L'uomo con il mantello nero, Renato Delfiol

Page 1

In uscita il 2 / /2022 (15, 0 euro)

Versione ebook in uscita tra fine ( ,99 euro)

AVVISO

Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale.

La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.

RENATO DELFIOL L’UOMO CON IL MANTELLO NERO UN INVESTIGATORE NEL XII SECOLO ZeroUnoUndici Edizioni

ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/

L’UOMO CON IL MANTELLO NERO

Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-595-0 Copertina: Immagine Shutterstock.com Prima edizione Dicembre 2022

CAPITOLO 1 – L’INCARICO

Arrivato in vista di Cornuda, una magnifica domenica di giugno, poco prima del calar del sole, mi fermai a osservare il paese, quasi tutto su bassi colli; in lontananza si vedevano dei monti non molto alti.

Era il mio primo incarico come Podestà. Durante il viaggio avevo ripercorso il mio cammino, che non erano solo miglia a cavallo lungo la via romana e attraverso campi coltivati, boschi e colline nei contadi di Bergamo, Brescia, Vicenza e Treviso; era il nuovo svolgimento che avevo voluto imprimere alla mia vita, che era cresciuto a poco a poco nella mia mente e che ora giungeva a compimento.

Avevo voluto lasciare la mia terra per trasferirmi altrove, un po’ come mio zio Uberto, il capo della nostra famiglia, il quale aveva riconosciuto che la sua vita era cambiata in meglio, solo quando aveva deciso di uscire dal suo castello e avviarsi alla Crociata. Così si era aperto a nuove esperienze che avevano cambiato non solo il suo carattere, ma anche la sua esistenza, fin allora ordinaria. Era stato piacevole, cavalcando di continuo e fermandomi per poche soste in città o villaggi, ripercorrere tutti i momenti della mia scelta. Tutto era cominciato poco dopo la morte di Uberto, avvenuta l’anno successivo alla pace tra l’Impero e i nostri comuni, quando ero stato scelto per continuare le sue memorie, che solo dopo la sua dipartita ci era stato concesso di conoscere. La lettura del poderoso manoscritto aveva richiesto due domeniche, e si era svolta in presenza di figli, nipoti e rispettive mogli. Alla fine della lettura, la vedova di Uberto disse che sarebbe stato bello se qualcuno di noi avesse continuato la storia della famiglia, narrando le sue vicende personali ma accennando anche a quelle degli altri. Spiegò che lei aveva sempre annotato a margine del suo libro di

3

preghiere i fatti salienti della nostra vita e che, in futuro, quelle note sarebbero state disponibili per una storia. Dopo averne discusso a lungo, i fratelli e i cugini scelsero me come continuatore. Sapevano che avevo imparato a scrivere in stile frequentando una scuola a Milano, retta da un famoso maestro, e che già avevo scritto le parole di alcune canzoni che si erano cantate alle feste e che erano state molto lodate. Presi l’impegno ma per diverso tempo non scrissi niente.

Un giorno decisi di seguire l’esempio dello zio Uberto: lasciai ai miei fratelli minori le incombenze che avevo al nostro castello, e mi spostai per ottenere qualche incarico altrove.

Avevo sentito che nella marca trevisana alcuni nobili delle nostre zone avevano ottenuto cariche. Forse ne avrei trovata una anche nei territori di Milano, città cui il nostro castello era tributario, ma sono sempre stato incline alle novità e quindi volevo spostarmi.

In tal modo avrei anche vissuto delle avventure per arricchire la storia della famiglia.

Mi ero recato prima di tutto alla corte di Ecelino a Treviso. Immaginavo che non occorressero particolari presentazioni: suo padre, che si chiamava Ecelino come il figlio, aveva partecipato alla Concordia di Lombardia, di cui era stato uno dei capi. Così mi ero presentato al suo cancelliere per ottenere una raccomandazione, affinché il Comune mi assegnasse una carica nel contado. Ecelino non aveva un potere esclusivo sulla città, ma ne era console e un personaggio di primo piano. Ciò grazie alle numerosissime terre dei suoi domini personali, alle infeudazioni ecclesiastiche e alla sua fitta rete di relazioni con i cittadini di Treviso, sia nobili che mercanti, nonché con coloro che rivestivano cariche ufficiali o che le avevano avute nel passato. I rapporti del padre con l’Imperatore Federico erano tornati buoni dopo la pace, e ciò accresceva il prestigio del casato. In pratica, grazie alla sua dignità, quello che proponeva era accettato senza discussioni anche dagli altri magistrati. Per questi motivi preferii presentarmi a lui, piuttosto che agli uffici del Comune. Il suo cancelliere era un ometto basso, grassoccio e rubicondo, il cui aspetto contrastava con lo stanzone austero dell’ufficio dalle pareti

4

tappezzate di registri e pergamene, collocati su scaffali alti fino al soffitto. Un grosso protocollo, le cui pagine erano ampie più di un braccio, era aperto sul tavolo.

Entrando, assaporai l’odore delle vecchie carte che mi era familiare da quando, a Castano, lavoravo nell’amministrazione.

Appena fui introdotto, mi chiese: «Che posso fare per voi? Mi dicono che avete una richiesta da farmi.»

«Messere» iniziai, accennando un inchino del capo «vorrei ottenere un impiego nel dominio trevisano come magistrato. Mi chiamo Lamberto da Castano, sono cittadino milanese e ho partecipato alla battaglia di Lignan.»

Mi considerò a lungo, osservando i miei abiti. Indossavo la tunica migliore, rossa, con una catena d’argento. Mi ero domandato se non sarebbe stato meglio vestirne una più dimessa, ma se mi avesse ricevuto Ecelino in persona, non volevo presentarmi in abiti da viaggio.

«Vi presentate bene, vedremo cosa sapete fare» commentò infine, concentrandosi di nuovo sui suoi protocolli. «Comporrete un atto, prima in latino e poi in volgare: una sentenza per risolvere una lite. Trovate voi i nomi e l’argomento, a vostro piacere» disse senza guardarmi, rovistando tra alcune carte che poi mi porse.

Il suo labbro era incurvato in basso, come per una leggera ironia mentre mi porgeva i fogli e la penna.

Mi sedetti all’altro capo del suo lungo tavolo, mentre egli continuava le registrazioni, canticchiando a fior di labbra, e improvvisai il documento.

Mi ero immaginato una vendita di terreni a un monastero, ma si era scoperto che su di essi insistevano diritti di altri.

La sentenza consisteva in una composizione nella quale i diritti preesistenti venivano ricompensati con una parte del ricavato della vendita. Sarebbe stato troppo facile dichiarare nulla la vendita. Così avevo allungato e dimostrato che sapevo usare le formule di rito. Avevo messo anche dei prezzi, e ne approfittai per citare monete diverse: ducati veronesi e marche imperiali, riferendo il valore a ciascuna di esse.

Dopo circa un’oretta gli consegnai i testi.

5

«Già finito?» chiese con un sorrisetto sprezzante, guardando i fogli scritti senza alcuna correzione. Avevo prima composto nella mente il documento, e quindi lo avevo tracciato sul foglio in latino, traducendolo poi in volgare. Mentre leggeva il testo latino, il suo contegno cambiava, un certo compiacimento compariva sul suo viso mentre annuiva in segno di approvazione. Poi lesse anche il volgare, infine mi chiese: «Ma siete per caso un curiale?» «No» risposi «sono un nobile e so di lettere.» Sorrise. «Messer Lamberto da Castano, consideratevi approvato. Sottoporrò oggi stesso la vostra richiesta al marchese, che credo non vorrà affatto che la città rinunci ai vostri servigi. Io non sono che un cancelliere, ma sono io che decido, in fondo» fece una breve pausa, riguardando un attimo i miei scritti, poi aggiunse: «Troppo spesso si vedono giudici che, quando mandano un appello qui o al Comune, non sanno far capire bene nemmeno di che si tratta, quale sia stato il malefizio, e usano una mescolanza di latino e volgare da far paura… Sapete, il Comune vi manderà dove è stato richiesto un magistrato, perché non vi sono persone un minimo dotte che possano ambire all’incarico. In questo modo, la nostra città si assicura autorità sul dominio, ma voi sarete alle dipendenze della comunità dove avrete l’incarico e dovrete mediare tra le sue esigenze e quelle di Treviso, ma credo che ne sarete ottimamente in grado… dove alloggiate? Vi si manderà a chiamare… avete famiglia?»

«Ho moglie e un figlio piccolo, che sono ancora al nostro castello, vicino a Milano. Vorrei stabilirmi con loro nel luogo del mio incarico.»

«Benissimo» concluse. «Un uffiziale con famiglia è più accetto agli abitanti. Arrivederci.»

Due giorni dopo fui chiamato. Mi fu assegnata la rocca di Cornuda, in collina, nel quartiere di Oltrecagnan, sopra al fiume Piave, con alcuni borghi e casali intorno. Come Podestà sarei stato giudice nelle cause civili e in quelle criminali, in quelle più gravi limitatamente all’inquisizione del colpevole e alla proposta della pena, che doveva

6

essere poi avallata o giudicata a Treviso, del quale sarei stato anche il rappresentante. Però avrei avuto facoltà di emettere ordini e bandi a tutela della pace e del buon ordine della comunità, e anche di condannare senza appello a pene di modica gravità nell’ambito del criminale.

Fattami la nomina, mi si dettero cinque giorni per assumere l’incarico. Il marchese mi volle conoscere, ricordò i tempi della guerra contro l’Imperatore, cui non aveva partecipato ma che aveva vissuto tramite i racconti del padre. Mi stupii un poco, anche se lo avevo sperato, che avesse sentito anche di zio Uberto che assieme a mio padre era stato uno dei primi castellani ad aderire alla Concordia. «Un grande castellano, un cavaliere della Croce che ha lasciato la causa dell’Impero ed è passato alla lega delle città… Passando al vostro incarico, sapete, a noi di Treviso fa comodo avere dei magistrati nostri nel dominio, anche per tenerlo ben saldo mentre siamo impegnati nelle guerre di espansione verso Oriente. Magari, in futuro, potreste essere incaricato nelle città che si aggiungeranno.»

Mi fece i suoi auguri e raccomandò che mi presentassi a lui con la famiglia, non appena vi fosse occasione. «Sapete» mi disse ancora «dopo la pace siamo tornati in buoni rapporti con l’Impero, già con mio padre. È sempre l’Imperatore e ha un dominio universale, ma vedrete che, a parte il citarlo nei documenti, cosa che farete sempre, non è molto presente nell’amministrazione del contado. Ormai i magistrati e i podestà, soprattutto nei comuni più piccoli, non passano più per la sua approvazione. Al massimo, come in questo caso, ne manderemo notizia, che verrà forse letta e archiviata. Il vostro riferimento, quindi, sarà il Comune di Treviso. Le tasse le manderete qui e saranno gli ufficiali comunali che invieranno al fisco imperiale la parte che gli è dovuta. Tenete anche presente che Cornuda è compresa nei domini del vescovo, che vi riscuote delle sue tasse, e vi è anche un loro vassallo che dovrete trattare con i guanti, a meno che non s’ingerisca nel vostro operato. Allora, spero di rivedervi tra non molto.»

7

Scrissi una lettera a mia moglie, approfittando dell’invio di missive ufficiali a Milano, chiedendole di prepararsi alla partenza e di raggiungermi a Cornuda. A Treviso, comunque, avrei mantenuto una modesta abitazione come punto d’appoggio. Le consigliavo di farsi accompagnare da qualcuno dei miei fratelli, scrivendone anche a loro, dato che la lontananza non mi consentiva di andarla a prendere nei pochi giorni che avevo, anche per non far correre troppo la carrozza con lei e il bambino. Così ci sarebbe stato più tempo.

Mentre mi avvicinavo all’abitato, cinto da mura, passavo attraverso la distesa dei campi dove i villani stavano finendo di raccogliere il grano e di batterlo.

Era giorno di festa, ma evidentemente il parroco aveva dato la dispensa, dato che sembravano alla fine. Tutta l’aria era pervasa dalla polvere della crusca, tanto che in breve me la ritrovai anche sull’abito, nonché in bocca.

Giunto alla porta, chiesi notizia del palazzo del Podestà e mi fu indicata una costruzione quasi al centro dell’abitato. Tutta in pietra bianca, con tre finestre bifore e un bel portone intagliato. Accanto c’era la casa e vicino l’osteria. Mi venne da ridere ricordando le parole del cancelliere sui giudici del contado, che forse passavano più tempo lì che nel loro ufficio.

Chiesi della guardia, che appunto uscì dalla taverna e, dopo avermi salutato con deferenza, andò a casa sua a prendere le chiavi. Poco dopo, tutto il borgo sapeva che messer il Podestà era arrivato. Con la guardia, Viano di Angelo, un uomo di mezza età, di corporatura media e con il viso un po’ butterato, entrai. Al piano terreno del palazzetto c’era la stalla, dotata di una porta comunicante con l’esterno, un magazzino e la segreta; al piano superiore, che aveva un soffitto a volta piuttosto alto, il mio ufficio, che occupava l’atrio, il locale dell’archivio e una stanzetta per i colloqui riservati.

Feci esporre alla finestra centrale la bandiera dei da Romano e quella del Comune di Treviso, nonché l’insegna del mio casato. Nell’ufficio non c’era niente, nemmeno una lucerna o della carta per scrivere. L’altro giudice doveva essersi portato via tutto, o forse era

8

stata la guardia. Erano rimasti solo i mobili. Ma mi ero provvisto del necessario e avevo le carte dell’inventario datemi a Treviso.

Andai a controllare la cella dei prigionieri, che mi parve alquanto malsicura: il cancello non chiudeva, così ordinai alla guardia di far apporre una serratura migliore.

«Ma Viano, non c’è stata mai necessità di usarla, in passato?»

«No, messere, è da tanto tempo che non si usa, il giusdicente di prima aveva talvolta condannato qualcuno alla fustigazione, ma usava il suo servitore e basta. Forse quello precedente, ma non saprei.»

Ero curioso di sapere che tipo di reati si commettevano.

«E per quali fatti li faceva frustare?»

«Risse, aggressioni» spiegò. «Una volta un contadino non voleva andarsene dall’osteria a notte fonda; cercai di convincerlo ma niente. L’oste dovette chiuderlo dentro, dove sfasciò diverse cose. Al mattino, informato, il giudice andò lì con il servo, lo fece svegliare a frustate, così poi quello se ne tornò a casa a picchiare la moglie.»

Annuii e rimasi alcuni istanti a riflettere, poi dissi: «Be’, siccome mi dovrò occupare del criminale solo proponendo la pena, a meno che non sia leggera, nel qual caso sarò indipendente, la segreta ci vuole. Da quanto tempo eravate senza Podestà?»

«Circa otto o nove mesi. Si discuteva chi nominare, ma nessuno era all’altezza. Uno in verità lo era, ma non voleva; e un altro, anch’egli molto dotto, era troppo giovane. Poi alla fine al Vicinato, cioè all’assemblea dei capifamiglia, si è deciso di chiedere a Treviso.»

Passai nell’archivio e vi trovai un gran disordine: carte recenti erano mescolate con le antiche, vi erano pergamene e registri per terra, in un grande sudiciume. Me lo aspettavo. Avrei dovuto scegliere un aiutante, da pagare con il mio compenso.

Entrai poi in casa. Vi era un congruo numero di stanze, una bella con il camino, che mi fece ricordare quella di Castel Castano, cui ero assai affezionato. Lì si svolgevano i nostri pranzi e le cene ed era sempre piena di voci. Da noi era costume che anche i bambini parlassero a tavola, senza però fare troppo chiasso. Provavo grande nostalgia, già dopo pochi giorni! Comunque questa casa sarebbe stata ben sufficiente anche se avessimo avuto altri figli

9

durante il mio incarico, che sarebbe durato un anno, ma che sarebbe stato forse rinnovabile.

Pochi quelli che si potevano definire mobili: un letto, un paio di cassapanche, un grande tavolo zoppo da una parte, delle panche, una grande madia e altre piccole suppellettili.

Alle finestre c’erano dei tendaggi, che mi parvero alquanto sporchi e lisi. Dissi a Viano di mandarmi un falegname l’indomani per costruire nuovi arredi e riassestare quelli esistenti. Avrei avuto bisogno anche di qualcuno che mi sostituisse le tende, ma rimandai ai giorni seguenti.

Poi, piuttosto stanco, entrai nell’osteria per mangiare qualcosa. Era un locale grande ma, abbagliato dal sole, non lo vedevo con chiarezza. Alcuni tavoli, al momento vuoti, degli scaffali con brocche.

L’oste, un omone grassoccio dal viso accogliente, come tutti i suoi consimili, mi accolse con un gran sorriso. «Ben arrivato, monsignore! Giungete in un giorno di mietitura, che sia un buon presagio per voi, da dove venite, se posso?»

«Vengo dal contado di Milano, da Castel Castano, una volta eravamo vassalli di un Conte, ora lo siamo di Milano» risposi. «È bello il vostro villaggio, penso che ci starò bene… muoio di fame, ho cavalcato tutto il giorno; portatemi qualcosa da mangiare, non cose ricercate, mi basta poco per riempire lo stomaco. Un piatto di fave e un pezzo di pane andrà benissimo, magari con un po’ di vino.»

Feci una cena frugale, una minestra di fave e uno stufato di asino, che dovetti insistere assai per pagare, poi tornai a casa e mi abbandonai, su un letto precario, alla prima notte di Cornuda. Lunedì al mattino arrivò il falegname, cui volevo dare l’incarico. Era un uomo non tanto giovane, ma di bel portamento e ben vestito; alto, con occhi vivaci, grandi baffi, che si muoveva con una certa eleganza, non sembrava un popolano.

Egli però cominciò a dire che aveva tanto lavoro, che il castellano gli aveva commissionato i mobili d’intere stanze e che quindi avrei dovuto aspettare al minimo un paio di mesi.

10

Mostrando contrarietà, gli chiesi il nome di colui che mi rubava i suoi servigi. Era Anselmo dei Guidotti, il vassallo del vescovo. Era chiaro che non poteva lasciarlo per me, né potevo insistere e mettermi subito in cattiva luce con il nobile della Chiesa. Però gli domandai se non poteva distaccare qualche suo aiutante, ma mi rispose che ne aveva uno e gli serviva. Mi sembrò strano che non volesse compiacermi almeno un poco, in fondo il giudice è un’autorità in città. Mi rimase un po’ antipatico, anche se doveva essere un cittadino ricco con il quale sarebbe stato utile avere relazioni amichevoli. Ci lasciammo senza alcun accordo. Venne poi di sua iniziativa il meriga, il capo della comunità, Abele detto Scarpa, di mestiere conciapelli, un ometto basso, che emanava uno strano odore e pensai che dipendesse dalle sostanze che usava nella concia. Mi porse gli omaggi suoi e dei giurati, e m’informò con poche parole delle mie prerogative e dei miei emolumenti, offrendomi la sua disponibilità in caso di bisogno. Gli raccontai del falegname ed egli mi disse che benché Bortolo di Luigi fosse assai valente, in paese c’erano altri che potevano offrirmi la loro opera. «Monsignore, se non volete cose eleganti, finché aspettate la disponibilità di Bortolo, c’è Ganassa che è abile. Vi può costruire delle cose solide e rimettere a posto i mobili che avete.»

Lo ringraziai e lo incaricai di mandarmelo. Poi gli dissi che avevo bisogno di un aiutante che fosse letterato, per affidargli l’archivio, che avevo trovato in pessime condizioni, e mi rispose di rivolgermi all’arciprete, poiché mi avrebbe indicato qualcuno.

Gli chiesi anche quale fosse l’andamento della comunità, se vi fossero problemi, qual era la situazione economica, se la comunità percepiva delle proprie tasse, dicendogli che avrei dovuto anche riscuotere la tassa della marca e inviarla a Treviso.

«La situazione» mi spiegò «non è brillante, la comunità impone piccole tasse per i servizi comuni, quali la manutenzione delle strade e di solito i pochi soldi vengono pagati assai in ritardo. Anche il prete, sapete, ha difficoltà a riscuotere le decime e deve richiederle più volte durante le messe. Ciò non perché la gente sia povera, ma per un certo costume a rinviare che non è stato mai combattuto con efficacia. La comunità non è in effetti povera, tutti i capifamiglia

11

lavorano come artigiani, contadini o bottegai, qualcuno è più agiato e altri meno, c’è solo qualche vedova soccorsa dalle elemosine e dalla chiesa.»

Da quel che mi andava dicendo, si esercitavano tutti i mestieri. C’era anche una specie di maestro che insegnava a leggere ai figli dei più facoltosi o a quelli che volevano diventare preti. Quando era giorno di mercato, arrivava anche un medico da un vicino borgo, era di Treviso, tale Blumi, che si diceva molto dotto e abile. In tanti avrebbero voluto lui come Podestà, ma non aveva accettato. Dallo stesso borgo venivano anche i muratori, anche se molti in paese erano in grado di tirar su un muro, magari però non di fare un tetto.

Risiedeva sul posto invece un erborista, che era stato novizio in un convento ma che poi aveva abbandonato la vita ecclesiastica per motivi ignoti e si era stabilito lì. «Un uomo strano» continuò. «Molti hanno un po’ paura di lui ma è abilissimo a dare consigli per il mal di stomaco, i dolori ai denti e altre cose. Insomma, quanto serve alla vita comune c’è. Poi, quattro volte l’anno, vi è il mercato e a maggio la fiera dei Santi Vittore e Corona, che attira molta gente anche dalle comunità vicine e vi si può trovare ogni ben di Dio. La Podesteria di Cornuda comprende anche cinque piccoli borghi distanti due o tre miglia nelle varie direzioni. Piccoli gruppi di case, dove abitano soprattutto contadini. Il più grande è Selvapudia.

«Non ci sono grosse liti, salvo qualche screzio che capita ovunque. In passato ci sono state delle vendette, ma tanto tempo fa. In quelle occasioni la comunità pagò un esperto di diritto, che conosceva quello degli antichi romani, per far scrivere le pene da applicarsi in quei casi.

«Dopo di allora non è più successo niente di grave. La gente fa il suo ed è benevolente. Poi, sapete, monsignore, qualche cattivo arnese c’è sempre in ogni comunità. Non dovrei dirlo, ma il figlio di Bortolo, sì del falegname, che pure è un cittadino ricco e in vista, non mi piace molto. Va sempre in giro la notte, e qualche volta viene fermato dalla guardia e non si sa cosa combini, anche se aiuta un po’ il padre, pur non essendo tra i suoi lavoranti stabili. Poi c’è

12

qualche ubriacone, che però lavora e che gli si può dire? Sono vizi ma ne risponderanno a Dio.»

Annuii grato a quelle spiegazioni. «Non vi chiedo altro circa l’organizzazione della comunità, dato che potrò guardare nelle carte conservate in archivio. Ditemi solo se i registri delle riunioni con i giurati vengono portati in archivio quando sono completati.»

Lui abbassò un attimo lo sguardo. «Vedete, messere, talvolta si fa e talaltra no, e presso di me esistono alcuni vecchi registri che vi consegnerò, se volete.»

«Sì, è meglio, vi ringrazio. È bene che la comunità abbia un solo luogo per la conservazione dei documenti.»

«Sapete, messere, non c’è molto da dire, come vedrete voi stesso, sulle tasse e il resto. Va solo detto che ci sono delle lamentele su come viene fatto da lungo tempo il riparto delle spese: ora si va per testa, nelle varie categorie, cioè per esempio un tanto per una casa, piccola o grande che sia. Invece alcuni vorrebbero che si facessero delle distinzioni in base alla grandezza, che si facessero delle stime. So che alcune città grandi, forse anche Treviso, fanno dei calcoli e si richiede il pagamento sulla base dell’importanza dei beni posseduti.»

«Be’, forse così sarebbe giusto, non credete?»

«Sì, ne convengo» annuì «ma sapete, una volta eravamo meno abitanti e si faceva in modo semplice. Ora forse converrà riesaminare la situazione e spero che voi ci aiuterete, perché penso che siate esperto.»

Assentii e dissi che si sarebbe fatto.

«Ma nella ripartizione si tassano solo le case?»

«No, monsignore. Vedete, ci regoliamo così: si divide un ammontare, fissato dalla prima disposizione che poi non è stata più rinnovata, in tre parti: per un terzo la cifra viene divisa tra i vari capifamiglia come focatico; per un altro terzo tra gli abitanti maschi di più di quindici anni come tassa personale; il resto tra i possessori di case o botteghe. Questo riparto vale sia per la tassa della comunità sia per quella di Treviso, che comprende tutte le precedenti imposte in nome dell’Imperatore o dal feudatario della Chiesa.»

13

«Il vassallo del vescovo quindi ha perduto diversi introiti e come c’è rimasto? Immagino che non sarà stato d’accordo.»

«Per niente. Per esempio ha dovuto rinunciare all’imposta di macinazione e a quella sul sale, e far conto solo sulle proprie rendite. Ha fatto ricorso al Comune di Treviso e al vescovo, anche perché il mulino sta nel suo terreno, ma nulla si è poi saputo. Evidentemente c’è stato un accordo sopra di lui. I grandi poteri se ne infischiano del singolo. Vuol dire che faceva comodo a entrambi.»

«Certo così si sarà parecchio impoverito» convenni.

«Comunque è rimasto esattore per la tassa del vescovo, che riscuote secondo un altro sistema e vi ha un aggio, con cui integra i proventi dei suoi terreni. Poi rimangono attivi alcuni obblighi minori, risalenti a tempo immemorabile, come la fornitura annuale di tre carri di legna già tagliata, di ventiquattro polli e di un maiale. Le decime le riscuote invece il parroco.»

«Sì, come dappertutto, mi sembra. E anche la comunità, cioè voi, impone altre tasse.»

«Certo; sapete, ci sono delle necessità che dobbiamo coprire in qualche modo, come la manutenzione delle strade e delle mura e la sicurezza notturna. Abbiamo una guardia che di notte percorre le vie, chiude le porte della città e le apre presto al mattino. Non che succeda niente, in genere, ma non si sa mai. Qualcuno di fuori potrebbe introdursi quando le porte sono aperte e tentare qualche furto. O un ubriaco potrebbe divenire molesto. Io e i consiglieri imponiamo queste tasse che non superano di solito la metà di quello che dev’essere versato a Treviso, e noi stessi dobbiamo fare il riparto. Nel complesso non sono cifre alte, anche perché il territorio è formalmente compreso nei domini del vescovo. La tassa per Treviso ha assorbito quella che prima si versava all’Impero e forse una buona parte anche ora il Comune la manda lì.»

Il meriga dopo una pausa, continuò: «Ci sono anche dei pareri sulla tassa del vescovo. Si dice che la comunità si potrebbe, come dire…» «Affrancare?»

«Sì, ecco, quello volevo dire… sapete, io non sono particolarmente istruito… affrancare dai diritti del vescovo pagando una somma una volta per tutte, se ne discute, ma non si sa se si farà.»

14

«Bene, spero che avremo modo di parlare anche di questo… immagino che voi e i consiglieri vi occupiate tra l’altro delle liti più modeste, sbaglio?»

«Non sbagliate. Cerchiamo di comporle in amicizia, senza che vi sia da fare una denunzia a voi, talvolta diamo una risposta vincolante, una specie di sentenza, e i ricorrenti debbono accettarla oppure fare appello al Podestà. Sono piccole liti, sui confini tra i campi o la raccolta nei terreni altrui, per esempio.» Annuii, riflettendo sulle sue parole. Poi lo congedai: «Bene, vi ringrazio e portate i miei saluti ai consiglieri.» «Grazie a voi, monsignore, ogni miglior augurio per la vostra permanenza» mi salutò con un inchino. Mi recai quindi dal parroco, che reggeva l’arcipretura di Cornuda, la cui istituzione avevo saputo essere molto antica. Conobbi così Alberto Toffolo, che mi ricevette con molta cortesia. Era persona affabile e colta, un uomo un po’ segaligno, alto, con il naso aquilino. La sua famiglia era di Treviso, era sempre stato lì come parroco; per l’archivio mi consigliò il maestro, un uomo di circa venticinque anni, di nome Moro Targa, che secondo lui sarebbe stato sufficiente alla bisogna, e che avrebbe con tutta probabilità accettato, soprattutto se non si fosse trattato di un impiego a tempo pieno.

Parlando poi dell’arcipretura mi disse che, poco a poco, i sacerdoti che ne avevano fatto parte erano stati incaricati altrove, per cui era rimasto da solo a reggerla.

Targa, nonostante la giovane età, mi parve piuttosto colto. Passai diverso tempo con lui nell’archivio per iniziare un po’ d’ordine ed esaminare i documenti più importanti. Lui avrebbe fatto il riscontro con l’inventario e segnalato eventuali mancanze.

Cercai innanzitutto se vi fosse una raccolta di consuetudini, la trovai e vidi che risaliva a pochi anni prima. Era stata stesa in un Vicinato, durante il quale avevano discusso con il Podestà di allora e con il castellano il contenuto da mettere per iscritto, ricordando le varie decisioni di cui si aveva memoria. I primi capitoli erano stati redatti in latino a opera del parroco, dato che l’assemblea si era riunita in chiesa, e gli altri in volgare.

15

Il preambolo risaliva all’indomani della battaglia che aveva visto l’Imperatore Federico sconfitto, e in esso si dava conto del fatto che il Comune si era liberato dai vincoli imposti dall’Impero e che da quel momento avrebbe considerato come sovrano il Comune di Treviso, impegnandosi a pagare a esso le imposte tradizionalmente dovute, riscosse prima di allora dal vassallo vescovile e da questi versate al fisco imperiale. Treviso avrebbe poi provveduto a inviare quanto dovuto all’esattore dell’Impero. Nel documento si parlava poi dell’elezione del meriga, scelto in un’assemblea da tenersi ogni anno, non più giovane di trent’anni e ammogliato. Per questioni d’età, forse, non poteva essere eletto Moro Targa, che era senz’altro il cittadino più dotto. Il meriga aveva poi l’incarico di scegliere i giurati, cioè i suoi consiglieri. Ero curioso di quale sarebbe stato il mio compenso: dal totale delle due tasse, di Treviso e della comunità, il Podestà defalcava un quinto per il proprio salario annuale. Quindi l’ammontare non era fisso; però, verificato l’ultimo, non c’era da stare allegri, anche se avevo già ricevuto una piccola somma per l’ingresso in ufficio. C’era comunque di che vivere, anche se non con grande agiatezza. Avrei però potuto imporre delle tasse aggiuntive ad libitum per particolari azioni: contratti, costituzione di doti, decisioni in processi fino al valore di venticinque lire trevisane e predisposizione di appelli a Treviso per cause di valore superiore o per processi criminali, in quest’ultimo caso a carico del colpevole. A quel punto speravo che gli abitanti fossero molto litigiosi e si sposassero spesso con grosse doti, così avrei avuto guadagni ulteriori. Invece a mio carico sarebbe stata la scorta per l’invio a Treviso della tassa. Uno dei miei primi atti sarebbe stato quindi quello di dare l’avvio alla contribuzione.

Da quello che avevo appreso dalle Consuetudini, quindi, la guardia era retribuita dal Comune per la notte. Se ne avessi avuto bisogno anche di giorno, per qualche incombenza, avrei dovuto pagarla io stesso. Nei grandi Comuni, infatti, si usava che il Podestà portasse con sé anche i propri birri, talvolta il notaio e altri funzionari. In questo caso, data la dimensione della comunità, ero da solo.

16

CAPITOLO 2 – UN OMICIDIO

Quella sera feci una lunga passeggiata all’interno di Cornuda, cavalcando poi presso i borghi per rendermi conto con i miei occhi di quale fosse la situazione. Il colle su cui era costruita la città era pianeggiante, e attorno alle mura il terreno scendeva dolcemente verso i campi. La maggior parte degli edifici periferici erano appoggiati alle mura, che non avevano camminamenti al di sopra e ne erano più bassi, sia che fossero in muratura che in legno. Osservavo con particolare interesse le botteghe: c’era il fabbro che era anche maniscalco, vedevo alcuni ferri appesi fuori, sotto una tettoia; il carbonaio e legnaiolo, assente in quel momento, la sua bottega era chiusa; c’erano dei tessitori, dei quali vedevo i telai attraverso la porta; due o tre falegnami; la bottega di uno era chiusa, e pensai si trattasse di Bortolo che certo lavorava al castello; un altro stava rifinendo un mobile all’esterno, davanti alla porta. Chiesi se il suo nome fosse Ganassa e mi rispose di sì. Gli dissi dei miei mobili e mi assicurò che sarebbe venuto a vedere quanto prima. Vidi un’altra bottega chiusa, e un passante mi disse che era di un sarto che in quei giorni era fuori città; poi mi si presentò quella che, dalle pelli sagomate appese, mi parve essere di calzolaio e infatti uscì sulla porta il meriga, che mi aveva detto di essere conciapelli, certo ritenendo che quest’attività fosse più specializzata dell’altra. Mi accostai un poco ma fui respinto dall’odore nauseabondo che promanava dall’interno, e che mi fece ricordare quello che accompagnava l’artigiano.

Un’insegna rossa poi segnalava un barbiere che doveva essere anche cerusico.

A uno dei tessitori, che aveva una bottega ben fornita e che diceva di essere anche in grado di tingere il tessuto con i colori più comuni,

17

affidai l’incarico di rifarmi le tende e lo pregai di passare al palazzetto per prendere le misure.

A Cornuda c’erano due strade principali, una che partiva dalla piazza della chiesa di San Martino e che finiva nella porta, detta via di san Martino, mentre la porta aveva il nome di Maggiore, ed era quella da cui ero entrato il giorno precedente.

Vi era un’altra porta, posta accanto alla chiesa, che prendeva il nome, appunto, di Porta della Chiesa. Era più piccola, però permetteva il passaggio dei carri. Immetteva nella via detta della fonte, perché era fiancheggiata per un tratto da una vasca alimentata da un colatoio di pietra. Doveva esserci una sorgente nei pressi, perché l’acqua era pulita e, assaggiandola, la trovai anche buona. Da queste due vie maggiori si dipartivano dei vicoli, che in qualche caso le univano e in altri erano ciechi.

Forse un tempo le case erano discoste dalle mura, poi l’abitato, espandendosi, aveva costruito gli edifici a ridosso di esse, per fornire alle pareti maggior solidità. Solo in alcuni punti esistevano porzioni di muro libero tra una casa e l’altra, dove un vicolo vi terminava. Pur essendo addossate, contai almeno un centinaio tra case e botteghe. Era quindi un villaggio bello grande, almeno quattrocento o cinquecento abitanti. E c’erano poi i borghi che ospitavano, a occhio, un altro centinaio di persone e forse di più. Mentre passavo, la gente mi guardava incuriosita, e spesso mi salutava, riconoscendo la mia carica dalla tunica rossa e dalla lunga catena d’argento che mi pendeva dal collo.

A parte il mio palazzetto, le case più belle erano quelle vicino alla porta maggiore, perlopiù in muratura, mentre quelle verso la chiesa erano più modeste, e spesso in parte o del tutto in legno, forse le prime a essere state costruite. Quindi questo era il luogo in cui avrei trascorso almeno un anno, amministrando, talora correggendo o anche solo accompagnando la vita operosa di quegli uomini e donne che popolavano la piccola città. Mi sentivo bene, pieno di energia e di desiderio di mettere alla prova le mie qualità.

18

Avrei anche dovuto fare una visita di cortesia al feudatario vescovile, e mi ripromisi di andare l’indomani. Il suo castello era distante dalle mura poco meno di un miglio, su una collina alta circa come quella su cui stava Cornuda. Il terreno in mezzo alle due colline era avallato e pianeggiante, con qualche ondulazione in leggera discesa verso il villaggio, e coltivato. Subito dietro al castello iniziava il bosco. Limitate zone boscose vi erano anche tra il villaggio e i borghi. In qualche tratto, gli alberi erano stati tagliati per far posto a nuove coltivazioni, ma il lavoro non era stato ancora completato e il terreno si presentava coperto di cespugli di biancospino, pruno e di altra bassa vegetazione.

Passando, vedevo alcuni villani intenti al lavoro di disboscamento, che utilizzavano grosse roncole.

Quando si fece buio, non essendomi ancora procurato una cuoca o una domestica, cenai nella solita osteria e mi preparai per andare a dormire.

Con indosso solo la camicia, mi sedetti sul letto stando attento a non muovermi troppo perché cigolava e, appoggiando il quaderno su una tavoletta, scrissi i ricordi della giornata tracciando una piccola mappa del paese. D’un tratto mi colpì un rumore di grida proveniente dalla via, che mi parve insolito a quell’ora.

Drizzai gli orecchi e sentii che diverse persone parlavano a voce alta, e mi parve di sentire le parole “malefizio” e “omicidio”. Poco dopo, la campana della chiesa cominciò a suonare a martello. Nonostante la stanchezza, indossai in fretta la tunica e scesi di corsa in strada, con la candela in mano, scontrando la guardia con una torcia che, come capii, mi stava venendo a chiamare. «Messere! Messere! È successa una tragedia» gridò, avvicinandosi a me.

«Che tragedia, Viano?»

Altre persone parlavano con concitazione e forse volevano spiegarmi l’accaduto, ma in quel modo non si capiva niente. La guardia alzò la voce e impose il silenzio, poi raccontò i fatti.

19

«Messere, è avvenuto un omicidio. Bortolo, il falegname, rientrando poco fa, ha trovato la moglie uccisa. Ora è lì che si dispera. Che disgrazia! Mai successa una cosa simile, a memoria d’uomo.»

Sgranai gli occhi e il respiro mi si fece più affannato. «Andiamo, allora. Andiamo alla casa, dov’è?»

«Cento passi per la via di San Martino, messere, venite!»

Lo seguii. Una gran quantità di gente, perlopiù vestita in modo sommario e con lumi in mano, ci venne dietro, alcuni anzi cercavano di precederci, per indicarci per primi la casa.

Era un bel palazzetto in pietra, uno dei più belli di Cornuda, vicino alla porta maggiore, certo segno dei buoni affari del falegname. Il portoncino era aperto. Dentro c’era già gente e chiarore, si sentivano voci di donne.

Entrato in casa, non vidi particolare disordine al piano terreno. Guardandomi intorno, alla ricerca di qualche possibile indizio, notai un portacandela rotto vicino al focolare. La candela ne era fuoriuscita ed era anch’essa spezzata. Mi chinai e sentii tra due dita lo stoppino, non era caldo. Viano mi precedette sulla scala. Nella prima stanza del piano superiore c’era invece una gran confusione ed era presente molta gente. Era illuminata a giorno da lanterne e fiaccole. Il cadavere stava sul letto, un bel letto grande con un baldacchino alto e cortine di tessuto prezioso spalancate, ma forse il corpo era stato spostato, perché a terra c’era una striscia di sangue. Il falegname singhiozzava battendosi il petto, e mormorava “Berta mia, moglie mia”. Erano presenti diverse donne, una delle quali reggeva un neonato urlante, che evidentemente si era svegliato con il clamore mentre altre due cercavano di tenere lontani dei bambini grandicelli, immaginai figli del falegname, una bambina sui cinque anni e due maschi sotto i dieci, tutti a piedi nudi. Svegliati all’improvviso, ancora si sfregavano gli occhi e forse non capivano quello che era successo. Mi stupii che non ci fosse il figlio più grande, quello di cui mi aveva parlato il capo della comunità. Mandai fuori tutti, dicendo che volevo esaminare il cadavere e feci chiudere la porta. Fuori si sentiva sempre una ridda di voci. Il falegname volle rimanere e si mise da una parte.

20

La donna era mezza svestita, con indosso la sola camicia. Aveva capelli lunghi e mammelle piuttosto grosse, forse dovute all’allattamento dell’ultimo nato.

Giaceva sulla schiena, ma sul davanti, a parte poco sangue, e forse qualche contusione sul capo, non vedevo particolari ferite. Così, facendomi aiutare da Viano, la girai e vidi: c’era una lunga ferita sulla schiena, dalla metà verso il basso. La lama aveva trapassato l’indumento, i cui lembi tagliati erano inzuppati di sangue. Dietro la testa doveva aver ricevuto un forte colpo, tastando le ossa queste sembravano rotte e c’erano molti grumi di sangue tra i capelli. Guardai intorno tra gli oggetti sparsi per la camera, in cerca di qualcosa d’insanguinato, usato come arma del delitto, ma non ne vidi.

Chiesi al falegname se aveva spostato qualcosa. Mi rispose in maniera confusa, ma pensai che non ci fosse da fidarsi delle sue risposte, poiché appariva completamente frastornato.

Dissi alla guardia di chinarsi a guardare sotto il letto e trovò un ferro, che poteva essere un alare di camino. Era sporco di sangue e capii che era servito per il colpo alla testa, ma non si trovava il coltello o altro strumento usato per pugnalare la donna. Volevo cercare nelle stanze accanto, ma fuori dalla porta c’era una gran ressa di gente. Allora dissi a Viano di gridare che tutti uscissero dalla casa. Era arrivato frattanto il parroco e lo facemmo entrare a benedire la salma e a dare un’assoluzione che doveva essere fuori tempo. Secondo me era passata quasi un’ora dall’uccisione. Intanto passavo in rassegna le altre stanze. Tutto sembrava a posto. Solo nella seconda c’era un po’ di confusione, con indumenti e zoccoli sparsi qua e là, ma era quella del grande letto dei figli, e quindi era plausibile che essi fossero usciti di corsa sentendo le grida del padre e il trambusto. Nella stanza del piano terreno, dove vi era il camino – da cui mancava un alare – e nell’attigua cucina, cercai se vi fosse un coltello insanguinato ma non trovai niente. Non vidi nemmeno macchie di sangue sul pavimento. L’assassino aveva forse ripulito l’arma e se l’era portata via.

21

Nella cucina, dotata di un grande braciere, c’era una cesta ricolma di pezzi di carbone e una piccola catasta di legna ben tagliata, pronta per accendere il fuoco.

Frugando in una madia rinvenni un coltello, ma la lama era lucida e il manico non presentava tracce sospette, sembrava che non venisse usato da diverso tempo.

Nel camino della stanza grande c’erano comunque delle braci che covavano ancora.

Viano, scuotendo la testa, disse: «Che ne pensate, messere? Sarà un bel guaio scoprire l’omicida, e proprio nei vostri primi giorni di uffizio… siete stato sfortunato.»

«Hai ragione, sarà un bel guaio…» convenni, senza guardarlo e continuando a osservare la casa. «Ma Bortolo non ha anche un altro figlio più grande?»

«Sì, messere» rimase un po’ come perplesso, poi continuò: «Ecco, messer Lamberto, ora mi viene in mente una cosa, sapete, con tutta questa confusione… Dunque, all’inizio della notte io faccio il giro delle vie per vedere se tutto è a posto, e stasera, diciamo un poco prima delle grida del falegname, ho trovato Michele di Bortolo, suo figlio, per la strada vicino alla chiesa, cioè piuttosto lontano da qui, con altri giovani e gli ho detto che dovevano ritirarsi subito se non volevano incorrere nelle ire del giusdicente, cioè di voi messer Lamberto. Mi hanno assicurato che sarebbero tornati a casa. Però, come vedete, lui non c’è.»

Lo guardai perplesso, reputando la cosa molto sospetta. «Non è cosa di poca importanza, Viano. Bisognerà trovarlo…»

«Sì, messere, lo troveremo» mi assicurò. «Però non potrà certo essere implicato nell’uccisione di sua madre! È un po’ scioperato, ma è un bravo giovane…»

«No, no, Viano, non lo sospetto, però mi piacerebbe sapere dov’è, per interrogarlo. Con lui chi c’era?»

Mi disse i nomi di alcuni ragazzi.

«Erano Maso figlio del fabbro, Bepi di Gobbo, che ha il padre contadino, poi Berto del fu Toni, orfano, vive con la madre e fratelli e sorelle, aiuta un falegname, ma non Bortolo, Ganassa, che è figlio non ricordo di chi, e un altro che mi pare figlio di un coltivatore che

22

non ha terra sua e lavora per Anselmo il feudatario e vive su al castello ma ogni tanto viene in paese.»

Annuii, cercando di ricordare quelle informazioni. «Bene, li terremo presenti, se erano in giro potrebbero aver visto qualcuno. A tempo debito li sentiremo, tu non sai di altri che fossero fuori prima che Bortolo rientrasse?»

«No, messere.»

«Ma le porte erano chiuse?»

«No, messere. Io chiudo tardi l’ultima porta perché il falegname rincasa spesso a notte fonda.»

«Quindi l’uccisore potrebbe anche essere venuto da fuori, ancora peggio.» Mi passai una mano fra i capelli, preoccupato. Ora che la concitazione era passata, mi sentii molto stanco e decisi di ritirarmi per riflettere con calma su tutta quella faccenda. Guardai Viano a lungo e, schiarendomi la voce, ripresi: «Senti, Viano, io sono stanco morto, è stata una giornata faticosa. Devo andare a dormire e pensarci un po’ su. Tu intanto fai i tuoi giri e domattina mi dirai se hai visto qualcosa di sospetto, tipo un coltello buttato via, il che mi pare poco probabile giacché non si butta via mai un coltello… o tracce di sangue magari su uno straccio abbandonato. Domani presto vieni da me, riposati un poco, ti pagherò io la giornata, spetta a me.» Protestò: «Ma no, messere, quanto è avvenuto interessa tutti noi e anche me e, certo, semmai mi pagherà la comunità.»

«No, no, Viano. A me piace essere corretto, ti pagherò io, sono il Podestà; mi dirai quanto è la notte e ne terrò conto per stabilire una somma, anche perché avremo molto da lavorare durante i prossimi giorni, non ho che te per aiutarmi e anche per consultarmi e tu conosci bene tutti, mi sei prezioso. Serra bene la porta stasera, non si sa mai. Buonanotte…» feci per andare via ma poi tornai indietro. «Senti, se ti capita di vedere il visconte, digli che mi scuso di non essere andato a trovarlo, ma con questa cosa qui non è possibile.» «Senz’altro, messere, contate su di me. Buonanotte!»

A casa presi degli appunti su quello che avevo sentito. Altro che la storia della famiglia! Questa era una cosa grossa! Comunque ero quasi contento. Non per il crimine, certo, ma perché potevo mettere alla prova le mie qualità.

23

Se l’omicida fosse venuto da fuori sarebbe stato un bel guaio trovarlo. Ai quattrocento abitanti della città si dovevano aggiungere quelli dei borghi. Avrei dovuto sospettare di tutti, chiedere notizie su tutti, un’impresa! Pure non disperavo di poter mettere le mani su qualche indizio, magari trovare il coltello servito per l’uccisione e da quello cercar di risalire al soggetto o di sentire qualche confidenza. Chissà, forse i ragazzi che erano in giro avevano visto qualcuno camminare con fare sospetto. Quella disobbedienza alle regole poteva rivelarsi una circostanza utile.

L’indomani, martedì, venne la guardia di buon mattino, un poco assonnata, mentre fuori risuonavano ancora i rintocchi a martello. Gli chiesi se avesse sentito o visto qualcosa d’interessante. Mi riferì che la gente parlottava ovunque, ma che non era molto propensa a parlare con lui. Forse temevano che mi riferisse le voci e che qualcuno potesse essere sospettato senza essere implicato. Comunque aveva sentito che il figlio del falegname era stato trovato, assieme ad altri ragazzi, addormentato in un campo poco fuori del paese, con accanto una fiasca vuota. Non era facile capire chi ci fosse insieme a lui, uno diceva una cosa e un altro la smentiva. Pensai però che si trattasse dei giovani che Viano aveva incontrato la notte e di cui già sapevo i nomi. Ma perché erano andati a dormire in un campo?

Il padre aveva passato gran parte della notte accanto alla moglie morta, e al mattino se n’era andato al castello. Le comari che vegliavano il cadavere dicevano che andava a continuare il suo lavoro. Pensai che forse lo faceva per non pensare alla tragedia, ma era un comportamento strano. Viano aveva incontrato il parroco, e questi lo aveva saputo e andava dicendo che era del tutto disdicevole lasciare da solo il cadavere della moglie; sull’assenza del figlio non si pronunciava, ma con il viso esprimeva sconcerto e condanna. Diceva anche che nessuno gli aveva ancora chiesto una messa in suffragio della povera donna.

24

Comunque a casa del falegname c’erano ancora delle pie donne che pregavano, mentre altre avevano preso in consegna i bambini. «Questo è tutto» disse Viano con un certo rammarico. «Non mi è riuscito di sapere altro; la gente parla e straparla, ma a me non dicono i loro pensieri… forse lo faranno a voi.»

«Bene, per prima cosa andremo al castello a parlare con Bortolo, così sentiamo anche Guidotti cosa ne pensa, tutte le opinioni sono preziose, Vieni, procurati un mulo.»

Ci mettemmo in cammino ma, appena presa la via, vedemmo venire per la strada il falegname su un carro su cui era adagiata una cassa. Vedendomi salutò, io lo guardai con aria interrogativa.

«Messere, ero al castello dove ho i miei strumenti e le assi, ho fatto una cassa per la mia povera moglie, per raccogliere il suo corpo così disfatto. Mi è parso doveroso, io sono falegname e non dovevo farlo fare a qualcun altro, o mettere il suo cadavere nella nuda terra, come spesso si fa.» La sua voce tremava un poco, certo doveva aver pianto mentre la costruiva. Annuii, comprendendo il suo stato d’animo e le sue intenzioni. Tuttavia approfittai della sua presenza per chiedere notizie del figlio: «Scusatemi Bortolo, ma vostro figlio dov’è? Nessuno lo ha veduto ieri sera, non era con voi?»

«No, messere, non so dove sia. Stamattina non l’ho visto quando sono andato via. Sapete, lui va sempre in giro per conto suo. Spero che abbia sentito della madre, ma son certo che qualcuno gliel’avrà riferito.»

Lo guardai a lungo, quasi con rammarico. «Mi dispiace essere invadente, ma la circostanza lo richiede; quando avete finito il vostro triste compito, vorrei che passaste da me, verso mezzodì» dissi, poi mi voltai verso Viano. «Accompagnalo, pover’uomo. Io, già che ci sono, vado a conoscere il visconte.»

Nel dir questo ammiccai alla guardia come per dirgli che lo facesse parlare e mi riferisse. Viano era un uomo abbastanza perspicace, in mancanza di meglio dovevo affidarmi a lui. Era incolto, ma sembrava avere una certa furbizia innata da villano che mi poteva essere utile.

25

Continuai la mia strada e mi presentai al castello, una costruzione abbastanza imponente, formata da un torrione basso e da una cerchia di mura alta sette o otto braccia, sufficiente a contenere un buon numero di persone, qualora ve ne fosse stata la necessità. Pensavo che, anni addietro, prima che Cornuda avesse le sue difese, il castello era in grado di offrire rifugio agli abitanti.

La torre doveva avere circa otto stanze, a giudicare dalle aperture che vedevo e indovinando quelle dalla parte opposta. Dentro le mura vi erano la stalla e una tettoia sotto cui c’era un carro da viaggio. Sotto altre coperture precarie, ammassi di legna, sacchi e un piccolo recinto per le galline. Fuori dalla cinta, ma addossata a essa, una casupola di legno che doveva essere l’abitazione del contadino di cui mi aveva parlato Viano. Mi venne incontro un servo, dissi chi ero e che volevo conoscere il visconte Anselmo. Mi fece entrare in una grande sala, che doveva occupare quasi tutto il piano terreno: pareti nude con armi e trofei, un grande camino, un lungo tavolo e dei sedili. Anselmo dei Guidotti era un uomo alto ma un po’ curvo, con capelli biondastri piuttosto lunghi, già un po’ anziano, doveva andare per i cinquanta; era vestito con una tunica elegante, bianca, con dei ricami, che dovevano essere elementi del suo blasone. Mi venne incontro con un sorriso. «Benvenuto, messer Castano. Scusatemi, avrei dovuto presentarmi io, ma in questi frangenti non si sa che fare…» La sua espressione mutò, facendosi più cupa. «Cosa pensate dei fatti terribili occorsi ieri? Il mio povero falegname… un uomo validissimo, così sventurato…» Sembrava dispiaciuto e cercai di rassicurarlo. «Non penso nulla, per ora, visconte. Sto iniziando a ricevere testimonianze che possano far luce sul crimine. Volevo parlare con il povero Bortolo che mi avevano detto essere qui, l’ho incontrato per via e già che c’ero son venuto a farvi una visita di cortesia.» «Molto obbligato. Voi venite dal contado di Milano, vero, messere? Ho sentito dire questo su di voi.» «Be’, il contado sarebbe quasi di Novara, comunque noi ora siamo cittadini milanesi, dopo la vittoria sull’Impero. Castano era feudo dei Biandrate, ora è milanese.»

26

Annuì. «Eh, già, avete vinto l’Impero con la coalizione dei comuni, ma per noi nobili gli Ecelini, che si sono uniti a loro, sono stati una sciagura. Mi hanno privato dei censi di Cornuda a favore del Comune di Treviso.» «Sì, ho letto le Consuetudini… eh, ormai la vita cavalleresca va a sparire, bisogna darsi ad altre cose… sapete, la mia famiglia da tempo produce e commercia e stiamo molto meglio di una volta, per quanto ho sentito dire da mio padre, perché quando sono nato già eravamo mercanti. Mia madre è fiorenzina e anch’io ho scelto una nobile di là, che mi raggiungerà qui a giorni. Ci siamo collegati a una famiglia di quella città in una commenda… ma parlatemi un po’ di voi, avete famiglia?»

In quel momento entrarono due dame e le presentò: la sposa, Ginevra da Bon, che il visconte disse essere di famiglia veronese, era una donna alta, non l’avrei definita bella, un poco più giovane di lui. L’altra era la figlia, sui venticinque anni, Gerta: bionda, alta anch’essa, con un bel viso, che mi sorrise facendo una riverenza. Portava i capelli sollevati dietro a crocchia, un’acconciatura non usuale per una ragazza.

Parlammo per un po’ del villaggio e delle persone, dissi che ero contento che ci fosse un altro nobile sul posto, avremmo potuto frequentarci quando fosse giunta la mia sposa. Anselmo assentì con un sorriso, poi chiese se avessi figli e gli raccontai del mio bambino. Anselmo sospirò, e mutando espressione prese a parlarmi stringendo le labbra con aria contrita: «Noi no, purtroppo… vedete, messere, la sventura ha colpito la nostra famiglia, certo non in modo così tragico e violento com’è successo ieri. Il nostro unico figlio maschio, cui affidavamo le speranze di continuare il lignaggio, è morto per una febbre alcuni anni fa, un giovane che sembrava sprizzare salute, andarsene in una settimana, ci ha spezzato il cuore… avevamo avuto solo quello, e la mia sposa non poteva averne più. L’unica speranza è affidata ora a mia figlia.»

Continuò dicendo che la figlia era stata già sposata ma i due figli che aveva avuto nei primi anni di matrimonio erano morti in tenerissima età, e il marito era stato poco dopo ucciso in battaglia. Non era facile in quelle zone trovare un altro marito al suo grado.

27

«Ma non disperiamo, ho in progetto di recarmi a Verona, da dove proviene mia moglie, e forse trovarle un marito. Qua e nei dintorni ci sono solo villani.»

«Vi compiango, visconte. Vedere il proprio casato che minaccia di estinguersi è senz’altro assai doloroso.»

Assunsi un contegno compartecipe, poi mi riscossi e pensai che non era il caso di perdere il mio tempo ad ascoltare quelle lamentele. L’indagine doveva venire prima di tutto. Non dovevo indugiare, andare dal visconte era un obbligo, ma non potevo dilungarmi tanto. Le prove del misfatto potevano cancellarsi in poco tempo. Così mi accinsi ad andare.

«Visconte, anche voi avete i vostri guai, me ne rendo conto, ma ora sono assorbito dal mio ufficio, bisogna che ritorni… Mi ha comunque fatto piacere potervi salutare, era un dovere per me.» Sembrava contrariato: «Ma messer Castano, volete andare? Pensavo che vi fermaste da noi un poco…»

Sorrisi e abbassai un attimo lo sguardo, dispiaciuto. «No, no, visconte. È stato commesso un grave malefizio e bisogna che trovi il colpevole, ne va della sicurezza di tutti e anche del mio onore. Volevo conoscervi, mi pareva necessario poiché siete l’altra autorità qui, ma debbo ritornare.»

Forse avevo fatto male ad andare da lui, la cortesia avrebbe potuto aspettare di più. Cercò ancora di trattenermi, ma fui deciso. Salutandomi, tuttavia, disse: «Comunque, messer Castano, io sono a disposizione… non so, potrei darvi qualche notizia sugli abitanti, su qualcuno che conosco, per esempio. Non pratico molte persone, in verità, ma con qualcuno ho avuto dei rapporti.»

Poteva essermi utile sentire qualcosa sugli abitanti, che conoscevo così poco. Così annuii e lo invitai a darmi qualche informazione. «Sì, io vado spesso dal maniscalco, è vedovo, quindi… chissà. Fa bene il suo lavoro, poi non so se abbia distrazioni…»

Non capivo appieno le sue allusioni. Voleva forse dirmi che l’omicida poteva essere un vedovo, che invidiava la sorte degli ammogliati?

«E secondo voi che tipo è? Ha atteggiamenti sospetti?» domandai.

28

Si strinse nelle spalle. «Non saprei… però, in un maleficio così ci si domanda chi potrebbe albergare gelosie. Non so se una persona ammogliata potrebbe desiderare di uccidere una sposa, la moglie di qualcun altro. Sarà che per me le donne sono sacre, non solo quelle della mia famiglia, ovviamente… poi ci sono degli invidiosi, per esempio il meriga: una volta mi disse che il figlio di Bortolo girava per le strade di notte e si domandava cosa facesse, però Michele lo conosco bene, è un bravo ragazzo, si vede che la notte ha voglia di prendere aria, avrà qualche donzella che lo vuole, e forse il meriga è invidioso di suo padre, che è un cittadino ricco. Il meriga non se la passa tanto bene, molti le scarpe se le cuciono in casa e il suo guadagno credo che sia esiguo. Va bene che concia le pelli… avete sentito come puzza?»

Erano illazioni senza contenuto, che importanza poteva avere se il meriga parlava male del figlio del falegname? Forse c’era un’antipatia tra i due. Non tutti possono essere simpatici. Il meriga a me era sembrato una brava persona, era nel giusto quando commentava i cattivi comportamenti dei cittadini. Capii che il visconte, per trattenermi, raccontava pettegolezzi. «Poi c’è l’erborista, uno scapolo. Io non lo frequento, sono i villani che credono in lui, superstizioni sulle virtù delle piante. Quando mio figlio si è ammalato, ho chiamato un medico che si è molto prodigato, ma è stato tutto inutile… purtroppo è stata la volontà di Dio. Dicevo l’erborista, è scappato dal convento, magari ne ha combinata qualcuna…»

Decisi di mettere fine a quelle illazioni, così mi congedai di nuovo: «Bene, visconte, terrò presente le persone che mi avete indicato, vi ringrazio. Tornerò a trovarvi quando ci sarà un po’ di quiete, arrivederci.»

Viano mi raccontò gli ultimi sviluppi: il figlio di Bortolo si era fatto vedere in paese al mattino, aveva appreso della morte della madre ed era corso subito a casa, si erano sentite dalla strada le sue urla di dolore. Poi era rimasto lì, dove alcune pie comari pregavano. Viano era stato un po’ con lui e gli aveva domandato se sapeva di qualche odio verso di loro. Tra lacrime, gemiti di dolore e singhiozzi aveva bofonchiato che no, non ne sapeva niente, ma poi aveva

29

aggiunto che erano agiati, il padre guadagnava bene e forse c’era qualche invidioso; poi se l’era presa un po’ con il padre che lasciava troppo spesso la madre sola fino a notte.

Richiesto a che ora fosse uscito di casa, disse che era stato prima del tramonto. Che cosa aveva fatto poi, dopo che Viano lo aveva visto, sembrava che non lo volesse palesare, né perché era stato fuori città e fosse andato a dormire in un campo. Diceva che non ricordava, forse lui e gli amici avevano bevuto troppo vino ed erano ubriachi. Viano gli aveva poi chiesto se, quando era uscito di casa, la madre aspettava qualcuno, e disse che sapeva che la sera doveva venire il carbonaio, certo Toni.

Intanto il padre era arrivato con la cassa, e insieme avevano messo dentro la morta, soprassedendo alla chiusura, poi Bortolo si era avviato in chiesa per accordarsi con il parroco sul funerale. La guardia però gli aveva ricordato di presentarsi da me poco dopo il mezzodì. Durante il tragitto dal castello non aveva detto niente di particolare a Viano.

«Bene, Viano, allora sentiremo Bortolo e anche questo carbonaio, che pare l’ultimo ad aver visto la povera donna prima che morisse. A meno che non sia lui l’omicida, ma sarebbe troppo facile.» Viano dimostrò incredulità, scuotendo la testa: «Ma no, messere, Toni è un buon uomo, non può essere stato lui. Perché avrebbe dovuto? Sta bene, ha una moglie che ama, un ragazzo che lo aiuta con il lavoro e dei bimbi piccoli. È persona benvoluta da tutti.»

«Sai, Viano, in questi casi bisogna dubitare di tutti… certo magari lo conosci meglio di me, comunque pare che abbia visto la vittima per ultimo, vai a invitarlo.»

Aspettavo che i convocati si presentassero. Venne prima il falegname. Aveva gli occhi rossi e tirava su con il naso.

«Messer Castano» iniziò, con voce incrinata. «Sono venuto perché mi avete chiamato, ma certo sapete che devo organizzare il funerale di mia moglie. Sono frastornato, però eccomi qua, solo per rispetto a voi. E per il resto… mi rincresce assai, messere, di essermi negato ma non potevo proprio, comunque troverete qualcun altro, se volete posso darvi dei suggerimenti.»

30

«Mastro Bortolo non dovete preoccuparvi, avete i vostri incarichi; mi hanno consigliato un certo Ganassa. Ho visto la sua bottega, mi pare uno abile. Mi dispiace di avervi tolto alle vostre tristi incombenze che sono più che giustificate, ma vi ho convocato nel vostro interesse. Credo che anche a voi faccia piacere se riusciamo a scoprire il colpevole, no?» mi schiarii la voce e iniziai a fare una serie di domande: «Vediamo, voi avete dei sospetti? Avete ricevuto qualche minaccia? Avete delle persone che vi sono ostili, magari qualcuno è geloso della vostra capacità, che vi porta a essere benvoluto dal visconte? Non vi chiedo di vostra moglie, è probabile che chi l’ha uccisa mirava a colpire voi.» Lui ci pensò su diversi istanti, poi scosse la testa. «Non che io sappia, messere. Certo io lavoro molto e guadagno, ma non so se qualcuno è geloso di questo. Ci sono altri due falegnami, uno è Ganassa, che è un buon uomo, un altro Nardo di… non ricordo il nome del padre, anche lui un buon cristiano, non abita in città ma in un borgo. Ecco, potreste sentire loro per i vostri mobili. Sono meno agiati di me, senz’altro, ma non li credo capaci di un atto simile, in coscienza.»

«Perché siete rientrato a casa così tardi? Usate rincasare sempre a quell’ora? Non vi preoccupavate che vostra moglie rimanesse sola la notte? Vostro figlio si è rammaricato proprio di questo.»

«Non sempre a quell’ora, ma di solito faccio tardi, è vero. Sono abituato così; vedete, finché si lavora si guadagna, e se la situazione cambia… ieri ero stato tutto il giorno a lavorare dal visconte, e alla fine mi hanno offerto un po’ di cibo, magari gli era avanzato, mi sembrava brutto non accettare e allora son rientrato anche più tardi del solito. Però ho anche pensato che tanto doveva venire il carbonaio e magari facevano due chiacchiere dopo la consegna… mia moglie non sarebbe stata sola troppo a lungo. E poi, serrando bene la porta di casa… non è mai successo niente di simile, qui.» «Già, ma la porta non mi sembrava fosse stata forzata, quindi l’assassino è stato fatto entrare, per cui era una persona conosciuta, voi che ne dite?»

31

«Non saprei, messere. Certo qui in città non ci sono delitti da tanto tempo. È abbastanza facile farsi aprire, non è agevole riconoscere la voce. Uno dice di essere il tale e gli si dà credito.»

«E, sentite, chi è questo carbonaio?» Già lo sapevo, ma volevo che mi dicesse qualcosa.

«Toni di Pipo, una gran brava persona. Niente da dire su di lui.»

Sembrò riflettere un po’, poi continuò: «Però non so, capirete, a me non sembra di avere fatto sgarbi, ma forse qualcuno se l’è presa per qualcosa… non so dirvi chi, qua siamo tutti onesti, teniamo alle nostre famiglie. Semmai dovremmo pensare a quelli che sono soli e che forse sono gelosi.»

Lo interruppi: «Chi sarebbero? Il parroco?»

Si segnò: «No! Che Dio ci perdoni, lui certo no!» Sembrava esterrefatto dalla mia frase. Ero andato giù duro apposta. «Ci sono dei vedovi» continuò «però sono generalmente brave persone. Non credo che possano essere gelosi di chi ha la moglie.» Stette un poco un silenzio, poi disse: «Sapete che c’è un erborista, in paese?»

Annuii e lui continuò: «Ecco, lui non ha famiglia ed è… un tipo strano.»

«Cosa intendete?» domandai.

«Be’, sapete, fa certi discorsi… una volta gli chiesi un rimedio per dei dolori di mia moglie e, dandomi alcune erbe – che poi li fecero passare – mi disse: “Eh, voi che vi sposate e vi portate in casa quei demoni che vi danno un sacco di problemi”.»

«Be’, sapete che è stato frate, loro pensano così delle donne, stanno bene solo tra loro… poi magari vanno a ingravidare le ragazze, ne ho sentite di queste cose.»

«Be’, sì, dicevo per dire. Però, se fossi in voi, andrei a parlare con lui.»

Accolsi il suggerimento. «Lo farò senz’altro, grazie del tempo che mi avete dedicato, andate.»

L’erborista era al centro delle dicerie, l’avevo compreso, ma non credetti che uno che era stato religioso si fosse macchiato di un

32

delitto. Comunque mi sarei informato meglio su di lui, ed eventualmente lo avrei interrogato. Non dovevo escludere nessuno dai miei sospetti.

33

INDICE

Capitolo 1 – L’incarico.................................................................2

Capitolo 2 – Un omicidio..............................................................9

Capitolo 3 – Interrogatori...........................................................17

Capitolo 4 – Un nuovo maleficio................................................24

Capitolo 5 – Ipotesi.....................................................................33

Capitolo 6 – Un mantello............................................................41

Capitolo 7 – Una confessione.....................................................46

Capitolo 8 – Il visconte...............................................................56

Capitolo 9 – Bortolo...................................................................61

Capitolo 10 – Tre matrimoni e mezzo........................................66

AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI

La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022)

www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.

Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.