Le stelle smarrite, Anna Cecioni

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ANNA CECIONI

LE STELLE SMARRITE

ZeroUnoUndici Edizioni

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LE STELLE SMARRITE

Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-593-6 Copertina: Immagine Shutterstock.com Prima edizione Dicembre 2022

PROLOGO

Bianca si guardò in giro, beata. Nel piccolo paese al confine settentrionale dell’Europa, un tempo così bello era una vera rarità. Le foglie delle betulle mosse dal vento luccicavano come la luna sul mare, e mare profondo sembrava quel cielo senza una nuvola, tanto blu da ricordarle la patria lontana.

Erano trascorsi già due anni da quando la morte del marito l’aveva costretta a fare i conti con il proprio non facile presente: cancellato il rammarico per ciò che non era stato, aveva preso atto di non avere più nessuno a farle compagnia.

«Una vecchia donna solitaria!» si era detta, con l’amara ruvidità di sempre.

Così, d’istinto, aveva deciso di chiudere la casa in Italia e di raggiungere il figlio. Manfredi si era sposato e risiedeva in un lontano paese dal nome che evocava il freddo. Estonia.

La scelta le era stata facilitata dalla perfetta conoscenza delle lingue del ceppo ugrofinnico cui apparteneva l’estone, lo aveva insegnato per tanti anni all’Ateneo linguistico di Napoli… e poi stava per nascere un nipotino.

Bianca non aveva voluto perdersi la meraviglia di quella vita tutta nuova.

«Babba!»

Carlotta si muoveva gattonando sul plaid giallo in mezzo alle margherite, e cercava di attrarre la sua attenzione.

La nonna le sorrise. «Cosa c’è piccola? Vuoi un altro giocattolo?»

Estrasse dalla tasca del passeggino un cane di latta verde, e lo depose accanto alle mani della bambina. «Ecco, ti piace questo?»

Un anziano gentiluomo lanciò un frisbee rosso, un cane, orecchie al vento, spiccò un salto per afferrare l’attrezzo con la bocca.

Bianca rimase a osservarli, fino a quando il cane di latta non ruzzolò ai suoi piedi.

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«Carlotta! Ti sei già annoiata, birichina? Aspetta, cerco una cosa che ti piaccia di più.»

Dalla borsa grigia appoggiata sulla panchina estrasse la custodia degli occhiali, ripose il cane e porse l’astuccio colorato alla bambina. «Oh!» sussurrò la piccola, afferrandolo incuriosita.

Era bella Carlotta, molto bella! Aveva poco più di un anno e ogni tanto lanciava un gorgheggio a testimoniare che stava bene ed era felice. Bianca si sedette con un sospiro di soddisfazione. Il sole aveva aggirato l’albero sotto il quale era seduta e le riversava addosso tutto il proprio tepore. La donna distese le gambe, allargò le braccia e si lasciò scivolare sulla spalliera della panchina.

Chiuse gli occhi.

Nel buio delle palpebre, popolato da tante piccolissime meteore, i pensieri viaggiavano liberi come le ghiandaie sugli alberi intorno: il mare, la sabbia, il primo amore, l’ultimo?

Per un attimo Bianca scivolò nel sonno.

La svegliò un brivido, come se all’improvviso il cielo si fosse coperto di nubi. Ma non era così. Le ci volle qualche secondo per mettere bene a fuoco ciò che stava vedendo: un prato verde, senza nessuna macchia gialla che avrebbe dovuto trovarsi proprio lì, davanti a lei. «Carlotta!» Impaurita, si alzò di scatto. «Dove sei?»

Non le rispose nessuno.

“Ma non è possibile: la bambina non sa camminare! Non può essersi allontanata”, si disse, con il cuore in gola. Eppure non c’era. Si voltò per controllare dietro di sé, ma vide solo la custodia degli occhiali adagiata su un ciuffo di margherite. «Dove sei, Carlotta?»

Cominciò a correre, mentre l’angoscia la soffocava, anche il solo respirare le richiedeva uno sforzo immenso. Arrivò all’estremità del prato, si tuffò fra i rami della siepe e si ritrovò nel sentiero in discesa. Nessuno nemmeno lì.

“Non può essere sparita, deve per forza essere ancora nel prato”. Tornò indietro e prese coscienza, solo in quel momento, che anche il passeggino era scomparso.

Si mise una mano sulla bocca, come a trattenere un grido, mentre un vortice di pensieri negativi l’attraversava: “Santo Cielo! Allora Carlotta è stata rapita. Forse da una zingara, da un pedofilo, da un pazzo. Madonnina santa, devo avvertire Manfredi”.

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Raggiunse la panchina, raccolse la borsa ed estrasse il cellulare. Tremando, compose il numero: vi furono alcuni fruscii e uno squillo, interrotto da una voce metallica dai suoni aspri: “Il numero da lei chiamato non è al momento raggiungibile”.

«Oh santo cielo! Proverò con Ekatherine.»

Pestò sui tasti con frenesia, ma la stessa voce metallica avvertì che il numero era inesistente.

«Inesistente? Com’è possibile?»

Ispezionò di nuovo ogni angolo del prato, poi tornò sul viottolo sperando di veder apparire la nipotina. All’altezza della fontana le venne incontro una ragazza con un husky. Bianca la fermò ansimando. «Ha visto un adulto con un passeggino arancione e una bambina di un anno con un vestito blu?»

Quella la guardò con aria interrogativa, non capendo le sue parole. «Un adulto come, signora? Un uomo o una donna?»

«Non lo so» scosse la testa, prossima alle lacrime.

«Bambini ce ne sono tanti giù ai giochi: non so che dirle.»

«Hanno rapito mia nipote! Era accanto a me, ho chiuso gli occhi un attimo ed è sparita.»

La donna socchiuse la bocca, in un’espressione di sconcerto. «Ma cosa dice? Ha chiamato la polizia?»

«No, ancora non l’ho fatto.»

«La chiami subito allora!»

Bianca la guardò inebetita. «Dov’è il commissariato?»

«Proprio in fondo a questa strada. Non può sbagliare» disse, indicando la via di fronte a loro.

Senza nemmeno ringraziarla, Bianca uscì di corsa dalla cancellata, inciampando nelle pietre sconnesse del marciapiede. Proseguì come un automa senza vedere niente, né le persone né le macchine e nemmeno gli edifici.

Finalmente arrivò davanti a una costruzione bassa: sopra al portone sventolava la bandiera dello Stato nordico che l’ospitava e la scritta: “POLITSEI”. Entrò.

All’interno scorse un giovane in divisa.

«Mi aiuti, la prego. Devo denunciare un rapimento!» esclamò subito. L’agente la guardò a lungo, notando la sua agitazione. Poi chiese: «Un rapimento? Chi hanno rapito, signora?»

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«La mia nipotina.»

Il poliziotto le circondò le spalle. «Venga con me. L’accompagno dal Capitano.»

Salirono una rampa di scale e si fermarono davanti a una porta scura chiusa, su cui spiccava la scritta: “POLITSEIKAPTEN”, Capitano di polizia.

L’agente bussò e, quando udì l’invito a entrare, aprì la porta. Si trovarono davanti a un uomo anziano, che alzò la testa non appena li vide.

«Capitano» disse l’agente «questa signora deve denunciare il rapimento della nipote.»

Senza una parola, l’ufficiale le indicò la sedia davanti a sé e congedò il subalterno.

Bianca cominciò subito a parlare, accavallando le parole.

«Ero al giardino, signore, quello a due passi da qua, e…»

Il poliziotto l’interruppe con freddezza: aveva un viso cavallino. «La prego, andiamo con ordine, altrimenti rischio di non capire niente. Chi è lei? Qual è il suo nome?»

«Mi chiamo Bianca Bencivenni.»

«Italiana?» chiese senza guardarla, digitando il suo nome sul computer acceso accanto a sé.

«Sì…»

Era sconcertata da tutta quella inutile perdita di tempo. «E cosa ci fa in Estonia?» continuò il Capitano. «Sono arrivata da più di un anno. Mio figlio vive qui e ho deciso di raggiungerlo.»

«Ha un documento?»

Bianca sbottò: «Ma insomma, Capitano, la bambina è in pericolo!» «Ha un documento?» chiese ancora l’uomo, senza scomporsi. «Certo che ce l’ho.» Aprì la borsa. «Dev’essere qui.»

Appoggiò sulla scrivania un ombrello, il portafoglio, una spazzola per capelli, le chiavi di casa. Finalmente trovò quello che cercava. «Eccolo!»

Porse il passaporto al poliziotto e gettò di nuovo nella borsa tutto ciò che aveva tirato fuori.

Il Capitano esaminò con pedante attenzione ogni pagina, poi si girò verso il computer, con calma. Lo schermo rimandò una luce cilestrina che Bianca vide riflessa nelle lenti dell’uomo.

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«Dunque, Bencivenni Bianca, nata a Caselle in Pittari, Salerno, il 24 Aprile 1939, vedova.»

Si fermò di colpo alzando gli occhi. «Cosa mi ha detto? Perché è venuta in Estonia?»

«A raggiungere mio figlio» ripeté.

Il poliziotto scosse la testa. «Lei non è venuta per la ragione che dice.» Bianca trattenne il fiato. «Ah no? E perché sarei venuta?»

«Il perché non lo so, ma non è venuta a raggiungere suo figlio.» «Ma cosa dice?» chiese, alterata. «Lei non ha un figlio.»

La donna rimase senza parole. «Ma cosa sta dicendo?» riuscì a farfugliare. «Non ha nessun figlio!» disse di nuovo, alzando la voce. «Dal nostro archivio anagrafico risulta che lei è vedova senza alcun parente in vita.» «Be’, il suo archivio anagrafico sta sbagliando» ridacchiò nervosa. «Io ho un figlio e una nipote.»

«Questo lo dice lei.»

Bianca ne aveva abbastanza. «Senta, burocrate da strapazzo, se invece di farmi perdere tanto tempo prezioso, volesse pensare alla mia bambina non farebbe nient’altro che il suo dovere! È stata rapita e potrebbe trovarsi in grave pericolo. Sarebbe questa la Polizia Estone, l’efficiente Corpo al servizio del cittadino? Fate schifo!» ringhiò.

Richiamato dalle urla, l’agente che l’aveva accompagnata fece capolino nella stanza.

«Signora si calmi» ordinò a Bianca.

Il Capitano si voltò verso il nuovo arrivato. «Ubert arresti questa donna per oltraggio a pubblico ufficiale. È una pazza, una mitomane!»

Si era alzato in piedi, sovrastandola. Il suo volto aveva assunto un colorito verde oliva, il che creava un notevole contrasto con i capelli grigi, ritti sulla testa come fili di ferro.

«Signora, lei vive sola in questa città?» chiese l’agente. «Non conosce nessuno che possa garantire per lei?»

Quella gentilezza ebbe il potere di placare l’ira di Bianca. La risposta giusta le salì alle labbra di colpo.

«Il padre di mia nuora è il Generale Simonov dell’Esercito Estone.»

Il Capitano la guardò a occhi spalancati. «Il Generale Alexander Simonov?»

«Sì. Proprio lui.»

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«È sicura di quello che dice?»

«Certo che sono sicura.»

«Va bene! Ora chiamerò l’abitazione del Generale. Se lei mi farà disturbare l’illustre concittadino senza alcuna ragione, avrà a che fare con me. La farò rinchiudere in manicomio e butterò via la chiave. Mi sono spiegato?» Poi si rivolse al subalterno. «Ubert cerchi il numero di telefono dell’abitazione del Generale Simonov.»

Il giovane andò allo scaffale accanto alla finestra dell’ufficio, e impiegò alcuni istanti per consultare un fascicolo scuro. «Ecco qua: Alexander Simonov.»

Alzò il ricevitore e compose il numero. Dall’altra parte risposero quasi subito.

«Sì, buongiorno. Commissariato di Polizia di via Tulika. Le passo il Capitano Fridoref.»

L’uomo impugnò il ricevitore.

«Buongiorno, avrei bisogno di parlare con il Generale.»

Rimase un secondo in ascolto, indi sembrò accennare a un impercettibile inchino.

«Ma naturalmente! Aspetto in linea.»

Bianca l’osservava attenta: non avrebbe mai detto che il buon Alexander fosse una persona tanto importante. Lo scatto del poliziotto che si era messo addirittura sull’attenti bloccò le sue riflessioni.

«Signore, buongiorno. Mi scuso in anticipo per il disturbo che sono costretto ad arrecarle. Qui davanti a me c’è una donna, una certa Bianca Bencivenni, che sostiene di essere la sua consuocera. Ora, siccome, la convenuta ha affermato…» Tacque.

«Sì.»

Si grattò la testa. «Sì.»

Si allargò il colletto della camicia. «Sì.

Si rimise seduto.

«Senz’altro signore. Buongiorno» Riattaccò.

«Cos’ha detto?» chiese Bianca, in attesa.

«Cos’ha detto?» le fece eco il poliziotto, gentile.

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Il Capitano Fridoref aprì la bocca, che adesso era di un bel colore violaceo, prese aria e rispose con un filo di voce: «Ha detto che viene subito.»

In quel momento Bianca rammentò che Alexander non sapeva ancora niente della scomparsa della nipotina.

«Mi accuserà di non essere stata attenta e avrà ragione. Sono una disgraziata, una nonna degenere, una…»

L’agente le toccò un braccio, interrompendo il suo atto di contrizione. «Si accomodi su questa poltrona, signora, è più confortevole.» Senza una parola lei obbedì, sprofondando tra i cuscini.

Il Capitano si mise a squadrare per bene quella virago per disgrazia capitata nel suo ufficio, rimanendo in silenzio.

Fu dunque in un’innaturale assenza di rumori che il Generale Alexander Simonov fece il proprio ingresso al commissariato. La porta dell’ufficio si aprì con violenza, travolta dall’energia del padre di Ekatherine. Bianca aveva sempre pensato che Alexander assomigliasse a un cane mastino, bonario ma mastino! In quel momento le si stava avvicinando con la mano tesa, pronto a ghermire la sua nella consueta stretta d’acciaio.

«Bianca, tesoro. Cosa mi combini?»

La donna esitò un attimo a rispondere e fu preceduta dalla voce astiosa del Capitano Fridoref.

«La signora ha perso il controllo dei propri nervi, Generale.»

Sopraffatta dalla rabbia, Bianca si affannò a rispondere: «Per forza, Alexander. Sostiene che non ho un figlio! Diglielo tu se ho un figlio, tu che conosci bene Manfredi» esclamò, indicando il Capitano. Fridoref si schiarì la voce, a disagio, e chiese: «Ecco sì, mi dica Generale Simonov: è vero che la qui presente Bianca Bencivenni ha un figlio del quale, peraltro, non risulta traccia all’anagrafe di Stato?»

Alexander guardava entrambi e sembrava perplesso.

«Be’, tecnicamente la signora ha ragione.»

«Ecco, visto?» proruppe lei festante.

«Aspetta, Bianca… è vero che hai avuto un figlio, ma è morto da diciotto mesi…»

A sua volta, Fridoref sorrise soddisfatto. «Come vede, signora, il nostro archivio anagrafico non sbagliava!»

Alexander intervenne con severità: «La prego, Capitano! Questa è una donna che soffre!»

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Fridoref tacque, ma non perse l’espressione offesa.

Bianca intanto cercava di assimilare l’inattesa dichiarazione.

«Ma Alexander, che cosa stai dicendo? Per quale ragione sarei venuta in Estonia se mio figlio fosse morto diciotto mesi fa? Sarei rimasta a casa mia a piangerlo, non ti pare?»

«Sei venuta per Ekatherine, mia figlia era l’unica persona che ti ricordasse Manfredi, e per di più era incinta. Volevi essere vicina a tuo nipote quando fosse nato.»

A questo punto Bianca lo interruppe. Doveva confessargli subito di aver smarrito la bambina. In fondo le altre faccende potevano aspettare.

«A proposito di Carlotta…»

Ma il Generale la guardò stupito. «Carlotta? Chi è?»

«Come chi è? Mia nipote, tua nipote, nostra nipote!» urlò, frustrata, alzandosi di scatto.

Alexander le prese le mani e cercò di calmarla. «Ti prego, amica mia, rimettiti seduta. Oggi non stai tanto bene.»

Era sollecito il vocione dell’uomo e anche preoccupato.

«Perché dici così?» chiese Bianca, con la voce incrinata.

«Il bambino di Manfredi ed Ekatherine non è mai nato. Forse per il dolore della scomparsa del marito, mia figlia ha abortito al sesto mese di gravidanza. È stato uno shock per tutti, anche per te, ma non puoi averne rimosso il ricordo!»

Bianca lo guardò sconvolta. «Ma… ma…»

«Tu non hai una nipote, Bianca.»

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CAPITOLO 1 – LE STELLE SMARRITE

Bianca crollò impietrita nella poltrona, quasi senza respirare. Alexander le accarezzava i capelli.

«Vieni con me, amica mia, ti riporto a casa. Se vuoi, posso chiamare il mio medico personale, anche se penso che una buona dormita rimetterà tutto a posto.»

L’aiutò ad alzarsi, sostenendola.

«Ma Alexander…» provò a protestare, con un filo di voce.

«Zitta Bianca, non parlare. Adesso la tua mente è smarrita in un labirinto di ricordi. Può succedere dopo un dolore così grande come quello che ti è capitato.»

Lei si lasciò trascinare senza opporre resistenza. Non si voltò nemmeno a guardare il Capitano Fridoref, dimentica di dove si trovasse, persa in pensieri dei quali non riusciva a venire a capo.

«Manfredi non è morto. Carlotta è nata ed è scomparsa. Ma perché tutti dicono il contrario?»

Uscirono in strada.

Il tempo era cambiato, come succede spesso in quel paese all’estremità dell’Europa: un ammasso di nuvole grigie s’inseguiva sopra i tetti della città e si era alzato un vento freddo che sapeva di neve.

Speriamo che chi ha preso Carlotta le faccia indossare il golfino” pensò.

Non voleva, proprio non voleva arrendersi alla verità degli altri!

L’auto del Generale, una Volvo V70, era parcheggiata davanti al commissariato, in pieno divieto di sosta. L’uomo le aprì lo sportello e la fece accomodare. Poi salì al posto di guida.

«Allaccia la cintura, cara.»

«Alexander, non potremmo fermarci un attimo a casa di mio… di tua figlia? È così vicina!»

La faccia da mastino si girò bonaria verso di lei. «Bianca, Ekatherine non si trova più in Estonia.» Sgranò gli occhi. «No? E dov’è?»

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«A Berlino, in Germania. Io stesso l’ho persuasa ad accettare l’incarico al Palazzo dei Congressi di quella città. Non le faceva bene rimanere qui, dove tutto le rammentava il suo recente dolore.»

«Da quanto si è trasferita?»

«Tre mesi. Ma davvero, non rammenti niente?» chiese preoccupato.

La menzogna le salì immediata alle labbra: «Qualcosa… in modo sfocato però.»

«Bene, è un buon segno.»

L’auto partì senza una scossa, immettendosi nella corrente del traffico. Era l’ora di punta e le strade di Tallin erano congestionate.

Bianca, rigida, guardava fuori dal finestrino. Nonostante il traffico, il percorso fu breve: il monolocale che lei aveva affittato non era molto distante da lì.

«Arrivederci Alexander e grazie» disse, mettendo una mano sulla maniglia della portiera.

Lui sorrise, malinconico. «Di nulla, amica mia. Di nulla.»

«Ah, Alexander…» «Sì?»

«Ma se nemmeno tua figlia si trova qua, io cosa ci faccio in questo Paese?»

L’uomo sorrise comprensivo, poi le mise una mano sulla spalla. «Bianca, non credere che lo dica perché mi voglio liberare di te. Lo sai che anch’io sono rimasto vedovo e tu potresti solo farmi buona compagnia. Però credo che per te sarebbe meno doloroso tornare in Italia.»

«Dici?»

«Ritroveresti la tua gente, il tuo clima, le tue abitudini, gli amici di una vita intera. Pensaci!»

«Ci penserò…» annuì.

Scese, aprì la porta ed entrò in casa. Il rombo della Volvo che si allontanava soverchiò per un attimo il silenzio della stanza, e poi scomparve. Dopo un attimo d’indecisione, Bianca si diresse verso il paravento giapponese che separava il letto dal resto del piccolo locale: le pantofole spuntavano dalla frangia della coperta. Si chinò a raccoglierle. Nel farlo, sfiorò con lo sguardo la parete di fronte a lei: fra le tante fotografie che si accalcavano sul muro, fu colpita da una che non avrebbe dovuto trovarsi là.

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Si fermò di colpo.

«Oh bella! Ho sempre odiato quest’istantanea. Non posso certo averla scelta per incombere sulla mia testa. Chi l’ha messa qui?»

Si passò una mano sulla fronte.

«Eppure ho stampato io stessa tutte le foto, scegliendole una a una dall’archivio del computer.

Trasalì. «Le foto, il computer!»

Corse, scalza, verso il tavolino dove aveva sistemato il portatile. Lo accese e quando riuscì a entrare nella cartella dei documenti, le tremavano le mani. Cominciò a far scorrere le immagini con lentezza. «No! Le foto di Carlotta non ci sono più! E nemmeno quelle dell’ultimo Natale. Non è possibile.»

Fece altri tentativi per rintracciare ciò che cercava: la prova che non era pazza, che il suo mondo non era crollato, che i suoi amori erano ancora vivi.

Ma fu tutto inutile.

Alzandosi dalla sedia, per la prima volta in quella giornata terribile, Bianca dubitò di sé.

«Sono proprio diventata matta, allora: ciò che credevo vero, era soltanto il frutto della mia mente malata. Oh, Signore Iddio, aiutami!»

Cominciò a singhiozzare.

Mentre le lacrime le rigavano le guance, si gettò sul letto. Rimase là, immobile, cercando di dare sfogo a una disperazione troppo grande per tenerla chiusa dentro di sé.

Pian piano il forte pianto si trasformò in un mugolio sommesso.

Fuori pioveva. Bianca percepiva il rumore delle gocce che battevano sui vetri della finestra, ne seguiva le scie capricciose verso il basso. «Tutto passa, tutto scorre via» ripeteva come in un mantra. Improvvisamente il cuore le ruzzolò nel petto in preda a un’aritmia. «Oddio! Ho bisogno di un calmante, dove ho messo le pillole?»

Si costrinse ad alzarsi, raccolse la borsa da terra, rovistando senza guardare. Un suono lieve, come quello prodotto da un bubbolo per bambini, la mise in allarme.

«Che cos’è?»

Tirò fuori un oggetto, un oggetto piccolo ma enorme per lei: un cane di latta verde.

«Il giocattolo di Carlotta!»

La prima reazione fu di gioia scatenata.

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«Mia nipote esiste, mio figlio non è morto!»

Non era pazza dunque, non era mitomane. Erano esatti i suoi ricordi, la visione delle mani morbide della bambina, la piccola voce e le sue sillabe in “ba-bba”, l’anziano gentiluomo e il frisbee rosso, la custodia colorata degli occhiali.

Erano gli altri a mentire, a volerla convincere di una verità che tutto il suo essere rifiutava. Perché?

Il sangue era affluito con violenza alla testa e lei sentì il bisogno di aria fresca. Aprì i vetri. La notte ormai sopraggiunta sembrava suggerire una speranza. Nella confusione della sua mente si fecero strada alcuni versi, rimasti fino a quel momento sepolti nei viluppi della memoria.

Dopo tanta nebbia, a una, a una si svelano le stelle.

Chi li aveva scritti?

Non lo ricordava, ma non aveva importanza. Sapeva solo che, per quanto vecchia e sola, anche lei non avrebbe mai smesso di cercare nella nebbia le sue stelle smarrite. «Manfredi, Carlotta, non mi arrenderò.»

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CAPITOLO 2 – SOLA

Seduta davanti alla tavola, Bianca si massaggiava le tempie. Non era riuscita a chiudere occhio per tutta la notte. Se il suo cervello fosse stato un cellulare, adesso sarebbe stato scarico; ma lei non era uno strumento elettronico e non poteva permettersi il lusso di disattivarsi. Doveva cercare indizi, ricordare parole, sguardi, silenzi; aveva bisogno di un appiglio, uno qualsiasi al quale aggrapparsi per cercare di capire. Ma proprio in quel momento, le palpebre si fecero pesanti. «Stupida vecchia, non devi dormire!»

Si trascinò fino al bagno, aprì il miscelatore della doccia e si tuffò sotto una cascata di acqua fredda: i capelli scesero a coprirle la faccia. Rimase lì, immobile, respirando forte fino a quando un brivido la costrinse a uscire. Passò energicamente l’asciugamano sulla pelle: era dolorante, infelice, arrabbiata, ma si sentiva meglio.

Sorseggiando la prima tazza di tè della giornata, si avvicinò al computer.

«Eppure sei tu che dovresti darmi una risposta, tu che custodivi i miei ricordi, i miei segreti, le foto dei miei amori.» Già, le fotografie!

Chissà se era possibile provare a recuperarne qualcuna lavorando sulla RAM, o come diavolo si chiamava la memoria di quell’aggeggio?

Lei non lo sapeva, ma conosceva chi poteva riuscirci.

Marcus Tamm.

Impulsiva come sempre, Bianca entrò in azione. Si avvicinò al cellulare e richiamò il numero del tecnico: lo aveva usato così tante volte quando Marcus le aveva installato il suo PC! Doveva averlo fatto impazzire con la propria goffaggine, eppure lui non aveva mai perso la pazienza con lei.

Rimase in ascolto: una serie prolungata di squilli le fece trattenere il respiro.

«Non sarà morto, abortito o trasferito a Berlino anche lui, spero!»

Finalmente percepì uno scatto, seguito da una serie di sospiri.

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«Marcus?» sbottò lei.

«Bianca! Cos’è successo? Stai male?»

«Male? No, perché?»

«Se mi telefoni alle cinque di mattina, deve trattarsi di qualcosa di grave…» commentò, con voce preoccupata ma ancora impastata dal sonno.

«Le cinque, Marcus?» si guardò intorno, spaesata, in cerca di un orologio. «Davvero?»

«Le 04:57, almeno secondo la mia radiosveglia.»

Chiuse gli occhi, sentendosi in colpa. «Scusami Marcus, ti prego, scusami! Non volevo spaventarti. Non mi sono resa conto di niente, non ho guardato l’ora.»

«Vedi che ho ragione? Cosa ti è successo di così drammatico che ti ha fatto perdere il controllo sul tempo?»

«Sì, qualcosa mi è successo e direi che è proprio drammatico.»

«Dimmi tutto.»

«Però non vorrei essere inopportuna, posso richiamarti a un’ora più decente.»

«Bianca, ormai sono sveglio e anche molto incuriosito. Sputa il rospo e facciamola finita.»

«Ecco… qualcuno si è introdotto in casa mia e ha manomesso il computer.»

«In casa tua?» il suo tono di voce si fece allarmato. «E cosa vuoi dire con manomesso? Lo ha rotto?»

«No, all’apparenza è in ordine, ma le foto di Carlotta e di Manfredi sono state cancellate dalla memoria. Tutte.»

«Davvero? Sei sicura? Mancano solo le foto di tuo figlio e di tua nipote?»

«Direi di sì…» piegò la bocca in un impercettibile sorriso, rendendosi conto che lui sapeva perfettamente di cosa stava parlando.

«Mi sembra una cosa pazzesca.»

Come suonavano bene quelle parole! Marcus non si era stupito dei due nomi, ma anzi mostrava di conoscerli benissimo! Se lui fosse stato lì, gli avrebbe buttato le braccia al collo per la gioia.

«Perché l’avrebbero fatto? Non ti starai confondendo? Magari hai fatto una manovra sbagliata…»

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«Ho un’idea del perché, ma te ne parlerò a voce. Volevo invece che mi aiutassi a recuperare qualcuna di quelle immagini. Sempre che sia possibile.»

«Va bene Bianca, ci proverò. Verso le 08:00 sarò da te.»

«Verso le 08:00?» chiese, come se quell’orario le sembrasse lontanissimo.

«Non pretenderai che venga ora, vero?»

«No, no! Non lo pretendo. Anzi scusami tanto per averti svegliato.»

«Lo sai che ti sento sempre volentieri, anche se dormo» ridacchiò. Bianca lo ringraziò e si salutarono.

Era già preoccupata per le tre ore di attesa che aveva davanti, avrebbe voluto sistemare quella storia al più presto. Sospirò.

Ritornò alla macchinetta e si preparò un’altra tazza di tè, perché la precedente si era ormai raffreddata, come i suoi piedi nelle ciabatte. Si appoggiò al vetro della finestra e alzò gli occhi verso l’alto.

«Com’è basso il cielo stamani! Mi sembra di reggerlo con la testa.»

Si perse nel vorticare delle nuvole.

«Quella rotonda sembra la guancia di Carlotta. Amore mio bellissimo, dove ti avranno portato? E quel nuvolone nero assomiglia al naso del Capitano di polizia. Che uomo bilioso! Chissà se stava fingendo o era in buona fede? Ma se di lui posso dubitare, di Alexander no di certo: lui sta mentendo. Perché? Non riesco proprio a immaginarlo!»

Aveva tanto bisogno di conforto che si sovvenne di Linus e della sua coperta: quello di Schulz era da sempre il suo fumetto preferito, eppure mai come in quel momento ne comprendeva fino in fondo la profonda veridicità.

Andò a prendere il tintinnante cane di latta, il suo oggetto transizionale, l’unico che in quel momento riuscisse a darle un po’ di conforto, e lo strinse al seno. Mugolando piano, lasciò che gli occhi si riempissero di lacrime, scendessero sul viso, inondassero di sale le labbra, bagnassero il collo della maglietta.

Uno squillo la fece sobbalzare.

«Il telefono? Non sarà Marcus che mi dice che non viene? Oh, no! Signore fa’ che non sia così!»

Tremava, premendo il tasto verde dell’ascolto. «Pronto?»

«Buongiorno, Bianca!»

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Era la sua amica Ingrid, l’unica persona in Estonia con cui avesse stretto un rapporto stretto.

«Buongiorno Ingrid» sospirò sollevata.

«Che voce hai, Bianca? Sei raffreddata?» «No.»

«Eppure ti sento strana! Cosa stavi facendo?»

Non seppe cosa rispondere e tirò fuori una frase a caso: «Non facevo niente, stavo solo dormendo.»

«Oh, come mi dispiace! Non pensavo di svegliarti a quest’ora: ti alzi sempre prestissimo.»

Aveva incontrato quella donna a una cena in casa di Alexander: era la moglie di un Generale amico di lui. L’aveva trovata diversa dal genere consorte di militare: femmine algide, antiquate. Ingrid era timida e imbranata, proprio come lei. Collezionava una figuraccia dietro l’altra, rimproverata dallo sguardo severo di tutto l’entourage soldatesco e, forse per questo, le aveva fatto simpatia.

Avevano iniziato a telefonarsi, e da allora uscivano spesso insieme.

«Non c’è problema, non ti preoccupare. Mi fa piacere sentirti.»

«Dovevi chiamarmi ieri sera, per confermare l’appuntamento di oggi, ma non ti ho sentita.»

Bianca si passò una mano tra i capelli, socchiudendo gli occhi per un istante. «È vero! Scusami Ingrid, me ne sono proprio scordata.»

«Dimmi la verità: va tutto bene?»

Bianca era titubante: si chiedeva se dovesse parlare all’amica di quanto accaduto, ma aveva paura. Provò a tergiversare. «Si tratta di mia nipote.» «Tua nipote?»

Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata: non era possibile che anche Ingrid si preparasse a mentirle, non voleva crederci! «Sì, Carlotta» buttò là, tutto d’un fiato. «Carlotta? È una tua parente italiana?»

Bianca si sarebbe messa a urlare dalla disperazione. Non ce la fece più a sostenere una conversazione appena decente.

«Scusami Ingrid, ci vedremo in un’occasione migliore. Oggi non posso.»

«Come vuoi e… Bianca.»

Le sembrò che la voce della donna avesse una strana intonazione. «Sì?»

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«Perdonami!»

«Per cosa?»

«Per averti svegliato, naturalmente.»

«Non dirlo nemmeno, Ingrid. Addio.»

Riattaccò oppressa dall’angoscia e dal dubbio: si sentiva sola contro tutti, lei e quel misero cane di latta.

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CAPITOLO 3 – UN AMICO

Alle 07:58, il campanello suonò; due squilli brevi, intervallati da uno lungo erano inconfondibili.

«Marcus!»

Aprì emozionata. Dalla soglia l’uomo le sorrise.

«Ciao Bianca.»

«Ciao Marcus. Entra.»

Il nuovo arrivato si appoggiò al battente, poi, zoppicando in modo vistoso, si diresse verso l’angolo del computer.

Lei richiuse la porta e seguì con lo sguardo l’incedere ondeggiante dell’impermeabile verde di lui: si alzava e si abbassava, a seconda della gamba che stava sostenendo il peso del corpo.

Marcus era un grande invalido.

Da piccolo era stato colpito da una forma violenta di paralisi infantile, che aveva lasciato segni evidenti sui suoi arti inferiori. La gamba sinistra era molto più corta dell’altra e, pur indossando una scarpa ortopedica con almeno dieci centimetri di suola, si reggeva a stento in piedi e spesso era costretto ad aiutarsi con le braccia. Di conseguenza, i muscoli della parte superiore del corpo si erano sviluppati in modo anomalo: bastava un solo sguardo per percepirne la forza.

Bianca era sempre stata convinta che, senza la malattia che ne aveva minato il fisico, Marcus sarebbe stato un uomo molto bello. Non era ancora riuscita ad attribuirgli un’età precisa: poteva avere dai quarantacinque ai cinquantacinque anni. Comunque era assai più giovane di lei. «Allora cosa ti è capitato, mia cara? Vuoi raccontarmelo per bene?» chiese, non appena si mise seduto sulla poltrona girevole davanti allo schermo spento del PC.

Marcus si occupava dei computer della caserma regionale dell’esercito estone, di quelli privati del Generale Alexander e dei suoi importanti colleghi, e perfino di quello della nuora: tutti si lamentavano del suo carattere scontroso, dell’esosità e dei lunghi tempi d’attesa necessari a

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ottenerne le prestazioni. Per Bianca non era così, fin dal loro primo incontro, l’uomo le aveva dimostrato una particolare simpatia. Correva tutte le volte che lei lo chiamava, provava a insegnarle i segreti di quei misteriosi microprocessori, parlava con garbo del più e del meno, e soprattutto, esigeva compensi moderati. Agli stupiti commenti degli altri, lei non aveva mai saputo dare una risposta convincente.

«Gli farò tenerezza, imbranata come sono!»

Prima di rispondere alla domanda di Marcus, la donna trascinò una sedia accanto alla poltrona e lo guardò dritto negli occhi. Poi iniziò la sua lunga confessione.

«Ieri mattina, al giardino, ho perso mia nipote.»

Lui la guardò allarmato. «Cosa vuol dire che l’hai persa?»

«Ho chiuso un attimo gli occhi al sole, e quando li ho riaperti non c’era più.»

«E dov’era andata?»

«Aspetta! Fammi proseguire con ordine, perché rischio di non essere chiara… anche se sarà difficile seguire una logica in ciò che logico non è.»

Parlò con pacatezza, cercando di essere il più esauriente possibile, e Marcus non l’interruppe mai. Solo alla fine sbottò:

«Ma tutto questo è folle!»

Lei annuì, con le lacrime che si affacciavano dagli occhi. «Sì, lo è. Se tu riuscissi a recuperare qualche fotogramma di quelli che sono stati cancellati, io potrei ottenere la prova di non essere impazzita.»

«Ma certo che non sei impazzita» la rassicurò, arrabbiato per quanto le era accaduto. «Mi sembra piuttosto che tutti gli altri abbiano perso la testa! Vediamo cosa posso fare.»

Si girò verso il tavolino e accese il computer. Lei, troppo nervosa per restare seduta, si alzò e si mise alle sue spalle. «Vuoi qualcosa da bere?» chiese, fissando lo schermo. «Mi piacerebbe uno dei tuoi fortissimi espressi.»

«Ok. Vado subito a fartelo.»

Si staccò a malincuore dalla sua postazione di vedetta, si diresse al fornello, preparò la moka e accese il gas. Quasi subito nel piccolo locale si sparse l’aroma del caffè. Quando Bianca tornò indietro, con la tazzina in mano, Marcus era immerso nell’esame di colonne di numeri. «Ecco, tieni.» «Grazie. Appoggialo lì.»

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Lei fissava, affascinata, le mani dell’uomo che correvano da un tasto all’altro, così veloci da rendere difficile il seguirle: le misteriose schermate si avvicendavano in un silenzio carico d’attesa. D’un tratto, Marcus si appoggiò allo schienale della poltrona con un sospiro.

«Chi ha manomesso il tuo computer ha fatto un buon lavoro, Bianca; è senz’altro una persona esperta» commentò a malincuore.

Lei scosse la testa, desolata. «Lo temevo.»

«Tuttavia ha lasciato alcune tracce: poche ma sufficienti.»

«Riuscirai a recuperare qualche foto?»

Marcus stava girando lo zucchero nella tazzina. «Certo» rispose con il cucchiaino in bocca. Sorseggiò il liquido scuro con un mugolio di soddisfazione.

«Ne vuoi ancora?» chiese lei.

«Se ce l’hai senza stare a rifarlo, volentieri.»

Lei tornò ai fornelli, versò nella tazzina l’intero contenuto della caffettiera e l’appoggiò di nuovo accanto alla mano destra dell’uomo.

Poi si allontanò per lasciarlo libero di lavorare indisturbato.

Prese a camminare in su e in giù nei pochi metri quadrati dell’appartamento. Le sembrava di essere un giovane padre davanti alla sala parto: non ce la faceva proprio a stare ferma! Finalmente…

«Bianca, vieni a vedere.»

Corse al computer e, con emozione, scorse il volto paffuto di Carlotta sorriderle dallo schermo. Un successivo clic del mouse fece apparire suo figlio mentre sollevava la bambina.

«Bravo, bravo! Quante immagini hai salvato?» domandò, con il cuore in gola.

«Queste due ed è già un miracolo. Dove le metto?»

«Come dove le metti? Lasciale lì.»

Marcus si voltò a guardarla. «Bianca, ragiona! Se sono già entrati in casa tua, potrebbero ripetere l’esperienza e in quel caso la prima cosa che faranno, sarà di guardare nella memoria del PC.»

«Hai ragione, non ci avevo pensato. Allora?»

«Hai una chiavetta?»

«Una chiavetta? No.»

«Donna, sei una frana!»

Si alzò in piedi con fatica, avvicinandosi alla tavola dove aveva appoggiato la borsa. Tolse il gancio alla tasca esterna ed estrasse un oggetto nero, grande come un accendino.

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«Chiavetta!» proclamò, come se le stesse presentando una persona. Poi l’inserì in una porta che definì USB e scaricò le fotografie.

«Tieni» le disse infine, porgendole il piccolo oggetto «mettila in un posto sicuro.»

Lo guardò senza capire. «Un posto sicuro? E dove?»

Lei si guardò intorno: la sua piccola casa, la sua cuccia, l’unico luogo di quel Paese straniero che sentisse suo, era stato violato. Ormai non aveva più nascondigli.

«Non saprei» Marcus fece spallucce. D’improvviso Bianca ebbe un’idea. «La metterò nel vaso del cactus.»

«Nel vaso del cactus?»

«Sì, sì. Stai a vedere.»

Aprì lo sportello basso del mobile della cucina, prese una resistente busta di plastica e vi avvolse la chiavetta con cura. Poi, dalla cesta di vimini sotto l’acquaio, recuperò un paio di guanti robusti e una paletta. Distese sul gocciolatoio un giornale e vi rovesciò il contenuto del vaso: la massa di spine uscì insieme a una compatta zolla di terra.

In fondo al recipiente ormai vuoto, Bianca depositò la busta e la ricoprì con un leggero strato di humus. Su questo appoggiò la pianta, calzandola con altro terriccio. Quando rimise il vaso sul davanzale della finestra, sembrava che il cactus non fosse mai stato toccato.

«Bene» annuì Marcus «ma non annaffiarlo!»

«Stai tranquillo, non lo farò: non mi è mai piaciuto e poi ha bisogno di poca acqua.

Lui, ridendo, raccolse l’impermeabile e l’indossò. Con l’amico che si apprestava ad andarsene, Bianca si sentì più sola. Aveva bisogno di consigli, d’incoraggiamento, di spinta.

«Cosa farò adesso?» chiese preoccupata. «Da quale parte dovrei cominciare le ricerche? Non posso certo rivolgermi alle autorità: mi darebbero della pazza come ha fatto quel Capitano di polizia.»

«Se fossi in te, comincerei dalla casa di tuo figlio» le suggerì lui. «Prova a entrare, fatti aprire da qualcuno.»

«Non ne ho bisogno. Ho le chiavi.»

«Allora torna lì, guardati intorno, fai domande. In fondo, l’appartamento è l’unica cosa di Manfredi che non sia scomparsa con lui.»

«Hai ragione. Potrei provare.»

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Ma era incerta: non si sentiva così audace da entrare di soppiatto in una casa che non le apparteneva.

Marcus invece, sembrava soddisfatto. Avviandosi verso la porta le sorrise. «Tienimi informato sui risultati, mi raccomando.»

«Certo» promise lei «ti telefonerò.»

«No invece. Non usare il telefono e, se proprio non puoi farne a meno, stai attenta a quello che dici. Io oggi ho un’enorme mole di lavoro, altrimenti verrei con te. Facciamo così: stasera, prima di tornare a casa, mi fermerò qui e mi aggiornerai sulle ultime novità.»

Gli sorrise. «Va bene.»

«Bianca…»

«Sì?»

«Non ti abbattere. Ce la farai e io non ti abbandonerò!»

Uscì, dandole un bacio leggero su una guancia.

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CAPITOLO 4 – PEDINATA

Bianca rimase sola. Provò a ingoiare le lacrime che le serravano la gola, ma non ce la fece: appoggiò la testa alla tavola e si arrese all’onda nera dei sentimenti. Dov’era finito suo figlio? Chi aveva rapito la bambina? Di chi poteva fidarsi?

Gocce amare le inondarono gli occhi: non tentò nemmeno di arginarle. Eppure, dal fondo di una coscienza ottenebrata dal dolore, qualcosa del suo antico carattere lottava per risalire a galla. Si drizzò sulla schiena, mandò giù la saliva e andò a lavarsi la faccia. «Basta piangersi addosso. Non mi sono mai arresa e non lo farò nemmeno adesso!»

Afferrò il borsone grigio, controllò che dentro vi fossero le chiavi dell’appartamento di Manfredi, e uscì chiudendosi la porta alle spalle. Fuori il tempo era di nuovo cambiato: soffiava un vento freddo che le sferzò i capelli e le sollevò la gonna, costringendola a usare una mano per trattenerla. La fermata del tram si trovava a pochi passi da casa sua: Bianca s’incamminò in quella direzione.

Data l’ora inconsueta, solo due persone attendevano il passaggio della vettura diretta verso il centro della città. Lei, immersa nei propri pensieri, le ignorò.

Quando il semaforo elettronico con allarme sonoro per i non-vedenti si mise a suonare, Bianca alzò gli occhi: pur sotto i raggi sparuti del sole estone, la serpentina dei veicoli tranviari feriva lo sguardo. Si spostò verso la testa del convoglio, dove da sempre preferiva viaggiare, perché si sentiva più sicura accanto al manovratore. Suo figlio si divertiva spesso a prenderla in giro. «Vecchie ubbie da contadina!» le diceva, sfottendola. Soltanto uno dei due uomini presenti sulla pensilina salì con lei. Non appena a bordo, si rese conto che in quella vettura non c’era nemmeno un posto libero.

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Sono troppo stanca per fare il viaggio in piedi. Forse la seconda vettura sarà meno affollata”, si disse.

Si avvicinò al divisorio, pigiò il bottone, aprì la porta e si accomodò sul primo sedile libero che trovò. L’uomo salito con lei le andò dietro, proseguendo però verso la zona centrale.

Senza sedersi.

Quella strana manovra risvegliò la sua curiosità. Lo guardò con un interesse che fino a quel momento non gli aveva riservato: era un tizio alto, anonimo, vestito di grigio, con i capelli tagliati a spazzola.

“Sembra un militare in borghese” pensò.

La riflessione spontanea la fece trasalire.

“Militare? Che mi stia pedinando?”. Cominciò ad agitarsi.

“Devo saperlo!”.

Si alzò di scatto e tornò indietro sulla prima vettura.

Il tizio in grigio non la seguì, ma si avvicinò alla vetrata divisoria da dove riusciva a controllare ogni sua mossa.

“Allora sì, mi sta proprio pedinando!”.

Alla stazione successiva, Bianca scese.

Con la coda dell’occhio seguiva i movimenti dell’uomo, che aveva abbandonato il tram pure lui, incamminandosi poi senza guardarla verso il cartellone degli orari.

Lei lasciò cadere la borsa a terra e si attardò a raccoglierla. Poi, proprio mentre il convoglio si preparava a muoversi, risalì con uno scatto del quale non si sarebbe mai creduta capace.

L’uomo in grigio, che si trovava più distante di lei dalle rotaie, le corse dietro ma non riuscì ad arrivare in tempo. L’ultima cosa che Bianca vide, fu il suo sguardo rabbioso dietro le spesse lenti da vista.

“Pensa un po’, mi è stato addirittura riservato l’onore di una guardia del corpo tutta mia! Vengo considerata un pericolo, proprio io, la vecchia italiana!”.

Era quasi soddisfatta, ma subito cambiò umore.

“Chi mi giudica pericolosa e perché? Oh, povera me!” pensò, mentre il tram andava avanti senza ostacoli.

Tutt’intorno le automobili, incolonnate in lunghe file, marcavano il passo.

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CAPITOLO 5 – NIENTE

DI NIENTE

In poco meno di dieci minuti, Bianca arrivò alla stazione di Tulika. S’incamminò subito a passo svelto verso la strada residenziale dove, fino al giorno precedente, abitava la famiglia di suo figlio. In giro non c’era quasi nessuno, eppure non era tranquilla.

“Se perfino io sono sottoposta a una stretta vigilanza, la casa sarà di certo sorvegliata”, immaginò.

Si guardò intorno: vide una donna pettoruta, un vecchio con un cane ancora più vecchio di lui, una coppia di adolescenti. Tutti avrebbero potuto trovarsi lì per controllarla. Era in grado di scoprirlo? «No, è proprio impossibile!»

Non le restava che affidarsi alla fortuna, perciò proseguì decisa verso il suo obiettivo. Raggiunse il numero civico 8 con le chiavi già in mano. Svelta aprì il portone e si ritrovò nel vano delle scale, illuminato in alto da un oblò: quello era l’angolo dove di solito veniva riposto il passeggino di Carlotta. Adesso era vuoto.

Si avvicinò alla porta interna, senza fare rumore: camminava in punta di piedi, cercando di capire se dall’appartamento provenissero delle voci. In realtà c’era solo un gran silenzio.

“Potrei aprire… ma se dentro trovassi qualcuno che non conosco? O peggio ancora qualcuno che conosco anche troppo bene?”.

Le venne subito in mente la faccia da mastino di Alexander Simonov: ormai non le sembrava più così bonaria come aveva creduto fino a quel momento.

“Potrebbe aggredirmi e forse, se entrassi di soppiatto, sarebbe anche dalla parte della ragione”.

Il cuore le rimbombava dentro il torace, come la grancassa di una banda: se avesse dato ascolto alla paura, sarebbe scappata a gambe levate. Invece suonò il campanello.

“Se c’è qualcuno verrà ad aprire: qualora non lo conoscessi, potrei fingere di essere una Testimone di Geova a caccia di conversioni. Ma

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se invece fosse Alexander in persona? Mamma mia! Cosa diavolo potrei raccontargli?”. Non aprì nessuno. Chiamò a raccolta tutto il proprio coraggio e infilò la chiave nella serratura. La porta ruotò silenziosa sui cardini. Sgusciò all’interno chiudendo subito dietro di sé: le serrande delle finestre, quasi del tutto abbassate, creavano una densa penombra.

Le ci volle qualche attimo prima che gli occhi riuscissero ad adattarsi al brusco cambiamento di luce: nel salone d’ingresso non era rimasto più nulla, né mobili, né quadri, né giocattoli. Sembrava che una tromba d’aria avesse risucchiato tutto, lasciando dietro di sé una squallida desolazione. L’effetto deprimente era accentuato da una serie di cartacce sparse sul pavimento. Bianca si chinò a raccoglierne qualcuna: pubblicità anonime, pezzetti di fogli, residui d’imballaggi. Proseguì, addentrandosi nell’appartamento: ovunque lo stesso abbandono.

“Niente! Niente che possa assomigliare a un indizio! Com’è possibile che siano riusciti a fare tutto questo in meno di un giorno? Non starò confondendomi? Non starò perdendo la lucidità?”. Ebbe un capogiro.

Si appoggiò al muro, chiudendo gli occhi e aspettando che quella specie di terremoto si arrestasse: lo stomaco, gorgogliando, le rammentò che era digiuna da oltre venti ore. Cercò di afferrarsi a uno spigolo per riguadagnare l’equilibrio e percepì la ruvidità di un tratto d’intonaco lesionato, dal quale continuavano a cadere minuti granelli di calce.

Di colpo ebbe la visione chiarissima del giorno precedente quando, nel trascinare il seggiolone di Carlotta dal tinello alla cucina, aveva urtato con violenza contro la parete.

«Sono stata io a produrre questo danno ed era ieri, non mi posso sbagliare!» si disse a voce alta. «Ekatherine sembrava così contrariata, anche se lo negava! Le si leggeva in faccia il disappunto. Questo vuol dire che, almeno in quel momento, non aveva nessuna intenzione di abbandonare la casa. Non sapeva niente. Oh Signore, perché tutte queste sparizioni improvvise?»

Si chinò a terra per controllare se i calcinacci si trovassero ancora là.

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«No. Dunque mia nuora ha fatto in tempo a spazzare quando sono uscita con la bambina. Qualsiasi cosa sia accaduta, non è accaduta subito. Ma… cos’è quell’oggetto là?»

Un foglio accartocciato, più voluminoso degli altri, faceva capolino dall’angolo del muro.

“Qualcuno l’ha buttato via dopo averlo appallottolato”. Lo raccolse, lo distese con la mano e l’avvicinò agli occhi. In alto, scritto a grossi caratteri, lesse il nome di suo figlio. Per vederci meglio, si avvicinò ai vetri.

Ricevo da Manfredi Bencivenni venticinque fascicoli dell’Enciclopedia popolare del quotidiano “Postimees” da rilegare. Addì 25 Febbraio 2014.

«È la ricevuta di una tipografia. Febbraio, quasi due mesi fa dunque. Forse è stato Manfredi a disfarsene dopo aver ritirato il libro: non dovrebbe essere importante.»

Dopo un attimo d’indecisione, però, aprì il portafogli e la ripose con cura.

«In fondo è un’altra prova che mio figlio non è morto da diciotto mesi, come dicono invece Alexander e il capitano Fridoref.» Proseguì con ostinazione nella propria ricerca, senza però trovare nient’altro degno di nota. Alla fine si arrese. «È inutile: quest’appartamento sembra un deserto!» Uscì, richiuse a chiave, scese gli scalini e sbucò sulla strada. Appena fuori alzò la testa, rimanendo assorta a fissare la bella facciata tinteggiata in due tonalità di grigio.

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CAPITOLO 6 – UN IMPIEGATO SCORBUTICO

«Cercava qualcuno, signora?»

La voce giovanile la fece sobbalzare. Si voltò e vide un ragazzo: aveva uno scaleo sulle spalle, un secchio pieno di pennelli e alcuni barattoli di vernice. Sorrideva e aveva voglia di chiacchierare.

«Non c’è nessuno in casa. L’agenzia mi ha mandato a tinteggiare le pareti.»

«Ecco…» Bianca stava riprendendosi dalla sorpresa. «Per la verità mi chiedevo se questa bella palazzina fosse in vendita. Sto cercando una casa simile per la mia famiglia.»

L’imbianchino alzò le spalle. «Io non glielo so dire, signora. Però può chiedere all’agenzia.»

«Quale agenzia?»

«La “Casa per Tutti”, di Piazza Väljak.»

«Grazie, molto gentile.»

«Di nulla, signora. Buona giornata.»

Bianca si allontanò con aria indifferente, incamminandosi a caso in direzione di un viale alberato.

“Piazza Väljak? All’altro capo della città? Strano che sia stata scelta un’agenzia così lontana!”, ragionò, ripensando alle parole dell’uomo. Senza smettere di rimuginare, proseguì costeggiando un muro ricoperto di vecchi manifesti

“Che linea porterebbe da quelle parti? Il 42? Mi sembra di sì e se non mi sbaglio, la fermata è proprio accanto all’ingresso del giardino”.

Due mamme cariche di figli e carrozzine le stavano venendo incontro: Bianca abbassò lo sguardo sul marciapiede.

“Fino a ieri anch’io venivo con Carlotta a godere di quei bei prati. Fa male ricordarlo, fa tanto male”.

Il rumore di un autobus la distrasse dai pensieri dolorosi. Decise di andare a dare un’occhiata all’agenzia e cominciò a correre, arrivando in tempo alla fermata.

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Ansimando si arrampicò sugli scalini, lasciandosi poi cadere sul primo seggiolino libero. Rivolta verso il finestrino, guardava le case scorrerle davanti. Per non cedere sotto il peso della neve invernale, avevano tetti molto inclinati, ricoperti da lucide tegole nere a forma esagonale. Ogni tanto l’omogeneità era interrotta dal campanile aguzzo di una piccola chiesa. Il fondo stradale era lucido, senza nemmeno una cartaccia o un mozzicone di sigaretta.

“Però, com’è bella l’Estonia!” constatò, nonostante fosse lì da diverso tempo ormai.

Poco dopo Bianca si perse nel ricordo di Maratea, a cavallo fra la montagna e il mare. La risacca accarezzava la spiaggia, dove le barche da pesca venivano tirate in secco accanto alle vecchie case, arrampicate le une sui tetti delle altre. Quando il sole picchiava con la forza che in quel nordico lembo d’Europa nemmeno immaginavano, tutto prendeva vita: la gente si fermava nei vicoli a parlare all’ombra degli oleandri, i bambini schiamazzavano in mare seminudi, mentre talora, da lontano, si sentiva una voce intonare una canzone. È vero, c’erano rifiuti e cocci di bottiglia, anche qualche bidone di spazzatura rovesciato dove i cani frugavano avidi, però era la vita che pulsava fra quelle stradine: maleducata, dolorante ma vigorosa.

“Qui invece tutti parlano sottovoce, sono ammodo e puliti nei loro vestiti pesanti. Non posso dire che sia un difetto, ma non mi piace. Rappresenta il trionfo dell’inverno e io amo l’estate”. Era così concentrata in quelle divagazioni nostalgiche, che si accorse solo all’ultimo istante di essere arrivata a destinazione. Scese di corsa, guardandosi intorno.

«Dove sarà l’agenzia?» sussurrò a bassa voce.

La piazza era piuttosto ampia, con al centro un bel giardino, ma i rami degli alberi le impedivano una visione completa.

«Non mi resta che fare il giro.»

Trascinando le gambe, che cominciavano a essere provate, s’incamminò lentamente. Fu fortunata: la “Casa per tutti” si trovava proprio nel primo tratto a sinistra della fermata.

Però era chiusa e c’era un cartello accanto alla maniglia. Si avvicinò a leggere.

Orario di apertura al pubblico: dal lunedì al venerdì dalle 09:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 18:00.

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Guardò l’orologio.

«Accidenti, sono in pausa pranzo!»

Per la seconda volta, il suo stomaco segnalò la propria presenza.

«Va bene» decise «ne approfitterò per cercarmi un ristorante.»

Subito dietro l’angolo, in una strada di palazzi dall’inconfondibile aspetto d’uffici, Bianca individuò un Self-Service. Entrò, prelevò un vassoio e si fermò davanti al bancone con i piatti già pronti.

“Potrei prendere quella specie di crema rosa nella quale galleggiano due gamberetti. No, non mi attira. Oppure quell’aringa dall’aspetto cadaverico? No! E perché non quello stufato con contorno di… ananas?”.

«Desidera signora?»

L’inserviente si stava offrendo di aiutarla.

«Mi potrebbe preparare due uova fritte?»

«Certo.»

«Non ci metta salse per favore.»

«Come vuole.»

«Poi prenderei anche quel crème caramel laggiù. Se aggiunge un po’ di panna, mi fa un piacere. Avete del pane?»

«Di segale.»

«Vada per il pane di segale. Grazie.»

Con il vassoio fra le mani in precario equilibrio, Bianca scelse un tavolino tranquillo, vicino all’ingresso della sala per il Bingo. Mangiò con calma, tanto di tempo a disposizione ne aveva parecchio. Quando ebbe finito, si servì dal distributore automatico un bicchierone di caffè e lo sorseggiò con un poco di latte.

«Cattivo ma caldo» borbottò.

Lo bevve fino all’ultimo goccio, poi uscì. Il vento si era calmato, ma in compenso era iniziato a piovere. Estrasse dalla borsa l’onnipresente ombrello pieghevole, e tornò sui suoi passi verso l’agenzia.

Dentro c’erano già due clienti. Si accodò, preparandosi a una lunga attesa. Nel frattempo studiava gli impiegati.

“Quell’uomo non mi piace: assomiglia al capitano Fridoref. Potrebbe farmi troppe domande e mettermi in imbarazzo. Preferisco la ragazza: dev’essere nuova del mestiere. Si vede che è titubante”. Quando arrivò il suo turno, sfoderò un sorriso tranquillo e si sedette davanti alla biondina.

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«Buongiorno signorina, stamani ho visto una casa che farebbe proprio al caso mio. È situata in via Endla al numero 8» andò subito al dunque. La ragazza controllò sul computer. «Non la vedo fra le offerte di affitto, signora.»

«Ma io vorrei comperarla, sempre che abbia un buon prezzo.»

La biondina ripeté la manovra, con lo stesso risultato. «Non c’è nemmeno fra le offerte di vendita.

«Eppure non mi sbaglio. Ho incontrato l’operaio che la vostra agenzia ha mandato a tinteggiare le pareti: è da lui che ho saputo il vostro indirizzo.»

«Aspetti allora, guardo nell’elenco degli edifici particolari.»

Tirò fuori dal cassetto della scrivania un raccoglitore di plastica blu chiuso da un lucchettino, prelevò dal portapenne una piccola chiave e l’aprì. Dentro c’era un solo foglio: la ragazza lo prese fra le mani e scorse la lista di nomi.

«Ah, sì, eccola qua. È di proprietà del Ministero degli Interni e quindi non è cedibile, signora.»

«Oh, che peccato!» Bianca aveva l’aria delusa, ma non stava fingendo. «Mi piaceva tanto. Sono sicura che mio marito ne sarebbe stato entusiasta.»

Tutte quelle manovre avevano attirato l’attenzione dell’altro impiegato, che si avvicinò incuriosito. La ragazza, temendo di aver sbagliato qualcosa, gli si rivolse deferente.

«Signor Kaufmann, la signora aveva visto la palazzina di via Endla e le era molto piaciuta tanto che…»

«Non è affittabile né vendibile» l’interruppe l’uomo.

«L’ho già detto alla signora.»

«Ma davvero non c’è nessuna possibilità?» insistette Bianca. «Mio marito avrebbe…»

«Non è affittabile né vendibile. Buonasera signora.»

Il congedo aveva un tono brusco e definitivo. Non le conveniva insistere.

Bianca si alzò con aria offesa.

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INDICE

Prologo..........................................................................................3

Capitolo 1 – Le stelle smarrite....................................................11

Capitolo 2 – Sola.........................................................................15

Capitolo 3 – Un amico................................................................20

Capitolo 4 – Pedinata..................................................................25

Capitolo 5 – Niente di niente......................................................27

Capitolo 6 – Un impiegato scorbutico........................................30

Capitolo 7 – Un temporale..........................................................34

Capitolo 8 – La bottega di Manfredi...........................................38

Capitolo 9 – Una sigla misteriosa...............................................46

Capitolo 10 – Un ritardo preoccupante.......................................50

Capitolo 11 – Un invito inatteso.................................................57

Capitolo 12 – La cena.................................................................60

Capitolo 13 – Un grosso volume................................................68

Capitolo 14 – La chiave..............................................................74

Capitolo 15 – Una delusione.......................................................83

Capitolo 16 – Marcus due...........................................................87

Capitolo 17 – Skype....................................................................95

Capitolo 18 – Uno scontro violento..........................................101

Capitolo 19 – Anche Ingrid va bene.........................................108

Capitolo 20 – Little Viking Hotel.............................................115

Capitolo 21 – La passeggiata nel bosco....................................124

Capitolo 22 – Il successo del golpe..........................................131

Capitolo 23 – Soltanto uno sparo..............................................137

Capitolo 24 – Mai più politica!.................................................142

Capitolo 25 – Le stelle ritrovate................................................147

Epilogo......................................................................................151

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