchiamento. Il vitigno Corvina è in grado di regalare mosti dalla struttura importante, con una buona acidità e un tannino elegante. Oltre alla Corvina, sono altri i vitigni che vengono comunemente coltivati in zona: il Corvinone, simile alla Corvina, ma mai utilizzato da solo perché più grossolano e meno fine, che presenta però una spiccata acidità e un complesso spettro aromatico; il Rondinella, tra i più diffusi in zona per la sua costanza produttiva; il Molinara, le cui uve si presentano con molta pruina, quasi a somigliare infarinate, tanto da essere chiamate anche uve del molino. Pian piano le si stanno però abbandonando a causa della scarsa presenza nelle bucce di pigmenti coloranti. Esistono alcune Denominazioni di Origine che tutelano e normano la produzione: tra quelli base troviamo il Valpolicella DOC, un vino prodotto da uve Corvina, Corvinone e una piccola percentuale di Rondinella.

Le uve vengono vinificate in rosso e il mosto che si ottiene, una volta trasformato in vino, viene affinato per un breve periodo. Se ne produce un vino con un’importante acidità e con una struttura buona, ma che ne permette l’abbinamento con piatti non troppo strutturati; è perfetto anche per l’estate. Poi il Valpolicella ripasso DOC, un vino

longevo dalla struttura media e dall’alcolicità importante, che si ottiene rifermentando (“ripassando” quindi) il vino Valpolicella base sulle vinacce dell’Amarone e del Recioto. Questo gli regala, oltre all’alcol, una maggiore quantità di polifenoli e altre sostanze che lo rendono perfetto ad accompagnare piatti invernali, dalla grande struttura, ma anche formaggi e salumi stagionati, dai sapori intensi e dall’aromaticità evoluta.

Ma il vino più prestigioso della zona resta l’Amarone della Valpolicella DOCG. I vitigni utilizzati sono sempre gli stessi, seppur in proporzioni diverse, anche in relazione alla singola cantina. Il passaggio che lo rende un vino così importante riguarda l’appassimento delle uve prima della loro fermentazione, che, una volta raccolte in perfetta salute (altrimenti si sviluppa la muffa), vengono lasciate a riposare per almeno 100 giorni, prima di essere vinificate nel successivo periodo invernale. La grande alcolicità, la grande struttura, anche grazie alla concentrazione delle sostanze presenti nell’acino, lo rendono un vino perfetto per l’invecchiamento, che negli anni è in grado di evolvere e regalare aromi unici e complessi. Perfetto per accompagnare la selvaggina o piatti ricchi di gusto, come salumi o formaggi molto stagionati.

Infine, non dimentichiamo il quarto vino simbolo della zona: il Recioto della Vapolicella DOCG, l’antenato dell’Amarone, il primo che ha ottenuto la Denominazione di Origine. È un vino dolce che viene prodotto previo appassimento delle uve, come per l’Amarone. La fermentazione però, una volta ottenuto il residuo zuccherino voluto, subisce un arresto. Ecco che alcuni zuccheri dell’uva rimangono nel mosto ormai trasformato in vino, regalando la precisa nota di sapore dolce, mai fastidiosa grazie alla buona acidità che ne facilita la beva. Perfetto con il cioccolato, ma anche con formaggi stagionati ed erborinati.

Vini perfetti per la stagione fredda che sta per arrivare.

37 ottobre - novembre 2022

Valpolicella
NON SERVE ANDARE LONTANO PER INCONTRARE UNA TERRA DAI GRANDI ROSSI, BASTA SPINGERSI NELLE COLLINE VERONESI PER TROVARE OTTIMI VINI
di Lara Abrati

Jane Austen amava utilizzare il cibo associandolo alla descrizione dei suoi personaggi immersi nella quiete della campagna inglese. Accanto al girotondo quotidiano di colazioni, tè e cene di famiglia la scrittrice britannica di “Orgoglio e pregiudizio” descrive una profusione di pasti: il cibo di cui leggiamo è quello ricco e pesante che consumava di solito la nobiltà terriera dell’epoca. Accanto a ingredienti locali, appaiono anche quelli più esotici, come zucchero, spezie, cacao, ananas e altri frutti tropicali.

A tavola con Jane Austen di Robert Tuesley Anderson

Guido Tommasi Editore - 2022

25 euro

LA TRADIZIONE DELLE NONNE

Giornalista, opinionista sportiva e scrittrice, nata in Basilicata e vissuta tra Roma e Milano, ma soprattutto appassionata di cucina. Francesca Barra nel libro “A occhio e quanto basta, la mia ricetta di felicità” porta avanti la filosofia di famiglia che le hanno tramandato le nonne Emma, emiliana, proprietaria di ristoranti e hotel, e Angelina, calabrese, proveniente da una famiglia di orafi, emigrata in Africa e rientrata nella sua regione dopo la guerra. La tradizione delle sue nonne che l’autrice definisce «due cuoche fantastiche con una storia sentimentale e professionale incredibile, che mi ha dato la forza di pensare che se c’è l’attitudine all’amore, alla passione, all’onestà, si può far tutto» è proprio di dosare gli ingredienti a occhio. Ad aiutarla ai fornelli sono le sue bambine, Emma Angelina e Greta. Anche il marito, l’attore Claudio Santamaria, ogni tanto aiuta in cucina, per esempio quando in casa si preparano tortellini. Si crea una vera catena di montaggio e Claudio prepara la sfoglia. Anche la tradizione della catena di montaggio per preparare i tortellini proviene da una delle nonne. A volte la coppia va anche ad aiutare i cuochi della mensa Fratelli di San Francesco per persone in difficoltà.

A OCCHIO E QUANTO BASTA DI FRANCESCA BARRA RIZZOLI – 2022 23,65 EURO

Se siete appassionati al foraging, la ricerca di piante e frutti selvatici da usare per ricette buone e sostenibili, questo è il libro che fa per voi. Le sue 80 ricette a base di erbe spontanee e ortaggi stagionali sono bilanciate dal punto di vista nutrizionale, con cotture che mantengono i nutrienti. Esempi sono la torta di pastinaca, mandorle e yogurt, la rutabaga fritta come le patatine e la maionese vegana piccante. Ci sono anche 12 piatti stellati firmati dalla chef Mariangela Susigan. La cucina verde di Lucia Papponi Fabbri Editore – 2022 18,50 euro

Tuffatevi in questo libro illustrato per scoprire la vita segreta di cinquanta specie di pesci. Il biologo e produttore della Natural History Unit della Bbc a Bristol è l’autore di un testo illuminante, da cui si potrà imparare che esistono vampiri parassiti che si attaccano ad altri organismi per sopravvivere, squali che possono vivere fino a dodici ore fuori dall’acqua, inquilini di una pozza geotermica nella Death Valley, anguille che si trasformano e viaggiano per migliaia di chilometri. La vita segreta dei pesci di Doug Mackay-Hope Guido Tommasi Editore – 2022 26 euro

38 ottobre - novembre 2022 39 ottobre - novembre 2022

C’è chi mangia cavallette e chi non mangia maiale. In India le mucche sono sacre mentre nel nostro Paese sono allevate per essere mangiate. C’è chi mangia con il pane, chi con le posate, chi con le bacchette o ancora con le mani. E c’è anche chi mangiando può fare rumore e non è considerato maleducato. Questo libro illustrato raccoglie usi, tradizioni, ma anche tabù e curiosità legate al cibo e alla convivialità. Un viaggio senza muoversi dalla tavola, perfetto per i piccoli golosi.

Tutti a tavola! di Monika Osberghaus e Anke Kuhl Slow Food Editore - 2022 12,50 euro

a cura di Rosanna Scardi
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