NOVANTATREROSSO

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VENERDÌ Trimestrale Associazione Bastioni - Firenze N° 7 Registro Stampa Periodico del Tribunale di Firenze N° 5659 in data 14 maggio 2008

24 GIUGNO 2011

Novantatrerosso www.novantatrerosso.blogspot.com

Il nuovo numero di Novantatrerosso esce il 24 giugno in occasione della festa del Patrono di Firenze: San Giovanni Battista. Presentandoci l’occasione di intervistare un’autorità nel campo del restauro come il Restauratore Alfio Del Serra, professionista a conclusione della sua attività, abbiamo scelto come nuovo tema da affrontare LA CARRIERA. Abbiamo ascoltato con curiosità le sue esperienze di vita dedicata al restauro e della sua felice carriera, corteggiato dai più influenti musei del mondo. D’altro canto abbiamo ascoltato la voce di una giovane studentessa dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze che tra pochi anni darà inizio alla sua carriera. I sogni e le speranze portate anche avanti dal Movimento StuINTERVISTA

L’APERITIVO CON… Alfio Del Serra di FRANCESCA COLOMBI (dove19@libero.it) e FEDERICA CORSINI (fquerida@virgilio.it)

PISTOIA - L’Associazione Bastioni incontra il Restauratore (rigorosamente con la R maiuscola) Alfio Del Serra. Classe 1931, da oltre sessant’anni si occupa di restauro. Negli Uffizi dagli anni ’80 è intervenuto su opere di Giotto, Cimabue, Botticelli, Raffaello, Andrea del Sarto e Tiziano, solo per citarne alcuni. Affronta con Novantatrerosso il tema “LA CARRIERA” raccontandoci il mondo del restauro dal suo privilegiato punto di vista. DOMANDA: Come ha deciso di fare il restauratore? Perché dopo gli studi artistici non ha deciso di insegnare piuttosto che seguire la carriera del pittore? RISPOSTA: Vengo dalla frequentazione della piccola scuola d’arte di Pistoia negli anni dell’immediato dopoguerra, dal ’46 al ’49, che mi ha fornito tutto quello che spesso vedo mancare oggi. Insieme alla formazione di cultura artistica c’era quella sperimentale di laboratorio, dove era possibile studiare di tutto. Dal buon fresco all’affresco lucido romano, tutta la serie delle tempere ad uovo, l’olio, le gomme. Questo sapere così variegato serviva a stimolare conoscenza e fantasia insieme. Poi attraverso i maestri della scuola d’arte, che facevano un po’ di restauro, diciamo di rimedio di certi “guaietti”, ho iniziato ad interessarmi al campo specifico e nel ’49 ho cominciato in pianta stabile, abbandonando la pittura nella metà degli anni ’50. Per un anno sono stato apprendista da Dino Dini, che era un ottimo restauratore già in quei tempi. Non andavamo d’accordo caratterialmente e dunque a 18 anni andai a lavorare con Tintori rimanendoci per tutta la sua vita lavorativa. Con Tintori e il Rosi, che era il terzo di questa triade che avevamo formato, sono state fatte migliaia di esperienze sugli affreschi e sulle pitture mobili. Un sodalizio che è durato tantissimo. Abbiamo avuto risultati importanti. Tra gli anni ’50 e ’70 il nostro gruppo insieme ad altri colleghi, storici e scienziati ha spinto il restauro ad una visione ben diversa da tutto ciò che era stato in passato, quando era un “mestieraccio” qualsiasi. Sappiamo bene che tutti i danni alle opere d’arte sono al 90% causati dagli uomini e non dovuti al tempo in senso stretto. Maturammo invenzioni tecniche relative ai materiali e al loro uso ed affrontammo il problema restauro con una visione critica: quanto, come, perché e dove. C’era stato Brandi con La Carta del Restauro che aveva dato una direttrice, seppure piena di incertezze, ma comunque un’impronta. Firenze, allora era una fucina di idee, di liti, di confronti su ciò che era giusto e che poi veniva anche tradotto tecnicamente. Per esempio anche l’introduzione delle famigerate resine è stata un’idea mia e di Tintori, attraverso i contatti che avevamo con personaggi illustri della chimica americana. Con i conseguenti errori che accompagnano ogni sperimentazione nuova e poi una decantazione fino a mettere a punto la giusta formulazione. Naturalmente questi errori sono stati poi capziosamente ripresi e sbandierati come colpe. Questo fa parte della polemica umana. D: La percezione del restauro dei privati da parte delle istituzioni è cambiata nel corso del tempo? R: E’ molto cambiata. Mi sento in tal senso di rammentare Procacci. Ha avuto meriti grandissimi: era un uomo assolutamente integerrimo e che ha stimolato e dato fiducia grazie all’ enorme passione che nutriva nei confronti delle opere d’arte. Questo clima è venuto un po’ meno. Ad oggi le istituzioni sono molto più chiuse e talvolta anche in competizione, riducendo l’apporto dei privati ad una collaborazione spesso condizionata e limitata. Questo è un capitolo doloroso. All’epoca l’appassionatissimo Procacci, senza paura, andava a Roma a litigare con i ministri per avere finanziamenti. Quando sapeva di avere un certo budget annuale chiamava tutti i restauratori privati e ci chiedeva come andava il lavoro. In base alle nostre risposte distribuiva i lavori in

dentesco RESTAURA L’EGO di cui fa parte. A chiudere questo numero, con la rubrica IL BASTION CONTRARIO, un interessante articolo del Dottore Commercialista Simone Nulli Tasso, che con arguzia ci racconta le difficoltà di creare una carriera da restauratore dal punto di vista… burocratico. Vi salutiamo citando Jean de La Bruyère, moralista e scrittore francese vissuto nel XVII sec.: ”Al mondo non ci sono che due modi per fare carriera: o grazie alla propria ingegnosità o grazie all’imbecillità altrui”. A voi la scelta. (FRANCESCA ATTARDO—attardo.f@gmail.com)

proporzione a chi ne aveva bisogno e a quello che poteva fare. Questa era una proiezione umanissima, che dette fiducia e che permise sviluppi incredibili. Per esempio nel restauro delle pitture murali, con la grande botta dell’alluvione, fu necessario il salto qualitativo derivato dall’impegno forzoso dal quale non era possibile sottrarsi. Tanti affreschi, che sono stati salvati staccandoli, hanno avuto anche una qualità esecutiva notevolissima, con interventi eseguiti in un clima di rincorsa contro il tempo. Uno per tutti: il bellissimo San Gerolamo della S.S. Annunziata di Andrea Del Castagno. Eseguii lo stacco perché l’acqua e i sali lo divoravano per centimetri e centimetri ogni giorno. Fu anche provato ad asciugare il muro da dietro, levando le lastre tombali che ci sono nel Chiostro e mettendo dei grandi bruciatori tedeschi, in modo da richiamare l’umidità e i sali. Il calore asciugava e tirava l’umidità, ma essendo un muro di un metro di spessore , non era abbastanza. Fu necessario lo stacco e se lo vedete a tutt’oggi la materia è ancora bella eppure è sottile come una buccia di cipolla. Insomma la necessità impose un salto di qualità. Oppure: all’epoca capimmo la genesi delle malattie dell’affresco. Fino ad allora si parlava di cancro dell’affresco, in modo generico senza sapere che poi era relativo all’apporto dei sali verso l’esterno, insieme alla solfatazione. Il Ferroni, che era un genio della chimica, inventò il bario e tramite la bella collaborazione con il Dini indicammo la possibilità di abbandonare le sostanze di natura organica, che sono per natura deperibili, verso l’inorganica, che era la ritrasformazione dei carbonati degenerati per riportarli ad una specie di cristallo che lui asseriva essere indistruttibile. Quindi queste grandi direttrici, accompagnate anche alla qualità del prodotto finale, sono state fondamentalmente prese dall’iniziativa privata che operava a Firenze allora.

Francesca Colombi intervista il Restauratore Alfio Del Serra sotto il Loggiato del Duomo di Pistoia.

D: Quando è avvenuto il suo passaggio dal restauro degli affreschi a quello delle tavole? R: Alla fine degli anni Settanta, per ragioni fisiche, ho cominciato a lasciare la pittura murale per dedicarmi ai problemi delle pitture mobili. Mi indirizzai verso il campo delle pitture su legno che mi interessava tanto. Io sono cresciuto fra i trucioli, mio padre era un ebanista raffinatissimo, mi aveva insegnato tutti i segreti dei comportamenti del legno. Un doveroso grazie però anche alla lezione di Lo Vullo, allora capo restauratore del Gabinetto di Restauro alla Vecchia Posta, probabilmente colui che ha fatto le più belle puliture alle opere d’arte e che rappresentava la linea di mediazione. La famosa linea di mediazione che non era poi in disaccordo con Brandi e la Carta del Restauro laddove si dice che un’opera d’arte, sia pure restaurata, deve mantenere le sue caratteristiche di oggetto antico dove i segni del tempo o meglio i segni nel tempo, sono una componente spesso non scavalcabile, ma soprattutto che non deve essere tolta per non snaturare l’opera. Io ero molto giovane e facevo il restauro pittorico delle opere, dato che Lo Vullo si occupava solo della pulitura. Interveniva sulla pulitura attraverso la riduzione per smacchiatura, un metodo che per me ancora oggi è sacrosanto. Veniva raggiunto uno standard di pulitura che rimaneva sempre un passo indietro che non un passo avanti, attraverso un’operazione di alleggerimento progressivo. Utilizzando talvolta, e spesso e volentieri, anche le vecchie vernici non originali in funzione compensativa di consunzioni. Questa è una posizione di estrema duttilità mentale, per non ridurre il tutto ad una specie di standardizzazione, come poi spesso è successo dopo. Ricordo allora le spaventose polemiche con l’Inghilterra, i metodi anglosassoni di pulitura che hanno avuto alla National Gallery, che è il museo degli orrori per questo. Hanno sterminato tutto, perfino tolto i verderame perché erano colpevoli di essere diventati scuri. D: Lei ha fatto parte della Commissione per il Restauro della Cappella Sistina. Qual’era il compito di questa Commissione? R: E’ una storia anche affascinante sotto certi aspetti. Il Vaticano, maestro di diplomazia da qualche millennio, commise appunto un errore diplomatico. Cominciarono i primi esperimenti di pulitura non della Volta, ma sulle lunette, senza dire nulla a nessuno, pulendone alcune. Pulirono anche bene, non commettendo errori.

Appena venne alla luce l’episodio tutto il mondo dell’arte, dagli storici ai critici, si rivoltò contro. Allora il Vaticano corse ai ripari nominando una grande Commissione Internazionale chiamando tutti i migliori tra storici, critici e tecnici. Da Firenze indicarono Baldini e me. Questa commissione seguì tutto il lavoro che proseguì dalla Volta fino al Giudizio. D: Quindi è servita questa Commissione? R: Direi di si. La pulitura che hanno fatto è corretta in quanto è un affresco che stupisce per la durezza e l’ottima conservazione, tranne sporadici episodi tipo un punto dove era piovuto. Quindi la pulitura è stata relativamente semplice una volta tolta la pelliccia che come una crosta era presente sulla superficie. I colori erano stabilissimi, di una purezza assoluta. Alla Cappella Sistina l’unico intervento fu quello di proteggere l’atmosfera dalle polveri, dall’umidità e dagli apporti chimici delle presenze dei visitatori. Tutto qui. Questa esperienza è stata molto bella soprattutto anche per vedere Michelangelo così da vicino, perché se dal basso è possibile goderne della bellezza in senso estensivo, da vicino è possibile vedere particolari da Tondo Doni. Nella prima campata della Volta Michelangelo è molto incerto tecnicamente, ma nella seconda e terza porzione si innamora letteralmente dell’affresco ed è lì che comincia a capire cosa permette tale tecnica. Ci sono delle rifiniture, dei passaggi, delle sottigliezze di chiaroscuro e di colore lievissime, modulate poi con colore diluitissimo, come una specie di acquerello. Nel Giudizio diventa più sintetico, più larga la pennellata, più corposa. Lì adopra moltissimo mezzi corpi per i fondi e finiture con acquerello di una bellezza materica estrema che poi è stata studiata anche da Nazzareno Gabrielli che era il chimico del Vaticano. Fece un’indagine sui colori e sugli intonaci per spiegare che la bellezza, la durezza e la resistenza di questo affresco venivano dall’utilizzo di un’ottima calce di travertino e di una pozzolana, presa da una cava che ancora esiste, che libera una quantità immensa di carbonati, garantendo tali caratteristiche di consistenza. D: Il lavoro che le ha dato più emozioni? R: La nascita di Venere di Botticelli. Proposi una metodologia di smacchiatura progressiva per salvaguardare quella vernice grigettina di chiara d’uovo che Botticelli aveva messo su questa pittura. Era importante sottolineare questo aspetto perchè se si intaccava questa l’immagine sarebbe svanita, diventando un fantasma. Proposi ovviamente delle piccole prove affermando che se non fossi riuscito nell’intento avrei riconsegnato il quadro. Matteini della Fortezza riuscì ad individuare questa vernice, fotografandola ed analizzandola, come chiara d’uovo. Da parte mia per un mese feci otto ore al giorno di prove e fallivano tutte. Provando e riprovando alla fine del mese mi venne un’intuizione. Decisi di usare del petrolio a lunga evaporazione intridendo una piccola area fino a che passava dietro la tela. A quel punto intervenivo con il solvente messo a punto che era una pappina molto diluita, quasi un’acqua con qualche traccia di ammoniaca e molto olio di spigo, agendo a pennello su ogni macchiolina. Il solvente lavorava sulla macchia e non entrava dentro perché trovava il sotto imbevuto. Per la semplice questione dell’impermeabilità dei corpi ecco l’uovo di colombo! D: Cosa consiglia oggi ad un giovane restauratore? R: Di farlo se uno ha un coraggio leonino. Sapete cosa ho detto a mia figlia che è del 1962, quindi fra un po’ è vecchia? Non fare restauro perché io non voglio che tu patisca tutto quello che ho patito io. E non è una battuta ma è la verità. D: Pensa che oggi i restauratori vengano formati bene? R: No. Le scuole normalmente sono di una modestia disarmante quando va bene. In questi corsi vengono impartite poche nozioni, non creano un clima di sperimentazione e danno al futuro restauratore poche possibilità di crescita futura. L’unica opportunità è data dai laboratori della Foretzza dell’Opificio come occasione di sperimentazione diretta, anche se pure lì a mio avviso è ridotta. L’ideale sarebbe una scuola/bottega di lunga sperimentazione, dal vivo, dove fosse possibile studiare si tutta la parte teorica, ma soprattutto anche sperimentare. Nel restauro nessun problema è mai uguale all’altro. D: Ci regala un segreto del mestiere? Un consiglio? R: Non ho segreti. Posso regalarti tutto quello che vuoi sapere. Posso solo consigliare di accostarsi sempre ad un lavoro con un atteggiamento estremamente dubitativo; non si deve dare per scontato nulla. Ci sono delle certezze di base che possono sempre essere messe in discussione, incominciando da sé stessi. Questa è un’arma che arricchisce e dà i suoi frutti nel tempo. E soprattutto tanta umiltà. E’ possibile leggere l’intervista integrale sul nostro blog http:www.novantatrerosso.blogspot.com


Novantatrerosso NUMERO 7

COSA VORRESTI FARE DA GRANDE Di MARIA BARUFFETTI, Studentessa OPD - Firenze la.mary.restaura@email.it

Mi chiamo Maria, per molti “la Mary”, e sono un membro dell'Associazione Bastioni. Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa per il Novantatrerosso e così eccomi qui a ringraziare la Redazione per l'opportunità offertami e tutti i lettori che avranno voglia di leggere le mie parole. Il tema di questo numero è la carriera. Ovviamente il mio racconto non può che rimanere una sorta di prologo (incrociando pure le dita per il futuro), perchè ancora faccio parte dei restauratori “in formazione”, per cui partiamo veramente dall'inizio. Avete presente la fatidica domanda “Cosa vorresti fare da grande?”. Passata la fase infantile in cui mi immaginavo principessa e quella in cui affermavo che avrei fatto “la madonnara”, ecco spuntarmi nella testa la risposta definitiva. Non avevo mai visto un restauratore al lavoro all'epoca e non avevo nemmeno molto chiaro cosa facesse veramente. Ma l'idea di prendermi cura delle opere d'arte mi piaceva. E mi piaceva da quando un giorno, all'età di 13 anni, scrissi con un uniposca rosso il mio nome e quello della mia inseparabile compagna di giochi sopra un pilastro di marmo, alla stazione di Massa Centro. Il vigile che ci sorprese ad imbrattare, dopo averci rimproverate a dovere, ci consegnò un secchio d'acqua, un detersivo ed una spugna. Cancellata la scritta “Maria e Martina” come meglio potevo mi guardai attorno finii col passare tutto il pomeriggio a pulire, e mi occupai di ogni lastra di marmo! Mi sentivo un piccolo eroe, avevo come guarito l'aspetto della stazione. Era più o meno deciso, volevo fare il medico delle opere d'arte. Appena uscita dall'Istituto Statale d'Arte, mi informai sul percorso di studi che

il bastion contrario oirartnoc noitsab li L’ARTE D’INQUADRARSI Di SIMONE NULLI TASSO, Dottore Commercialista (Firenze) www.dotcom.fi.it

Cosa hanno in comune un restauratore, una lavanderia, e un tassista? Probabilmente l’iscrizione all’albo degli artigiani tenuto dalla CCIAA, la Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura: ogni attività comunque organizzata passa di lì, anzi no. Il fotografo che ha fatto il servizio del vostro matrimonio? Forse si forse no, dipende, anche i fotografi non sono perfettamente inquadrati, è perfino una battuta ma è la realtà. Per iscriversi alla CCIAA bisogna innanzitutto essere imprenditori, così come recita il codice civile “E' imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi” (art.2082); quindi una volta assunto questo stato, la CCIAA ci collocherà nel settore relativo alla nostra attività: abbiamo una ditta! L’articolo citato non spiega perché esistano altri tipi di attività economica, ma soprattutto le modalità del loro svolgimento, che non sono considerate “imprese” (la ditta non è altro che il nome dell’impresa e quindi sarebbe più corretto dire “siamo una ditta” e “abbiamo un impresa”); il termine “professionale” deve essere inteso come “in maniera abituale” perché altrimenti non troveremo il posto per le “libere professioni” che infatti alla CCIAA non c’è. Le virgolette impazzano ma sono obbligatorie in questo contesto per un tentativo di disambiguazione e per cercare di spiegare concetti e definizioni che nel parlar comune vengono usati con significato diverso. Nel nostro caro Codice Civile (maiuscole obbligatorie) Regio Decreto del 16 marzo 1942 (sic!) troviamo però anche un’altra definizione, un po’ meno capziosa, quella di lavoratore autonomo, in “colui che si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente”; a questa definizione si contrappone in maniera abbastanza chiara quello di lavoro subordina-

avrei dovuto seguire. Era il 2006: ICR e OPD avevano bloccato i bandi di concorso per accedere alle scuole di formazione. Che fare? Se la strada è sbarrata ma sai dove vuoi andare non ti resta che cercare un percorso alternativo. Ed intorno non è che avessi il vuoto, anzi! Ero circondata da viuzze, sentieri e da indicazioni stradali spesso poco chiare. Quando il diritto allo studio si conta sulle dita di una mano, del resto, si instaura tutto un processo di istituti privati che speculano sulle possibilità negate; di regioni che finanziano corsi per rilasciare qualifiche di tecnico, addetto, amico o schiavetto del restauratore; di facoltà universitarie che aprono corsi di laurea per “ibridi da vuoto legislativo” (come scrisse efficacemente Irene Moltrer, carissima amica prossima alla laurea in Scienze dei beni culturali a Trento). Cominciai a capire: in questo Bel Paese che “promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” dove sta ”l'ospedale per opere d'arte malate più frequentato del mondo” (come mi piace spesso dire) è possibile “finanziare” un solo percorso formativo completo per una ventina di dottori all'anno. Mi chiedevo se fosse normale avere le corsie piene di bisognosi d'aiuto e gli animi di centinaia di infermieri infuocati dalla voglia di imparare “sul campo” ma che non potevano farlo! Perciò con l'animo infuocato trascorsi quattro anni studiando restauro dove e come potevo: all'Accademia di Belle Arti di Carrara (con gli splendidi docenti Miriam Ricci e Carlo Sassetti), seguendo (e lavorando molto per pagarlo!) un corso biennale presso l'Istituto per l'Arte ed il Restauro di Palazzo Spinelli a Firenze ed affacciandomi infine “sul campo” con tutta una serie di piccoli stage. Lo scorso anno tentai con molti giovani animati dalla mia stessa passione il Concorso per accedere alla Scuola di Alta Formazione dell'Opificio delle Pietre Dure, finalmente riaperto. Sono risultata tra i vincitori. Adesso posso davvero studiare restauro al meglio e forse un domani sarò un dottore! La mia storia sembra quindi avere un lieto fine. Ma non ce la faccio, come dopo aver ripulito la mia scritta di uniposca rosso guardo inevitabilemente attorno a me. Sugli altri pilastri, le scritte di altri, altre storie. Non posso dimenticarmi di tutti gli amici che non hanno avuto la mia stessa fortuna. Molti studenti accademici ed universitari dei corsi di Restauro di tutta Italia sono come seduti in platea. In silenzio. Dietro il sipario c'è un'orche-

stra composta dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca (del resto quando si parla di decreti interministeriali si usa dire che essi siano da adottarsi “di concerto” tra i due Ministeri in questione). Silenzio. Mesi, anni di attesa. Il tanto annunciato “concerto” non comincia. Ed il pubblico si fa sempre più numeroso. Chi sta seduto nelle poltroncine? Tutti coloro che hanno scelto di studiare restauro, ma non sono entrati come me nelle uniche due istituzioni che l'Italia abilita da sempre al rilascio della qualifica di Restauratore dei beni Culturali: l'Opificio delle Pietre Dure di Firenze e L'Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma. Quattro, adesso cinque anni (ed un po' di caos burocratici per l'organico della scuola con la novità dell'equiparazione a laurea), per una ventina di studenti tra il capoluogo toscano e la capitale. Con il regolamento num.87 del 2009 infatti metà dell'orchestra del nostro concerto muto (il MIUR) ha avviato il nuovo percorso a ciclo unico di durata quinquennale, l'unico abilitante per la professione di restauratore. Per le due scuole di Firenze e Roma l'overture assieme all'orchestra del MIBAC intona le sue prime note piano piano. A mio avviso credo che sia indispensabile definire al più presto anche i titoli rilasciati a tutto questo pubblico pagante. Scuola Regionale di Formazione professionale, Laurea in Tecnologie per la Conservazione e il Restauro, Accademia di Belle Arti indirizzo Restauro: dove portano queste formazioni? Con questa convinzione nel cuore con alcuni amici abbiamo creato “Restaura L’ego”, un movimento studentesco non politicizzato di ragazzi che sognano di fare i Restauratori. Gli studentiaspiranti restauratori di tutta Italia possono così trovarsi su Facebook e Myspace, e magari vedere di sfruttare la possibilità offerta dalla rete per scambiarsi consigli ed informazioni utili sul decreto 87 o sulle altre note ministeriali. O magari chissà, come ho detto prima di iniziare il mio racconto, “partiamo veramente dall'inizio”. Magari se lo imponessero anche i legislatori! La formazione non può essere l'ultimo dei loro interessi.

to secondo l’approccio classico che li distingue in obbligazioni di risultato e di mezzi, mezzi intesi come apporto lavorativo. Quindi il lavoratore autonomo dovrebbe garantire il risultato mentre il dipendente potrà semplicemente usare la propria diligenza, timbrando il cartellino; e il cosiddetto lavoro parasubordinato come lo definiamo? E un medico è obbligato a raggiungere il risultato? Dice, ma il professionista non è iscritto alla CCIAA perché per le cosiddette professioni protette esistono albi e ordini, poi ci sono ruoli, elenchi, tenuti da altri enti che garantiscono il committente (e tutelano il soggetto iscritto…); mi fermo qua perché prenderemmo un’altra strada, che non ci interessa. Quello che invece dovrebbe essere compreso è che non è sempre (quasi mai) possibile inquadrare precisamente un’attività in maniera univoca ed immediata da ogni punto di vista, amministrativo, previdenziale, assicurativo, fiscale, fallimentare e via discorrendo. Un approccio più tassonomico lo troviamo nella classificazione delle attività economiche, definita e approvata in ambito europeo, secondo la quale l’Istat ha sviluppato un elenco di codici (ATECO): cercando la parola “restauro” nell’apposita pagina del sito dell’Istat viene individuato il codice 90.03.02 “Attività di conservazione e restauro di opere d'arte”, e precisamente nella sezione R (attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento) divisione 90, gruppo 0 (attività creative, artistiche e di intrattenimento) classe 3, categoria 0 (creazioni artistiche e letterarie), sottocategoria 2 (Attività di conservazione e restauro di opere d'arte). Le sole altre sottocategorie che fanno compagnia a questa attività sono la 90.03.03 (Altre creazioni artistiche e letterarie) e la 90.03.01 (Attività dei giornalisti indipendenti) per la quale risulta assai arduo trovare un punto in comune. Ora è evidente che questo è solo un modo per classificare le attività, e non si creda di trovarle tutte, ma le differenze più rilevanti le dobbiamo ricercare nelle modalità di svolgimento, nell’organizzazione, nell’impiego di beni strumentali, nel capitale investito; la classificazione ATECO non si preoccupa di differenziare l’organizzazione e le modalità di svolgimento delle attività indicate, lasciando ad altri di preoccuparsi di questo problema. Potremo continuare a girare in circolo per quanto tempo vogliamo ma dobbiamo uscirne in qualche modo perché dobbiamo lavorare, esercitare la nostra cara attività che sappiamo fare bene, trovando un sistema che ci permetta di affrontare il meglio possibile le problematiche che incontreremo di volta in volta quando ci verrà offerto un incarico. Quindi torniamo alla realtà pratica ed essenziale e per farlo non dobbiamo preoccuparci più della semantica ma di resa economica, di ottimizzazione fiscale ma soprattutto previdenziale; è quest’ultima che alla fine fa la differenza soprattutto per il giovane restauratore conservatore, ma anche per il senior perché no, in quanto l’ambito fiscale è molto tecnico e in fondo non ha molte differenze sostanziali in termine di oneri. Ma l’INPS ci reclama, ci vuole, ci obbliga a partecipare in maniera concreta al meccanismo previdenziale per la nostra vecchiaia, perché le prossime generazioni non si ritrovino a vivere in uno Stato di anziani pezzenti, ma anche e soprattutto per quella degli altri che hanno contribuito in maniera rilevante in passato e che ora hanno diritto a vivere la loro

vita pensionistica. Fino a qualche anno fa chi non era iscritto alla CCIAA e non aveva una cassa professionale autonoma gestita dalla categoria, viveva in un limbo previdenziale che non prevedeva alcuni tipo di contribuzione obbligatoria, lasciando al lavoratore previdente, la piena autonomia di gestire la propria futura età pensionistica; le cose non potevano durare e mamma INPS ha creato una categoria “residuale” dal nome assai antipatico, la Gestione Separata: è in questo buglione che convergono tutte quelle attività di lavoro autonomo, ma anche parasubordinato (o Gesù…), che non avevano in passato un inquadramento previdenziale. Se si è iscritti alla CCIAA, a meno di non essere inquadrati nell’industria, la contribuzione prevede degli importi fissi di circa 3.000,00 euro annuali, da versare trimestralmente indipendentemente dall’utile prodotto, che entro certi limiti di reddito soddisfa le pretese dell’Inps; i non iscritti alla CCIAA o ad alcun un Ordine Professionale sono resti che finiscono giocoforza nella gestione separata la quale non prevede una contribuzione minima fissa - e questo fa molta gola perché specie all’inizio non siamo in grado di sapere quando e quanti proventi saremo in grado di produrre - bensì un’aliquota (leggi stonfo) del 26,72% sul reddito. È qui che la strada si divide cadendo la scelta quasi sempre sulla seconda modalità perché in fondo può esistere la possibilità (non sempre) di fatturare indicando ad esempio la dicitura “consulenza tecnica per restauro conservativo” che ci permette di “separarci” e lasciare ad altri il ruolo di imprenditore; certo non potremo partecipare alla maggior parte delle gare di appalto però potremo collaborare in maniera semplice, come si ama dire “a ritenuta d’acconto”, con la ditta del collega senza fargli configurare un subappalto non consentito e gestendo l’aspetto assicurativo autonomamente, senza l’intervento dell’INAIL che vi ho risparmiato tra gli altri, per misericordia, nella disquisizione suesposta. Troppe cose? Troppo complicato? Forse si, ma mi viene in mente una brava restauratrice che venne da me, dicendomi che voleva aprire la partita IVA (che tutti sanno cos’è…) perché avrebbe fatto bene al suo Karma. Sembrerà strano ma di quell’affermazione in apparenza bizzarra, se non altro in uno studio di un commercialista, colsi appieno tutto il significato. Le interessava solo secondariamente il tipo di inquadramento previdenziale, il regime fiscale, gli adempimenti per i quali ovviamente dovetti dare ragguagli; l’acchito le era venuto più da un impulso emotivo, da uno stato d’animo personale. Credo in fondo sia questo il giusto approccio per affrontare la sfida dell’inserimento nel mondo del lavoro autonomo: una convinzione di base forte, comunque la si voglia raffigurare, del resto necessaria in qualunque tipo di iniziativa. Certo si dovrà fare i conti con il fisco, con l’INPS, (con il commercialista…) e con tutte quelle “barriere di entrata” che potranno in un primo tempo sconcertare un po’; e si dovrà fare i conti con il lavoro che va e viene, con i clienti che non pagano, con i colleghi, con tutti gli inevitabili effetti collaterali ricordandosi però sempre che “Niuna impresa, pur minima che sia, può avere cominciamento o fine sanza queste tre cose: cioè sanza sapere, sanza potere, sanza con amore volere” (Anonimo fiorentino del 1300).

L’Associazione Bastioni é un’associazione senza scopo di lucro costituita nella sua maggioranza da restauratori e conservator i professionisti specializzati in diversi settori del restauro delle opere d’arte. Lo scopo dell’associazione é quello di svolgere ricer che su materiali quotidianamente usati nel campo del restauro, studiare soluzioni alternative alle tante problematiche ancora esistenti nel se ttore, nonché approfondire la conoscenza delle tecniche artistiche usate nel passato. L’Associazione Bastioni vuole essere una sede aperta al dialogo e allo scambio quotidiano fra i tanti professionisti che lavorano nel campo del restauro. Lavoro che, come ben sappia mo tutti, richiede passione, rispetto, onestà, ed un’infinita voglia di conoscenza.

Novantatre rosso

E’ possibile contattare RESTAURA L’EGO FACEBOOK: facebook.com/restaural.ego MYSPACE: http://www.myspace.com/ marestaury

DIRETTORE RESPONSABILE Francesca Attardo attardo.f@gmail.com

EDITORE Associazione Bastioni PRESIDENTE Daniela Murphy associazionebastioni@gmail.com

Sede legale: Via San Niccolò 93r 50125 Firenze

TIPOGRAFIA Tipografia RISMA di Barbagli Simone Via degli Alfani 22r 50121 Firenze


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