Un Caffè con John Gillis

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Un caffè con John Gillis ai BASTIONI

DOMANDA: Bentornato in Italia John. Nell’ambito dell’insegnamento del restauro e della conservazione del libro qui in Italia, sei senz’altro il più longevo di tutti docenti stranieri. RISPOSTA: Vengo in Italia ad insegnare ormai dal 1996. Insegnare qui mi è sempre piaciuto molto e rappresenta senz’altro il luogo privilegiato della mia attività come docente. Il motivo per cui mi appassiona tanto l’Italia è che nelle scuole di restauro si cerca di John Gillis (Photo Alan Betson, The Irish Times) trasmettere ed insegnare agli studenti l’approccio artigianale alla professione. Intendo il fatto che viene riconosciuta l’importanza di insegnare le tecniche artigianali e fare si che gli studenti le apprendano. La differenza con i corsi e le scuole straniere sta proprio in questo: vi è una preparazione accademica molto intensa ma l’attività pratica è pochissima. In Italia invece mi sembra che la situazione sia diversa ed io credo in questo tipo di approccio pratico. D: È interessante questa tua osservazione sul rapporto teoria/pratica poichè una delle critiche che ho avuto modo di sentire da parte di colleghi stranieri verso la formazione italiana è proprio quella di essere troppo legata a forme artigianali ed artistiche a discapito di un approccio più accademico.


R: Negli ultimi anni il mondo della conservazione è cambiato molto. La competizione per ottenere un posto di lavoro è diventata molto forte. Quando una istituzione deve assumere un nuovo conservatore non conosce la persona e deve naturalmente basarsi sulla sua formazione accademica. Il datore di lavoro preferirà dare il posto ad un laureato piuttosto che ad una persona senza titolo accademico. Il punto è che il laureato di fronte al tavolo da lavoro spesso non sa da dove cominciare. Succede quindi che lui o lei di fronte ad un libro il primo giorno di lavoro mi dica: «Non so da dove cominciare. Non so assolutamente cosa fare». Il titolo accademico sta diventando l’unico fattore di scelta per chi offre il posto di lavoro. Dall’altra parte invece vi sono i conservatori italiani che magari non hanno una qualifica accademica ma hanno un ampio bagaglio di conoscenze in termini pratici e artigianali. Sono convinto che queste due forme di insegnamento dovrebbero procedere di pari passo. D: Come è la realtà formativa in Irlanda? R: L’Irlanda è un paese piccolo, con troppo pochi abitanti per pensare di istituire un corso o una scuola interamente dedicati all’insegnamento delle tecniche di conservazione e restauro dei beni librari. Inoltre il paese non avrebbe probabilmente al suo interno sufficienti collezioni su cui fare lavorare i propri conservatori e questo significherebbe costringere il personale formato ad espatriare. A proposito vorrei aggiungere che secondo me una attività di conservazione e restauro di beni librari e archivistici può esprimersi al meglio solo all’interno di una istituzione. Il nostro è un lavoro che richiede molto tempo e denaro e purtroppo questi aspetti non sono facili da fare conciliare quando si lavora in ambito privato. Quando si lavora per privati è molto più alto il rischio di prendere scorciatoie per contenere i costi e le spese. Avere compreso ciò, che i costi per il restauro sono spesso ingenti, è stato uno dei fattori che ha portato e sta portando ad un forte sviluppo di ciò che chiamiamo preservation (la tutela del bene prima che questo necessiti di un restauro, ndt).

Trinity College Library, The Long Room, Dublino, Irlanda


L’investimento richiesto per il restauro di un manoscritto può agevolmente coprire le spese per vasti progetti di preservation (il controllo dello stato di degrado delle collezioni e l’allestimento di custodie per la conservazione, ndt). Faccio un esempio, con 45.000 euro è possibile restaurare due importanti manoscritti oppure stabilizzare un intero fondo composto da migliaia di unità bibliografiche. In un caso del genere l’amministrazione è generalmente propensa a concedere i fondi per tutelare l’intera collezione. Se questa tendenza prevalesse indiscriminatamente potremmo ritrovarci al punto in cui una scuola di restauro si chiede: «Dobbiamo veramente insegnare come si scarnisce una pelle? Come cucire un capitello o come riparare una cucitura rotta? Forse tutte queste conoscenze non sono poi così necessarie poichè è sufficiente stabilizzare le collezioni conservando il materiale in scatole e custodie». Non voglio giudicare i cambiamenti in atto e comunque non credo che questa sia la situazione attuale ma sono solo preoccupato che questa direzione possa portare alla perdita di molte conoscenze artigianali. Te lo dico in tutta onestà e modestia, quando non ci sarò più tutto ciò che ho appreso in una vita verrà con me. Per questo adoro insegnare, passare ai miei studenti ogni tipo di informazione e fare in modo che siano loro a trarne le conseguenze. D: Avere una politica troppo rivolta alla preservation rischia dunque di dissipare molte conoscenze artigianali che meritano invece di essere salvaguardate. Preservation e restauro dovrebbero quindi muoversi di pari passo? R: Certo. Anzi, l’attività di preservation è propedeutica alla progettazione ed esecuzione dei lavori di restauro. Una continua ed ininterrotta attività di preservation evidenzia problematiche ed emergenze di una collezione ed è indispensabile per individuare quale materiale abbia la priorità in termini di restauro. Ora, se però non abbiamo nessuno in grado di eseguire i lavori di restauro in seguito alla valutazione delle condizioni della collezione, allora abbiamo un problema da risolvere! Credo che ogni restauratore sia d’accordo con quanto sto dicendo. In tempi di ristrettezze finanziarie come ora, la situazione si complica. L’ago della bilancia si sposta e si preferisce investire in progetti che prevedano la stabilizzazione di un grande numero di volumi piuttosto che eseguire il restauro di poche unità. D: Per tornare al problema della trasmissione alle nuove generazioni, come è la situazione nel dipartimento di conservazione della biblioteca del Trinity college?

Old Library Preservation Project alla Biblioteca del Trinity College

R: Noi siamo fortunati poichè abbiamo uno staff molto qualificato. Purtroppo però il tempo passa per tutti e molti stanno andando


in pensione senza passare il proprio bagaglio di conoscenze ad una nuova generazione di professionisti. Probabilmente coloro che prenderanno i posti vacanti avranno una preparazione esclusivamente accademica priva di qualsiasi preparazione pratica. Quando fui assunto al Trinity college nel 1984, ero visto come parte della nuova generazione, uno di coloro che avrebbero dovuto farsi carico delle conoscenze della generazione precedente e tramandarla. D: Non hai degli allievi a cui trasmettere le tue conoscenze? R: Assolutamente no. Non all’interno del Trinity college. Anche alla luce di ciò, insegnare diventa per me ancora più importante. D: Come sei arrivato al Trinity college? R: Frequentavo il college presso l’istituto di scienze tecnologiche a Dublino. Era un corso rivolto al mercato della stampa industriale, ma non mi interessava veramente quindi lasciai perdere e sostenni invece gli esami del City & Guilds bookbondings, l’associazione inglese che conferiva la qualifica di legatore esperto. Ottenni il massimo dei voti e a quel punto facevo già dei piccoli lavori privatamente. Non durò molto perchè poco più tardi cominciai a lavorare al Trinity. Per la verità non ero a conoscenza del concorso indetto al Trinity, mi venne consigliato di partecipare e così mi ritrovai al colloquio per l’assunzione assieme ad una altra sola persona. D: È impressionante immaginare che foste in due soli al colloquio. R: È ciò di cui parlavo prima. Oggi il livello di competizione è altissimo. D: In trenta anni di lavoro nel mondo della conservazione del libro quali sono state le esperienze più importanti per la tua formazione? R: Andando indietro negli anni, ricordo benissimo il clima delle conferenze dell’IPC (Institute of Paper Conservation, ndt) ora parte dell’ICON (Institute of Conservation, ndt). Erano incontri molto interessanti e stimolanti. La prima a cui partecipai fu quella tenuta a Manchester nel 1992 (più di 500 partecipanti da tutto il mondo, ndt). Fu una rivelazione vedere che vi era un folto gruppo di professionisti che si muoveva attorno al mondo della conservazione e restauro del libro e della carta. Fu appassionante assistere a tutti gli interventi che affrontavano problematiche da punti di vista spesso anche molto distanti fra loro. Oltretutto allora lo stato dell’arte della ricerca e degli studi convergeva in queste grandi conferenze internazionali, non c’erano molte altre opportunità per seminari e convegni come ora. Adesso il numero di occasioni è incredibilmente più ampio. Senza considerare il fatto che allora internet non era ancora diffuso e lo scambio di informazioni era naturalmente meno immediato. Altri momenti che ricordo molto bene sono il mio primo manoscritto su pergamena dopo aver lavorato su centinaia di libri antichi a stampa oppure la mia prima pubblicazione. Quest’ultima fu un articolo sul progetto di conservazione di una piccola biblia sacra del XIV secolo proveniente dall’Irlanda del Nord. Ricordo che aveva una pergamena così fina che sembrava essere uno spaccato di pelle di pecora o addirittura una pelle di coniglio. Seguì quel progetto assieme a Jessica (Jessica Baldwin, head conservator presso la Chester Beatty Library di Dublino, ndt) e lo presentammo nel 2006 a Copenhagen durante la conferenza Care and


Conservation of Manuscripts.

Il Salterio di Faddan More al momento del ritrovamento

Poi è arrivato il manoscritto di Faddan more. Questa è stata ed è tutto’ora senz’altro la mia più straordinaria esperienza. Nel 2006, prima che il manoscritto venisse alla luce, ero lavorativamente in un momento di stasi. Il lavoro, per quanto affascinante, cominciava ad essere ripetitivo e sentivo la mancanza di un progetto impegnativo che rappresentasse una sfida. E la sfida è arrivata eccome! Dopo la scoperta del salterio, tutte le regole del gioco saltarono. Con questo manoscritto mi sono ritrovato di nuovo davanti alla domanda «E ora cosa faccio?» È stato fantastico, le mie sinapsi si erano rimesse in moto dopo un periodo di torpore! Avere delle sfide che ti rendano motivato è veramente essenziale nel nostro lavoro. D: È poco probabile che venga alla luce un altro Faddan more ma immagino che le conoscenze acquisite durante questo lavoro potranno essere utilizzate per altri progetti. R: Certo. Il bagaglio di conoscenze acquisite sarà senz’altro di aiuto per altri progetti. Le tecniche di restauro e conservazione utilizzate per il manoscritto potranno essere applicate a materiale con simili problemi di conservazione e degrado. Un altro esempio è il data base per la registrazione di tutte le operazioni eseguite. È uno strumento esportabile e facilmente adattabile secondo le esigenze. Inoltre,

come dicevo ieri durante l’incontro, lavorare a questo progetto ha confermato l’importanza che riveste dopo le operazioni di restauro l’acquisizione di immagini ad alta qualità rispettando con scrupolo i parametri stabiliti. Ciò aiuta molto, in separata sede, la manipolazione delle immagini digitali. Anche il trattamento per la pergamena bagnata può essere riapplicato. Non deve necessariamente essere una pergamena conservata in un ambiente saturo di acqua per 1200 anni! Può benissimo essere una pergamena bagnata dal sistema anticendio di una biblioteca. La copertina del Salterio di Faddan More

A proposito dell’incontro presso l’Associazione Bastioni devo dire che è stata una vera eccezione per me parlare ad una platea composta esclusivamente di conservatori e restauratori. La maggior parte dei convegni che ho tenuto sul Faddan more erano indirizzati ad una platea di storici dell’arte, codicologi, storici del libro e studiosi del mondo anglossassone. Questo ti da una idea di quanto ampie e multidisciplinari siano le attenzioni rivolte allo studio di questo manoscritto.


John Gillis presenta il restauro del Salterio di Faddan More presso l’Associazione Bastioni

D: Ieri hai accennato al Phd che dovrebbe cominciare a breve. Di cosa ti occuperai esattamente? R: Allora, il punto di partenza è il fatto che abbiamo nelle nostre mani una struttura (libraria, ndt) la cui presenza nell’Europa dell’Ovest era fino ad oggi sconosciuta. Il phd, che sarà di tre anni o sei nel caso probabile che sia part-time, si occuperà di paragonare le caratteristiche fisiche e codicologiche del manoscritto con gli altri codici alto medievali conosciuti e cercare di fare delle ipotesi su quali fossero le strutture librarie diffuse allora. Questo lavoro di comparazione interesserà un esiguo numero di codici poichè non sono molti quellli giunti fino a noi con la legatura originale. Mi vengono ora in mente l’Evangelario di Cadmug (IX secolo) e i codici nord africani (Nag Hammadi, III-IV secolo). Sarà un lavoro ad ampio spettro e non basato esclusivamente sul contenuto scritto ma anche sulla naura fisica del codice e sulle rotte commericali di allora attraverso le quali anche i codici si muovevano. D: Durante l’incontro di ieri hai mostrato due referenze iconografiche che riproducevano due legature molto simili a quella del Faddan more. Come spiegavi, questo ed altre ragioni inducono a pensare che la legatura che protegge il manoscritto potrebbe essere una tipologia usuale e diffusa per l’epoca. In altre parole il Faddan more potrebbe avere preservato una legatura comune per l’ambito territoriale indagato. Puoi quindi escludere che la legatura si rifaccia invece ad una tipologia tipica per libri sacri e di pregio? R: Può essere escluso. Ci sono fonti documentarie ed esempi che tramandano chiaramente che i libri liturgici erano allestiti con materiali preziosi o semi-preziosi ed erano decorati con lamine metalliche cesellate. In secondo luogo i libri sacri erano finemente decorati proprio perchè tramandavano la parola di dio. Ecco, il phd servirà proprio ad indagare a fondo tutte queste problematiche. I referenti del mio phd sono una storica dell’arte ed uno studioso di manoscritti. Sono loro che mi consigliano su come procedere nella ricerca. Perchè se è vero che di questo manoscritto conosco ormai ogni aspetto, ho invece bisogno di qualcuno che mi indichi quale metodo seguire per estrapolare le informazioni importanti dalla grande quantità di dati in mio


possesso. Il primo consiglio che la storica dell’arte mi ha dato è stato: «Scrivi nel primo capitolo tutto ciò che hai visto e osservato nel corso del progetto». La mia risposta è stata: «Beh, allora sarà un lungo capitolo!». E poi ha proseguito: «Alla fine del primo capitolo prendi un aspetto delle tue osservazioni e fai di questo il secondo capitolo». Quindi il mio secondo capitolo sarà, ad esempio, sulla inusuale rifilatura del taglio di testa e conterrà ogni osservazione, paragone e ricerca su questo singolo aspetto. Puoi immaginare quale mole di dati avremo quando ogni singolo aspetto del codice sarà stato affrontato. In ogni caso le domande che avvolgono Faddan more sono e saranno sempre di più rispetto alle risposte che potrà darci. Sarebbe bello potere tenere una conferenza un giorno per potere rispondere a tutte le domande che questo ritrovamento ha sollevato ma questo non credo avverrà mai. Saremo fortunati se riusciremo a dare un ventaglio di ipotesi che possano spiegare la storia di questo manoscritto. GIANLORENZO PIGNATTI (gianlorenzop@hotmail.com)


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