Scritte, di Fabio Ricci

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"SCRITTE"

di Fabio Ricci Titolo: SCRITTE Autore: Fabio Ricci Genere: Thriller Editore: Zerounoundici Edizioni Collana: Guest Book Pagine: 160 Prezzo: 13,20 euro Acquista su Il Giralibro (-15%) Acquista su IBS

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Fabio Ricci

SCRITTE

www.0111edizioni.com


www.0111edizioni.com www.ilgiralibro.com

SCRITTE 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Fabio Ricci ISBN 978-88-6307-191-7

Finito di stampare nel mese di Maggio 2009 da Digital Print – Segrate (MI)


L

e lettere di un libro mi hanno sempre affascinato.

Vederle lì, distese una accanto all’altra, quasi in movimento, formare parole intere, frasi, capitoli, e poi, magicamente, viene fuori una storia, un racconto, una vicenda. Si dipana pagina dopo pagina come un fiume in piena, talvolta più lentamente, cauta quasi avesse timore della conclusione, si arriva all’ultima riga che è simile ad una grande cascata. Finito il libro restiamo lì, ad occhi chiusi, persi nello spumeggiante risucchio della nostra immaginazione. Poi lo riapriamo e lo sfogliamo nuovamente, nel caso avessimo perso qualche passo fondamentale, voltiamo le pagine in cerca di doppi fondi, rileggiamo parole sparse, a casaccio, e ci stupiamo di quanti sogni si possano fare da svegli. Per me leggere è sempre stato questo: sognare ad occhi aperti. Una pagina aperta è la promessa di evasione in un mondo migliore, un luogo dove tu scandisci il tempo che scorre, dove sei un supremo osservatore silenzioso. In questa realtà puoi soffrire, ridere o piangere, puoi tremare di rabbia o di vergogna, puoi sentirti un essere migliore o la più abietta delle creature, puoi nascere e morire infinite volte. Ci fu un periodo in cui leggevo velocemente, divorando pagine su pagine, massacrando le lettere al passaggio del mio sguardo. Non concedevo alcuna speranza ai punti, correvo inarrestabile su quei prati inchiostrati. Poi non bastò più. Avevo bisogno di vivere ciò che leggevo, non limitarmi ad osservarlo


dietro gli occhiali del mondo ma sentirmi parte del tutto. Soppesai allora le parole che incontravo, le masticavo, annusandone il suono, sentendone i colori. Fui mille e nessuno. Fui quell’umile contadino che ammassa il fieno tra gli escrementi, il grande re che governa un regno pieno di dubbi, la giovane ragazza i cui primi ardori arrossano le guance. Impersonai quell’inesauribile commedia di caratteri che è una storia, la sentii parte di me. Un giorno vi fu una svolta, un cambiamento radicale: avevo appena finito di leggere un libro che trovai bellissimo, forse il più bel testo mai incontrato fino ad allora; non ero felice, non ero appagato. Lo ripresi in mano e mi accorsi che stavo tremando, non di freddo. Brividi di rabbia mi stavano attraversando, rabbia mista ad invidia. Per la prima volta odiai l’autore con tutte le mie forze, avrei quasi voluto vederlo morto, o forse mai nato. Per la prima volta desiderai ardentemente che quel libro, tanto era bello, fosse stato scritto da me. Fu tutto diverso da allora, non riuscii più a lasciarmi andare come prima. Pensavo continuamente a ciò che leggevo, mi chiedevo se avrei potuto scrivere anch’io, se ne sarei stato in grado... fino a che non ci provai. Avevo diciassette anni, era il lontano 1979, presi la penna in mano per non lasciarla più. Fu l’inizio della mia carriera da scrittore.


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Capitolo 1 Alba (1979)

La notte fu il momento migliore per scrivere. Accesi una candela consumata e rimasi fermo davanti al foglio bianco. La fiamma si stirava pallida e i suoi bagliori sulle pagine sembravano dotati di vita propria. Chiusi gli occhi e iniziai a cercare. Già, cercare. Scrivere è tutto qui, cercare l’Idea. Sai che è lì, nascosta da qualche parte, pronta a essere afferrata o a rintanarsi ancora più. È una lotta mentale, un sensuale rincorrersi di due amanti, è una tortura. Scrivere è destreggiarsi tra molti spunti che potrebbero essere buoni ma non lo sono. È scartare intuizioni già sentite e inventarne nuove. È tentare di riflettere con gli occhi di un dio. Poi arrivò. Sembrava la volta buona, presi in mano la penna e sfiorai la pagina. Le prime parole furono solo scaramucce, avvisaglie di una grande battaglia che avrebbe presto fatto sanguinare il foglio. Scrissi senza guardare l’orologio e cosi passò il tempo. Il mondo non esisteva più, stavo creando il mio universo privato. Talvolta mi interrompevo, rischiavo di cadere in fossati senza fondo; talvolta ci cadevo e strappavo con rabbia il foglio, altre volte invece la strada si lasciava trovare con facilità. Passarono pagine su pagine e qualcosa nasceva, prendeva forma. Grottesco e primordiale. Nacque il mio primo racconto.

Le luci dell’alba mi schiaffeggiarono con forza. Il cuore mi batteva for-


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te, fortissimo. Per la prima volta sentivo di aver fatto qualcosa di importante, qualcosa di mio. Guardai quei fogli pieni di lettere. Per un attimo temetti che non avessero il benché minimo senso. Nessuna logica, solo inchiostro. Ma non era così, me ne accorsi dopo aver letto la prima frase. La riconobbi subito. Era una parte di me, nessun altro dietro quelle parole. Non più spettatore, ma finalmente regista. Corsi a perdifiato per le scale alla ricerca di qualcuno. Dovevano vedere e sapere ciò che era accaduto. La trasformazione che era avvenuta in me. Gridai forte il nome di mia madre, di mio padre, di mia sorella … Nessuna risposta. L’euforia aveva cancellato ogni stanchezza. Volavo alto. Mi affacciai alla finestra e vidi il consueto movimento cittadino sotto di me, il sole risplendeva nel cielo. In cucina presi la bottiglia di latte e ne bevvi metà. Guardai ancora una volta i fogli che tenevo in mano e pensai a un possibile titolo. Era la storia di un ragazzo a cui rimanevano solo sette giorni di vita, durante i quali si rendeva conto di quanto fosse bella la vita che stava per perdere. Visto col senno di poi era piuttosto banale ma per me allora era un capolavoro. Le mie riflessioni furono interrotte soltanto dalle lancette dell’orologio. Il ticchettio attirò la mia attenzione e constatai che erano le dieci passate. Smisi di colpo di fantasticare, dove erano finiti tutti? Chiamai di nuovo ma nessuno rispose. Solo allora notai che la camera dei miei genitori era ancora chiusa. Il corridoio era immerso nelle tenebre. Chiamai per la terza volta. Una parte di me pensava ancora al racconto, un’altra capì che c’era qualcosa di sbagliato. Mi inoltrai nel corridoio. In una mano tenevo la bottiglia di latte, in un’altra i fogli. Mi avvolse un’atmosfera pesante, quasi un abbraccio oscuro. L’inquietudine cresceva mentre mi avvicinavo alla maniglia. Poi mi sembrò di capire. Aver scritto tutta la notte al lume di candela mi aveva stancato moltissimo, ed eccomi impaurito come un bambino senza un vero motivo. È sempre cosi.


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No? Afferrai con decisione la maniglia e spalancai la porta della camera. Buio. Tenebre impenetrabili accentuate dal sole che avevo ancora negli occhi. Solo deboli lingue di luce zigzagavano dalla finestra a lato del letto. Era sprangata. I miei non la chiudevano mai, mai. Mi mossi nell’oscurità alla ricerca dell’interruttore, quando il mondo sembrò fermarsi. “NON ACCENDERE LA LUCE” Lanciai un urlo, voltandomi di scatto in direzione della voce. Alle mie spalle, nascosta dal buio, una sagoma nera mi sovrastava. Tremai inciampando e finendo riverso nella stanza priva di luce. Adesso vedevo la sagoma spiccare da dietro la porta. Nel terrore del momento non la riconobbi per quello che era. Il profilo secco di un alto e scheletrico individuo. Ero ammutolito. Le parole mi morirono in gola rischiando di farmi soffocare. La paura finì di impadronirsi di me immobilizzandomi. Balbettai parole senza senso mentre le lacrime mi rigavano le guance. La figura sulla porta rimase immobile. Il latte si era rovesciato in terra bagnandomi i pantaloni. Nella mano stringevo ancora il racconto. “TI HO GUARDATO MENTRE SCRIVEVI” Altre cupe parole vennero fuori dall’essere nell’ombra. La voce roca mi violentò le orecchie facendomi gridare. Con la coda dell’occhio vidi che qualcosa gli scintillava in mano, una piccola cometa nel buio della notte. “ANCHE TU SCRIVI, ANCHE TU, COME ME” Nella disperazione più profonda, tra le lacrime che scendevano copiose, domandai chi fosse e cosa stesse succedendo. “È PER QUESTO CHE SEI ANCORA, RICORDALO” In un silenzio innaturale la sagoma sparì nel corridoio. Impiegai un intero minuto per rendermi conto di essere nuovamente solo. Il brutto era proprio questo. Era come se fossi davvero solo. Raggiunsi l’interruttore a carponi, con gli occhi chiusi lo accesi. Mi voltai e, deglutendo, li riaprii.


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Capitolo 2 Buio (1997)

Il telefono squilla rompendo lo specchio di silenzio che aleggia nella stanza. Le mie orecchie lo avvertono ma non vogliono davvero sentirlo, vogliono riposare. Ancora squilli, parassiti impossibili da scacciare. Vengo strappato via da sogni agitati. Il primo pensiero che mi attraversa la testa è Sheila. Dovevo chiamarla, lo so bene, conosco le mie promesse, bolle che si infrangono non appena escono dalla mia bocca. Un lieve mal di testa mi ricorda che non ho più diciotto anni. A volte mi sembra di non averli mai avuti. Stringo i denti cercando di alzarmi ed è ancora peggio. Non posso continuare cosi, a trentadue anni il mio fisico non è più come una volta. Il buio della stanza è denso, quasi fumoso, interrotto soltanto dal fascio di luce che penetra dalla finestra. Chi diavolo può essere a quest'ora? Passo in rassegna i miei impegni. Ho spedito le bozze all’editore proprio ieri. Ho fatto tutte le modifiche che quello stronzo mi ha richiesto e ho allegato un post-it che dice che, no, non ho intenzione di scrivere il seguito di “Scritte sul muro” e che questa volta sia chiaro. Muovo le mani alla ricerca del telefono. Un tempo sulle mie dita c’era un bel callo proprio all’altezza del polpastrello, il callo dello scrittore, pensavo scherzosamente. Adesso la prova più lampante della mia attività è la corrosione delle impronte digitali a forza di battere sulla tastiera. A volte penso di aver perso la sensibilità. Senza volerlo faccio cadere il Mystery Writers Award vinto il mese prima. Non so più dove infilare quella robaccia. Terrò almeno le cornici come porta foto. Il telefono squilla per l’ultima volta e poi ammutolisce. Non sono arrivato in tempo. Mi sgranchisco le braccia e mi dirigo stancamente verso la cucina. In mano ho ancora la cornice fatta cadere prima, sopra capeggia un solen-


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ne “A DAN SOLO, PER LE 100.000 COPIE VENDUTE DI "ZEITGEIST" Sorrido. Quella si che è la cazzata più grossa che ho scritto! Eppure tutti l’hanno comprato. Ha ragione il mio editore, quando uno è famoso si può permettere il lusso di lasciare un libro bianco, lo vorranno comunque. Verrebbe da chiedermi della moralità di tutto ciò se non fossero appena le cinque di mattina. Ormai sono sveglio. Preparo un caffè e lo sorseggio con lo sguardo perso nel vuoto. Dan Solo lo scrittore. L’artista. Il mago della penna. Mi hanno appellato in tanti stupidi modi negli ultimi anni, almeno da quando … so bene da quando. Alzo lo sguardo. L’articolo di giornale appeso alla parete troneggia su di me. Una prima pagina per il caso editoriale dell’anno, forse del decennio. Sento di odiarlo. Conosco a memoria ciò che c’è scritto e forse è anche una bella favola. La storia di un giovane scrittore che sbanca tutte le classifiche di vendita. Il miglior thriller di fine secolo. “Scritte sul muro” è ormai un punto di riferimento nel suo genere. Allora mi guardo dentro e mi chiedo “se solo sapessero, se solo conoscessero la verità.” Lo squillo del telefono lacera i miei pensieri come una fredda lama. Balzo in piedi quasi terrorizzato. Devo fare uno sforzo per riprendere la calma. Dopotutto mi sono svegliato per quello. Corro in camera e afferro saldamente la cornetta. Le ombre in cui è immersa la stanza sembrano muoversi. “CIAO DAN” La sua voce è come la ricordavo. Fredda e calda allo stesso tempo, tagliente, una malsana litania. Non so cosa dire, anzi lo saprei benissimo se solo tutto questo non fosse assurdo. Per un attimo penso che siano ancora i residui della sbornia, almeno ci spero.


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“SONO STATO LONTANO PER UN PO’” Vorrei buttare giù la cornetta ma non avrebbe senso. Devo cercare di capire. “MA ADESSO SONO TORNATO” D’istinto mi volto verso l’articolo appeso in cucina. Spero che non ci sia più. Che tutto quello che è avvenuto negli ultimi venti anni sia un brutto sogno. Un’altra storia da raccontare. “VENTI ANNI FA TI HO RUBATO UNA COSA MA LO DICEVO CHE ERAVAMO SIMILI, TU HAI VOLUTO FARE LO STESSO” Sento un’immensa rabbia montarmi dentro. Cosa vuoi da me lurida testa di cazzo? Che cosa vuoi? “E ADESSO È NUOVAMENTE IL MIO TURNO”


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Capitolo 3 Il più grande scrittore di questo emisfero (estate 1989)

È irritante vedere come passi velocemente il tempo quando non si combina nulla di buono. Accartocciai l’ennesimo foglio con rabbia. Con impazienza appuntai la matita e cominciai a scrivere di nuovo. Sentivo un flusso continuo di idee che partiva dalla testa per poi arrivare alle dita. Si riversava sul foglio bianco e cercava di prendere forma. La mia t-shirt era madida di sudore. Quella era l’estate più calda che ricordassi. C’erano giorni che temevo di svenire. Le cicale frinivano fuori dalla finestra. Mi piacevano di solito, ma non in quel momento. Tutto mi irritava. Guardai il calendario sulla parete. Una data cerchiata di rosso era la mia ultima spiaggia. L’editore era stato chiaro. Questo sarebbe stato l’ultimo libro che mi pubblicava se non avesse ottenuto un certo riscontro. Guardai il mucchio di carte sul tavolo. I miei ultimi tre romanzi, gialli inconcludenti e di poco spessore. Qualsiasi dannata buona idea sembrava morta per sempre. Chiusi gli occhi. A ventisei anni speri di riuscire a intravedere la tua strada, e invece nulla. Ancora il piccolo inconcludente scrittore che ero sempre stato. Tre libri alle spalle acquistati forse da qualche vecchietto che non ci vedeva bene. E ora l’ultimatum. O vendevo o ero fuori. Volevo riuscirci. Con tutto il cuore. Questa era la mia strada, l’unica strada che pensavo fossi in grado di percorrere. La realtà non era come avevo sempre sognato, del resto non lo è quasi mai. Anni prima, quando avevo cominciato a scrivere, ero sicuro che mi aspettasse uno splendente avvenire. Non avrei saputo spiegarlo, ma sen-


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tivo che era cosi. Speravo di scrivere bene, soprattutto di scrivere storie che gli altri volevano leggere, e forse era stata questa la mia rovina. Avevo tentato di inseguire non tanto una buona idea ma l’idea perfetta, quella che avrebbe colpito tutti. Non volevo più piacere a me stesso, ma agli altri. Fu cosi che iniziai a cambiare e a perdere l’entusiasmo di scrivere. O forse così volevo credere. Cercavo di tenere chiuso quel ricordo e di non pensarci. Il mondo non è come lo vedi da piccolo, diciamo che a me hanno tagliato le palpebre senza lasciarmi il tempo di gridare. Sul tavolo davanti a me c’erano anche carte di altro tipo. Bollette e solleciti di pagamento. Ero in ritardo con l’affitto di quasi tre mesi. Mi fregai gli occhi con le mani. Avevo sonno. Le ultime due notti le avevo passate a scrivere, a sudare su quei dannati fogli di carta senza ottenere il benché minimo risultato. Avevo bisogno di una pausa. Mi alzai dal tavolo e raggiunsi la porta. Ebbi un brivido e mi fermai. Il corridoio davanti a me era immerso nella calda oscurità pomeridiana. Cominciai a tremare senza riuscire a controllarmi. Era stupido, lo sapevo, ma non potevo farci nulla. Era cosi da dieci anni. Mi coglievano questi momenti di panico puro. Mi voltai verso la porta certo che l’Ombra sarebbe stata lì ad aspettarmi, imponente e grottesca, con qualcosa di strano che le luccicava in mano. E, ovviamente, non c’era nessuno. Non c’era mai nessuno. Lanciai un’imprecazione per scuotermi, non poteva andare avanti così. Mi massaggiai la fronte sudata con aria stanca. Vaffanculo. Pensai. Vaffanculo. Talvolta mi chiedevo se me ne sarei mai liberato, se quella dannata Ombra avrebbe continuato a perseguitarmi, a seguirmi negli angoli scuri. Tutto sembrava folle in quei momenti, privo di logica. Una mano mi toccò la spalla. Gridai cadendo a terra e nascondendomi il volto tra le braccia. Non era cambiato nulla, lui era nuovamente qui… “Dan, sono io, Sheila, che ti è preso?”


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Alzai lo sguardo in direzione della voce. Era uno scherzo della stanchezza, per forza. Sheila mi aiutò a rialzarmi e mi baciò sulle labbra. Mi sussurrò di stare tranquillo stringendomi forte. Iniziai a piangere in silenzio. Avere coscienza delle mie fragilità era l’unico modo per non impazzire del tutto. “Scusami, è che ero sovrappensiero.” Mentii mostrandomi il più lucido possibile. Non volevo che si preoccupasse ancora di più. “Non dire sciocchezze” disse con dolcezza “non credo di essere il tuo psicanalista ma ti conosco bene lo stesso.” Mi asciugò le lacrime con un fazzoletto. Sapevo che non mi stava giudicando, non lo faceva mai. Sulle sue labbra si formò un sorriso, mi piacque vederla così. “E comunque “ continuò, “la prossima volta ricordati di chiudere la porta.” Indossava un vestito blu stretto nei punti giusti che lasciava poco spazio all’immaginazione. Lentamente il mio cuore riprese il suo battito normale. Sheila. La persona più vicina ad una fidanzata che fossi mai riuscito ad avere. Non c’era nulla di ufficiale ma stavamo bene insieme. La conobbi due anni prima a un corso di scrittura dell’università. Iniziammo ad uscire quasi per gioco, per poi accorgerci di tenere molto l’uno all’altro. Quanto fosse quel “molto” nessuno di noi aveva mai sentito il bisogno di approfondirlo. Con lei stavo bene. Passavamo settimane a volte senza vederci, e poi, quasi casualmente, uno dei due prendeva la cornetta ed era come se ci fossimo salutati il giorno prima. Nei suoi ventisette anni aveva fatto più cose di quante io avrei mai potuto scrivere: aveva avuto storie su storie, un paio di matrimoni mancati, aveva una vecchia madre di cui si curava, quasi due lauree, un'intelligenza che talvolta sfiorava l’imbarazzo e una grande voglia di non fermarsi mai.


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Era una ragazza forte, di sicuro molto più di me. Amava la sua libertà più di ogni altra cosa ed era una delle poche persone che conosceva il mio passato. Forse per quello ci trovavamo bene insieme, c’erano dei momenti che io dovevo vivere da solo, lei lo sapeva e l’accettava, io facevo altrettanto. “Come mai qui stella?” Le chiesi senza staccare gli occhi dal suo corpo. Se ne accorse e, avvicinandosi, mi regalò uno schioccante bacio sulle labbra. “C’è bisogno di un motivo per venire a trovare il più grande scrittore di questo emisfero?” I suoi occhi erano profondissimi e passavano quasi con noncuranza a stati d’animo opposti tra loro. Adesso ridevano riuscendo a mandare via la stanchezza che sentivo addosso. “Lo sai che non sopporto che mi si chiami così.” Sbuffai. “Mi fai sentire ancora più incapace di quanto non sia in realtà.” Sheila mi spinse all’indietro fino a farmi cadere sul divano e in un attimo mi fu sopra “Tu non sei incapace, è solo che non hai ancora trovato l’idea giusta.” “Già peccato che la stia cercando da dieci anni, inizio a pensare che non esista...” Le sue labbra furono nuovamente su di me impedendomi di finire la frase. Chiusi gli occhi per non pensare più e l’abbracciai forte. Mezz’ora dopo giacevamo sfiniti sul pavimento. i grilli avevano cessato il loro canto. Quando mi svegliai Sheila non c’era più. Mi aveva aiutato a rimettermi sul divano e mi aveva coperto con un plaid preso dall’armadio. Sapevo di non meritarla. Senza rendermene conto avevo dormito per sei ore! Fuori le prime ombre si stavano allungando sui marciapiedi, per la prima volta da giorni mi sentii davvero riposato. Mentre mi stiravo ripensai velocemente a ciò che stavo scrivendo, una storia di intrighi politici e misteriose cospirazioni. Ero il primo a sapere


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che non avrebbe potuto funzionare. Potevo girarci intorno quanto volevo ma il problema ero solo io. Da quanto non scrivevo un racconto in prima persona? Qualcosa con “io feci, io dissi”? Sapevo bene la risposta, da sempre. Usavo quella definita da me -prima persona e mezzo-, un punto di vista che, come la mettevo, non mi coinvolgeva mai completamente, non mi faceva entrare in simbiosi con ciò che creavo. È inutile Dan, pensavo, tu sai bene che lo è e sai anche PERCHE’ lo è. L’eredità di dieci anni prima era stata duplice, non solo mi prendevano improvvisi attacchi di panico nel buio, non solo avevo incubi da sveglio, non riuscivo più ad essere il Dio dei miei racconti. Non potevo continuare così, Sheila aveva ragione, forse uno psicanalista era davvero l’unica soluzione. Scossi vigorosamente il capo e afferrai il pacchetto delle sigarette. Ero ridicolo, non solo non fumavo, non sapevo fumare, ero totalmente impedito. Sul tavolino notai un piccolo foglio con un messaggio lasciato da Sheila. “Sembri un angioletto mentre dormi, ma gli angeli non russano! Ti chiamo domani, oggi ho preferito "fare altro", ma dobbiamo parlare… Un bacio S.” Tenendo goffamente la sigaretta tra le dita aggrottai le ciglia. Già la sua visita a sorpresa era stata inusuale e adesso questo biglietto, che stava succedendo? Mi sentivo in uno di quei momenti della vita in cui tutto può andare alla grande o di merda. Il mio racconto in cantiere, l’ultimatum, gli incubi, e ora lei: non ne sarei mai uscito con tutte le ossa intere. Mentre riflettevo sulla mia sigaretta partita male il campanello squillò. I miei nervi si tesero allo spasmo. Cristo ero agitatissimo! Bruciai la distanza che mi separava dalla porta e chiesi con un po’ di timore chi fosse. “Il signor Dan Solo?” Nell’ingresso c’era un tizio in divisa blu. Impiegai qualche secondo per rendermi conto che era un poliziotto.


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“Scusi se la disturbo a quest’ora, posso entrare?” Mi feci da parte facendolo passare. Dentro di me non riuscivo a calmarmi. “Mi spiace doverglielo chiedere”, il poliziotto mi squadrò dalla testa ai piedi, “mi dispiace doverle riaprire una brutta ferita.” Iniziai a tremare. Istintivamente mi appoggiai allo stipite della porta. Rimasi in silenzio in attesa di una spiegazione. “Bé”, mise una mano sulla mia spalla stringendola, “abbiamo catturato il bastardo che ha massacrato la sua famiglia.”


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Capitolo 4 Lucciola

Quand’ero piccolo avevo spesso paura. Delle notti di luna piena, dei fantasmi e delle streghe. Mi spaventavano le bambole che mia sorella teneva in camera. Ero terrorizzato dai silenzi troppo profondi e dalle stanze vuote. Nella mente di un bambino le cose talvolta assumevano strane forme, immagini che per lo più scomparivano all’alba. Per lo più. Una di queste però sopravvisse. Aveva la forma scheletrica di un adulto, le spalle aguzze e la testa incassata. Parlava con voce profonda e gutturale, stava sempre al buio. In mano teneva un piccolo oggetto scintillante. Questo mostro dieci anni fa uccise mia madre e mio padre, poi andò in camera di mia sorella e uccise anche lei. Io l’ho visto e sono ancora vivo. È questa per me la forma della paura. Mentre la volante sfrecciava nella notte, avevo lo sguardo perso in un punto indefinito del panorama. Le ultime parole dell’agente mi risuonavano ancora dentro. Mi sentivo spossato. Avevo passato anni a dimenticare, ma lui era sempre rimasto lì, nell’ombra. Dieci anni in cui la mia vita era andata avanti in qualche modo. Non una gran vita, ma era la mia. Tentavo di non pensarci e ancora meno ne parlavo. Anche con Sheila era stato così. Le avevo raccontato tutto e c’era stato un tacito patto, mai siglato e mai infranto. Non mi aveva chiesto nulla, non era mai tornata sull’argomento. Non c’entrava niente con noi.


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Era una cosa mia, una parte nascosta della mia mente. In qualche modo cercavo di convincermi che non fosse successo, che fossi nato orfano. Ma inutilmente. La scrittura era stata la prima a risentirne. Avevo bisogno di lei ma non riuscivo più a farla mia, a piegarla al mio volere. Le lettere fuggivano dalla mia penna come impazzite. Avevo paura di mettermi a nudo con me stesso. Avevo lottato per dieci anni e stanotte tutte le mie difese si erano infrante quasi fossero di cristallo. E poi c’era la paura, quella non andava mai via. Il timore degli angoli bui, di ciò che non si vede. Il terrore di ciò che si vede. Gli attacchi di panico erano diminuiti negli ultimi due anni, ma quest’estate avevo avuto molti momenti duri, forse per il gran caldo. Solo adesso, nella buia vettura della polizia, capivo di essermi nascosto tanto a lungo da non rendermene più conto. Le parole dell’agente erano state brevi e concise. Mi chiesi a lungo se fosse assolutamente professionale o soltanto un grande stronzo. “Gli eravamo alle costole da molto tempo, ma è stata decisiva la testimonianza di un’anziana signora nel Nord. L’abbiamo preso letteralmente con le mani nel sacco! Pensi che tentando di fuggire si è beccato una pallottola nel cranio e adesso è in coma profondo, ne ha davvero per poco, mi creda.” Non provavo niente, né rabbia né gioia per la sua sorte. Quello che volevo era sapere, conoscere la verità, se poteva esserci un senso in tutto quello schifo. Alla centrale mi fecero accomodare in una stanza illuminata da un debole neon. Dopo pochi minuti entrò un agente, stavolta alto e robusto, con un pacco di fogli sottobraccio. Mi strinse la mano e si sedette davanti a me, rimanendo in silenzio. “Dunque?” Ruppi la tensione che si era creata tra di noi. Dentro di me ero a disagio e fortemente nervoso. “Lei è il signor Dan Solo vero?” L’idiozia di questi agenti stava passando il livello di guardia. “Vuole la carta d’identità?”


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Domandai sarcastico. Quello mi guardò storto, segno che non aveva apprezzato. “Non penso di essere io la persona più adatta a parlarle di questo fatto, ma è andata cosi, perciò scusi la mia mancanza di tatto.” Cercai di rendere l’atmosfera un po’ più distesa. “Vada avanti la prego.” “L’assassino della sua famiglia era uno dei nostri principali ricercati, ma il punto è che l’abbiamo scoperto solo con la cattura.” Lo fissai dritto negli occhi e strinsi i denti, “CHI È?” L’agente robusto tirò un sospiro e si massaggiò la testa, “si chiama Rasputin Melee, da noi meglio conosciuto come Lo Scrittore.” Nella mia testa si formò una cascata di ricordi, sensazioni, gemiti e grida. Una fitta tremenda mi costrinse a chiudere gli occhi: allora non lo sapevo ma l’orrore stava cominciando a delinearsi. “Negli ultimi anni ha compiuto almeno tredici delitti oltre al suo, questi almeno quelli che gli abbiamo imputato senza margine di errore. Si spostava continuamente lungo lo stato con un’abilità a dir poco sorprendente, non le nego il piacere che ho provato ficcandogli una pallottola nel cranio.” L’agente adesso camminava parlando quasi ad una platea immaginaria, “il suo modus operandi è stato ciò che l’ha fregato, del resto con questi psicopatici alla fine una falla la trovi sempre”. “Scusi”, lo interruppi, “a quale modus operandi si riferisce?” Lui mi guardò con sguardo allibito, “ma… lei non sa niente dei cadaveri… cioè dei suoi familiari?” Ancora la sensazione di panico e soffocamento, ancora la voglia di nascondersi nel più buio degli anfratti. “Che vuol dire?” Sbottai. “Avevo diciassette anni all’epoca e…”, un’altra fitta troncò le mie parole a metà. C’era un grande vuoto davanti a me, qualcosa che avevo dimenticato di quel giorno, che la mia mente di ragazzo aveva cancellato con cura. La stanza iniziò a girare vorticosamente. Vidi il poliziotto che mi parlava ma era lontano, lontanissimo.


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Persi i sensi in una spirale di luce e tenebra.

Non è più il caso di mentire, bisogna aprire gli occhi e credere, vedere e credere. In un sogno è tutto stranamente ovattato, sto sognando? C’è una nebbiolina rassicurante tutto intorno come in quei film dell’orrore di serie b, Sto ancora sognando? Sono io, disteso a terra in un corridoio familiare, riconosco la tappezzeria, gli odori, riconosco il buio alle mie spalle, è un sogno che dura da dieci anni. So bene cosa devo fare, devo alzarmi ed accendere la luce. Illuminare la camera dei miei genitori. Mi dirigo a carponi verso l’interruttore. C’è del latte a terra. Mi alzo e ad occhi chiusi lo premo. Sai cosa significa vero? Da dietro le palpebre arriva una luce bianca, calda, incoraggiante. Questo non è un sogno. In piedi, diritto contro lo stipite della porta, apro gli occhi. È un ricordo. La camera è, come sempre, calda luminosa, con quel grosso lampadario che piaceva tanto a mamma. Guarda sul letto. I cassettoni sono chiusi, non c’era nessun ladro, lo sapevo, anche il portafoglio di papà è a posto. Guarda sul letto. Solo i rotolanti sono stranamente abbassati, ma non significa nulla, sono solo le paure di un ragazzino. Il letto… Solo le paure di un ragazzino. GUARDA IL LETTO. Mi accorgo tardi delle lacrime o forse non me ne accorgo affatto. Davanti a me c’è un letto che da piccolo mi sembrava tanto grande, tutto da scoprire. Sopra ci sono i corpi nudi dei miei genitori.


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E basta? No. Dunque? Sono rossi, come se qualcuno vi avesse versato sopra del pomodoro. Il pomodoro lo usano solo nei film. Mi avvicino, i piedi scalzi a contatto col pavimento freddo. I corpi sono ricoperti di… Sangue? Sangue. Basta? No…. È un sangue strano, disposto come se… Come se? Come se fosse una scritta… Ci sei quasi Dan… Non sono solo morti vero? No. Ci ha… scritto sopra. Non esattamente. Aprire gli occhi e credere, aprire gli occhi è credere, tutto qui. Bravo. Davanti a me ci sono i corpi morti dei miei genitori, colui che li ha uccisi si è poi divertito ad incidere la loro pelle scrivendo col loro sangue. Bravo ma non è esatto… Vaffanculo, lasciami in pace. Come vuoi piccolo stronzetto. Le mie grida riecheggiarono in tutta la centrale. Intorno a me c’era l’agente robusto e una donna. Avevo perso i sensi e non mi rendevo conto di quanto tempo fosse passato. “Si sente bene signor Solo?” L’agente mi sovrastava. Ebbi la netta impressione che avrebbe potuto uccidermi con un semplice pugno. “Incisi…” Balbettai guardandolo, “i loro corpi erano tutti incisi…” Mi alzai e mi rimisi a sedere. “Adesso ricordo, scriveva sui corpi.”


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L’agente mi squadrò per un attimo quasi assicurandosi che non svenissi di nuovo. “Sto bene adesso, davvero”, mentii, ma sentivo un conato di vomito che mi stava salendo nella gola. “Forse è meglio se continuiamo in un altro momento.” “No, basta rimandare!” Dissi con decisione. “Voglio sapere una volta per tutte quello che c’è da sapere.” Lo vidi estrarre da una busta un cofanetto di plastica. Dopo pochi secondi mi fu chiaro cosa stavo vedendo. “Il bastardo usava questa per incidere i corpi.” L’oggetto che luccica. Un’elegante penna stilografica dorata con incisioni d’argento. L’oggetto che luccica nel buio. Cercai di trattenere le lacrime che sentivo nascermi dentro. Quelle le avrei tenute per dopo. “È per questo…” Feci una piccola pausa, “che lo chiamate Scrittore?” L’agente posò la penna sul tavolo. “Si, per questo, e per altro.” “Altro?” Lo guardai ansioso. Mi sentivo la faccia come un puzzle, dovevo essere orrendo. “Vede mister Solo, il nostro amico è fuggito quindici anni fa dal manicomio nel quale era stato internato”, gettò un’altra occhiata alla stilo. “Nel quale era stato rinchiuso all’età di diciassette anni: il giorno che incise il suo primo racconto.”


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Capitolo 5 Carne

A ventiquattro anni provai a scrivere una storia di paura. Ci riflettei a lungo pensando a cosa spaventasse maggiormente la gente. Scartai i classici del genere tipo vampiri e licantropi, roba ormai superata, e provai ad analizzare intimamente il sentimento del terrore. Si ha paura di qualcosa che può fare male, ferire e al più uccidere. Presto capii che il vero terrore nasce solo dall’esperienza diretta, i mostri mitologici non spaventano perché non esistono. Non ci terrorizza ciò che non si conosce, bensì quello che ci sorride nel buio. Proprio io non riuscivo a scrivere un racconto dell’orrore, proprio io. Decisi di passare ad altro. C’era qualcosa in quel tema che mi teneva alla larga, che mi nascondeva l’essenza, il nucleo cui uno scrittore brama. Capivo adesso che era solo autodifesa. Un airbag mentale. Uscii dal commissariato mentre dal cielo nero cadevano grosse gocce di pioggia. Dentro di me era come se tutto si fosse immediatamente fatto chiaro, come se una mano invisibile avesse tolto un velo polveroso. Avevo diciassette anni e avevo scritto il mio primo racconto. La notte era trascorsa in un soffio davanti al lume di una candela, intorno a me le tenebre danzavano silenziose. Da qualche parte, dentro di esse, Lui mi guardava immobile. Aveva osservato la mia penna che si muoveva timorosa sul foglio bianco. Aveva visto la grossa coperta che mi ero gettato sulle spalle per difendermi dal freddo. Aveva forse sorriso constatando la dedizione con cui lavoravo, con cui trasformavo una parte di me in parole.


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Aveva alzato la stilo d’oro e aveva annusato l’aroma del sangue della mia sorellina. In silenzio mi aveva aspettato nell’oscurità del corridoio. Per congratularsi. Dove mi aveva fatto sapere che io ero, che io ero ancora, perché scrivevo. Come lui. Io scrivevo. Come lui aveva inciso un neonato alla mia età, con una penna d’oro, scrivendo col suo sangue. Mi ci volle qualche minuto per rendermi conto di una cosa fondamentale, non avevo più paura. Ma volevo saperne di più, volevo conoscere meglio lo Scrittore. Mi sentivo disgustato, vergognosamente schifato da lui, ma ci doveva essere qualcos’altro, lo sentivo. Uno scrittore è un reietto in cerca di patria, trova la sua isola sicura in ciò che scrive e pensa, detta i confini delle sue azioni, la sua moralità e la sua fede. Sentivo la necessità di tuffarmi nel suo mondo, un posto dove gli assassini non si beccavano una pallottola in testa, dove gli esseri umani erano bianchi fogli di carne. Camminavo a testa bassa mentre la pioggia mi finiva nel colletto della giacca. C’era qualcosa di malato in ciò che stavo pensando, di insano, lo avvertivo bene. Ne ero cosciente, ma non potevo fare a meno di pensarlo. Era come se una grande mano stesse spingendo i miei passi verso una meta prefissata, una lunga silenziosa discesa verso l’inferno. Avevo sperato di essermi emancipato da un incubo ma mai come quella notte mi ci sentivo immerso. D’un tratto mi venne in mente Sheila. Che le avrei detto? Tutto? Nulla? E lei avrebbe capito? Non mi importava, non me ne fregava un cazzo. A casa mi feci una doccia veloce e mi riscaldai una tazza di latte. Mentre la sorseggiavo osservavo il vuoto davanti a me, lo sguardo mi cadde sui fogli che stavo scrivendo. Senza volerlo iniziai a ridere, come se tutto fosse uno scherzo. Presi i miei scritti e li appallottolai, li strappai con rabbia e ne gettai i


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resti dalla finestra. Quegli ultimi dieci anni non avevano avuto il minimo significato per me. Cosa avevo costruito? Cosa avevo scritto di buono? Dentro avevo sempre avuto paura. Non era l’abusato mal di vivere, era paura di morire. Avvertii la sua presenza alle spalle prima che mi sfiorasse, stavolta la riconobbi e sorrisi. Sheila mi cinse con le sue esili braccia baciandomi sul collo, il suo buon odore mi fece sentire meglio. “Buongiorno tesoro…” Risposi al suo abbraccio e per un attimo dimenticai gli avvenimenti di quella notte. Mentre la stringevo mi ricordai del messaggio del post-it del giorno precedente. La scostai delicatamente guardandole il volto. I suoi lunghi capelli castani scivolavano dietro la testa, due grandi occhi verdi mi fissavano intensamente con un po’ di incertezza. “Ho letto il tuo appunto”, dissi tentando un approccio casuale, “mi volevi parlare di qualcosa?” Nel suo sguardo scorsi un’ombra di preoccupazione che mi diede un sottile brivido. Ne avevo abbastanza di sorprese. Sheila si staccò da me, il silenzio calò di nuovo tra noi. “Ieri ho visto una macchina della polizia venire verso casa tua, è successo qualcosa?” La sua domanda, quasi indifferente, riaccese in me un’inquietudine profonda. Seppi subito che cercava di sviare il discorso e che ci era riuscita. Le feci cenno di sedersi accanto a me e, rigirando la bottiglia di latte tra le mani, cominciai a raccontarle tutto. Le mie parole fluivano calme, quasi innaturali, dipingendo gli stati d’animi notturni in modo cristallino. Sapevo di potermi fidare di lei. Le dissi dello Scrittore e della penna. Le parlai del ricordo che avevo represso cosi a lungo. Non era la prima volta che affrontavamo l’argomento, non in quel modo forse, ma fu


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comunque una novità. Fu uno scambio in un certo senso. Chiedevo la sua comprensione, mettendola al corrente di qualcosa che mi apparteneva ad un livello profondissimo. E nello stesso tempo, forse non con chiarezza, la stavo avvertendo. Che qualcosa era stato scoperchiato, e che, in una certa misura, niente sarebbe più stato come prima. Mentre mi guardava sempre più confusa affermai la mia volontà di voler andare fino in fondo. A questo punto ebbe quasi un sussulto, la sua mano cercò la mia e la strinse forte. “Non immaginavo…” Provò a balbettare. “Credevo che…” “Lascia perdere Sheila, non importa cosa credevamo, prima o poi dovevo aspettarmi una cosa del genere.” Tentai di tagliare corto pentendomene subito, i suoi occhi sembravano adesso spaventati. Raramente avevo visto in Sheila la paura; gli eventi degli ultimi anni avevano trasformato me nel fifone e lei nella luce guida. Una volta, pochi mesi prima, avevo avuto un incidente d’auto dal quale ero uscito miracolosamente illeso. Non avrei mai dimenticato gli occhi che aveva Sheila quando era apparsa sulla porta della camera dell’ospedale, totalmente confusa, terrorizzata. Adesso aveva uno sguardo simile e francamente non mi era molto d’aiuto. “Che ti prende tesoro?” Era assurdo, la stavo consolando io. Sheila mi guardò ancora un po’ confusa, poi si sforzò di sorridere e scosse la testa “Nulla amore, davvero, sto bene.” “Mi avevi scritto che dovevi parlarmi”, insistetti, “oggi è la giornata delle sorprese, cos’altro c’è?” Mi lanciò un’altra occhiata, il suo sguardo era incerto. Ho sempre pensato che nell’assenza di rumore si trovi il caos più primordiale, che le parole più crudeli si nascondano nella stasi immobile. Dei silenzi Sheila era la regina, e faceva sempre male rendersene conto. “Senti Dan, smetti di preoccuparti, lo sai come sono, una lunatica senza speranza.” Sorrise ancora ma sentivo che qualcosa le si era bloccato tra le labbra, “piuttosto, che cosa hai intenzione di fare adesso?”


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Già, che avevo intenzione di fare? Non potevo prendermi per il culo, sapevo benissimo cosa fare, lo sapevo dalla sera prima, forse lo sapevo da dieci anni. “Sheila, non so se capirai… ma voglio vederlo.” Sgranò gli occhi e aprì la bocca per protestare, io fui più veloce. “È in coma e gli restano pochi giorni di vita, devo vederlo. Sento che in qualche modo devo comunicare con lui, mi servono delle risposte.” Lei si era calmata e mi guardava con apprensione. “Non ti chiederò di venire con me, ma è una cosa che devo comunque fare.” Sheila si alzò mettendosi davanti a me con sguardo deciso. “Non so cosa vuoi dimostrare a te stesso mister Solo”. Disse senza darmi possibilità di repliche. “Ma qualunque cosa sia la faremo insieme.” Una piccola isola felice circondata di onde scure. Questo lei era sempre stata per me.


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Capitolo 6 Oltre il recinto

Sheila osservava la campagna che ci sfrecciava intorno. I suoi occhi si perdevano nel fugace panorama, la testa reclinata contro il finestrino, il respiro basso. Non avevamo parlato di nulla dalla partenza, il silenzio aveva regnato tra noi. Ma, avrei giurato, in modo quasi opportuno. Avevo fatto una veloce telefonata al mio editore, avevo tenuto la cornetta a distanza per non essere assordato dai suoi insulti; l’avevo mandato affanculo prima di riattaccare. Sapevo bene cosa stavo facendo, ne ero pienamente consapevole; stavo inseguendo una supposizione, un’idea, e per questo mi stavo giocando tutto, la sanità mentale forse, la carriera sicuramente. …Sheila? La sentivo vicina a me, come forse non lo era mai stata, ma, nello stesso tempo, avvertivo un senso di distanza, di fredda malinconica distanza, quasi una sorta di abbandono. Ignoravo cosa stessi cercando, ne se vi fosse davvero qualcosa da trovare, ma sentivo che alla fine sarei stato solo. Nuovamente solo, come se la mia meta ultima fosse un luogo dove nessuno avrebbe potuto seguirmi. Buona parte del viaggio trascorse velocemente. Sulle note di un vecchio pezzo rock feci lievitare i miei pensieri: il bisogno di scrivere, non potevo mentire a me stesso, ed era un bene? Me n’ero accorto fin da quando ero uscito dal commissariato. Tutta la tensione, tutta la paura stavano riaccendendomi qualcosa dentro, qualcosa che non sentivo da molto tempo: l’ispirazione. Il desiderio prepotente di prendere una penna e vomitare inchiostro, senza senso, né logica, scrivere soltanto. Non cosa, ma come.


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E forse era questo che mi spingeva ad addentrarmi nell’ombra, sempre più in profondità: la certezza di stare ritrovando me stesso. “Dormi?” Le chiesi già sapendo la risposta. Sheila si voltò sorridendomi stancamente. “No, stavo pensando.” È proprio quello che ci frega, il pensiero! “Pensavo a noi.” I miei dubbi trovavano fondamento. Questi non erano discorsi che le si addicevano, non alla ragazza fiera e indipendente che conoscevo. “Noi?” ribattei, “che abbiamo noi che non va?” “Nulla amore.” Silenzio “O forse tutto.” Mi scappò una risatina a fior di labbra. Certo, una crisi di coppia era proprio ciò che ci voleva. “Sai da quanto ci conosciamo Dan?” Sussurrò con sguardo affilato e voce dannatamente misurata. “Qualche anno Shy, perchè?” Di solito si imbestialiva quando la chiamavo cosi, quella volta sembrò non farci neppure caso. “Due anni, tre mesi, dodici giorni, otto ore, trentaquattro minuti e tredici, quattordici, quindici secondi”, puntualizzò lei guardandomi fisso negli occhi. Risi nuovamente stavolta con nervosismo. “Che ti prende Shy? Non vedo il problema?!? Mi stai dicendo che ho dimenticato qualcosa di importante?” Sheila continuò a fissarmi e per un attimo mi parve che il labbro inferiore tremasse di stizza, poi sbuffò voltandosi dall’altra parte e rimase in silenzio. Era una vecchia storia. Conoscevo Sheila e sapevo che per un po’ qualsiasi tentativo di comunicazione era destinato al fallimento. La sua dolce follia la conduceva in questi cosiddetti “bozzoli d’ira”, dei quali raramente avevo compreso il significato. Del resto sembrava tutto sempre più confuso e difficile. Quasi fosse un grande gioco di ruolo del quale dovessi capire bene le regole. Da una parte ero eccitato, mi piaceva essere al centro di una storia crea-


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ta da me, dove sarei stato io a muovere i fili del tutto soltanto con una penna in mano una sempre maggior voglia di creare. Sempre maggior voglia di… scrivere (uccidere) scrivere. Le grida di Sheila mi fecero tornare in me. Ebbi appena il tempo di vedere il grosso tir contro il quale stavo andando a finire, sterzai mancandolo per un soffio e inchiodai facendo slittare la macchina su se stessa. “Dove cazzo stavi guardando?!”Gridò lei ancora in preda al panico. “Eri come imbambolato con gli occhi fissi davanti a te, sembravi in trance…” La guardai col cuore che mi batteva a mille, sulla fronte avevo tantissime gocce di sudore, ansimavo forte. Balbettai che non sapevo spiegarmi cosa era successo, che mi ero distratto un secondo di troppo. Sheila intanto era scesa piegandosi a terra e vomitando. Mi guardai al finestrino tremante e vi scorsi un volto pallido e spaventato. Dentro di me sentii nuovamente la roca e profonda risata. ”Siamo tutti sul bordo di un precipizio” Intonava il pezzo alla radio. “L’unico trucco possibile è non rendersene conto.”

***

La prima cosa che mi stupì dell’edificio fu la sua macabra imponenza. C’era una maestosa facciata a vetrate nere che non riflettevano alcuna luce interna, silenziose e dormienti, ma pregne di mistero. Ai lati partivano due lunghi corridoi, anch’essi dai vetri oscuri, che terminavano in due torrette speculari. Sulle cime sventolava una bandiera lacera con le iniziali dell’istituto in bella vista. Tutt’intorno alberi spogli e foglie riverse a terra intonavano un cupo canto di decadenza. Scendendo dalla macchina mi colpì al naso un aspro odore chimico, come di pungenti farmaci andati a male. Non impiegai molto a capire che lì tutto sapeva


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di malattia. Mi trovavo davanti al sanatorio statale, una vecchia struttura della seconda guerra mondiale che stava cadendo a pezzi. Li si trovavano gli ultimi matti della vecchia era, coloro che non avevano né familiari né amici: coloro che ridevano di notte nel buio. Sapevo di numerosi tentativi autonomisti tesi a fare chiudere quel posto, tutti falliti, si dice, per comodità; nessuno infatti sapeva dove mettere gli abitanti di quella scura dimora. Ma adesso, guardando le vetrate nere davanti a me, comprendevo il timore, la paura di riversare nel mondo civile ciò che quelle mura contenevano. Sheila mi si avvicinò stretta in un maglione blu, iniziava a farsi sentire il freddo pungente del tramonto. “Lui è qui?” Mi chiese soffiandosi sulle mani infreddolite. Attesi per un attimo di sentire la risata che però non giunse, “È stato portato qui dopo la sparatoria.” Siamo sotto lo stesso tetto amore mio, giochiamo un po’? “Ci ha vissuto fino a vent’anni, prima di fuggire.” Un freddo brivido mi percorse la schiena, stavolta ero io a fare visita a casa sua. Mi voltai verso Sheila che era persa in una timorosa contemplazione e mi sforzai di sorriderle; lei fece altrettanto ma era chiaro che eravamo ancora scossi per quanto accaduto prima, questo pensavo di poterglielo evitare. “Shy tu aspettami in macchina.” “Come??? Ti accompagno fin qui solo per aspettarti in macchina? Ma chi...” La interruppi prendendola dolcemente per un braccio. “Davvero Sheila, ascoltami, penso che avrò bisogno di più di un giorno, perché non vai giù in paese e cerchi un albergo carino?” Mi guardò indecisa se insistere ancora. “Ti prego” continuai, “fammelo fare da solo.” Sheila sbuffò staccandosi da me tornando a sedersi al posto di guida, “Va bene mister muscolo” disse, lanciandomi un’occhiataccia. “Tornerò tra un’oretta, se non sei fuori ti lascio a dormire coi tuoi fantasmi.”


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Mentre sentivo la macchina scendere dalla collina mi resi conto che la sua battuta non mi faceva affatto ridere. Il largo portone di ferro battuto mi abbracciò goffamente mentre entravo con passo incerto. C’era un anziano signore sulla porta intento a spazzare le foglie che il vento portava dentro. Quando passai mi guardò appena tirando su col naso e tornò alla sua mansione. Tutto era silenzioso nell’atrio ma sentivo di non essere solo. In lontananza, ovattati da pareti di gommapiuma, sinistri gemiti mi davano il loro benvenuto. Intuii che la reception doveva essere il polveroso bancone pieno di fogli sparsi sopra. Data l’oscurità dell’ambiente dovetti aspettare che i miei occhi si abituassero alle tenebre circostanti, ed entrai. Attesi paziente qualche minuto ma non sembrava servire a niente. Davanti a me un largo scalone si perdeva in una polverosa penombra, decisi di avanzare senza altre esitazioni. Sul primo scalino i dubbi si avvinghiarono alla mia gamba costringendola a fermarsi. Perché ero lì? Cosa speravo di trovare? Temevo di stare perdendo il lume della ragione, non l’avrei mai ammesso a me stesso, ma sentivo un ben poco eroico calore al basso ventre. La ricerca di Rasputin, delle sue origini, era appena cominciata. E già la stavo vivendo con esasperata ossessione, un’eccitante morbosa ossessione. Alla fine della scala si trovava un altro portone scuro, stavolta però era diradato e un debole fascio di luce si proiettava sul pavimento. Mi avvicinai. Penso che la mente umana sia un grande giardino dove giochiamo fin dalla nascita. Accanto a noi c’è una balia amorosa che ci dice ciò che è giusto e ciò che non lo è, che ci guida nel dubbio e ci consola nelle difficoltà. Poi un giorno vediamo una zona del giardino recintata. Il primo impulso è la curiosità, la voglia di vedere cosa c’è al di là della


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ringhiera. Ci voltiamo verso la balia che energicamente scuote il capo. “Quel posto è chiuso, non puoi andarci.” Ci dice dolcemente. “Se l’hanno chiuso ci sarà un motivo, è una zona pericolosa!” Noi continuiamo a voltarci con insistenza. Dietro quel recinto sembra che ci siano tutte le risposte, tutti i giochi migliori. Poi però diamo retta alla balia e rimaniamo dove l’erba è più verde. Non tutti fanno così. Adesso stavo osservando coloro che avevano saltato il recinto. Davanti a me si stagliava una miriade di persone in camice bianco, tutte perse nel loro grottesco mondo, tutte completamente pazze. Le anime nascoste negli angoli bui dei nostri verdi giardini.

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I loro occhi vagavano nel nulla di orbite dementi. Molti erano accanto alle vetrate. Fregavano con le mani i vetri quasi cercando di afferrare la luce nell’aria, altri affollavano la stanza intenti nelle più disparate attività. Vi erano dei lunghi tavoli pieni di oggetti, matite colorate, fogli e forme geometriche. Alcuni pazienti costruivano improbabili torri di babele, altri scarabocchiavano frasi prive di logica. Da tutti si levava un gemito gutturale come una sinistra cantilena. Vidi alla mia sinistra un individuo seduto in terra che aveva il pollice in bocca come un bambino piccolo; lo succhiava e mi guardava con sguardo dolce. Davanti a me altri due stavano agitando le braccia in aria come per intrappolare qualcosa, uno di loro invocava con voce strozzata un nome di donna. Mentre osservavo quell’incredibile mondo parallelo pensai a quante storie sarebbero potute venire fuori, quanta passione esasperata vedevo in quegli occhi. Il mio animo di scrittore iniziò a solleticare.


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Fui interrotto dai miei pensieri sentendomi tirare la giacca, mi voltai e vidi che un matto si era attaccato a me. Era giovane, forse trent’anni, la testa completamente rasata riluceva nella penombra, sotto gli occhi le vene gli si erano ispessite dandogli un’espressione stralunata. Un filo di bava gli colava dagli angoli della bocca. Mi osservò per qualche istante e poi proruppe in un grido lancinante. “Sei cattivo, tu sei cattivo.” Una vampata di imbarazzo mi colorò le guance, tentai di divincolarmi ma quello mi stringeva forte. “Tu sei d’accordo con l’uomo ombra, tu porti morte.” Le sue parole, oltre ad essere prive di qualsiasi significato, stavano attirando l’attenzione dei suoi compagni intorno a me. “È rosso, è tutto rosso, tutto…” Due altri pazienti mi si avvicinarono tirandomi anch’essi la giacca, sembravano stupidi zombie di qualche film dell’orrore. Con una spinta me li scrollai di dosso mentre la paura cominciava ad attanagliarmi. Indietreggiai di qualche passo sentendo l’oscuro gemito aumentare di intensità, per un secondo fui tentato di fuggire da lì senza voltarmi. Anche il resto della sala pareva essersi risvegliato dal torpore, tutti mi osservavano gemendo, tutti sembravano sul punto di... “Che sta succedendo?” Una voce perentoria immobilizzò i tre matti che mi cingevano. Senza un rumore si gettarono a terra con la testa fra le braccia. “È tutto rosso ”, continuavano a gemere. “Tutto rosso…” Un robusto infermiere in camice verde si fece strada tra la folla avvicinandosi a noi. Prima lanciò un’occhiata disgustata verso di me, poi prese per il colletto il giovane alzandolo di peso. “Allora signor Rin, abbiamo dei problemi oggi?” Il giovane farfugliò parole incomprensibili sputando getti di bava, la testa sempre bassa, quasi colpevole. L’infermiere lo inchiodò alla parete tenendolo per la spalla mentre con l’altra mano estrasse dal camice una lunga siringa. “Forse ha bisogno di un aiutino, che ne dice?” L’ago scomparve nel collo del poveretto che con un piccolo grido esaurì la dose di resistenza.


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Osservai la scena impaurito, quasi vi fosse una siringa pronta anche per me. Il giovane si accasciò al suolo tremando debolmente mentre l’infermiere si voltava verso la folla. “C’è qualcun altro di voi che vuole una mano a calmarsi?” Scorsi barlumi di terrore nei loro occhi mentre lentamente tornavano alle loro occupazioni immaginarie; erano forse completamente pazzi, non stupidi. L’infermiere si piantò davanti a me squadrandomi dalla testa ai piedi “Matti del cazzo.” Esordì. “E lei chi sarebbe? Questo, se non l’avesse notato, non è un fottuto zoo per turisti.” Fui quasi offeso dai suoi modi, ma ritenni opportuno non farlo notare. “Mi perdoni”, dissi col tono più pacato possibile, “non volevo creare scompiglio, ma alla reception non c’era nessuno, quindi…” “Quindi?” Tagliò corto lui. “Volevo parlare col direttore del sanatorio se è possibile.” L’infermiere scoppiò in una sonora risata, poi tornò a fissarmi con aria di scherno. “E lei pensa che l’esimio direttore si mischi con questi scarti? No, lui fa parte dell’umanità elegante, quella che si vede alla tv, gli unici stronzi che troverà qui siamo noi infermieri.” Feci per aprire bocca ma fui nuovamente interrotto. “E non pensi di poterlo contattare in alcun modo; il nostro amico non va particolarmente fiero di questa attività, perciò per i cittadini come lei è e resterà anonimo.” “Ma non è legale”, provai a sbottare io. “Il suo nome figurerà certo da qualche pa...” “Senti amico”, il suo grosso viso si avvicinò al mio minacciosamente, “non c’è uno stracazzo di foglio intestato a questa topaia di cessi umani, tutto risulta opera di beneficenza o carità, quasi che quei pezzenti al potere l’avessero costruito con le loro linde manine.” E proruppe in un’altra risata sboccata. “Comunque” concluse tornando a fissarmi, “se vuoi qualcosa devi dire a me, qualsiasi cosa, d’accordo?” Ebbi l’immediata tentazione di spaccargli la faccia per vedere di che colore fosse il sangue di un coglione.


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Sicuramente però le avrei prese io, quindi, sospirai e mi rivolsi di nuovo a lui. “Ok.” Non avevo nessuna speranza ma tentai ugualmente. “Vorrei il permesso di visitare Rasputin Melee, so che è ricoverato qui.” Fu come se si fosse infranto il muro dei gemiti. Nella sala calò un mortale silenzio, avvertii gli occhi di tutti tornare fissi su di me. Stavolta però non erano occhi vuoti, spenti da chissà quale atavico timore, erano occhi lucidi, di persone sane. Lo stesso infermiere si era bloccato in un’espressione di smorfia, giurai di sentire in lui la paura, quasi avessi bestemmiato in una chiesa. Dopo qualche interminabile istante mi mise una mano sulla spalla facendomi cenno di seguirlo. Attraversammo la folla paralizzata ed entrai in un piccolo ufficio senza finestre. “Non provi più a dire quel nome in sala!” Mi gridò l’infermiere, chiudendosi la porta alle spalle. “Lei non immagina neppure cosa sarebbero capaci di fare quei dementi di là, quel nome è tabù.” Stavolta tentai di prendere la situazione in mano affrontandolo di petto. “Ascolti lei invece”, dissi alzando il tono di voce sopra il suo. “Non sono uno stupido venuto fin qui in cerca di divertimento, non sono spinto da giornalistica curiosità o chissà cos’altro.” Quello mi fissava e mi chiesi se mi sarebbe saltato addosso rompendomi tutte le ossa. “Quel bastardo di Melee dieci anni fa ha massacrato la mia famiglia, è mio diritto vederlo.” Ansimai forte per lo sfogo mentre l’infermiere distoglieva lo sguardo da me per frugarsi in tasca. Per un momento fui sicuro che avrebbe tirato fuori una siringa con la quale mandarmi al creatore. Le sue mani stringevano invece una sigaretta che si accese sbuffando. “Il mio nome è Shinra, Cloud Shinra.” Lo fissai stupito ascoltando la sua inaspettata presentazione. “Piacere, Dan Solo.”

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Cloud tirò un’altra boccata creando rivoli di fumo quasi animati; mi indicò una sedia accasciandosi a sua volta su una poltrona scura. “Quindici anni fa Rasputin era l’orgoglio di questa struttura, il nostro fiore all’occhiello.” Gettò la cenere a terra mentre si soffiava il naso con un fazzoletto scucito. “Il sanatorio stava per ricevere nuovi fondi dallo stato grazie ai grandi progressi fatti proprio con lui, era l’unico caso di pazzia completamente guarito.” Ascoltavo attentamente le sue parole, ma dentro mi sentivo sempre più lontano dalla luce, quasi avessi imboccato una strada senza uscita. “Era qui fin da piccolo il bastardo. Aveva una strana abitudine, gli piaceva scrivere sulla pelle.” Un brivido mi corse su per la schiena. “Iniziò con i topi sui quali incideva le lettere dell’alfabeto, quando se ne accorsero era già arrivato alla P.” Accennò una piccola risata mentre il fumo gli usciva dal naso. “Poi passò ai gatti. Fece fuori un’intera cucciolata per scrivere una poesia imparata a scuola! Certo, a quei tempi ancora non inventava storie, si limitava a copiarle. Il problema avvenne alla nascita del suo fratellino. Lui aveva diciassette anni e quella fu la notte che scrisse il suo primo racconto.” Come me! Avevo paura di ammetterlo ma la verità era lì. Come me. “Si immagini la scena signor Solo: il piccolo stronzetto finisce di scrivere al buio della sua camera, rilegge i fogli che ha davanti e qualcosa esplode nella sua testa di cazzo, è così che fanno i matti no? Prende la stilo d’argento che gli era stata regalata chissà da chi e, con i fogli ancora in mano, percorre al buio il corridoio di casa sua fermandosi davanti alla culla del fratellino.” Il disagio si stava impadronendo di me; volevo che si fermasse, che non raccontasse più, ma, lo volevo poi davvero? “Bé signor Solo, il suo primo foglio di carne umana fu trovato il giorno dopo sulla sua scrivania, ma sa qual è l’aspetto più esilarante di tutto ciò?” Bastardo insensibile mi ripetevo, ma se era l’unica strada per vederlo


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avrei sopportato in silenzio. “Aveva usato gli occhi del fratellino come puntini per le I…” Scoppiò nuovamente in una barbara risata. Disgustato mi chiesi chi fossero davvero gli psicopatici in quel luogo. “Comunque” continuò ricomponendosi, “era minorenne e non poté essere condannato. Fu spedito qui e ci rimase per dodici lunghi anni. Passava le giornate a scrivere nella sua fottuta cella, riempiva fogli su fogli, non parlava mai con nessuno e nessuno lo faceva con lui.” Cloud si sporse dalla poltrona avvicinandosi a me. “Tutti gli stavano alla larga, capisce? Tutti ne avevano paura allora e ne hanno adesso che è quasi morto. Una volta trovarono il suo compagno di stanza che si era accecato volontariamente pur di non guardarlo in faccia.” Il suo sguardo era penetrante. “Dunque la prossima volta ci pensi prima di pronunciare il suo nome in sala.” “La sua faccia” mi azzardai a chiedere, “è così terrificante?” L’infermiere mi sorrise beffardo spegnendo la sigaretta sotto una scarpa. “È questo il punto, signor Solo, la sua faccia è dannatamente normale. È una persona comune, sembra un cazzo di impiegato statale, è questo che fa più paura in lui. Non è un pazzo psicopatico, è un camice verde, diciamo noi. È un sano, cosciente diavolo in terra.” Nei miei sogni di bambino mi immaginavo le persone malvagie come orrendi mostri crudeli. Improvvisamente sentii il bisogno di uno di loro che mi consolasse. “Sarà forse per questo, sarà perché era un frocetto relativamente tranquillo, dopo una decina di anni lo stato si convince che è completamente guarito. Quello fece di tutto per dimostrarlo venendo impiegato a tempo pieno in attività di recupero e programmi assistenziali. Leccò il culetto sporco di ogni capoccione in visita qui, fu servizievole con tutti, anche con me.” Un’ombra di rabbia gli velò gli occhi. “E cosi arriviamo al 24 dicembre 1972. Vigilia natalizia, tutto ‘sto cesso addobbato come un panettone, le autorità in visita d’onore a quello che, secondo i programmi statali, sarebbe stato il nuovo sanatorio nazionale per l’anno venturo. C’era aria di festa nel salone, le famiglie


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riunite, anche la mia.” Improvvisamente Cloud non scherzava più. Mentre parlava il suo sguardo si perdeva nel vuoto davanti a sé. “La sorveglianza era bassa, per una sera nessuno aveva pistole o Teaser. Rasputin, il più pericoloso di tutti, era guarito no? Poi era una questione di denaro, non lo è sempre?” Mi sorrise amaramente non aspettandosi risposta. “Le autorità puntavano su di lui per quei fondi del cazzo, avevano bisogno che fosse guarito, il più eclatante caso scandalistico di dieci anni prima era una pubblicità troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.” Sputò un'imprecazione battendo forte i gomiti sul tavolo, poi rimase in silenzio per qualche secondo. Mi accorsi quando ricominciò a parlare che aveva gli occhi umidi. “Quella serata Rasputin l’aveva pianificata da anni. Mandò in cortocircuito l’impianto luci; io ero tra la folla al buio, sentivo grida ovunque, di pazzi e non. Poi sentii un altro grido, che non dimenticherò mai, quello di mia figlia.” Stavo tremando. Solo adesso mi accorgevo che anche lui, come me, era stato una vittima. “Quando le luci tornarono Rasputin era fuggito dalla porta principale, nascondendosi nel buio della notte. Hanno impiegato più di dieci anni per trovarlo. Dodici persone morirono quella sera, dodici persone che lo Scrittore trucidò con una lama prima di fuggire. Una persona per ogni anno che era stato dentro. In pochi minuti liberò la rabbia che aveva dissimulato bene per tanto tempo. Sul volto di ognuna incise un numero, perché tutti potessimo vedere la sua potenza e onorare il suo ritorno. Mia figlia fu la numero sette.” Abbassai lo sguardo a terra in segno di rispetto; non sapevo cosa dire o cosa fare. Forse era stata tutta una follia, certo non potevo sperare di entrare e riuscire a vederlo cosi facilmente… “Bene signor Solo.”


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La voce di Cloud mi risvegliò bruscamente dai miei pensieri. “Ci sono dei doveri nei confronti della società che, a modo mio, mi sforzo di onorare ogni giorno. Ciò che non ho mai potuto rispettare sono i miei doveri come padre. Non riesco a trovare il coraggio di staccare la spina di quella fottuta macchina che lo tiene in vita. Non mi interessano le sue motivazioni, né ciò che intende fare. La porterò da Rasputin. Ne ha uno stracazzo di diritto.”


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Capitolo 7 Mondo d'ombra

Dalle finestre intravedevo i primi pallidi raggi della luna. Guardando l’orologio mi accorsi di essere dentro da quasi un’ora, tra poco Sheila sarebbe tornata a prendermi e non volevo farla aspettare in quel posto da sola. Seguii Cloud lungo uno stretto corridoio. Ogni tanto incontravamo una porta di metallo con un guardiano vicino, la mia guida faceva un cenno di assenso e quello la apriva lasciandoci addentrare nel cuore dell’edificio. Di spalle Cloud sembrava ancora più imponente di quanto fosse; la sua larga schiena lasciava intravedere il collo nerboruto e tozzo che terminava con una testa barbuta. Aveva degli occhi vispi nonostante la grossa mole, la fronte alta era accentuata dai pochi capelli rimasti. Arrivammo ad una porta più massiccia delle altre, si voltò verso di me e si accese l'ennesima sigaretta. “Adesso, signor Solo, stiamo per entrare nella parte che fa paura davvero.” Mi guardò come per soppesare l’effetto delle sue parole. “Siamo in quello che i pazzi chiamano mondo d’ombra. È l’ala degli psicopatici più violenti.” Deglutii intimorito tentando di non farlo vedere, non volevo dargli quella soddisfazione. “Mi stia sempre vicino e non li guardi mai negli occhi, ha capito?” Annuii facendo cenno con la testa mentre il portone si richiudeva alle nostre spalle con un tonfo sommesso. Davanti a me si apriva un’altra sala, forse non estesa come quella di prima, ma molto più buia. Era vuota. Al centro si trovavano dei tavoli con i bordi di gomma piuma, era assente qualsiasi oggetto che non si potesse piegare facilmente, le pareti


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stesse erano completamente foderate. Quando i miei occhi si abituarono all’oscurità scorsi delle porte sulla parete: due, tre, cinque. In breve mi accorsi che una dozzina di aperture davano su quella specie di anticamera dell’inferno. Erano quasi tutte sprangate tranne un paio nelle quali una tenebra minacciosa prendeva forma. “Quelle”, mi spiegò Cloud, “sono le villette di coloro che vivono qui, non si stupisca del buio, a loro la luce di solito da fastidio.” Passando accanto alle porte notai che avevano all’estremità una finestra con grate di ferro; si avvertiva la presenza di qualcuno al di là, ma la mia curiosità da scrittore sapeva quando essere cauta. Eravamo diretti all’estremità opposta della stanza, dove un piccolo neon rosso portava la scritta INFERMERIA. Ad un tratto fui attirato da un piccolo movimento alla mia destra; un volto faceva capolino da una grata di ferro. Alle sue spalle le tenebre più nere. Non potei fare a meno di osservarlo, aveva gli occhi gonfi e grandi, quasi fosse abituato a tenerli bene spalancati, e mi scrutava con la bocca serrata. I bulbi oculari erano venati di rosso e sembravano quasi finti. Un’ondata di terrore mi travolse quando vidi una piccola mosca posarvisi sopra e camminare indisturbata sull’occhio pallido. “Quello è il signor P.” Esclamò Cloud alle mie spalle, “Non batte le palpebre da cinque anni, i medici non capiscono ancora come sia possibile!” “Ci vede?” Chiesi intimorito. “Potrebbe vederla al buio a 100 metri di distanza” rise il mio compagno. Lo osservai incantato pensando agli infiniti abissi della nostra mente. “E stia sicuro che cercherebbe di raggiungerla in ogni caso, al nostro amico piace strappare i testicoli.” Il signor P. allargò la bocca sdentata accennando un grottesco sorriso. “I suoi se li è mangiati sei anni fa rischiando di soffocare.” Istintivamente mi misi le mani tra le gambe sfregandomi i jeans, ma la sensazione di disagio non accennava a sparire. “Il bello, signor Solo”, continuava Cloud, “è che quei dementi degli psicologi ci vanno a nozze con lui, è una gallina dalle uova d’oro per sfoggiare la loro dannata erudizione:


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il signor P fagocita testicoli come simbolo di fertilità, il signor P è un simbolo del consumismo più sfrenato, il signor P cerca quella vita che non ha mai avuto davvero, e altre idiozie simili.” Si voltò guardandomi con aria beffarda. “L’unica cosa buona che questo demente avrebbe potuto ingurgitare è la loro testa di cazzo.” E rise tossendo. Continuammo fino alla nostra destinazione ed ebbi la netta sensazione di avere sempre più occhi puntati su di me. Prima di entrare nella nuova sala Cloud volle darmi un ultimo consiglio. “Bene, il nostro amichetto è qui dietro immerso in un sonno dal quale non si sveglierà mai.” Ancora quella roca risata dentro di me, stavolta più forte. “Io l’aspetterò fuori, ma sappia che mi sto giocando il posto per questo, non me ne faccia pentire ok?” Misi una mano sul muscoloso braccio dell’infermiere. “Grazie Cloud.” Quello sbuffò spalancando la porta. Trassi un profondo respiro, ed entrai in una fornace di aria stantia e umida. Esiste un sentiero dentro ognuno di noi, una lunga strada buia che è meglio non percorrere mai. Imboccai la mia nella sudicia infermeria di un manicomio dimenticato da Dio. La stanza era completamente asettica, priva di finestre, con un forte odore di ammoniaca nell’aria; tutto era al buio tranne il centro della stanza. Lì si trovava un letto con una miriade di macchinari intorno. Sopra riposava il suo corpo inerte. Sentii un forte bisogno di piangere, cercai di controllarmi ma non servì a niente, tutta la tensione accumulata fino ad allora esplose in me. Mi piegai sulle ginocchia singhiozzando rumorosamente; il freddo brusio dei congegni medici accompagnò i miei gemiti. Non era cosi che doveva andare.


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Non era cosi che doveva andare la mia cazzo di vita. Fui colto da un impeto di furia animale. Nonostante lo sgomento e il dolore mi rialzai e percorsi a grandi passi la distanza che mi separava da lui, spostai le tendine che lo abbracciavano e per la prima volta vidi il volto dello Scrittore. È una strada lunga e pericolosa, non è prudente allontanarsi dal sentiero, perché lì, nascosti dalle ombre, ci sono coloro che hanno saltato il recinto. La prima sensazione che ebbi è che vi fosse stato uno sbaglio, un tragico cambio di persona. Lui, il mio mostro, colui che mi aveva fatto vivere in un limbo per dieci anni, colui che aveva trucidato la mia famiglia con una stilo d’oro, era come me. Era un normalissimo essere umano. Ipnotizzato da quella scoperta osservai i lineamenti del suo volto alla ricerca di una mostruosità qualsiasi, di un’aberrante deformità, una sacrilega mancanza. Non c’era. Non c’era niente che non andasse in lui. Era un uomo qualsiasi sdraiato su di un letto qualsiasi. Era un uomo comune dai bei lineamenti distesi. Aveva lunghi capelli neri che gli coprivano parzialmente gli occhi chiusi, il piccolo naso aquilino era il trampolino di lancio per una bocca pressoché perfetta, la pelle candida era più pallida del normale. Dentro di me nacque una prorompente risata che trattenni a sforzo, sembrava un angelo. Ancora preso da quelle confuse sensazioni mi mossi come un automa, Non mi fai più paura sai? Mi voltai verso la porta, Cloud era davvero rimasto fuori. Siamo noi due soli. Avvertii un senso di onnipotenza quasi divina, lui era totalmente indifeso. Nudo e indifeso davanti a me. Siamo sotto lo stesso tetto, di nuovo, giochiamo un po’?


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Avevo la testa vuota e sgombra, la risata dentro di me sempre più forte, forse ero io, ero io a ridere. Afferrai un bisturi sul mobiletto accanto, una violenta erezione mi gonfiò i pantaloni. È una strada che si deve percorrere da soli, e quando ci si pente è troppo tardi, è sempre troppo tardi. Avvicinai il bisturi al volto di Rasputin Mi senti figlio di una grandissima troia? Con un piccolo gesto avrei potuto trafiggergli un occhio Sei un bastardo, un fottuto bastardo Oppure gli avrei potuto tranciare la gola Mi senti? la senti la mia rabbia? Tutto con disarmante semplicità, tutto dipendeva solo da me. Lo senti il male che ti voglio? È per sempre bastardo, è per sempre… La mano mi tremò sospesa sopra il suo volto, i miei singhiozzi si fecero più forti, avevo paura di me, l’avevo come non ne avevo mai avuta. È la stessa strada che ha percorso il signor P. forse ci sta aspettando tutti alla fine del percorso, ci sta aspettando per strapparci i coglioni. Un selvaggio grido mi esplose dentro, il bisturi mi cadde dalle mani finendo sul cuscino, crollai a terra piangendo con il volto riverso. Dentro la voce mi offendeva, mi diceva che ero un coniglio, un fifone; mi conficcai le unghie nei palmi per farla tacere. Gocce di sangue cadevano sul pavimento avvertii l’assurdità di quella situazione. Ero venuto fin lì per liberarmi dallo Scrittore, ma più secondi passavano, più mi sentivo totalmente invischiato in lui, nella sua vita, nei suoi progetti malati… Fu come se avessi ritrovato un tassello fondamentale. Alzai la testa di scatto ed osservai Rasputin dormire beato. Cloud aveva detto che scriveva, che scriveva sempre, io volevo capire cosa c’era dietro quella faccia da angelo: i suoi scritti erano la chiave. Talvolta si pensa di averla evitata,


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di aver imboccato una strada migliore, ma non c’è strada migliore in un mondo dove le persone sono bianchi fogli di carne.


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Capitolo 8 Scritte sul muro

Mi fasciai le mani con delle bende che trovai li accanto e gettai un ultimo sguardo allo Scrittore. Dormiva come fosse un pargolo innocente, una creatura che si gode il giusto sonno dopo una grande fatica. Mentre uscivo mi colpì una strana sensazione, quello era un arrivederci, non un addio… col cazzo pensai, e mi chiusi la porta alle spalle. Fuori Cloud stava fumando appoggiato alla parete. Aveva certo sentito i miei singhiozzi, ma non potevo farci nulla. “È ancora tutto intero il nostro amico?” Mi chiese sorridendo. Mi domandai come facesse a scherzarci sopra, era una facoltà che a me mancava, ma lo invidiavo per quello. “Si, non sarò io a sporcarmi le mani.” Risposi tentando di avere un’aria distaccata. “A proposito Cloud, avrei bisogno di un ultimo favore.” Quello mi guardò con espressione quasi divertita. “Signor Solo, le ho già detto che io qui mi gioco il culo, forse non ero stato chiaro prima?” “Lo so, lo so, ma, ti prego, è una cosa velocissima.” Tentai di insistere, senza il suo aiuto non ce l’avrei mai fatta. Fece un altro tiro illuminando il buio della sala di bagliori violacei “Ormai che ci siamo sentiamo!” “Bé, avrei bisogno di vedere per un minuto o due la sua stanza.” L’infermiere aggrottò le ciglia sospettoso. “La stanza dove stava prima di fuggire? Posso chiedere perché?” Lui era stato franco con me, purtroppo non potevo ricambiare il favore. “Mi aiuterebbe a chiudere definitivamente i conti con lui, diciamo cosi.” Attraversammo nuovamente la sala illuminata dalla falce di luna fino


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ad arrivare alla cella del signor P. “La stanza del bastardo è quella accanto, abbiamo lasciato tutto così senza toccare nulla. Sa, girano certe superstizioni qui… comunque faccia pure, io, come sempre, sono qui fuori.” Lo ringraziai nuovamente per la disponibilità e scomparvi in quell’antro buio e puzzolente. Era una stanza molto piccola, sembrava una cella di prigione, le pareti ovviamente imbottite, ad illuminare solo la traballante luce di un neon quasi scarico. Un letto lercio sul quale non sarei salito per nulla al mondo, e un piccolo comodino che fungeva da scrivania. Sopra si era accumulato uno spesso strato di polvere, almeno un centimetro. Ciò che cercavo doveva essere vicino. Aprii gli sportelli sottostanti e un mucchio di fogli esplose letteralmente nell’aria, tanto vi erano stati pressati. Li raccolsi pazientemente e tentai di metterli in ordine. Anche l’altra anta era traboccante di carta così ammassai tutto sul polveroso ripiano. Sapevo di avere i minuti contati, ormai Sheila era sicuramente arrivata, perciò diedi una veloce occhiata a quelle che sembravano le righe iniziali di qualcosa. Quello che avvenne poi, trovo difficoltà a spiegarlo ancora oggi. Le parole scorrevano sotto i miei occhi. Vedevo le lettere, una dopo l’altra, in diligente successione, era una bella calligrafia, piuttosto elegante, e sembrava una storia. Non era certo quello che cercavo, mi aspettavo di trovare le memorie deliranti di un pazzo psicopatico, invece stavo leggendo un racconto. Pensai di arrivare in fondo al primo foglio e poi di cercare altrove ma, automaticamente, le mie mani afferrarono il secondo mentre i miei occhi lo divoravano con avidità. Senza rendermene conto arrivai a pagina otto accorgendomi con sgomento che il mio unico desiderio era quello di andare avanti con la lettura. Un lampo di consapevolezza mi balenò nella mente. Quella scrittura, quei fogli, erano assolutamente perfetti. Rasputin padroneggiava l’ortografia al massimo grado riuscendo a creare evoluzioni lessicali sbalorditive; la vicenda si dipanava senza alcuno sforzo, come una cascata d’olio. Le parole guizzavano fuori dalla


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pagina come pesci impazziti, i periodi temporali della scrittura erano puntuali e sapienti, tutto spingeva l’occhio avanti, sempre più avanti nell’esplorazione di quelle pagine. Era la storia di un bambino che aveva casualmente visto qualcosa che non doveva vedere. Giocando a nascondino era finito in una cantina, che poi aveva scoperto essere il rifugio di uno psicopatico, un luogo con i muri piene di scritte rosse, macabri testamenti degli efferati omicidi da lui perpetrati. Il bambino allora si era reso conto di non poter uscire di lì, e aveva iniziato a ragionare su come salvarsi prima del ritorno del serial killer, scoprendo che le scritte erano la chiave. La vicenda era talmente avvincente che faticai a focalizzare l’attenzione sulla trama, l’essenziale qui era il come, non il cosa. Stavo leggendo la più bella storia della mia vita, qualcosa che sembrava essere assolutamente ispirato. Mi accorsi solo in quel momento perché Rasputin era lo Scrittore, che al di là della sua follia, al di là dei mille corpi martoriati, si trovava un genio. Quelle pagine incarnavano totalmente l’essenza della scrittura. Rasputin sapeva prendere il lettore dolcemente in braccio e portarlo in un mondo vivido e palpabile come pochi, sapeva spingerlo sulla via dell’emozione, proteggerlo dai risvolti più inquietanti, sapeva fare palpitare il cuore senza pausa, o commuovere. Era davvero capace di essere un dio. I minuti volarono senza che me ne rendessi conto, mi accorsi di aver letto quindici pagine e di non averne ancora abbastanza. Provai le stesse sensazioni di anni prima, quando, da piccolo, avevo odiato l’autore del libro che mi era piaciuto tanto. Adesso l’autore era per tutti un perfetto sconosciuto, uno sconosciuto prossimo a morire… Seppi ciò che stavo pensando ancora prima di pensarlo, tentai di scacciare quell’insana idea dalla mente, ma fu l’inizio della fine. Non c’è una strada migliore In un mondo dove le persone sono bianchi fogli di carne... Cloud si affacciò brontolando qualcosa a proposito dell’ora. Avvertii a malapena la sua presenza, la mia mente era tutta risucchiata


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dal mondo fantastico dello Scrittore. Un campanello d’allarme però risuonò dentro, forse un atavico istinto di conservazione, riposi i fogli sul tavolo e mi voltai sorridendo debolmente. “Arrivo subito, scusami.” Sapevo di dover almeno finire di leggere quella storia, e sapevo di non poterla portare con me. Sentii nuovamente la voce nella mia testa, e stavolta ciò che mi disse mi piacque. Uscendo gettai un’ultima occhiata al mucchio dei fogli scorgendovi un titolo che prima mi era sfuggito: “Scritte sul muro.” Ripetei piano. “Si, può funzionare.” Una strana luce albergò nei miei occhi da quel momento. Una luce che maledico ancora.


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Capitolo 9 Voce

Sheila mi aspettava fuori tamburellando nervosamente il piede a terra. Ormai era completamente buio, vedevo la sua sagoma stagliarsi alla luce dei fanali. Mi guardò fisso sorridendo ironicamente. “Ciao amore”, squittì nel modo più antipatico di cui era capace. “È andata bene la tua lunga giornata di lavoro?” Questo era l’aspetto che più odiavo di lei, e in quel momento mi parve insopportabile; era una femminista convinta che non poteva sopportare di essere stata messa da parte, anche per un istante. “Senti Shy, possiamo evitare questo tono?” Le dissi guardandola di traverso. “OH CERTO CARO” proruppe quella. “La tua mogliettina ha fatto la brava e ha trovato una stanzina comoda comoda.” Non era proprio il momento. “Cristo Shy! Perché devi prendere ogni dannato pretesto come un attentato alla tua natura di donna oppressa?” Sapevo di aver peggiorato la situazione, ma non ero in vena di saggezze. “Ma bene signor Solo!” Dai suoi occhi sprizzavano fiamme. “Forse hai bisogno di una ragazza che abbia il cervello inversamente proporzionale alle dimensioni delle sue tette, pensaci!” Provai a rimediare. “Senti Shy, non potremmo piantarl…” “E NON CHIAMARMI SHY CAZZO!” Il resto del tragitto lo passammo, tanto per cambiare, in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri. Ogni tanto la guardavo sperando in un suo sorriso che però non giunse mai.


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Era difficile, talvolta troppo difficile per me avere un vero rapporto. Me ne accorsi con lucida chiarezza in quel momento. Tenevo a lei come ad una parte di me, ma c’erano dei momenti in cui ne avrei fatto volentieri a meno, ad esempio quello. Semplicemente la avvertivo come un peso. Ripensai alle mie ultime ore, a Cloud e al signor P, ripensai a Rasputin, alla sua stanza buia e al suo volto da angelo, ripensai alla rabbia che mi era soffocata in gola con un bisturi in mano. E poi, un gradino sopra tutto c’erano gli scritti. Mi sentivo strano da giorni ormai, tutto il pesante fardello che pensavo di dover portare era scomparso. Ero vuoto, leggero, ma avevo qualcosa dentro che non mi piaceva. Non potevo fare finta di niente, gli scatti d’ansia dei giorni passati, i miei stati di trance che ci avevano quasi fatti ammazzare, i repentini cambi di umore di Sheila, e la Voce. La Voce che ormai era mia costante compagna. Mi dileggiava nei momenti di difficoltà e mi spaventava al buio di notte, la voce sembrava godere della mia ansia, della mia disperazione, mi spingeva forte verso qualcosa di non ben definito. Mi aveva suggerito un’idea malsana, una sorta di riscatto morale, forse un’attraente follia. Aveva messo un germe dentro di me che aveva iniziato a mutare, ma in cosa? Sapevo che non era giusto, non nei confronti dello Scrittore, ma nei miei. Sarebbe stato come abbassare la testa davanti alle tentazioni, come divenire schiavo di qualcosa di invisibile, che aveva trovato un caldo posticino nel mio cervello. Arrivammo al piccolo motel che un vento freddo prese a soffiare da nord. Le cime degli alberi si muovevano come bandiere, nel cielo si addensarono grigie nuvole. Dentro, dopo un pasto frugale, ci ritrovammo a guardarci seduti ai lati opposti della stanza. Nessuno dei due aveva il coraggio di rompere il ghiaccio, eppure entrambi avevamo molto da dire, più di quanto non ammettessimo a noi stessi. Dopo qualche minuto fu Sheila a intaccare il muro di silenzio. “Va bene Dan” disse tenendo lo sguardo a terra.


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In quel momento mi parve infinitamente stanca. “Scusami, sono stata una stupida, oggi non te lo meritavi, davvero.” Normalmente sarei corso da lei abbracciandola stretta, sapevo quanto le costava fare retromarcia ma quella volta rimasi immobile cercando di addolcire il mio tono. “Va bene Sheila, è tutto ok.” Abbozzò un sorriso che tentai di ricambiare. Cominciai a parlare piano, talvolta tenevo gli occhi chiusi, altre volte la guardavo chiedendo conferme: in mezz’ora le raccontai della mia visita a Rasputin Melee. Omisi la parte della sua stanza, mi fidavo di lei, ma non volevo dire qualcosa di cui non ero ancora sicuro. Per la seconda volta Sheila si dimostrò più matura di me annullando anche la distanza fisica che ci separava, mi abbracciò baciandomi sulla fronte e carezzandomi. Tra le sue braccia sentii una forza che pensavo di aver perso. D’un tratto tutti i miei pensieri mi parvero stupidi, il mio malsano proposito di prima, le mie insicurezze, tutte chimere che lei sapeva far svanire. Risposi alla sua stretta avvicinando la mia bocca alla sua, la baciai con dolcezza assaporandone il calore, il suo respiro mi carezzava delicatamente, le sue mani erano scudi invisibili, mi sentii bene come non mi era capitato da giorni. Vedevo le sue labbra, le vedevo muoversi, rosee e paffute, appena inumidite dalla saliva; poi si aprirono un poco parlandomi all’orecchio, “Sono incinta Dan.” Fu come se il vento che soffiava fuori mi avesse sospinto improvvisamente lontano da lei. Quell’incanto di cristallo si crepava, e la profonda risata nella mia testa sottolineò chiaramente quanto. Mi staccai da lei guardandola negli occhi, i suoi bellissimi occhi verdi, profondi come il mare. Ebbi una nitida sensazione di terrore, di tragica urgenza mista a paura, e non capivo perché. Lei non era più la fiera ragazza che combatteva per un posto al sole, d’improvviso si trasformò nell’anima impaurita che celava dentro. I suoi occhi mi cercarono ancora chiedendomi protezione, calore ed aiuto.


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Mi furono subito chiari gli strani comportamenti, le incomprensibili domande, gli inusuali momenti di debolezza. Per la prima volta nella sua vita Sheila Ryan si accorgeva di non potersela cavare da sola. Penso che talvolta le parole siano di troppo, appena un modo per coprirsi dal freddo: in quell’occasione non c’era nulla da dire. Mi avvicinai nuovamente a lei e, ancora scosso, ripresi a stringerla. Sapevo di dover dire le paroline magiche, forse le voleva sentire, forse no, del resto talvolta le motivazioni non sono quelle che sembrano. “Cavolo Sheila, non so… non so cosa dire…” Sentivo il suo corpo tremare piano sotto il maglione. Ci sono situazioni più grandi di noi, diciamocelo. Forse non lo è una gravidanza, anche se inattesa, forse non lo è una tragedia dopo tante notti durante le quali hai imparato a conviverci, forse, dico forse, non lo è neppure una voce dentro che ti porta alla follia. Ma tutto questo insieme? “So che non è il momento migliore per dirlo, ma…” Sheila parlava tirando su col naso, gli occhi le si stavano inumidendo. “…ma forse in questi giorni sta andando tutto male e io…” Non la vedevo piangere dalla morte di suo padre, accanto alla tomba, nel momento in cui il corpo scomparve sottoterra. “…io non so come affrontarlo da sola… pensavo di dirtelo una settimana fa, ma poi il viaggio, e io… io…” La strinsi ancora più forte sussurrandole di fare silenzio, che non esistevano momenti giusti o sbagliati, che andava tutto bene, tentando di esternare una sicurezza di cui non ero assolutamente convinto. Perché dentro sentivo che era di troppo? Che quella novità andava contro tutti i miei… progetti…? Rabbrividii a quell’idea e chiusi gli occhi sperando che un dio qualsiasi mi mostrasse la giusta via. Qualche ora dopo la piccola stanza era silenziosa e immobile. Sheila dormiva accanto a me un sonno profondo, gli ultimi eventi l’avevano certamente provata; io osservavo le ombre danzare sul soffitto dialogando con i miei fantasmi. Ultimamente non avevamo usato troppe precauzioni, ma, del resto, ultimamente non c’erano state neppure troppe occasioni. Ed ecco che tutto succedeva mentre uno aveva la testa impegnata altro-


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ve. È sempre cosi la vita. Le carezzai la fronte spostandole i capelli neri dagli occhi. Io padre. Immaginai la voce del dottore. Signor Solo, ecco suo figlio E sorrisi. Mi sembrava di aver totalmente dimenticato lo Scrittore, come se il sanatorio fosse un ricordo di anni addietro. Era poi così importante? Potevo finalmente chiudere quel capitolo? Cosa c’era di così fantastico in quegli scritti che non potessi… Aggrottai le ciglia con fastidio. Gli scritti. Mi sfregai gli occhi quasi fosse un moscerino da scacciare via. Volevo quegli scritti. Sbuffando mi alzai e posai delicatamente Sheila sul cuscino; mi avvicinai alla finestra. Un fascio di luce mi trapassava morendo sul pavimento. Tesi le orecchie attento, sapevo cosa cercavo, volevo sentire la Voce, quella maledetta voce tentatrice. “Bè” Dissi fra me. “Ti sei zittita eh? Non lo aspettavi neppure tu il pargoletto?” In frigo trovai una birra gelata e uscii a berla nel fresco della veranda. Il clima sembrava essersi rimesso; il vento di poche ore prima era cessato e una chiara luna in cielo sembrava sussurrare che l’estate non era lontana. Ripensai al modo in cui avevo trattato il mio editore, di certo non mi avrebbe accolto a braccia aperte, e del resto la scadenza era passata e io… Io non avevo un libro da presentare. Mentre la birra scendeva dentro di me la Voce tornò a farsi sentire. Non mi stupii, sapevo cosa mi avrebbe detto, lo sapevo da ore. Mi avrebbe ripetuto ciò che aveva sussurrato nel sanatorio, quel tono spento, quasi fosse la parte peggiore di me, quella, dio me ne scampi, che ancora sperava di saltare il recinto. E mentre una luna poderosa mi illuminava il volto, mentre la Voce dentro annuiva malignamente, ripensai alla zona chiamata dai matti "mon-


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do d’ombra", alte pareti scure piene di porte, e alla finestra dal vetro incrinato che avevo visto in un angolo.


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Capitolo 10 Fede

Dai vetri vedevo Sheila sprofondata in un sonno immobile. Tornai ad osservare la luna luminosa che sembrava sapere tutto. Tirai giù l’ultimo sorso e lanciai la lattina al di là dei cespugli. Oltre gli alberi neri, dietro i fitti meandri della foresta, sulla collina che sovrastava la città, si trovava il sanatorio. La sua lunga ombra ghermiva il centro abitato. Dentro la voce stava combattendo con le mie ultime resistenze. Cosa diavolo vuoi fare Dan? Mi chiesi tremando per il folle proposito. Vuoi tornare lassù? Adesso? E poi? Il mio sguardo era fisso su un indeterminato punto nel vuoto Vuoi raggiungere gli scritti vero? Vuoi portarli via Non avevo un racconto, avevo bisogno di un racconto Quegli scritti che nessuno conosce... Vuoi farli tuoi... Se davvero stavo per diventare padre, avevo bisogno di un racconto … vuoi pareggiare i conti con lo Scrittore, vuoi fregarlo. E poche ore prima avevo letto il racconto più bello di tutti, il racconto di un morto. Presi la giacca di Sheila e chiusi piano la porta, al suo risveglio tutto sarebbe finito. Ancora confuso sul da farsi montai in macchina inoltrandomi per la strada tortuosa. Le mani mi tremavano per la tensione, non volevo pensare a tutte le infrazioni che stavo per compiere altrimenti avrei fatto immediatamente marcia indietro. Nella mia testa ormai la Voce faceva da padrone. Mi parlava calda, sussurrando, quasi come quella dello Scrittore, mi diceva ciò che dentro di me sapevo bene, tutto ciò che non avrei mai avuto il coraggio di pronunciare.


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Era quella la mia natura? La mia vera natura? Spogliata di ogni moralità, di ogni freno inibitorio, la Voce parlava di angoli bui, dei miei piccoli segreti, le tentazioni che cerchiamo ogni giorno di reprimere. Questo ci ricorda che, in fondo, siamo tutti bestie. E predatore mi sentivo in quel momento. La paura presto si tramutò in eccitazione. Era ciò che volevo, rubare quel racconto era ciò che volevo. Era di Rasputin? Ancora meglio. Era esattamente ciò che volevo, anche se sapevo che era un atto meschino. E allora mi resi conto di non essere tanto un predatore, ma una iena. La Voce però era sincera, non conosceva riposo, la Voce mi diceva altre cose. Metteva a nudo le mie paure sulla gravidanza di Sheila. Non adesso. Gridava nel profondo. Non è questo il momento. Nell’immediato futuro vedevo me, me. Vedevo uscire il libro rivelazione di uno scrittore sconosciuto, lo vedevo scalare tutte le classifiche di vendita. Vedevo realizzare il mio sogno di sempre, un sogno dal quale anche Sheila era esclusa. Diventare il più grande scrittore di questo emisfero. Nel mio egoismo più sfrenato la faccia scura di Rasputin diveniva un pretesto, sfumava nei contorni di un espediente, un semplice passo per avvicinarmi a ciò cui ero destinato. Mi accorsi di non pensare più alla mia famiglia. La Voce sapeva guardare in grande, molto più lontano: senza volerlo le labbra si inarcarono in un sorriso. Arrivato sulla strada maestra spensi i fari e avanzai per qualche minuto nell’oscurità del bosco. La luce della luna era la mia sola guida, vedevo il suo manto sull’asfalto davanti a me; lo seguii lentamente evitando inutili rumori. Lasciai la macchina in un piccolo spazio col muso girato verso la città, non sapevo perché ma mi rassicurava saperla così. Percorsi il miglio che ancora mi divideva dal sanatorio con passo svelto. Tutto intorno il bosco sembrava osservarmi minacciosamente con mille


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occhi; lontani mormorii e rumori tra le fronde mi accompagnavano in quella mia personale discesa all’inferno. Sapevo di avere ancora scelta, si ha sempre, ma continuai a precludermi ogni possibile ripensamento. Quando infine le alte mura di pietra si stagliarono lugubri davanti a me, capii che sarei andato fino in fondo. Il vecchio cancello era aperto; sospirai soddisfatto chiedendomi se avessi davvero pensato a tutte le variabili. Un’occhiata al perimetro e tentai di capire dove si trovasse il Mondo d’ombra. Mi tornò in mente Cloud, un po’ mi dispiaceva fare questo alle sue spalle, ma pensai che lui, fra tutti, mi avrebbe capito. Scivolai tra le ombre del muro fino a giungere all’estremità destra dell’edificio; passai sotto agli alti finestroni della sala principale chiedendomi con un brivido se adesso fosse vuota, in totale silenzio sgusciai verso la torretta. Questa si ergeva all’estremità della struttura; ignoravo cosa vi fosse al suo interno, ma sapevo che sotto c’era l’infermeria, il posto dove ero stato poche ore prima. Ora dovevo ritrovare la finestra dal vetro incrinato, quella nell’angolo più buio e polveroso della sala, l’unica via di accesso sicura a quel regno di follia. Percorsi il perimetro della torre sbuffando di stizza, non vedevo alcuna apertura e stare lì fuori non era certo piacevole. Arrivai ad una zona del muro in ombra e finalmente scorsi la mia meta: a due metri da terra una stretta finestra presentava vetrate appesantite dalla polvere e un’invitante incrinatura che la percorreva diagonalmente. Mi guardai ancora intorno e tentai di raggiungere la vetrata; a facilitarmi il compito pensarono le scanalature del muro di pietra che usai come appoggi. Ora veniva la parte più delicata. Spinto dall’irrefrenabile bestia che sembrava essersi impossessata di me diedi un colpo secco al vetro facendolo scricchiolare. Mi guardai circospetto alle spalle e ripetei l’operazione provocandone la rottura; il frammento cadde all’interno sbriciolandosi sul pavimento e facendo quello che a me parve un baccano infernale. Spaventato saltai giù dalla postazione e corsi a nascondermi dietro un albero vicino. Sentivo il cuore battermi forte e per un attimo il senno sembrò tornare in me: era una follia, una dannatissima follia, ora sarei tornato alla


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macchina, da Sheila, al mio mondo sicuro… Intorno a me il silenzio più spesso. Nessuno si era accorto di nulla, nessuno aveva sentito. Tornai a sorridere mentre la voce continuava a gridare in me, forza mezzasega ci sei quasi di nuovo quella luce nei miei occhi. Mi arrampicai fino all’apertura stringendo i denti in un ghigno. Con circospezione sbirciai all’interno. La stanza era invasa dal buio, ma attraversata da un fascio di luce lunare nel quale galleggiavano mollemente quintali di polvere. Se i miei calcoli erano giusti mi trovavo nell’anticamera del Mondo d’ombra, la casa d’infanzia dello Scrittore. Delicatamente staccai altre porzioni di vetro stavolta stando attento a non farle cadere. Quando il passaggio fu sufficientemente largo strisciai piano in quella bocca nera. Atterrai immobile nell’oscurità della stanza, lentamente i miei occhi si stavano abituando alle tenebre, tanto che scorsi il profilo dei primi oggetti. Un lettino di ospedale senza materasso si trovava dietro di me, mentre ai lati avevo due mobiletti pieni di ammuffiti flaconcini. Davanti riconobbi i contorni della porta da cui ero uscito con Cloud; mi ci avvicinai senza esitazione e la dischiusi appena. Al di là trovai ancora silenzio. La prima cosa che vidi furono le alte finestre inferriate, sapevo che sotto si trovavano le entrate delle celle dei casi clinici più gravi, psicopatici all’ultimo stadio. Penetrai tremando in quel salone di sudiciume, un luogo che il mondo preferiva ignorare, isolandolo in un sanatorio fuori dalle carte stradali. Pensai ai guardiani, sicuramente ci doveva essere un giro di ronda, ora poi che il buon Rasputin era rientrato in famiglia. Speravo di fare tutto nell’intervallo dei turni. Lanciai un’occhiata all’infermeria, un pesante chiavistello serrava quel forno senza finestre. Rasputin era morto, tutti lo sapevano bene, ma la sicurezza non era mai troppa. Contando le porte sulla parete arrivai a quella socchiusa, l’antro dello Scrittore. Stavo tremando e non solo per ciò che mi apprestavo a fare, c’era qual-


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cosa in quel posto di malato, di infetto, mi sembrò che di quel luogo la Voce si nutrisse, più viva e poderosa che mai. Quando la mia mano si posò sulla maniglia della porta il sangue mi si gelò. “Buonasera signore” Dentro di me gridai di terrore, ero stato scoperto, ora sarebbe tutto andato in malora, o forse peggio; la pelle si irrigidì e il cuore mancò qualche battito. “Ho detto buonasera signore.” Ero rimasto immobile con lo sguardo nel vuoto, quasi che questo mi potesse salvare. Ma c’era qualcosa di strano, non era il tono di voce di una guardia che trovava un intruso in un luogo dall’accesso proibito. “È inutile che stia immobile, la vedo benissimo”, e sentii una risata simile allo squittire di un topo. Mi voltai lentamente verso sinistra aspettandomi di trovare un plotone di esecuzione e invece… nessuno. Stavo schizzando. Per un istante non fui sicuro di meritare una vita al di fuori di quelle mura. “Noto con dispiacere la sua maleducazione, eppure ci siamo anche già conosciuti.” La voce non veniva dalla sala, ma dal muro, e il muro accanto alla cella di Rasputin ospitava … “Tutti mi chiamano signor P, lei può fare altrettanto.” Fui nuovamente colto da un brivido di terrore, forse avrei preferito trovare Cloud; invece, fissandomi con due occhi senza palpebre, il signor P. mi sorrideva dall’interno della sua cella. Il primo impulso fu di scappare velocemente, lasciarmi quella storia alle spalle e tornare a fare lo scrittore sfigato; e forse l’avrei anche fatto se non avessi sentito quello che seguì. “Dunque anche lei è qui per Rasputin. Non me ne voglia, ma trovo ridicolo quel soprannome con cui è conosciuto.” Lo fissai con disprezzo, avevo ancora molta paura, ma quello psicopatico mi istigava una cieca rabbia. “Del resto sono molto pittoreschi i soprannomi che danno a quelli come noi, non trova?”


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La seconda cosa che notai fu la sua perfetta proprietà linguistica, se lo avessi sentito parlare alla tv lo avrei preso per un professore. “Ma torniamo a noi, lei è qui per gli scritti vero?” Il cuore mi si fermò per la terza volta. “Che diavolo vuoi?” ringhiai. “Torna a dormire altrimenti chiamo le guardie.” Il signor P. rise ancora senza mai staccare le sue palpebre dalle mie. “Certo signore, le chiami pure, non so chi di noi due si trovi nella situazione più spiacevole stanotte.” Digrignando i denti dovetti lottare contro l’istinto di sputargli contro. Poi mi ricordai ciò per cui era celebre; probabilmente in pochi secondi avrei avuto le sue unghie conficcate nello scroto e lo avrei visto banchettare con il mio apparato sessuale. Dissimulai un brivido di ansia e lo affrontai verbalmente. “Cosa ne sai tu degli scritti?” Quello rimase impassibile nella stessa posizione; i grandi occhi che non si chiudevano mai riempivano lo scarno volto che emergeva dalle tenebre. “Pensa di essere l’unico a sapere ciò di cui è capace Rasputin, di aver visto la sua genialità?” “Rasputin è un fottuto malato di mente” sussurrai furioso, “ora sta crepando come un cane ed è tutto ciò che si merita.” Il signor P. sorrise. “Lei lo ammira.” Mi avvicinai alle sbarre tremante di rabbia, “Cosa cazzo stai dicendo?” Dissi alzando la voce più del dovuto. “Dietro il terrore lei lo ammira, dietro la paura lei lo invidia, dietro la rabbia lei ne vorrebbe seguire le orme.” Le mani mi tremavano ma chiusi gli occhi tentando di controllarmi. Ma si, pensai, quello era solo un povero pazzo, nessuno gli avrebbe mai dato retta, e mi voltai per entrare nella cella di Rasputin. “Lo conosco da molti anni.” Feci una smorfia di impazienza tornando ad osservarlo, cosa diavolo voleva? “L’ho sempre ammirato, tutti ne avevano paura, ma io no; ho sempre saputo che lui aveva visto oltre.” “Oltre?”, replicai beffardamente. “Oltre la facciata delle convenzioni, oltre la lucida superficie del mon-


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do, dove si annida il male allo stato puro.” “Era lui il male allo stato puro” controbattei “ma che ne vuoi sapere tu?” Il signor P. sorrise nuovamente avvicinandosi alle sbarre; per un attimo mi fissò negli occhi intensamente, quasi volesse ipnotizzarmi. “Vede signore” riprese, “lui non è il male.” Lo guardai indeciso se ridere o meno, la sua espressione mi suggerì di non farlo, lui non stava scherzando. “Si è mai chiesto perché faccio quello che faccio?” Una lingua di inquietudine si sommò alle tensioni della serata, dovevo venirne fuori, e dovevo farlo parlando. “Perché mangi i… insomma ci siamo capiti.” Quello fece una piccola risata. “Suvvia signore, non si vergognerà a dire la parola “testicoli”? Non sa che è un termine scientifico?” Lo odiai, quasi quanto lo Scrittore. “Bé, perché lo fai? Per qualche strano rito di fertilità? Per un trauma infantile?” “No amico mio “, fece lui alzando la voce, “HO SCELTO I TESTICOLI PERCHE’ È LA PARTE DEL CORPO CHE FA PIU' MALE SE TI VIENE STRAPPATA.” Lo fissai inorridito. Non scherzava, il bastardo non stava scherzando. “E a cosa ti serve mangiarli fottuto animale?” Risposi. “Bé” sorrise il signor P., “mica li ingoio davvero, dopo li sputo, è solo per dare un’immagine più terrificante di me!”, e scoppiò nuovamente in una risata malata. Mi voltai di scatto ed entrai nella cella di Rasputin richiudendomi la porta alle spalle. Rimasi un minuto immobile ad occhi chiusi con il cuore che mi batteva a mille; in cosa mi ero cacciato, che diavolo stavo davvero cercando? Davanti a me vidi la rudimentale scrivania con il pacco dei fogli sparsi. Li afferrai sistemandoli in blocco e me li misi sotto la giacca, la Voce dentro ormai taceva, aveva terminato il suo compito. Chiusi nuovamente gli occhi e mi avvicinai all’apertura: c’era silenzio là fuori. Uscì dalla cella e fui di nuovo accolto da quell’isterica risatina. “Ci lascia già signore? Paura delle ombre di mezzanotte?” Avrei dovuto forse implorare il silenzio, ma era più forte di me, lo


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guardai con aria minacciosa. Il signor P. mi lanciò un’occhiata di intesa quasi rassicurante. “Non si preoccupi” sussurrò, “non svelerò a nessuno il nostro piccolo segreto, per ora vada e cerchi di vivere la sua vita.” Il cuore mi batteva rumorosamente, ero sicuro che anche lui lo sentisse. “Un’ultima cosa signore”, il suo volto era sempre più coperto dalle tenebre della cella, la sua voce un sibilo che sfumava. “Lei crede in Dio?” Fui colpito da tale domanda che non mi aspettavo in quella situazione. I miei erano una famiglia molto religiosa, e io, fino ai diciotto anni, avevo seguito il cammino che a loro era parso più giusto. Dopo la tragedia però avevo lasciato cadere qualsiasi rapporto con la fede, ne ero divenuto totalmente estraneo, e dentro di me avevo sempre vissuto questo come una colpa, un gesto di debolezza che i miei non avrebbero approvato. “Che c’entra?”Balbettai. Il signor P. sorrise accondiscendente come un prete davanti ad un peccatore. “Ricordi che il suo Dio dorme in una stanza qui vicino e, la prego, non compia mai l’imbarazzante errore di crederlo già morto.” Il suo profilo scomparve nell’ombra e tutto tacque. Tremai forte, non a causa del freddo che stava penetrando nelle mie ossa, e mi fu chiaro quello che avevo sempre pensato: essere un dio, il dio di un mondo immaginario, un mondo che plasmi a tua immagine e somiglianza, un mondo che dovrebbe adorarti come Dio, se solo ne fosse cosciente… Era questo, per me, la scrittura.


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Capitolo 11 Successo

All’inizio fu un semplice sussurro, un passaparola tra pochi appassionati, nell’intricata foresta dell’editoria questo avviene spesso. Le piccole fanzine gli dedicarono un paio di copertine, in una manifestazione venne pure nominato, ma sembrò che sarebbe passato senza troppi clamori.

Quando arrivai alla pensione Sheila dormiva ancora, mi chinai su di lei baciandola sulla fronte. Misi i fogli in borsa e mi sdraiai tentando di guadagnare qualche ora di sonno. Ma non fu possibile. Avevo dentro sentimenti contrastanti, avevo paura. Paura di ciò che avevo fatto o di ciò che avrei fatto? Mi voltai verso Sheila carezzandole la pancia, l’ho fatto per il bambino tentai di convincermi, una follia avere un figlio in quelle condizioni economiche. Ma cosa eravamo poi io e Shy? Amanti? Fidanzati? Presto genitori? Pensai che esistevano altre strade, molte percorribili, altre tortuose, quale avevo scelto? Un brivido mi colse al pensiero che, qualunque fosse il mio cammino, ci stavo portando dentro anche lei.


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Poi, senza che nessuno se l’aspettasse, una nota rivista gli dedicò un trafiletto, una piccola esca che attirò altri lettori. Quando un famoso attore lo annoverò tra i suoi libri preferiti i giochi erano ormai fatti. La mattina dopo la svegliai dolcemente non senza nasconderle una certa fretta. Quando mi chiese spiegazioni rimasi un attimo in silenzio “Ho un’idea per un racconto” mentii, “e voglio buttare giù qualcosa prima che mi passi.” Sheila mi guardò dubbiosa e preoccupata, io la strinsi a me. “Amore” le sussurrai, “se questa cosa va in porto…” I suoi occhi mi fissavano speranzosi, “…essere in tre non sarà più un problema.” Due piccole lacrime le scivolarono via mentre il suo sorriso mi riscaldò come solo lei era capace di fare. Mi baciò a lungo premendo il suo corpo caldo contro di me. “Ti amo Dan, ti amo da morire.”

In breve tempo il mondo parve accorgersi del libro, come se fosse stato cieco fino a quel momento. Le ristampe iniziarono a fioccare in brevissimi lassi di tempo; oltre al tascabile fu creata la versione di lusso con copertina rigida, le poche copie firmate divennero rarità. Tutti i media dovettero confrontarsi con quel fatto: “Scritte sul muro” era diventato un fenomeno culturale.

Mi lasciai alle spalle il sanatorio e i suoi segreti. Rasputin, con i pochi respiri che gli rimanevano, Cloud e le sue recriminazioni rabbiose, il signor P. e i suoi vaneggiamenti. Tutto iniziò a sembrare molto lontano e confuso. Era una bella mattina di fine aprile e il sole era alto nel cielo, Sheila era accanto a me e sorrideva, avevo il più bel libro del mondo, un libro che non era ancora stato scritto. Per la prima volta da anni mi sentii davvero bene.


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Fui invitato ad una miriade di trasmissioni e talk show, il mio volto divenne noto a tutti mentre i tabloid specularono sulla mia immagine. La figura del giovane scrittore che trova inaspettatamente il successo, un sogno che faceva gola. Per un periodo i soldi sembrarono piovermi addosso come per magia; credetti di vivere in un sogno, tutti i miei desideri divennero immediatamente esaudibili, assaporai il seducente aroma del successo. A casa mi rinchiusi nel mio stanzino e vi rimasi un’intera settimana. Pregai Sheila di non disturbarmi per nessun motivo, staccai il telefono e il campanello, ed entrai in completa simbiosi con l’opera di Rasputin. Lessi la storia cinque volte soppesando tutti i passaggi, tutte le parole. Era perfetta, lo appresi quasi con rabbia, qualsiasi piccolo cambiamento l’avrebbe snaturata e fui costretto a non intervenire in alcun modo. La scrissi a macchina tentando di immedesimarmi nella vicenda, di farla mia. Immaginai Rasputin nella sua sporca cella che scriveva, scriveva, vedevo le parole uscire dalla sua penna e finire sul foglio, lo vedevo sorridere nell’ombra. Fu allora che mi venne un’idea grottesca, talmente macabra che la trovai affascinante.

Davanti a me scorrevano i titoli dei giornali: “Il miglior thriller del secolo” “Caso editoriale dell’anno” “Dan Solo è il nuovo profeta della pulp generation” Sentivo alla radio entusiastiche conferme: “Battuti tutti i record di vendita” “L’uomo dalle mani d’oro” Mi cucirono addosso un’immagine di potere e gloria che non avevo mai conosciuto.

Tornai al commissariato per incontrare l’agente che avevo conosciuto poco tempo prima. Mi accolse nel suo piccolo ufficio con aria interrogativa; gli mostrai un


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foglio firmato col timbro del sanatorio. “Vogliono la stilo dorata.” Dissi con voce sicura. “Serve alla scientifica della zona per ulteriori accertamenti.” L’agente mi squadrò dubbioso. “Lei che c’entra scusi?” “Bé…” sospirai, “sono tornato ieri da quel posto e ci tornerò a breve, mi hanno chiesto un favore in via confidenziale e hanno pensato che così nessuno di voi si sarebbe dovuto scomodare.” Quello continuava a guardarmi alzando le ciglia. “Ok” tagliai corto, “come non detto, mandate qualcuno al più presto in zona con il necessario.” Feci per alzarmi mentre una goccia di sudore mi cadeva dalla fronte. “Aspetti” mi fermò l’agente, “a me non importa nulla di questo schifo, tieni la tua fottuta penna.” Aprì un cassetto consegnandomi l’involucro trasparente. ”Non la voglio più vedere, mi mette i brividi!” Concluse accompagnandomi alla porta. Fuori accartocciai il falso foglio e infilai la stilo in tasca. Fischiettando mi diressi verso casa.

Mi fu offerto di girare un film basato sul racconto, addirittura una serie televisiva. Sentii di essere salito ad un livello superiore, adesso la scrittura non c’entrava più, adesso c’erano i soldi. Tutti chiesero a gran voce un seguito, erano bramosi di nuove pagine da leggere, divenni una sorta di profeta a cui guardare, persi di vista me stesso… Dan la guida Dan il milionario Dan il vincente Dan lo scrittore… Da quanto non ero più Dan Solo?

Ricopiai il racconto con la penna dello Scrittore, strappai le pagine originali e le cestinai.


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Su quella penna c’era il sangue di mille persone, c’era il sangue dei miei genitori. Ripensai alle parole di quel pazzo psicopatico. “Io emulo Rasputin”, forse era vero, da un certo punto di vista. Gli avvenimenti di pochi giorni prima mi parvero lontanissimi; non provavo più rabbia nei confronti di Rasputin, semplicemente mi accorsi di pensare a lui sempre meno. Lo Scrittore stava uscendo dalla mia vita, non senza avermi lasciato una pesante eredità: la storia di un bambino impaurito, che, per salvarsi, deve fare affidamento a macabre scritte sul muro. Non sapevo se avrei avuto successo con quel libro, se qualcuno se ne sarebbe anche solo accorto, ma c’ero io al centro di tutto. Sheila e il bambino erano lontani, lontani mille miglia. La Voce taceva, china nel buio della mia coscienza, ma sentivo che non se ne sarebbe più andata.

Da quanto avevo smarrito il senso delle cose, la loro giusta misura? Il tempo serve a dimenticare, interi anni trascorsi in un sogno, un fragilissimo sogno, la cui consistenza è incrinata da un telefono che squilla nel buio…


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Capitolo 12 Buio. Di nuovo. (inverno 1997)

Riaggancio la cornetta con mano tremante, le ombre danzano come impazzite. “È la fine” Penso. “La fine di tutto ciò che ho.” Improvvisamente il piccolo appartamento mi è ostile. Da ogni angolo provengono suoni sospetti, ogni porta nasconde orrori inimmaginabili. Mi siedo sul letto prendendomi la testa tra le mani, prima di rendermene conto inizio a piangere, l’equilibrio è stato rotto. Erano anni che non provavo quella paura. Pensavo di aver superato i miei vecchi attacchi, ma adesso ritornano in tutta la loro fisica inquietudine: movimenti inconsulti del corpo, tic bizzarri, sento che si è incrinata la facciata di potere che mi sono abituato ad ostentare. “Un attimo.” mi dico singhiozzando, “Rasputin è morto, deve essere morto.” Ma la verità, lo so bene, è che non mi sono mai preso la briga di controllare. Pensavo che lo Scrittore fosse uscito di scena sette anni prima. Qualcosa me lo ripeteva suadente, la mia vita è andata avanti, io sono andato avanti… Intorno a me c’è il silenzio più cupo, un silenzio rotto dal frastuono delle mie paure risorte al culmine della mia ascesa. Non mi sono mai sentito solo come adesso. “Non è possibile.” Continuo a ripetermi, “è un maledetto scherzo.” Ma so che non è così, che quella voce non si può contraffare, che quel timbro lento, caldo, è marchiato a fuoco dentro di me. Che Rasputin Melee è tornato per distruggere nuovamente la mia vita. Senza volerlo afferro il telefono, lo lascio cadere e apro il comodino,


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getto via fogli sparsi fino a che non trovo l’elenco. Cerco quel numero, uno sforzo, solo un piccolo sforzo. Ricordo il nome, il sanatorio, ricordo ancora il freddo che ne permeava le stanze… Ecco il numero, riprendo la cornetta, digito velocemente, non smetto di tremare, sbaglio, impreco, digito il numero di nuovo, e nel silenzio dell’attesa trattengo il respiro. Dalla cornetta arriva un lento e tetro ticchettio, l’orologio segna le cinque e un quarto, non è il momento giusto giusta, ma ti prego… “Pronto, avete idea di che ore sono cazzo?” Riconosco anche quella voce, il tono sfasato e nervoso di Cloud, reso inquieto dall’ora, e forse, forse… “Cloud? Cloud Shinra?” Tento di mantenere la calma, mi sto mangiando le parole. Non va bene Dan, cosi non va. “Chi è?” “Sono Dan, Dan Solo, lo scrittore.” È strano doversi presentare, non lo facevo più da molto tempo. “Ci siamo conosciuti sette o otto anni fa, al sanatorio, ero venuto per...” “Rasputin” mi fredda lui. Segue un breve silenzio reciproco. Ho paura di chiedere ciò che sto per chiedere, almeno quanta lui ne ha di rispondere. Chiudo gli occhi e tiro un sospiro profondo. “Senti Cloud, sarà una cazzata, mi puoi prendere in giro per un milione di anni, ma dimmi solo una cosa, e dimmi ciò che voglio sentire, ti prego.” Ancora silenzio da parte di entrambi. “E cos’è che vuoi sentirti dire?” La sua domanda resta sospesa sul filo elettrico della comunicazione. “Che Rasputin è cibo per vermi.” Sento che me lo dirà, sento che sta per dirlo. Riderò nervosamente e ascolterò divertito i suoi improperi per l’ora in cui l’ho svegliato, per cosa poi, per una tremenda, immane cazz… “Rasputin non è morto Dan.” Sul mio volto rimane un sorriso inebetito. Non sento neppure più la paura. “Si è svegliato tre mesi fa e adesso…” “Cosaaa?!” Grido in preda ad una profonda crisi di nervi. “Che cazzo stai dicendo? Che Rasputin si è svegliato? Che è stato in coma per sette


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anni e poi si è svegliato? Aveva un piede nella fossa, aveva… aveva...” Le parole mi muoiono in bocca, c’è più del nero terrore stavolta, lo sento. “Ascolta Dan.” La voce di Cloud mi arriva ovattata. “Siamo rimasti tutti stupiti, fosse per me gli avrei staccato la spina una vita fa, ma la legge non lo permette, c’è un cazzo di diritto alla vita che anche uno come lui ha.” Non mi importa più nulla. Che senso hanno i cavilli adesso, adesso che lo Scrittore è tornato. Dopo un imbarazzato silenzio Cloud parla ancora. “Senti amico, c’è dell’altro.” Lo sapevo. Lo sapevo da una vita, ma adesso la paura è maggiore, è infinita, perché… “La settimana scorsa è fuggito dal sanatorio.” È una paura nera come la pece perché stavolta… …stavolta non sono più innocente. Faccio appello a tutte le mie forze e cerco di essere ragionevole. “Cloud, com’è possibile? Dopo un coma così lungo ci vogliono mesi per riprendersi, come è riuscito a fuggire?” Ormai dovrei averlo imparato che i limiti sono fatti per essere superati. “Bé”, la sua voce vuole dirmi molto più di ciò che mi comunica. “È stato aiutato, non è fuggito da solo.” Sto per entrare nel ultimo stadio, la fase finale… “Ma chi, cazzo, chi vorrebbe mai…” Mi interrompo intuendo la risposta prima che venga pronunciata, ed è l’inizio della fine…. “Sono fuggiti in due, non so se ti ricordi del suo vicino di cella…” La fine di tutto ciò che ho. Riaggancio la cornetta sdraiandomi sul letto. Ho nella mente un indistinto brusio, simile ad una piccola mosca ronzante, gli occhi sono gonfi e rossi, per una volta ringrazio di essere immerso in quella pesante solitudine. Da quanto è cosi? Da quanto la mia vita è cambiata cosi radicalmente? Mi rivedo alla scrivania del mio vecchio appartamento, con davanti una sporca macchina da scrivere.


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Rivedo i miei timidi tentativi di creare lettere, parole, frasi. La mia lunga lista di insuccessi nel cestino… Rivedo i miei attacchi di panico, la paura degli angoli bui, la mia mania di dormire con la luce accesa, a meno che Sheila non fosse con me. Da quanto ho imparato a spegnerla? Rivedo infine Sheila con le sue visite a sorpresa, quell’aroma di giglio che permea le stanze da cui passa, le nostre litigate su questioni spesso inutili, le riappacificazioni. Rivedo due giovani che provano a farsi un po’ di spazio in questo mondo. Poi è arrivato Rasputin… o meglio, è tornato. Intravedo in cucina l’articolo di giornale che parla di me, ma, un attimo, quello non sono io. Il giovane scrittore rivelazione che conquista il mondo non sono io. Qui vedo soltanto un misero individuo, il parassita di uno psicopatico morto vivente… Passano minuti che sembrano ore, dalle finestre filtrano le prime luci di una spenta mattinata di novembre, il brusio cittadino mi fa tornare lentamente in me. Sono un uomo potente adesso, conosciuto da tutti e rispettato da molti. Non sono il bambino impaurito di una volta, e neppure il ragazzo debole di cinque anni fa. Rasputin al contrario sarà l’ombra di se stesso, un invalido, non ho nulla da temere. C’è però qualcosa da cui non posso fuggire stavolta, qualcosa da sistemare prima che gli eventi precipitino, una sorta di coscienziosa confessione: devo raccontare la verità a mia moglie. Sheila. La sua voce al telefono è squillante come sempre, avverto il suo amore per me in modo immediato. Da quanto non litighiamo, mi domando. “Dà un bacio al piccolo.” Chiedo con tutto l’affetto che ho per loro. “Sto tornando a casa.” Mentre chiudo la porta dell’appartamento mi sento meglio. Forse era la notte, forse la tensione degli ultimi giorni, ma adesso sembra che tutto, in un modo o nell’altro possa essere risolto.


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In strada i raggi di sole mi riscaldano appena ma penso di non averne affatto bisogno. Lancio un’occhiata al dimesso condominio dal quale sono uscito, il mio nido segreto. Il luogo dove vengo per trovare la giusta ispirazione, e, talvolta, il luogo dove vengo per stare solo. Certo, non più molto segreto a quanto pare se anche Rasputin ha trovato il numero, ma con tutti i tabloid scandalistici quale posto lo è? Manco ormai da casa da due settimane, spese nella capitale tra party e riunioni di lavoro. È assurdo pensare a quanto tempo sprechi in questioni futili quando tutto ciò che voglio è… Scrivere? O forse starmene un po’ da solo. Che cos’è per me la solitudine? Forse uno specchio nel quale osservare il mio vero io, una persona che neppure mia moglie conosce fino in fondo. Nelle stanze semivuote di quell’appartamento passo ore ad occhi chiusi, magari con una buona musica di sottofondo. Oppure mi affaccio al terrazzo e osservo il mondo che va avanti senza di me. Talvolta questo mi ispira un buon racconto, talvolta no. Ma sempre mi aiuta a tornare dai miei cari col sorriso sulle labbra. Dan Solo il giovane genio: cazzate. Così invitanti che ti fanno diventare ricco, ma cosa sono davvero? Soltanto l’ennesimo stereotipo da dare in pasto alla folla. Lo svago della gente comune, che non vede in me un altro se stesso, ma un vincente, qualcuno che è riuscito ad andare in culo al mondo. Per questo ho bisogno di stare solo, per ricordare a me stesso che è il mondo che cambia, non le persone. Ho comprato un antico orologio a pendolo il cui ticchettio mi incanta. Mi serve per sentire il tempo che scorre in piccoli movimenti di lancetta. Sul comodino ho due portafoto, uno è per Sheila, l’altro è per Simon, mio figlio. Questo mi serve a ricordare chi mi sta aspettando. Il tempo e la famiglia sono le uniche cose che voglio con me, in quei momenti, forse mi illude di avere il controllo su entrambi, forse. Stare da solo mi aiuta anche a rispondere a domande difficili, a sfogliare il buio del mio passato, e ad andare avanti. Ma non è tutto qui.


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Quel che resta del buio sono i sette anni di mio figlio, gli anni più felici della mia vita. Simon nacque il 31 dicembre del 1990. La prima immagine che ho di lui è in braccio alla madre, spossata e provata ma infinitamente serena. Ricordo tutto come fosse ieri. Entrai trepidante nella camera d’ospedale, le tende erano tutte aperte e una limpida luce proveniva dall’esterno. Sul letto Sheila era la più bella creatura che avessi mai visto, semisdraiata con i capelli un po’ arruffati. Sembrava un angelo da proteggere e da amare per l’eternità. Mi sorrise mostrandomi il fagottino che teneva in braccio. Mio figlio. Era avvolto in candide coperte di seta e teneva i pugni rannicchiati sul petto. La prima cosa che pensai fu che era piccolissimo, poi, immediatamente mi si strinse il cuore, perché per la prima volta non stavo vedendo un bambino, ma il mio bambino. Mi avvicinai tremante e risposi al sorriso di Sheila. Lei allungò le braccia porgendomi il neonato e io provai un irrazionale timore, la paura che gli avrei fatto male, che per sbaglio mi sarebbe caduto. Lo presi pensando che quella era la cosa più preziosa che avessi mai sfiorato, che avrei mai tenuto tra le mani anche se avessi vissuto mille anni, e lui, quasi ne avesse coscienza, dischiuse i piccoli occhi per un istante e mi guardò. Non so descrivere a parole cosa ci sia stato in quello sguardo, ma so che se ne fossi capace creerei un’opera d’arte assoluta. Tenendolo in braccio mi sedetti accanto a Sheila e la guardai. Davvero sembrava che fosse tutto perfetto, perfetto e compiuto. Mi chiesi quanto amore potesse stare dentro una persona perché in quel momento mi sentivo traboccare. Una purezza che tutte le avversità di questa terra non avrebbero mai abbruttito. Sette anni passarono in un soffio di vento. Sette anni di successi editoriali durante i quali Simon crebbe, divenendo un bellissimo bambino biondo con gli occhi verdi. Sette anni di felicità per me e Sheila. Ma nei miei momenti di solitudine, quando il mondo restava fuori dalla


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porta e ascoltavo i miei silenzi, mi sembrava una gioia esagerata, quasi inopportuna. Come un pasto regale di cui qualcuno ci avrebbe presto portato il conto. Questa è sempre stata la mia paura più grande, il terrore di perdere tutto ciò che ho. Guido piano nel traffico cittadino. Nonostante l’ora le strade sono già gremite, il frastuono mi aiuta a non pensare. Uscito dallo svincolo percorro una fila di campi simmetrici dove pochi animali bivaccano tranquilli. I miei unici compagni di viaggio sono stormi di cornacchie che vanno verso sud: un’immagine che ho sempre trovato inquietante. Tempo fa avevo provato a scrivere un racconto sulla vita contadina, ma rischiai il famoso passo falso. Ricordo ancora l’editore sbraitare che, da uno come me, la gente si aspetta thriller sanguinari e pieni di tensione. Ovviai al problema inserendo un serial killer che si vestiva da spaventapasseri. Presto la piatta campagna lascia spazio a tenui collinette verdi con sporadici cespugli. Sento l’inconfondibile odore di casa riempirmi le narici. Dopo due svincoli imbocco un vialetto alberato con davanti due iniziali dorate: S.R. , Solo e Ryan. Le ho sempre trovate un po’ pacchiane ma a Sheila ricordano quelle della sua vecchia casa. Alla fine del viale si staglia la villa del grande Dan Solo. Ho venduto anni fa il vecchio appartamento e, con i soldi del libro, abbiamo comprato questa villetta appena fuori città. Sheila ha sempre sognato di vivere in campagna mentre io mi sento più un animale cittadino, ma ho pensato che l’aria salubre fosse l’ideale per far crescere Simon. È una vecchia cascina che abbiamo rimesso un pezzo alla volta, facendo sacrifici quando i soldi non erano sufficienti; l’abbiamo circondata di un piccolo bosco di pini e giovani querce. È rimasta ancora la vecchia scuderia che ho trasformato nel mio studio privato, un confortevole ambiente a due piani con caminetto. Non appena spengo il motore si apre la porta di casa e appare Sheila con un buffo panno rigirato sulla testa. “Amore”, le sorrido, “se dico che quel coso non ti sta bene mi gioco il bacio del benvenuto?”


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Mi salta al collo baciandomi sulla bocca, la stringo forte e mi gusto il dolce sapore del ritorno. “Senti il mio Mister Bestseller!” Mi schernisce aggrottando le ciglia. “Siamo in vena di battute fin dal mattino?” La bacio nuovamente e sento crescere una certa voglia. Manco da casa da troppo tempo. “Simon è a scuola vero?” Le chiedo. Sheila mi guarda strizzando gli occhi. “Per ancora tre ore!” Scandisce le ultime lettere parlandomi sensualmente nell’orecchio. “Bene.” La prendo in braccio facendole scappare una risatina. “Le faremo bastare!” Mentre entro in casa ripenso al terrore provato poche ore prima. Al senso di paranoia che quella voce mi aveva istillato. Ma qui sono a casa mia, il benessere mi infonde nuova linfa. “Non ho niente da temere” ripeto mentalmente. “Niente da temere.”


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Capitolo 13 Famiglia

In un vecchio racconto scrissi che l’orgasmo era come un intero oceano che viene risucchiato dalla bocca di un imbuto. Questo oceano è adesso battuto da freschi venti che mi portano il suo odore. La fragranza di giglio mi pervade le narici mentre vedo il suo corpo muoversi su di me. Si staglia come una nera silouette contro il vano della finestra. Le stringo i fianchi sfiorando la soffice pelle. I suoi capelli si agitano nell’aria come fili invisibili, quasi onde di un mare solitario, il nostro fluido movimento ci culla dolcemente. Appena il fragore del piacere raggiunge il suo culmine esplode in una forte corrente che ci spazza via. Quando si stacca da me e si sdraia sulle umide coperte mi sembra la donna più bella del mondo. “Una metafora davvero azzeccata.” Penso carezzandola piano. Fuori dalla finestra scure nuvole si ammassano nel cielo, l’inverno torna a farsi sentire. “Amore sei sveglia?” Sheila mugola sorniona rigirandosi tra le coperte, so che vorrebbe solo coccole adesso. “Senti, dobbiamo parlare.” Apre un occhio squadrandomi attenta. Talvolta tendo a dimenticare i suoi innati campanelli d’allarme, è sempre stata più furba di me. “Da uno a dieci?” Chiede. Sorrido divertito. “Da uno a dieci cosa?” “Quanto è importante questa cosa? Da uno a dieci?” Continuo a carezzarle la schiena nuda, so che lo adora. “Temo si vada sulla doppia cifra amore.”


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Il suo corpo si stiracchia alzandosi a sedere, i piccoli seni sono coperti dai lunghi capelli. Ormai devo andare fino in fondo. “Che succede Dan, c’è qualcosa che devo sapere?” “Forse si, e forse avrei dovuto parlartene prima, ma ora è successa una cosa che…” Sono interrotto dal clacson dello scuolabus, Simon sta arrivando a casa. Sorrido debolmente e le prendo le mani nelle mie. “Senti ne parliamo dopo ok?” “Ma …” “Davvero amore, non è nulla di tremendo, solo… voglio salutare Simon.” Sheila non è stupida, non lo è mai stata, ma sa che c’è un tempo per ogni cosa. E soprattutto sa che non vedo mio figlio da due settimane. “Va bene furbetto, ma questa la continuiamo!” Le bacio la fronte sussurrandole che la amo. Mi rivesto velocemente e scendo giù. Talvolta guardando mio figlio cerco di immaginarmi com’ero io alla sua età, se gli somiglio in qualcosa. Il modo in cui si muove, in cui parla, il modo in cui mi salta al collo gridando il mio nome. Lo stringo forte roteando su me stesso, le sue risa mi riempiono di gioia; dietro di noi Sheila ci osserva appoggiata al muro. È questo che hai sempre sognato amore mio? Sorseggia piano una tazza di latte e sorride ai suoi due uomini. Nella vecchia soffitta di casa tua quando da piccola giocavi con le bambole “Mamma vieni anche tu a fare il girotondo”, le grida Simon. Pensavi che fosse così avere una famiglia? Ci abbracciamo tutti e tre mentre il piccolo ride, Sheila si lascia andare e capitombola sul divano mentre noi due la guardiamo ironici. Ma dov’è il limite amore mio? L’aiuto a rialzarsi schernendola sotto lo sguardo eccitato di Simon, lei mi colpisce ridendo e ricadiamo abbracciati sul divano, un attimo dopo Simon ci salta sopra eccitato dalla situazione. Dov’è il limite tra sogno e realtà? “Forza nanetto, che ne dici di due tiri a pallone?”


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“Sii!” Grida lui prendendomi per la mano e trascinandomi fuori. Mi volto un attimo verso Sheila sorridendole, lei fa altrettanto, ma l’ombra di dubbio nei suoi occhi mi ricorda ciò che devo fare, ciò che dovrò presto confessare. E il risveglio, amore mio, può essere tanto, tanto brusco. All’ombra dei pini lancio il pallone più in alto che posso. Simon lo osserva a bocca aperta mentre diventa un pallino sempre più piccolo nel cielo, poi, dopo essere ricaduto a terra, lo calcia mandandolo ancora più lontano. Non so se ha preso più da me o da Sheila, ma tutte quell'energia io alla sua età me la sognavo! Mentre si avvicina con la palla tra i piedi mi coglie una sottile vena di inquietudine. Non penso che Rasputin possa essere una minaccia concreta, dove vuoi che vadano un paralitico e uno schizzato in pieno giorno? Ma stavolta realizzo di non essere più solo, non devo pensare esclusivamente alla mia sicurezza, ma… “Babbo, para questa cannonata.” La palla parte come un fulmine colpendomi in pieno volto. Ok, ero distratto, ma chi gliela dà tutta quella forza? “Hey nanetto, vuoi vincere o uccidermi?” Gli sorrido un po’ stordito. Simon ride ancora saltandomi addosso e cingendomi in vita. “Me l’hai portato un regalo?” Sapevo di essermi dimenticato qualcosa, sono settimane che mi chiede un regalo, e sono settimane che glielo prometto invano. “Tesoro”, lo alzo di peso, “se ti dicessi che l’ho dimenticato in ufficio?” “Cattivooo”, ulula scalciando furioso. “Dai amore, senti cosa ti propongo.” Si calma un attimo fissandomi circospetto. “Domani è sabato e non hai scuola, andiamo insieme a prendere qualcosa, che ne dici?” Il suo sorriso mi conferma che pace è fatta. “E ora andiamo a tavola, non so tu ma io mangerei un elefante.” “E io due elefanti.” Dice serio mentre mi zampetta di lato. “Ah si? E io un elefante e una balena!”


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“Io due elefanti e cinque balene!!” “Ok, allora finché non li hai finiti non ti alzi da tavola!” Simon digrigna i denti facendomi la linguaccia e correndo in casa. Stavolta ci sono loro, penso, c’è in gioco molto di più che una stupida vendetta. A tavola si instaura un complesso gioco di sguardi. Io osservo affettuosamente Simon che guarda Sheila raccontandole del mio regalo, la quale sorride e mi lancia occhiate esaustive. Le metto una mano sulle gambe sussurrandole di stare tranquilla. “Dipende solo da te Dan.” Taglia corto con distacco. Simon non smette più di parlare, ho scoperto che questa sua caratteristica può essere una vera maledizione. “Sai babbo che oggi a scuola ci hanno spiegato che un tempo Roma era la città più forte del mondo? E che conquistava tutti i popoli contro cui combatteva?” Gli sorrido fingendomi interessato, Sheila fa altrettanto. “Poi i maestri hanno brontolato Fray perché stava troppo tempo in bagno e all’ora di ginnastica ho fatto tre goal.” “Che bravo il nostro ometto”, tenta di calmarlo Sheila. “Ora che ne dici di finire quello che hai nel piatto?” “E poi a ricreazione abbiamo disegnato una cosa sulla lavagna che ha fatto arrabbiare la maestra.” Alzo gli occhi al cielo paziente. “Che cos’era amore?” Simon ridacchia guardandoci con furbizia. “La cosa che hanno i ragazzi tra le gambe…” “Simon!!!!” Sheila gli lancia un’occhiata severa, ma ormai il piccolo è in dirittura d’arrivo. “… un grosso cazzo…” Soffoco una risata con il fazzoletto mentre Sheila fredda pure me. Poi si rivolge a Simon. “Chi te l’ha insegnata quella brutta parola?” Cerco di rientrare nella parte del buon padre. “La mamma ha ragione nanetto, quella è una parola che non va detta.” Simon ci guarda con la sua migliore espressione da stronzetto.


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“Me l’ha insegnata il signore pigrone.” Continuo a sorridere e do una pacca a Sheila. “Su amore, alla sua età conoscevo un vocabolario molto più colorito.” “Me l’immagino.” La sua espressione non si addolcisce. “Ma mio figlio non diventerà un maschio sboccato come tutti gli altri.” “Sono certo di no, ma non facciamogli troppe pressioni ok?” “COME VUOI.” Conclude lei visibilmente offesa. Dimentico sempre che l’educazione del piccolo è uno degli argomenti tabù! Mentre riprendiamo a mangiare ripenso casualmente alle ultime parole di Simon. “Quale dei tuoi amici sarebbe il pigrone?” Gli chiedo. “Credo che farò una bella chiacchierata con suo padre.” E guardo Sheila sperando di essere un po’ tornato nelle sue grazie. Lei mi squadra facendo una smorfia altezzosa, ma sento che non è più offesa. Torno a fissare Simon e scopro che è diventato improvvisamente silenzioso. “Bé?” Lo apostrofo. “Scherzavo nanetto, cosa vuoi che dica a suo padre?! Stai tranquillo!” Simon mi osserva e poi abbassa lo sguardo. “Il signore pigrone non è mio amico.” Sheila tenta di cambiare discorso. “Su amore, finisci quello che…” “Mi fa paura.” Normalmente non avrei dato peso a quelle parole, ma stavolta Simon sembra davvero colpito. “Piccolo…” Mi avvicino chinandomi accanto a lui. “Chi è il signore pigrone?” Sheila osserva la scena con indifferenza, si alza e inizia a sparecchiare. “Dan se dovessi stare dietro a tutti i bambini con cui litiga ogni giorno…” La ignoro continuando a fissarlo, lui tenta di sorridere, poi si alza e mi fa cenno di seguirlo. “Perfetto.”


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Esclama Sheila. “Si sta creando il club degli uomini con i vostri segreti!” Le schiocco un bacio seguendo il piccolo su per le scale. C’è qualcosa che mi frulla in testa, una specie di analogia che continua a sfuggirmi. Entriamo in camera di Simon, lui inizia a rovistare tra i disegni fino a tirarne fuori uno in particolare. Me lo porge e improvvisamente la terra mi manca da sotto i piedi. Sul foglio bianco, schizzato sommariamente ma ben riconoscibile, c’è un uomo su una sedia a rotelle. Il signore pigrone… Ha dei lunghi capelli neri tratteggiati col pennarello. Alle spalle un’altra figura, alta e magra, della quale risaltano gli occhi: occhi grandi tanto da sembrare sgranati. Le mani mi iniziano a tremare. Torno a fissare Simon, la sua espressione non lascia adito a molti dubbi. “Mi viene sempre a trovare durante la ricreazione, al cancello, mi fa paura.” Inizio a respirare affannosamente e sento le ginocchia che si sciolgono. C’è molto di più in gioco stavolta Afferro Simon per un braccio, forse con troppa foga. “Che ti ha detto?” Chiedo con un filo di voce. Quello si divincola spaventato, vedo che ha gli occhi pieni di lacrime. “Che sono tuoi vecchi amici…” Balbetta, spaventato dal mio evidente panico. “Che presto ti verranno a trovare…” Con lo sguardo lo incoraggio ad andare avanti. “E che ti staccheranno il cazzo a morsi.”


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Capitolo 14 Latte versato

“Insomma, cosa diavolo sta succedendo?” Sheila è piantata davanti a me con le mani sui fianchi. Il suo sguardo è severo, non lascia adito a repliche, c’è qualcosa che le sfugge e vuole sapere cosa. “Prima mi dici che c’è una cosa di cui parlare, poi a tavola ti rabbui per un’allusione del piccolo, vai su con lui e scendi dieci minuti dopo bianco in volto.” Simon è rimasto in camera sua. Gli ho chiesto di fare una lista dei regali che domani avrebbe voluto ricevere. “Mister Solo, forse è ora che facciamo una bella chiacchierata!” Prendo dal frigo una lattina di birra e mi siedo sul divano. “Vieni qui.” Le dico debolmente. “C’è qualcosa che non ti ho mai detto, una cosa successa sette anni fa. Ricordi il sanatorio?” Sheila annuisce con i nervi a fior di pelle, non ha mai sopportato di essere l’ultima a sapere le cose, e non prenderà bene ciò che sto per dirle. “Bé, la notte che dormimmo in quella pensione, io sono tornato là.” “Cioè?” Balbetta lei. “Mentre tu eri addormentata io sono tornato al sanatorio.” Sheila è confusa, un brivido di inquietudine l’attraversa. “La mattina dopo ti parlai di un’improvvisa ispirazione per una storia, ricordi?” “Si, è da lì che nacque Scritte sul muro, sbaglio?” Scuoto la testa depresso, mi faccio forza e continuo. “Non c’è stata nessuna ispirazione amore, nessun guizzo di genio, quel racconto non è mio.” “Io… non credo di capire… che stai cercando di dirmi?”


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“Che Scritte sul muro è di Rasputin. Io l’ho soltanto preso dalla sua cella quella notte e pubblicato a mio nome.” Gli occhi di Sheila si spalancano e assume un’espressione incredula. “È uno scherzo Dan? Perché se è cosi non sono assolutamente in vena.” Tento di stringerle le mani ma lei le tira via. Sospiro. “È la verità piccola, è passato cosi tanto tempo che anche a me ormai…” “ANCHE A TE COSA??” Esplode furiosa. “Dan, TI RENDI CONTO? HAI COMMESSO UN ATTO ILLEGALE, È UN REATO.” “No. Legalmente non è proprio cosi.” Cerco di calmarla facendole cenno che Simon potrebbe sentirci. “Su quel racconto non c’era copyright, e l’autore, oltre ad essere chi sai tu, era praticamente morto.” Lo sguardo di Sheila non mi concede alcuna attenuante. “Io… pensavo che mio marito fosse una persona onesta.” “Io sono onesto, Cristo Sheila! Dopo tutto quello che ha fatto lui, era il minimo che potessi…” “NON DIRE CAZZATE!” Mi interrompe. “Tu sei Dan Solo, lo scrittore rivelazione degli ultimi anni, ti rendi conto che questa è tutta una bugia??? Riesci a capire cosa significhi per me?” Temevo una sua brutta reazione, ma questa le supera tutte. “Amore, calmati, parliamone…” “ZITTO, STAI ZITTO DAN PER L’AMOR DEL CIELO! La cosa più grave è che hai preso in giro anche noi, la tua famiglia, non ho mai saputo la verità.” Due piccole lacrime le rigano le guance. “Ho sempre pensato che tu… che tu fossi davvero un grande scrittore.” Questa l’accuso particolarmente. Sento una fitta alla bocca della stomaco, e so di meritarmela tutta. Sheila inizia a piangere silenziosamente. Rifiuta un mio tentativo di contatto e mi fa cenno di lasciarla un po’sola. Rispetto il suo volere e mi avvicino alla finestra. So che devo dirle ancora la parte peggiore ma forse è meglio che assimili questo. Fuori vedo i pini muoversi al vento, il sole sta già tramontando.


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D’improvviso sento un forte senso di disagio. Se Rasputin è stato a scuola di Simon saprà certamente dove abito. Mi sento braccato. Torno da Sheila e la prendo per le spalle scuotendola. “Senti piccola, poi potrai odiarmi quanto vuoi, te lo giuro, ma devi sapere un’altra cosa.” Mi fissa con disprezzo, non l’ho mai sentita più lontana di così. “Che c’è adesso? Meriteresti che Rasputin ti venisse a cercare e te la facesse pagare…” La mia espressione cela goffamente i miei timori, Sheila si blocca con la bocca ancora aperta. “È morto, vero?” Sussurra con voce rotta. Scuoto la testa guardandola negli occhi. “È vivo Shy. È fuggito e, temo, sia qui vicino.” Si stacca da me con il terrore sul volto, si affloscia sul divano e stringe le mani a pugno. “Che succede Dan? Siamo in pericolo?” Mi volto verso la finestra poi nuovamente su di lei. “Forse si... forse si.” Mentre Sheila tiene lo sguardo nel vuoto mi avvicino alle scale e chiamo forte mio figlio. Simon si affaccia dal piano superiore con aria interrogativa. “Scendi nanetto, vieni qui con noi.” Sento i suoi passi sui gradini. Osservo Sheila e lei risponde allo sguardo. “Ti prego tesoro” le dico piano. “Rimandiamo la questione per adesso, ok?” Apre la bocca per controbattere ma si trattiene, si alza e mi si avvicina. “Cosa è successo al Dan che conoscevo? Dov’è finito?” Mi posa una mano sul petto. I suoi occhi sono tristi, di una malinconia profondissima. Poi corre a prendere in braccio Simon. Rimango in piedi con aria idiota, Sheila ha dato voce a tutti i miei ultimi dubbi. Quanto mi ha davvero influenzato Rasputin? Quanto ha condizionato la mia esistenza? Ho scritto di situazioni simili nei miei racconti, attimi di tensione e paura nell’attesa che l’inevitabile accada, ed eccoci qui, pedine dell’ultimo grande romanzo dello Scrittore.


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Il mio volto si riflette sul vetro della finestra tingendosi di arancio pallido, da est arrivano i primi raggi del tramonto. Sento un’urgenza sconosciuta fino a poco prima, una subitanea presa di coscienza. Dietro di me Sheila e Simon sono abbracciati. Lui guarda sua madre cercando di capire se sia il caso di mettersi a piangere, lei tenta di dissimulare in maniera spiazzante, talmente concreta da incrinare ogni mia certezza. Il silenzio tra noi non è mai stato tanto rumoroso, tanto nervosamente scarno. Mi avvicino alla cornetta e digito lentamente il 113. Quando riaggancio la mia piccola famiglia è ancora lì, alle mie spalle. “Mandano una pattuglia per stanotte.” Dico quasi sussurrando. “Ho detto di aver ricevuto telefonate di minaccia.” Simon mi fissa dubbioso ma non spaventato, so che per lui è tutto un gioco. “Che c’è babbo? Viene la polizia con le sirene?” I suoi occhi brillano, contrastati dallo sguardo cupo di Sheila. Mi sento il più inutile e idiota capofamiglia della terra. Prendo Simon in braccio sorridendo. “Vieni piccolo, facciamo due chiacchiere.” Sheila annuisce e torna in cucina per tenersi occupata. Accendo le luci della veranda e usciamo mescolandoci alle prime ombre serali. La campagna intorno a noi è calma, mossa da una delicata brezza fresca. Guardo i campi che circondano la casa, la maggior parte è coperta da vegetazione bassa, per lo più erbacce, sul lato ovest c’è un piccolo vigneto, curato da un contadino della zona; il posto ideale per nascondersi, penso rabbrividendo. Simon raccoglie il pallone da terra e lo lancia contro la parete della casa. È un piccolo campione rispetto a me, ma del resto alla sua età io ero peggiore di lui in cento altre cose. Mi siedo sullo sdraio accanto alla porta facendogli cenno di avvicinarsi. “Simon, cosa pensi di me?” È una domanda a bruciapelo, insostenibile per un adulto, ma lui, forte dei suoi sette anni, non ha la minima esitazione. “Sei il miglior papà del mondo!”


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Sorrido rinfrancato e un rossore mi pervade le guance. Me lo merito davvero? Penso all’idea che un tempo avevo della famiglia: un padre sicuro di sé che è di modello per il figlio, e invece eccomi qui, a cercar conferme dai suoi sette anni. “Babbo perché la mamma è triste?” La sua ingenua franchezza è disarmante, e ancora, me lo merito di certo! “Vedi nanetto, non è sempre facile fare le scelte giuste…” Simon aggrotta le ciglia. Ok, al diavolo l’eloquenza! “Sono stato un idiota.” “Babbo! Hai detto una parolaccia!!” I suoi occhi stupiti mi strappano un sorriso. “Talvolta piccolo sono le uniche parole da usare.” Gli lancio il pallone più alto che posso e lui gli corre dietro ridendo. Davanti a me il viale è tenuemente illuminato da pochi lampioni, il cancello d’ingresso luccica in lontananza, tutto mi sembra insufficiente. Tranquillo, mi ripeto, devo stare tranquillo. Non c’è niente da temere e per di più ho chiamato un sorvegliante. Sheila appare nello specchio della porta, il suo volto è pallido e stanco. Guarda con apprensione in direzione di Simon, poi si volta verso di me. “Dan, corriamo davvero qualche pericolo?” “Shy, non preoccupiamoci troppo, è solo una precauzione, domani cercheremo di risolvere la questione.” Sto cercando di convincere lei o me stesso? “Sei un bugiardo”, sussurra con lo sguardo a terra, “… un truffatore, un…” Le stringo le spalle costringendola a guardarmi. “So di non essere il dio che tutti hanno creduto in questi anni, ma noi due, Simon, la nostra famiglia, tutte queste non sono menzogne! Ti prego Shy, dimmi che lo sai…” Lei avvicina la bocca alla mia, poi la evita accostandosi all’orecchio. “Odio quando mi chiami Shy!” L’abbraccio forte ed è come se un fragile scudo cercasse invano di proteggerci. Non sarà molto, ma è un inizio.


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Capitolo 15 La faccia chiara della luna

Da piccola Sheila trascorreva ore intere a guardare le stelle. La sua casa era una piccola villetta a schiera dal tetto basso, una grande finestra le consentiva l’accesso su di esso, e lei stava sdraiata ad osservare quell’incredibile ricamo che la copriva. Talvolta suo padre si sdraiava accanto a lei, per lo più dopo che avevano litigato; senza dire nulla stavano lì, in religiosa attesa. Era il loro modo per fare la pace. Dopo un po’ lui faceva scivolare una mano nella sua e la stringeva. Sheila rispondeva alla stretta e, sempre in silenzio, tornavano in casa. Altre volte si sdraiava sul tetto solo per pensare. Magari al ragazzo che aveva conosciuto quel pomeriggio, o al compito che il giorno dopo l’avrebbe attesa. A tutto e a niente, come spesso succede a quell’età. Pensava guardando le stelle. Le contava mentalmente e quando gli occhi le si riempivano di veli non ricordava quasi mai dove era arrivata, allora sbadigliava e le salutava con la mano. Una volta pensò alla famiglia che avrebbe avuto un giorno. Si immaginò il volto di suo figlio, era convinta che avrebbe avuto un maschio, e quello di suo marito. Sorrise un po’ emozionata figurandosi la casa in cui avrebbero vissuto, magari un piccolo appartamento in centro, o una casa appena fuori città, un cane, anzi due. Poi si rese conto che tutti questi erano dettagli. Una sola cosa le premeva: voleva essere felice. Guardò la luna alta nel cielo, metà era ben visibile e luccicava poderosa. La pregò di illuminare la sua famiglia, nella gioia e nel dolore, nella felicità e nelle avversità…


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I fari della macchina mi abbagliano. Con le mani davanti agli occhi mi avvicino al finestrino e cerco di vedere qualcosa all'interno. Esce il volto affabile di un opulento agente baffuto, che sceso dalla vettura mi saluta con una stretta di mano. Sorrido tentando di scacciare il senso di inquietudine che ormai ha preso dimora in me. “Spero di averla fatta venire per niente, non glielo nego.” Il poliziotto allarga la bocca in una piccola risata. “Signor Solo, per me è un onore poter aiutare una celebrità come lei.” Un po’ imbarazzato tento di sviare quel discorso. Cazzo, non adesso. “Capisce, sono un suo fan! Ho tutte le edizioni di lusso dei suoi romanzi. Quando mi hanno detto che aveva richiesto un agente mi sono fatto subito avanti!” Continuo a sorridere biascicando un ringraziamento. Se questo è il prezzo per la mia sicurezza lo pago volentieri. “Ma il migliore di tutti resta sempre quello!” E mi indica un libro sgualcito sul sedile della volante. Il titolo sulla copertina è inequivocabile. Le sinistre “scritte sul muro” mi ricordano ancora una volta da dove provengo. “Mi dica cosa la spaventa.” Gli parlo di alcune telefonate minatorie degli ultimi giorni e di strani accenni a questa notte; è più una precauzione, concludo, ma la trovavo necessaria. Il grasso agente mi fa cenno di non preoccuparmi. “Vada pure a letto tranquillo! Pattuglierò il recinto dentro e fuori, non passerà neppure una mosca!” Riesco a staccarmi da lui solo dopo avergli autografato il libro. Prendendolo in mano sento una piccola scossa, quasi un brivido d’elettricità. Mentre torno verso casa il cuore inizia a rallentare i suoi battiti, respiro profondamente e lancio un’ultima occhiata al giardino. Vedo l’agente camminare lentamente con la torcia in mano, anche la vigna dietro la casa non mi sembra più un problema. Su nel cielo una mezzaluna scintillante occhieggia le faccende di noi mortali, come un occhio superiore, neutro e amorale. Quando varco la soglia accade qualcosa che mi fa irrigidire. Una goccia di sudore freddo mi scende dalla tempia, dentro di me la sento. È come una bassa nenia cantilenante, la Voce è tornata a farmi compagnia.


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Dapprima cerco di convincermi che non sia così, di stare immaginando tutto, ma è inutile. Lei è lì, nascosta dietro qualche grumo gelatinoso di cervello, attende paziente, tranquilla, e canta… C’è un piccolo sentiero nel bosco, in disuso e mal illuminato, ti va di venirci con me? Attraversa un campo di grano, un campo rosso sangue, ti va di venirci con me? Arriviamo insieme, mano nella mano, a quella grande casa, lì tutto è di carta, carta liscia pronta per l’uso ti va di venirci con me? Mi prendo la testa tra le mani e la stringo. La nenia non accenna a diminuire, anzi, aumenta d’intensità. Conosco chi ci abita, la piccola donna di carta, scriviamoci sopra, vuoi? Lei è tanto gentile, grida sempre in silenzio, ti va di venirci con me? Mi chiudo la porta alle spalle con una spinta. Sheila chiama il mio nome dal piano superiore, ma non riesco a risponderle, la sento lontana, fredda, come la voce di… una donna di carta. Mi lascio scappare un gemito e cado a terra, sento dei passi veloci che scendono le scale. Scriviamoci sopra, vuoi? Io l’ho fatto tante volte, ci scriverò del mio amore per lei, dell’infinito amore per lei, babbo e mamma. Ti va di venirci con me?


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Intorno a me si erge un muro nero pece che sembra invalicabile. Non voglio più sentirla, ti prego Dio, non voglio più cantarla… Apro gli occhi di scatto. Intorno a me è effettivamente buio. Non ho idea di quanto tempo sia trascorso. Dalla finestra che ho accanto deduco di essere sul mio letto; d’improvviso un’ombra… “Dan! Ti sei ripreso??” La voce affannata di Sheila è seguita dal fascio di luce della lampada sul comodino. Lei è seduta accanto e mi carezza la fronte, leggo nei suoi occhi una grande paura. “Amore”, biascico, “cosa è successo?” “Ti ho trovato a terra in salotto, sembravi svenuto…” Una lacrima le riga la guancia, sta tremando vistosamente, Cristo Dan, sii uomo! L’abbraccio sussurrandole di stare tranquilla. “Non è niente piccola, solo uno svenimento, forse per la tensione della giornata.” Sheila singhiozza piano e risponde alla stretta baciandomi più volte. “Oh Dan, non sai quanto ero preoccupata, mi hai fatto prendere un colpo, brutto idiota!” Ridiamo nervosamente abbracciati. Le schiocco un ultimo bacio sul naso e mi guardo intorno. “Quanto tempo è passato?” “Un’ora. Meno male che Simon era già a letto, non avrei saputo tranquillizzarlo da sola.” “E la guardia?” Sheila annuisce in direzione della finestra. “Se ti affacci la vedi. Non ha mai smesso di girare da quando è arrivata, davvero un bel servizio.” E tira su col naso sorridendo. Mi alzo saggiando le mie condizioni. Mi sembra di ricordare tutto, anche ciò di cui mi dimenticherei volentieri; rimango un attimo in silenzio e dentro tutto tace, forse è stato davvero un attimo di stanchezza. Mi rivolgo verso Sheila dolcemente. “Amore, cerca di dormire un po’, siamo tutti troppo stanchi.” Lei sbadiglia tentando vanamente di dissentire. “Non è un consiglio piccola, è un ordine!”


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“E tu?” Mi stiracchio stringendo i pugni. “Vado a sentire se l’agente vuole un caffé, poi ti raggiungo. Riposa adesso.” La bacio delicatamente sulla bocca, il suo dolce aroma mi pervade. Questa è la mia famiglia, penso, nessuno stronzo può minacciarla. Prima di scendere socchiudo la porta di Simon. Vedo la sua testolina sbucare dal grumo delle coperte. “Dormi bene piccolo” sussurro. In cucina scorro distrattamente i cassetti in cerca del caffé. Apro il barattolo e inizio a prepararlo quando con la coda dell’occhio guardo fuori. Dalla finestra vedo il raggio della torcia ondulare lentamente. Batto sul vetro a mo’ di saluto e il nucleo luminoso si muove su e giù in risposta. L’agente è una massa scura di cui vedo a malapena i contorni. La casa è immersa nel silenzio più totale, intorno a noi una muta campagna vive nei suoi piccoli abitanti notturni. Una civetta in lontananza rivendica la sua presenza. Senza rendermene conto mi trovo a pensare a Rasputin. Lo immagino come un uomo di mezz'età su una scalcinata sedia a rotelle, trafugata chissà dove, con alle spalle quel relitto umano del signor P. A pensarci bene li vedo per quello che sono, che devono essere: due residui di un passato che pensavo morto e sepolto. E non prendiamoci in giro, caro Dan, se questo passato torna insistente è anche colpa tua… Osservo le piccole targhe sul sofà del salotto: tra loro spicca “Scritte sul muro”, il mio più grande successo, il capolavoro di Rasputin. Cosa devo fare a questo punto? Confessare tutto e perdere ciò che ho? Affrontare una denuncia e rinunciare alla carriera, al benessere che come famiglia abbiamo conosciuto? Forse questo è ciò che vorrebbe Sheila, è sempre stata un’idealista, ma per Simon? Cosa è meglio per lui? Vivere da ricco in una mezza bugia o arrabattarsi in un’amara verità? Poi c’è la voce. La nenia. Cerco di non pensarci ma quella bizzarra canzoncina la conosco già, è


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qualcosa che risale alla mia infanzia, un motivo che ho già sentito, ma dove l’ho cantata? Quando? Ti va di venirci con me? Con chi? Forse non è importante ma è un tarlo che mi rode dentro, un nuovo dannato mistero da risolvere. Sistemo la macchina del caffé accendendo piano il fornello. Mi affaccio di nuovo alla finestra ma la luce della torcia sta scomparendo dietro la casa. Tra poco andrò a chiamarlo. La luna nel cielo non è più il disco lucente di prima, un velo pallido di nubi ne offusca i contorni rendendola impalpabile. Linee purpuree ne sfaldano la superficie come vene gonfie, e non c’è poesia che tenga. È una luna di sangue.


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Capitolo 16 La faccia scura della luna

Quando Sheila rientrava in casa non andava subito a letto. Nella sua soffitta c’era un grosso cassone, residuo di una guerra combattuta chissà dove, dentro c’era un’intera collezione di bambole di stoffa. Le tirava fuori e ci giocava in silenzio insieme ai piccoli abitanti di quel luogo. Immaginava di essere adulta… Mi infilo una giacca leggera ed esco all’aperto. Si è alzata una fredda brezza, il mio orologio segna le due, ho l'impressione che questa sarà una notte molto lunga. Fuori non trovo alcuna traccia dell’agente. Lo chiamo più volte ma in risposta c’è solo il lontano canto della civetta. Deduco che sia dietro la casa. Mi stringo il colletto della giacca e comincio a percorrere il perimetro. Sheila non era una stupida, sapeva bene come vanno le cose nel mondo degli adulti. Osservando i suoi genitori aveva capito molto: spesso l’affetto non è sufficiente per stare bene. Che spesso si fa del male a chi si dovrebbe proteggere. Aveva imparato la lezione più difficile, spesso l’amore non dura per sempre. Per questo, muovendo le sue piccole bambole di pezza, non si immaginava una famiglia. Sognava semplicemente due persone che si vogliono bene, e dal cui amore ne nasce una terza. Chiamo forte il nome dell’agente, ed è ancora il vento a rispondermi.


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Oltrepasso il lato lungo della casa e sbuco davanti alla vigna, i filari ondeggiano spettrali e per un attimo mi sembrano una fila di cadaveri impiccati. Poi lo vedo nuovamente. Il piccolo fascio di luce è al di là della vigna, accanto al perimetro orientale del muro. Ondeggia piano, quasi danzando. Alle sue spalle il buio. Mi affretto a costeggiare il piccolo campo mentre torna a farsi sentire la Voce. Stavolta non sta cantando. Stavolta ride. A ventiquattro anni Sheila conobbe un giovane scrittore squattrinato. La prima volta che lo vide rimase colpita dalla sua camicia sgualcita, lui sorrise imbarazzato e le spiegò che viveva da solo e che quel giorno non ce l’aveva fatta a fare il bucato. Frequentarono insieme il corso di letteratura per un semestre. Spesso si fermavano dopo le lezioni a prendere un caffè e lei adorava sentirlo parlare. raccontava delle storie che avrebbe voluto scrivere, dei libri che avrebbe un giorno pubblicato. Lo trovava un inguaribile sognatore, ma assolutamente affascinante. Il 17 maggio pioveva fortissimo, loro si rifugiarono ridendo in una cabina del telefono. Pochi minuti dopo si stavano baciando ad occhi chiusi. Passo l’ultimo filare e mi immergo nella parte meno illuminata del giardino. La luce è pochi metri davanti a me, chiamo ancora il suo nome, la luce si spegne. Mi fermo un secondo lasciandomi fuggire una risatina nervosa. L’oscurità davanti a me è resa più profonda dalla totale assenza di raggi di luna. La fervida immaginazione che ho sempre avuto disegna in essa bizzarre e sinistre forme, linee spezzate che si abbracciano legandosi. Faccio titubante qualche passo in avanti chiamando ancora l’agente. La risposta è sempre la stessa. Sono ancora indeciso sul da farsi, la luce si riaccende. Non davanti a me.


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Stavolta la torcia ondeggia accanto al muro ad est, sotto l’albero dove poche ore prima giocavo con Simon. Si muove piano, quasi chiamandomi, invogliandomi a seguirla. Sheila non credeva all’amore eterno, il giovane scrittore si. Passavano intere notti a discuterne, talvolta più seriamente, ridendone. “Non ti azzardare a mettermi incinta con quel coso lì” lo scherniva lei. “Chissà Sheila, sai, a scherzare con il fuoco!” E le saltava addosso coprendola di baci. Finivano quasi sempre a fare l’amore, sul pavimento, sul letto, in cucina. In certi momenti la passione che c’era tra di loro era travolgente, più forte di ogni paura. Il cuore torna a battermi forte, l’adrenalina sale velocemente e rende la mia pelle ipersensibile. Se è uno scherzo, penso, se è uno scherzo lo prendo a calci nel culo fino in città. Inizio a correre verso il nuovo bersaglio. La torcia continua a danzare descrivendo cerchi di luce concentrici. Maledico me stesso per non aver dato retta a Sheila: mi ripeteva di mettere un maggior numero di lampioni in giardino, ma io trovavo l'oscurità poetica, romantica, fanculo! La luce inizia lentamente a muoversi, si avvicina al tronco dell’albero scomparendovi dietro. Arrivo a perdifiato afferrando il legno, ci giro intorno e non trovo niente. Le poche stelle in cielo sembrano ridermi in faccia, della luna neanche l’ombra. Grido nuovamente il nome dell’agente, stavolta seguito da un’imprecazione. La torcia allora si accende, ma non dove mi aspettavo. Davanti alla volante parcheggiata al cancello. Sheila seppe il segreto del giovane scrittore la sera del suo venticinquesimo compleanno. Lui pianse tutta la notte tenendola abbracciata. Ora capiva i suoi lunghi momenti di silenzio, le paure infantili, anche la sua profonda immaginazione, talvolta un po’ macabra. Seppe anche un'altra cosa quella sera. Seppe di amarlo.


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E dentro di sé, ma non l’avrebbe mai confessato, decise che, sì, con quel giovane scrittore squattrinato avrebbe potuto anche passare il resto della sua vita. Rimasta sola si affacciò alla finestra,come faceva sempre da bambina. La luna era la stessa che ricordava, una mezza falce di splendore notturno. “È il momento di mantenere la promessa.” Sussurrò piano. La volante occupa il vialetto d’accesso in tutta la sua ampiezza. Il portello del guidatore è aperto e la torcia è lì accanto. Mentre mi avvicino la Voce torna a farsi sadicamente sentire. La sua è una risata bassa, gutturale, profondamente insana. Zitta! Grido dentro me stesso. Sta’ zitta porca puttana! Poi, quasi seguendo un tacito ordine, la torcia si spegne nuovamente. Accelero la mia corsa per non essere giocato ancora una volta. Raggiungo la vettura, adesso completamente buia, e vi guardo dentro. In quel momento un fascio di luce lunare fa capolino dalle nubi e mi mostra finalmente l'agente. Si trova sul sedile anteriore. O meglio, quel che ne resta. Riconosco il suo volto recinto di baffi incolti, ma adesso si mischia ad un carnaio di esplicita chiarezza. La faccia è ridotta ad un grumo gocciolante sangue, i tratti somatici completamente cancellati, gli occhi sono spalancati sul nulla. L’occhio, anzi. L’altro dondola sulla guancia sorretto da un fiero fascio di nervi. La bocca, intuibile attraverso lo scuro grumo scarlatto, è piena di fogli di carta. So cosa sono. Pagine strappate del romanzo che, con grande entusiasmo, si era fatto firmare. Una macchia umida all’altezza dell’inguine completa il quadro. I testicoli gli sono stati strappati con violenza e appesi allo specchietto. Le ginocchia non mi reggono trasformandosi in massa liquida. In preda al panico crollo a terra gemendo. Ecco il terrore più cupo, quello che ho cercato tanto di evocare nei miei racconti.


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Comincio a piangere mentre un calore alla vescica mi avverte che, eroicamente, mi sono pisciato addosso. Ma non c’è tempo per questo, non c’è tempo per nulla. Mi volto verso la casa e una nuova fitta mi coglie allo stomaco. alla porta d’ingresso, nel buio della piccola veranda, si riaccende la torcia. La sua luce dondola aggraziata, teatralmente ritmica. Nella mia testa esplode l'inferno. È questa la vita che sognavi amore mio? È così che ti immaginavi una famiglia? La faccia chiara della luna non si trova mai sola. Ce n’è un’altra, nera, nascosta, sempre in attesa di emergere. Così nell’amore, così nella vita. Così nella morte. A quale hai indirizzato la tua preghiera amore mio? A quale? Sospinto da una furia cieca balzo in piedi e scatto verso la casa. Fendo il buio della notte con ampie falcate, ancora pochi metri e ci sono, pochi metri e ci sono… I miei piedi incontrano un ostacolo imprevisto e capitombolo sul terreno. Con la coda dell’occhio vedo una grossa ombra serrarsi su di me; una fitta lancinante alla nuca mi avverte che sono stato colpito. Alzo faticosamente la testa verso la porta socchiusa, poco avanti a me, la torcia non serve più a nulla. Illuminato dal fascio di luce del salotto, c’è lui. Si muove con passo tremolante, le gambe ancora insicure. I capelli, se possibile, sono più lunghi dell’ultima volta. Un ampio sorriso gli incornicia la faccia. Sopra di me l’ombra scura mi tiene fermo con forza secca, una risata stridula che ho già sentito mi gela il sangue. Rasputin Melee mi osserva a braccia conserte, quasi divertito. “CI RITROVIAMO PICCOLO DAN…” Sento un’atavica paura che esplode in un grido lancinante. Chiamo il nome di mia moglie, le urlo di svegliarsi, di fuggire… Rasputin scuote la testa continuando a sorridere. “TZK TZK…” Un’altra fitta alla nuca, un altro colpo che mi fa mangiare la polvere.


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“SAI DAN, HO SAPUTO CHE MI ERI VENUTO A TROVARE MENTRE DORMIVO.” I miei occhi sono pieni di terra e lacrime, biascico parole senza senso sputando saliva e sangue. “MI PAREVA GIUSTO RENDERTI IL FAVORE, E POI…” Mi osserva penetrante e io scorgo una luce maligna che mi fa dimenare, ma inutilmente. “…HO IN MENTE UN NUOVO RACCONTO.” Tento di gridare ma la mano del signor P. mi tiene premuta la bocca a terra, le lacrime escono copiose. “A TE PIACCIONO I MIEI RACCONTI VERO? CERTO CHE TI PIACCIONO.” Ride sommessamente appoggiandosi allo stipite dell’anta. “E STANOTTE LI FAREMO PIACERE ANCHE ALLA TUA FAMIGLIA.” Per un momento desidero l’oblio, una pietosa incoscienza. Tento ancora di muovermi ma la presa è implacabile, d’acciaio. Il sapore ferroso del sangue mi tiene cosciente. Lo Scrittore si volta piano ed entra in casa chiudendosi la porta alle spalle. Tutto è nuovamente buio, ma stavolta il silenzio è rotto dal sibilo alle mie spalle: ”Bene signor Solo, è ora di giocare un po’ insieme.”

Sheila si sveglia di soprassalto. Dentro di lei ha avvertito che qualcosa non va. Si alza dal letto scalza e rimane in ascolto. La stanza del piccolo motel è illuminata appena dai raggi lunari. Avverte ancora la presenza del sanatorio, quella maledetta costruzione sulla collina. Dan non è accanto a lei, il letto è vuoto. Esce sulla piccola veranda stringendosi nel pigiama azzurro; anche la macchina è assente. Sa bene cosa vuol dire questo momento per Dan, soprattutto capisce che è un momento privato, qualcosa in cui lei non può entrare. Amore è anche sapersi fare da parte, pensa. Amore è anche capire quando si deve stare in silenzio. Saluta piano la luna fredda, lontana centinaia di milioni di chilometri.


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“Dovunque tu sia torna presto da me.” Sussurra carezzandosi il ventre. “… da noi…” Il signor P. è incredibilmente forte oltre che incredibilmente stronzo. Mi colpisce fulmineo sulla nuca senza darmi il tempo di rialzarmi. Ingoio terra mentre una dannata angoscia mi inchioda giù. “Vede signor Solo.” La sua voce è elegante al punto dal far dubitare su chi sia il pazzo. “Non può venirmi a dire che non era stato avvertito.” Riesco a rigirarmi sulla schiena ma me ne pento quasi subito, un poderoso gancio sulla mascella mi rovescia il volto all’indietro. Ho in bocca il pregnante sapore del sangue, i colpi arrivano sempre più veloci e fulminei, agito vanamente le braccia nel buio davanti a me. “Ammetto di aver tradito la sua fiducia spifferando tutto a Rasputin.” Vedo luccicare nell’oscurità le sue lunghissime unghie, mi sta colpendo ma potrebbe facilmente lacerarmi. “Ma del resto, anche lei! Si va a fidare di un povero pazzo!” Ancora la sua schifosa risata che fa crescere un’immensa frustrazione dentro di me. Muovo una gamba colpendolo al ginocchio. Esita un momento solo ma per me è più che sufficiente per issarmi in piedi. Tento di arrivare alla porta della casa. Dai miei occhi escono lacrime di paura, lacrime di dolore e di rabbia. Tremo forte. E in un istante avverto chiaramente le unghie penetrarmi nella schiena. Mentre mi inarco gridando, la mia pelle si lacera come burro e un liquido caldo mi inzuppa la camicia. Crollo in ginocchio tra le risate del mio aguzzino, la paura si mescola ad un dolore mai neppure immaginato. “Il signor Melee non vuole che la uccida, dovrebbe ringraziarlo se respira ancora.” Le parole mi arrivano lontanissime, sto per perdere i sensi. “Del resto siete così simili! Mi ha raccontato tutto di quella notte, chi l’avrebbe mai detto!” Mi volto verso di lui, il buio notturno nasconde il suo ributtante profilo, l’espressione interrogativa nei miei occhi lo fa sorridere. “Bé, lei sa di cosa sto parlando vero?” Rivedo improvvisamente il volto di Sheila. Lei è in casa, e non è sola. Con le ultime forze rimaste scatto in piedi gettandomi sulla veranda, il signor P., colto di sorpresa, ringhia rabbioso avvicinandosi. Muovo le mani nel buio alla ricerca di un oggetto, qualsiasi cosa andrebbe bene.


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Mi è quasi addosso, sento già il suo caldo respiro, non deve finire cosi, non deve… Le mie dita sfiorano il metallo della torcia lasciata da Rasputin, traccio un semicerchio fendendo l’aria intorno a me e colpisco il signor P. sulla testa. Quello barcolla all’indietro. Con furia cieca gli sono addosso colpendolo ancora e ancora, i suoi gemiti mi indicano dove affondare, mi guidano. Al quinto, violento colpo cade a terra tra grotteschi mugolii. Sputo del sangue e con un grido gli sono sopra, lo circondo con le gambe e spacco lo spigolo della torcia contro il suo naso. Avverto chiaramente il metallo cozzare contro la carne, è un suono liberatorio, eccitante, un magico narcotico. Continuo a maciullare la sua cavità nasale, colpisco e colpisco, piangendo, gridando, sbavando. Mi blocco soltanto quando sento il suo sangue schizzarmi sul volto. Rimango immobile, ansimando forte a pieni polmoni. Sto male, di un male mai provato prima. Per la prima volta da anni sto veramente di merda. Il signor P. non si muove. Non vedo il suo volto e forse è meglio cosi, potrei aver voglia di sentire ancora il suo sangue su di me. Mi alzo lentamente e per un attimo penso di non farcela. Alle mie spalle la ferita è un fiume in piena di fresca emoglobina, non sento più il volto né le braccia, ho voglia di vomitare. Ripenso a Sheila e Simon, penso a chi è dentro casa con loro. Ho nuovamente quella voglia, quella smania, un irrefrenabile desiderio di vedere rosso. Apro la porta con un calcio ma crollo miseramente a terra, almeno sono dentro. La casa tace, non il più piccolo rumore. Grido il nome di mia moglie ma il risultato non cambia. Con la forza della disperazione raggiungo le scale trascinandomi come un verme, ma non sono solo. La Voce è nuovamente con me. Come una fata danza nella mia testa, lancia piccole risate maliziose ma soprattutto canta. Gli scalini scompaiono sotto di me, lentamente, troppo lentamente, il silenzio del piano superiore è una tetra minaccia. Dalla bocca mi cola del liquido marrone, sangue, terra e chissà cos’altro; sta andando tutto a puttane, tutto tremendamente a puttane. La porta della nostra camera è socchiusa, quella di Simon spalancata.


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Grido ancora i loro nomi. Le lacrime mi impastano la vista, i miei movimenti sempre più lenti. Arrivo alla porta di Sheila e la spalanco. … e rieccomi qui, un piccolo ragazzo spaesato in un mondo più grande di lui. Un piccolo uomo che apre la porta della camera dei genitori. Solo che loro non ci sono più. O meglio, ci sono, sono lì, abbracciati come sempre la mattina presto, pronti a scambiarsi il bacio del buongiorno, solo che quel bacio non arriverà mai. E poi le scritte. Tante allegre scritte rosse. Vorticosi messaggi che vogliono uscire, parole impresse sulla pelle martoriata. Sheila è sul letto. Mi guarda e sorride. No. Non guarda me. Non guarda più nessuno ormai. Ma sorride. Sorride come sorrideva un tempo. Come in quel giorno. Il giorno che Sheila si sposò pensò di essere la ragazza più bella del mondo. Aveva un lungo abito azzurro, il suo colore preferito, e un merletto fatto a mano da sua nonna. Aveva la primavera negli occhi. Sorrideva sempre, continuamente, come le sue vecchie bambole di pezza. Aveva un bambino dentro. Dopo la cerimonia, in una vecchia chiesa di campagna, si congedò dagli ospiti sdraiandosi all’ombra di un olivo. Lì rimase un’ora con le lacrime agli occhi, lacrime di gioia. Poi la raggiunse il giovane scrittore, la guardò e sorrisero insieme, si abbracciarono e risero per molti minuti.


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“Andrà tutto bene Dan?” Gli chiese emozionata come non mai. “Te lo prometto piccola, sono il più grande scrittore di questo emisfero, no?” Sul collo ha le impronte delle dita di Rasputin. È la fine. La fine di tutto ciò che ho.


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Capitolo 17 L’inizio della fine

Quanto può sanguinare un’anima? Quante lacrime possono uscire dagli occhi? Sono piccolo e solo, abbagliato da quell’incommensurabile grandezza che è la morte. Mi avvicino strisciando a Sheila, i miei movimenti sono meccanici, non penso a niente, non c’è niente cui valga la pena pensare. Sfioro un piede, quello che ciondola dal letto, è ancora caldo. Il suo volto è stranamente sereno, disteso. Se non fosse per le impronte. Una piccola lacrima si è arrestata sull’orlo della pupilla destra. Se non fosse per le impronte delle mani. È un’immagine quasi artistica, cantilena la Voce in me, se non fosse per le impronte delle mani che l’hanno strozzata. Poi, come un’onda che viene da lontano, preceduta da una timida risacca, un grido emerge dalle mie labbra sommergendo la stanza vuota. Nascondo il volto tra i seni scoperti di Sheila, con le mani afferro le coperte stringendole forte. Un gemito mi blocca per un attimo il respiro. Quando alzo la testa vedo il mio sangue sul suo gracile corpo. Digrigno i denti sbavando, e cado all’indietro battendo la schiena sul comodino. Allora inizio a divincolarmi tra il dolore e l’odio, colpisco distrattamente la lampada frantumandola, mi rialzo barcollando, nuovamente Sheila e il silenzio mi circonda come un recinto di follia. Mi colpisco selvaggiamente il volto. Biascico parole che io stesso fatico a riconoscere “… non doveva andare così, non doveva andare così, non doveva andare così….” Un’altra goccia di sangue cade dalle mie labbra finendole sulla guancia. Con la coda dell’occhio avverto una presenza sulla porta, mi volto e vedo Rasputin. Parte della mia mente si rifiuta di crederlo colpevole, e si rifiuta perché


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non può accettare di odiare tanto una persona, si rifiuta per non essere costretta a lobotomizzarsi dall’odio. Ma è lì. Il colpevole è lì. Colui che da sedici anni rende la mia vita un brutto incubo è lì. Anche colui che l’ha resa un successo. Mi sorride amabile. Non è mai stato così facile trovare un pretesto per far del male. Adesso è ciò che voglio, farlo soffrire il più possibile. Poi avviene l’impensabile. Rasputin mi si avvicina piano. Le sue mani, finora nascoste dietro la schiena, vengono alla luce. In una c’è una ciocca di capelli, i capelli di mio figlio, nell’altra c’è una penna. Mi porge entrambe le cose continuando a sorridere. La miccia dentro di me, pronta ad esplodere con inaudita violenza, è spenta dal soffio delle sue parole. “Prendi Dan. È il momento di scrivere.” Lo guardo come si guarderebbe una persona che ti ha confessato un incredibile segreto. Rasputin continua a sorridere. “È il momento di scrivere, di dirle quanto forte la amavi, quanto ti mancherà.” La stanza intorno a me sfuma in un vortice di nebbia e sangue, rimane solo la voce dello Scrittore, nitida e implacabile. “È il momento di farle sapere che sei il più grande scrittore di tutti.” Scorgo il mio profilo nello specchio a muro, al di là del letto, ma… Non sono io Vedo il piccolo Dan che si tiene la testa tra le mani. “Non dirmi che hai dimenticato, piccolo Dan, che hai dimenticato il motivo per cui tu ancora sei.” Il ragazzo a terra, accanto ad una bottiglia di latte rovesciata, e dei fogli, il suo primo stupido romanzo. “Tu ancora sei, perché sei come me.” Vedo la sagoma nera dell’assassino, il disgustoso assassino dei miei genitori. Loro giacciono sul letto immobili, ma c’è qualcosa che non quadra, perché, vedete, sui loro corpi non c’è alcuna scritta rossa. “È il momento di dare una dimostrazione di onnipotenza.” La sua voce continua a risuonare come dentro una campana.


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“PERCHE’ SONO TUTTI BIANCHI FOGLI DI CARNE, E NOI SIAMO SCRITTORI DAN.” Vedo il piccolo Dan tenersi la testa tra le mani. I suoi occhi sono aperti sui corpi morti davanti a sé. Non piange. Non ne è ancora capace. Vedo la sagoma nera alzare l’oggetto che luccica nel buio, un’elegante stilo dorata. Ma non la cala sui corpi morti, la porge al giovane ragazzo. “COME HAI GIA' FATTO IN PASSATO, COSI’ OGGI, SCRIVI DAN. SCRIVI IL TUO RACCONTO.” Osservo impotente la scena che accade davanti ai miei occhi, un ricordo represso da una fragile mente. Vedo il ragazzo prendere la stilo e, tremante, guardare la sagoma scura. Non capisce, ha paura e non capisce. È tutta una follia, pensa, di quelle che accadono nei film. La sagoma scura sorride, poi, nel surreale silenzio della stanza, canta. C’è un piccolo sentiero nel bosco, in disuso e mal illuminato, attraversa un campo di grano, un campo rosso sangue, arriviamo insieme a quella grande casa, lì tutto è di carta, carta liscia, pronta per l’uso. Conosco chi ci abita, la piccola donna di carta, lei è tanto gentile. Scriviamoci sopra, vuoi? Grida sempre in silenzio. Il piccolo Dan inizia a tremare mentre osserva gli occhi dell’assassino, la sua stretta sulla stilo si rafforza. La mente vuota è l’unica difesa che i suoi sette anni sanno creare. Un luogo dell’assenza. Solo questo riesce a smorzare un fiotto di incontenibile paura. Io l’ho già fatto tante volte. Ci scriverò del mio amore per lei, del mio infinito amore per lei… Le labbra gli si inarcano leggermente. Adesso è tutto chiaro, non è questo scrivere? Essere il dio di un mondo immaginario, dove tutti sono candidi fogli di carta. …e del mio amore per voi, babbo e mamma.


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Nella lucida follia del dolore il piccolo Dan sceglie di non cedere al dolore della follia. È tutto un racconto. Un racconto che lui sta creando. Lui è lo scrittore, e lo scrittore scrive. Vedo il ragazzo avvicinarsi ai corpi dei suoi genitori, i suoi occhi sono dilatati, sulla bocca c’è un piccolo sorriso. Alle sue spalle Rasputin annuisce immobile. Finalmente ha trovato un compagno, un’anima affine. Vedo il ragazzo alzare in aria la stilo, il lampo di gioia nei suoi occhi è una tacita condanna, poi la riabbassa sulla nuda carne e tutto sfuma in un pietoso oblio rosso. “SCRIVI DAN, SCRIVI NUOVAMENTE.” Improvvisamente sono di nuovo io, in camera da letto, con mia moglie morta davanti. Ho le braccia alzate, in mano stringo la penna, la sto calando sui nudi seni di Sheila. Con un grido feroce devio la traiettoria piantandola sulla spalla di Rasputin. Quello geme sorpreso e indietreggia. Lo fisso senza capire ciò che sta accadendo, poi mi guardo le mani e un forte senso di sporcizia mi pervade. Rimango immobile mentre una goccia rossa cade sul mio palmo. Le mani sono sporche di sangue, del sangue dei miei genitori. È tutta un’illusione, cerco di ripetermi, uno sporco trucco di Rasputin. La Voce tace, non ha bisogno di aggiungere altro. Poi un’immagine mi distoglie da tutto. Simon! Quando mi volto la stanza è di nuovo vuota. Rimane soltanto una piccola ciocca bionda a terra. Grido il suo nome alzandomi in piedi, esco nel corridoio e mi getto nella sua cameretta sfondando la porta. La finestra è aperta, un freddo vento notturno agita freneticamente le tende, sul letto vuoto trovo la penna imbrattata di sangue.

La volante della polizia arriva un’ora dopo. Un agente vomita osservando il corpo martoriato del compagno, l’altro


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lo sostiene a malapena, poi estraggono le pistole ed entrano nella casa buia. Mi trovano in camera da letto. Sono in ginocchio davanti a mia moglie, le carezzo dolcemente i piedi parlandole piano. “Andrà tutto bene Shy, non preoccuparti, andrà tutto bene…” I miei occhi sono spenti. Intorno ai miei piedi si estende una putrida macchia di sangue; il medico dirà poi che è un miracolo che non sia morto dissanguato. Vengo portato via d’urgenza. Guardo un’ultima volta mia moglie prima che il coroner le ricopra il volto con un candido telo bianco. Qualcosa muore assieme a lei, qualcos’altro, istantaneamente, nasce. Gli agenti setacciano la casa e il circondario ma non trovano niente, né mio figlio, né Rasputin. Anche il Signor P. è sparito. In ambulanza riesco a rimanere sveglio per qualche minuto. I dottori che si affaccendano attorno a me, mi sembrano lontani chilometri, io ho solo voglia di dormire, dormire molto a lungo. Mi ritorna alla mente il pomeriggio passato. Io e Simon che giochiamo a palla, i suoi delicati lineamenti illuminati dal sole del tramonto. “Il miglior papà del mondo...” Sussurro piano e cado in un sonno agitato digrignando i denti. *** Viviamo tutti su una linea sottile, in equilibrio, tentando di non cadere. Camminiamo per le strade di qualche infinita metropoli tenendo gli occhi bassi. Cerchiamo di annullare il pensiero, il volume della musica. Denigriamo ogni forma espressiva, abbiamo paura del silenzio. Ogni sera andiamo a letto sempre più carichi, più stanchi, la mattina violentiamo i nostri occhi che bramano una dolce oscurità, e tentiamo di alzarci sempre più confusi, più straniati. Ci muoviamo su una linea gracile, fatta di doveri e moralità a basso prezzo, cerchiamo di restare dritti, per paura di cadere, anche quando il vento soffia forte. Sentiamo lavorare la nostra mente, circuito imperfetto dai calcoli inesatti, e ci sforziamo di far tornare i conti a fine mese. È tutto un falso equilibrio, questo è l’errore. Il muratore che agita il martello pneumatico dieci ore al giorno si interrompe asciugandosi il sudore dagli occhi. Osserva tutti quei signori ve-


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stiti bene intorno a lui. Ripensa ai tre figli che l’aspettano a casa. Sta sudando per impedire che anche loro debbano farlo. Talvolta sente una piccola voce, lontana e indefinita, una voce sinuosa e sensuale che gli dice che la vita non è giusta, che per colpa di pochi i suoi figli vivranno sempre nella merda. La voce lo invita ad afferrare il suo strumento, ad avvicinarsi a qualcuno, e squartarlo senza pietà. Il muratore sorride il più delle volte e, rinfrescatosi, torna al lavoro. Il più delle volte. Lo studente su quel banco in fondo all’aula ha paura. Sa che fuori lo attendono i bulli della scuola pronti ad umiliarlo in ogni modo, sa di non avere studiato e di odiare quell’adulto alla cattedra che parla, parla, parla. Ecco una femminea cantilena sbocciargli dentro, una voce che lo incita a non farsi mettere i piedi in testa, a far vedere a tutti quanto vale. Ecco che si vede alzarsi e correre verso la finestra, gridare a tutti che lui non è felice, che è ora di finirla, che possono andare affanculo. Ecco che si vede al centro di una macchia rossa sull’asfalto sottostante. La ragazza grassa non ha mai avuto specchi in camera. I suoi genitori le gridano continuamente di abbassare il volume della musica, e, soprattutto, di cercare di diventare qualcuno. La sua ultima amica ha smesso di telefonarle secoli fa, i ragazzi la usano come passatempo nei fine settimana. L’ultima volta che è stata sbattuta come un animale non l’ha neppure visto in volto, né lui le ha rivolto parola. L’ultima volta ha giurato che sarebbe stata l’ultima volta. O forse la penultima. La ragazza grassa non ha mai avuto specchi in camera, semplicemente ha paura dei riflessi. Ma ha un principe azzurro che le parla nell’orecchio. Nelle sere in cui piange piano, le sere in cui il volume è al massimo, lui le parla e le dice che è bellissima, che non merita tutto questo. Le dice di prendere un coltello in cucina e di farlo capire a tutti. La voce parla a tutti e a nessuno. Parla al pendolare notturno, al netturbino e allo stressato uomo d’affari. Sussurra invitante alla maestra esasperata e al negoziante disilluso, seduce la casalinga frustrata e il barbone sotto il ponte. La voce tenta di farsi ascoltare, preme e spinge perché tu perda l’equilibrio, la voce vuole farti cadere. E quando ci riesce e sei disteso nel buio, con le mani e la testa piena di


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sangue, scopri che quella voce è sempre e solo la tua. Viviamo tutti su una linea sottile, resa sicura da cornicioni di plastica. Tutti abbonati all'indefinibile speranza di riuscire a fottere il resto del mondo, tutti a costruirci la nostra scala di valori, di successo, mentre quello che siamo, che siamo sempre stati, è carnivori in fila d'attesa.


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Capitolo 18 Et in arcadia ego

I bagliori sono soffusi e penetrano con dolcezza sotto le palpebre chiuse. Sento un suono insistente martellarmi le tempie, un’infinita dimensione palpitante di bassi. Un sintetizzatore ammortizza i miei sensi. Apro lentamente gli occhi e mi scopro in piedi, perno di una confusa folla di corpi in movimento. Una rada nebbia avvolge il mio corpo, le mani sono indistinte oltre il muro del suono. Onde di colori acidi, simili a folli pennellate di un reietto dadaista, si stendono verso me per poi negarsi e sensualmente amalgamarsi in una misteriosa danza. Mi muovo piano tentando di cavalcare quel ritmo fatto di suono e luce, nebbia e sudore. Il mio cuore batte di una nuova emozione. Allargo le braccia tentando di abbracciare quell’indeterminato nucleo pulsante e sento le mie dita che sfiorano altre dita, mani, corpi in sinuoso movimento. Per una volta mi sento parte del tutto. Un perfetto, caldo utero di vita mi trascina verso nuovi picchi emozionali che non pensavo di poter provare. Mi sento in mistica comunione con tutti quei fratelli, vorrei dire loro che li amo di un amore sfrenato e orgiastico, che starò per sempre con loro fino alla morte. D’un tratto le mie dita incontrano dita che si serrano su di loro, è una stretta gentile ma che non lascia adito a repliche. Sono dolcemente sospinto fuori da quel mare di passione e volteggio nell’angolo più appartato e solitario. Davanti a me c’è Sheila, ed è la creatura più bella che abbia mai visto. Indossa un leggero abito nero alle ginocchia e mi guarda mordendosi sensualmente il labbro inferiore; il suo sguardo è chiaro e domanda una sola cosa. Coperta dal frastuono attorno si sfila con lentezza il vestito dalle spalle. Quello cade a terra e lei rimane completamente nuda offrendosi alla


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mia vista, alle mie mani, al mio desiderio. Apro la bocca per parlare, per dirle che è bella come un angelo divino, ma lei me la serra con un dito e monta su di me sospirando forte. In breve i miei sensi sono pregni di lei, delle sue labbra, della sua lingua, del suo odore. Pregni ma non saturi. Con animalesco desiderio sento di volerne ancora, sempre di più, sempre di più… Mi sfilo i pantaloni e Sheila, con un sorriso malizioso, mi accoglie al suo interno. Intorno a noi il suono impazza sempre più frenetico, più selvaggio. Scorgo teste che si reclinano all’indietro e intrecci che mimano amplessi sensoriali. Sento montare un orgasmo fatto di cento vite che si scontrano a velocità pazzesca schizzando gocce perlate di piacere. Il volto di Sheila è sempre più sconvolto, sempre più ammaliato da quell’atmosfera irreale di piacere. Chiudo gli occhi preparandomi per l’esplosione… Quando li riapro non sono più lì. O meglio, ci sono ancora, ma adesso mi trovo alle spalle di Sheila. La vedo davanti a me, intenta ad accogliere dentro di sé l’onda di un piacere che travalica ogni umano limite. Solo che lo sta raggiungendo con qualcuno che non sono io. Guardo in basso e mi scopro perfettamente vestito. L’unico ricordo della visione di prima è un poderoso gonfiore sotto la cintura, tutt’intorno la festa sta andando avanti anche senza di me. Guardo ancora Sheila. Sta cavalcando uno sconosciuto dal volto nell’ombra, qualcuno che non sono io, qualcuno che le sta offrendo l’orgasmo più grande della sua vita. In me sale una rabbia immensa, mista ad una vergogna e ad una umiliazione senza pari. Con un grido che si perde nel rimbombo selvaggio, la afferro per una spalla strattonandola all’indietro. La sua testa, fino a poco prima viva e ansimante, si reclina con uno schianto secco, afflosciandosi sul collo come un frutto sfiorito. Una vampa di terrore si accende in me, i suoi occhi mi guardano spenti e, dalla bocca socchiusa, esce un rivolo di sangue. Sul collo ci sono delle pesanti impronte calcate con ferocia: sto osservando il volto soffocato di mia moglie. Una sinistra risata mi desta da quella tragica visione.


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Concentro l’attenzione sull’individuo nudo che lei stava cavalcando. Un brivido di freddo mi coglie quando scorgo la faccia ghignante di Rasputin Melee. I lineamenti esausti per il grande piacere, le sue grandi mani sui seni di Sheila. Sorride crudelmente nella mia direzione. Si alza e getta di lato quel corpo morto come un sacco di patate. Tu mi appartieni. Ghigna in modo rivoltante. La tua mente è mia, la tua vita è mia. Lancia un’occhiata al corpo ai suoi piedi. …e adesso anche tua moglie è mia. Sulle stridule note della sua risata cado in ginocchio tenendomi la testa tra le mani. Un dolore lancinante pervade tutto il mio essere, come una morta sinfonia che sfuma in nero, che lentamente sfuma in nero. Mi sveglio gridando forte il nome di Sheila. Lo grido ripetutamente strappandomi gli aghi dalle braccia. Mi alzo in piedi sul letto e avverto l’aria fredda contro il mio sudore. Cado a terra agitando le mani e continuando a chiamarla. Arrivano due robusti infermieri che mi immobilizzano mentre un terzo mi inietta una strana sostanza verde. Con due scatti convulsi vedo le mie braccia cadere penzoloni di lato, non ho più forze. E tutto sfuma nuovamente. La mattina dopo mi sveglio in una calma surreale. Sono lucido, razionalmente lucido e consapevole. So cos’è successo e so che sono pronto a digerirlo. So di essere pronto ad ogni conseguenza. Con voce atona chiamo l'infermiera e chiedo di poter fare una telefonata. Al mio editore domando un favore in via strettamente confidenziale, che non può rifiutarmelo. Nel pomeriggio mi arriva una busta anonima dalla quale estraggo due eleganti foto in bianco e nero: sono state scattate ai cadaveri dei miei genitori. Dovevo vederle, mi serviva una conferma. Una tenue speranza di redenzione che, ovviamente, non c’è. Le lettere incise sui loro corpi sono appena riconoscibili, ma ho visto anche le altre vittime e queste si distinguono, queste le ho scritte io.


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Quella mattina Rasputin mi ha dato una piccola spinta e io ho perso l’equilibrio. Quella mattina la Voce ha iniziato a dimorare in me. Nella surreale calma di una così immane tragedia ho preferito la follia alla verità, e nella follia io sono uno scrittore... che scrive. Ho chiuso la mia mente davanti all’evidenza per troppo tempo. Un nebuloso periodo dove piccoli indizi erano sprazzi di cupa luce, dove una nenia cantilenante mi ricordava ciò che ero veramente. Quello che ho sempre cercato di fuggire, un uomo che ha voluto scoprire cosa c’è al di là del recinto. Spinto dall’assassino dei miei genitori a scrivere sui loro corpi, ho finito il suo lavoro. È stato più facile accettare questo al fatto di averli persi. Di averli persi in un modo selvaggio e inutile. Ho barattato una folle verità con una pietosa bugia, ma avevo una mente debole allora, una mente che Rasputin si è divertito a violentare. Ha ucciso la mia famiglia due volte, ha rapito mio figlio, mi ha fatto diventare come lui. So di non poter più andare avanti. Ma farò in modo che neanche lui ne abbia la possibilità.


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Capitolo 19 Ritorno a casa

La figura robusta di Cloud Shinra appare sulla soglia della stanza d’ospedale. Sono seduto sul letto con sguardo vuoto. Mi volto appena sorridendo debolmente, poi torno ad osservare il nulla. Quello chiude la porta alle sue spalle, prende una sedia e si mette accanto a me. Vorrei restare solo, nessuno può prendere parte alla storia a questo punto. È come un film iniziato già da un bel po’, nessuno potrebbe comprenderne il finale. Passano alcuni minuti di silenzio, poi Cloud decide di farsi avanti. “Ho saputo ciò che è successo… mi spiace molto signor Solo.” Mentre parla mi torna alla mente il nostro primo incontro, la sua esasperata arroganza, tesa a nascondere un dolore ancora più grande. “So anche che la polizia si sta facendo in quattro setacciando tutto il territorio.” Alle mie spalle una pesante fasciatura mi sostiene eretto. Il regalo del signor P. brucia ancora. “Purtroppo però…” Inclino debolmente la testa per udirlo, le sue parole stanno sfumando in un sussurro. “… temo che non lo troveranno mai.” Finalmente lo guardo dritto in volto. I suoi lineamenti, prima duramente fieri, adesso sono piatti e distesi. Una barba più lunga del solito nasconde fossette nelle guance, ha l’aria incredibilmente stanca. “Cosa vuoi Cloud?” La mia voce è atona e roca. Ho gridato per l’ultima volta il nome di mia moglie, non griderò mai più. “Ho scoperto dove sta andando quel bastardo.”


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Gli occhi mi si dilatano all'improvviso. Sento un brivido lungo la spina dorsale. L’unica cosa che manca è la paura, non ho più paura di niente. Cosa può spaventarti quando hai carezzato i piedi di tua moglie morta? Cloud mi guarda un secondo per accertarsi di aver attirato la mia attenzione, poi continua. “Quando Rasputin è fuggito due settimane fa ho pensato che nessuno l’avrebbe più acciuffato. Non è una premonizione o chissà cosa, odio queste stronzate, è solo che quella lì è una merda dannatamente scaltra. Da ragazzo ha pianificato trame per otto anni e le ha portate brillantemente a compimento. Riesce ad immaginare un figlio di puttana più metodico?” Si volta un attimo assicurandosi che nessuno ci senta, poi torna al suo monologo. “Non so come cazzo faccia, ma riesce a nascondersi nell’ombra meglio di un pipistrello. Una volta entrai nella sua cella e, giuro, sembrava vuota, stavo per dare l’allarme quando intravidi i suoi occhi gialli nel buio! È furbo, agile, e, soprattutto, è intelligente.” Quel nome continua a riecheggiare nella mia mente, mai come adesso sento di avere uno scopo nella vita. “Stavolta ha con sé suo figlio, ma non penso che gli farà del male. Lo terrà come ostaggio, come ultima carta da giocare nel caso lo prendano. Almeno finché non giungerà a destinazione.” Lo osservo senza capire dove voglia arrivare. “Rasputin si sta muovendo, sta andando a nord. Sembra voglia superare il confine. Ho fatto delle ricerche sul suo luogo di nascita e ho scoperto che ha vissuto i primi anni della sua vita nello stato libero della Delange.” Un’improvvisa analogia mi perfora la testa, un verso della sua malefica nenia. C’è un sentiero che attraversa un campo di grano. I terreni della Delange sono celebri per la produzione di frumento, la chiamano anche Terra Gialla. Un attimo di silenzio mi permette di focalizzare nuovamente l’attenzione su di lui. “Adesso, se ho fatto i calcoli in modo giusto, lui sta tornando laggiù. Sta tornando a casa.” “Come fai ad esserne così sicuro?” “Bè… è l’unico posto dove non lo cercherebbero. Legalmente avrebbe


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superato il confine, nessuno saprebbe più nulla di lui, e poi… laggiù ha una sorella.” Per la seconda volta sussulto sorpreso. Cloud mi fissa dandomi il tempo di digerire la notizia. “Ho scoperto la sua esistenza scartabellando i memoriali del sanatorio. È nata un anno prima che Rasputin fosse internato, forse per questo è sopravvissuta. Adesso vive nella casa dei genitori, entrambi deceduti da anni. Il suo nome è Jolie Melee.” Si alza avvicinandosi alla finestra. Il suo sguardo scruta per un attimo la strada sottostante e poi torna su di me. “Dicevo che Rasputin non è stupido, che si rende conto della sua situazione, e si rende conto che non vivrà a lungo.” “Ma come?” Esclamo, “mi hai appena detto che là sarebbe al sicuro da tutti.” “Non è questo il punto signor Solo, quel bastardo è praticamente un morto che cammina.” “Non capisco dove vuoi arrivare…” “Quando lei mi chiamò una settimana fa si stupì di come Rasputin potesse essersi svegliato dopo tanto tempo. Ecco, in effetti non è clinicamente possibile. Il suo cuore sta battendo per la forza di un’ossessione. Le sue membra si muovono sospinte da una follia profondissima. Rasputin è vivo solo grazie alla sua psicosi.” “Mi stai dicendo che…” “Che si è risvegliato solo perché sentiva di dover finire qualcosa. Che la sua determinazione è stata più forte della morte.” Si avvicina sedendosi stavolta sul letto. “Ma questo non può durare, lo sa bene. Ha un periodo di resistenza limitato, dopo di ché pagherà alla nera signora lo scotto dovuto.” Ripenso a Sheila, a Simon, a quanto mi sia costato tutto ciò. “Lei, senza offesa, è stato solo una deviazione di percorso. La sua meta era la Delange fin dall’inizio.” “Perché?” Chiedo a voce bassa. “Cosa deve finire di cosi urgente?” Cloud sorride sotto la corta barba. Prende la valigetta che portava con sé tirandone fuori una gran quantità di fogli. “Il nostro amico ha iniziato a uccidere a diciassette anni incidendo il suo fratellino.” Davanti a me stende una serie di macabre foto che ritraggono un piccolo corpo martoriato.


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È storpiato da righe scarlatte che ne fregiano il contorno; l’espressione è bloccata in un grido muto, gli occhi gonfi e venati di sangue. “Da quel momento ha iniziato a scrivere, sempre più e sempre più violentemente. La sua famiglia è stata il culmine dell’efferatezza, lei stesso è vivo per miracolo.” Non per miracolo Penso con amarezza. Sono vivo perché sono come lui. “Ora, se non mi sbaglio clamorosamente, vuole mettere la parola fine alla sua carriera. E quale corpo può rappresentare un epilogo migliore di quello di sua sorella?” Mi guarda aspettandosi da me un gesto di conferma, forse anche una pacca di complimento. Mi limito a socchiudere gli occhi. “Cloud”, sussurro piano, “credi davvero in quello che stai dicendo? Perché non ho più molta voglia di capire qualcosa a proposito di Rasputin.” Con mia grande sorpresa mi sento afferrare per le spalle. Il suo volto è piantato sul mio, la sua espressione è severa. “Senta signor Solo, lo so che ha perso tanto per colpa di quell’uomo, forse più di quanto sia lecito perdere in una vita. So che adesso vorrebbe solo stendersi e chiudere gli occhi, ma suo figlio è la fuori con lui. Deve fare un ultimo sforzo, lo deve a tutte le vittime di Rasputin Melee!” Lo fisso stupito pronto a ribattere e invece mi lascio cadere stancamente sul cuscino. Dopo tutto è ciò che sono sempre stato: un fifone ipocrita. Cloud si alza e lancia una sonora bestemmia, poi, calmatosi, torna a parlare. “Ci sono state notti, giù al sanatorio, in cui lo sentivo parlare da solo. Prima che fuggisse, prima che portasse via il respiro di mia figlia, prima che rendesse la mia vita qualcosa da dimenticare…” Parla piano, lentamente. Avverto i suoi demoni venire alla luce come vecchi fantasmi. “Lo sentivo parlare nel buio, da solo, come se avesse un compagno immaginario, come se sentisse una voce…” Quella parola mi colpisce come un maglio allo stomaco. Apre delle palpebre da troppo tempo serrate, inizio a scorgere un disegno più grande. Ma, contemporaneamente, mi rendo conto di quanta poca im-


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portanza abbia adesso. “… una voce che gli parlava, che gli diceva che era un grande scrittore, il più grande di tutti, una voce che gli confidava che presto avrebbe scritto ancora…” La follia non è una malattia da curare, è una naturale propaggine della natura umana. Cloud si volta nuovamente verso di me, il suo sguardo è simile a quello di un bambino sperduto. “Ero terrorizzato in quei momenti, ho fatto cose non belle, ma ero terrorizzato.” Cerco di chiudere gli occhi. So che la Voce è pronta a parlarmi, a dirmi che va tutto bene. “Una notte sono entrato nella sua cella per farlo stare zitto e ho iniziato a picchiarlo.” I suoi occhi cercano di fermarsi su un punto della stanza ma invano. “L’ho colpito col manganello ripetutamente, senza fermarmi. Lui mi implorava ma io continuavo a picchiarlo sempre più forte, vedevo le pareti tingersi di rosso e continuavo a picchiarlo. Iniziai anche a ridere mentre lo facevo, mi sentivo onnipotente capisci, avrei voluto ammazzarlo di botte.” Potrei mettergli una mano sulla spalla ma non servirebbe a nulla, siamo entrambi soli. “Mi sono fermato solo per paura che morisse davvero, e l’ho lasciato sul pavimento tutta la notte, immerso nel suo stesso sangue. La mattina dopo era ricoperto di mosche.” I suoi occhi nascondono una grande vergogna, una colpa che è anche la mia. “Aveva diciotto anni Dan, ti rendi conto di cosa vuol dire? Quel piccolo mostro non è un semplice pazzo, ha la capacità di contagiare gli altri con la sua follia, soltanto con il suono della voce.” Ripenso alla nenia che mi cantò da piccolo. La sua voce suadente che mi entrava nelle orecchie e mi spingeva ad affondare la lama più in profondità. Ripenso alla sua voce pochi giorni prima quando stavo per fare lo stesso sul corpo di mia moglie. Poi penso alla Voce che ormai da tempo è parte di me e scopro che non sono poi tanto diverse, figlie di una stessa fonte malata: la mente umana. E adesso c’è mio figlio con lui, è a lui che adesso parla…


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Le parole mi escono glaciali e atone. “Cosa vuoi che faccia Cloud?” Lui si sfrega gli occhi e torna a fissarmi. “Lo faremo insieme Dan,. Andiamo nella Delange e precediamo quel bastardo, lo aspettiamo al varco e salviamo tuo figlio.” Non sento più freni adesso, nessuna esitazione; se c’era un ultimo sigillo è stato spazzato via. “Una sola cosa”, sussurro. “Non voglio la polizia, solo noi e lui. Non voglio che Rasputin muoia di morte naturale, voglio ucciderlo io.” Cloud sorride con amarezza. “È questo il piano. Solo tu ed io, pareggiamo i conti una volta per tutte.” Dal finestrino aperto passa una leggera e piacevole brezza. Sono seduto col capo reclinato all’indietro, ho gli occhi chiusi e rifletto. Accanto a me Cloud guida in silenzio dietro spessi occhiali da sole. A tratti si accende un sigaro puzzolente, tira due boccate e lo spegne contro il vetro. È così fin dalla partenza. Ci troviamo su una vecchia decappottabile nera e sfrecciamo in un paesaggio sempre più sconosciuto, sempre più verde. Tra poche ore supereremo il confine. Ripenso alla telefonata di ieri: il mio editore, tanto per cambiare, sbraitava che non potevo farlo, che c’erano delle scadenze da rispettare. “Il grande Dan è finito.” Ho detto in una calma surreale. “Finché è durato è stato un bel gioco per entrambi, stammi bene vecchio.” Poi ho chiuso la conversazione e ho gettato il cellulare nel laghetto dell’ospedale. Mentre affondava l’ho sentito suonare l’ultima volta prima di essere soffocato da uno stormo di bolle. Cloud mi si è avvicinato sorridendo debolmente. “È pronto?” “Cloud, dammi del tu diamine, almeno adesso che sto mandando al diavolo tutto il poco che mi resta!” Quello ha annuito e ha tirato fuori dalla tasca un fagotto scuro. “Ti volevo dare questa, come guardiano ne ho libero accesso e forse…


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bé, tieni.” Una fredda pistola è scivolata nelle mie mani. L’ho osservata un momento con sguardo vacuo poi, sorridendo, l’ho infilata in tasca. Prima della partenza ho insistito perché facessimo una fermata nel mio appartamento. L’ho pregato di aspettare in macchina e sono salito facendo le scale due alla volta. Ho aperto il cassettone accanto al letto estraendone un nero astuccio. La stilografica dorata ha scintillato nel buio in risposta. Era tutto chiaro adesso. Il mio attaccamento morboso a quell’oggetto, la voglia di tornarne in possesso, di avere con me la penna con cui avevo sfregiato i miei genitori. La stringo nella mano per poi farla scomparire nella tasca posteriore. Te la sto riportando Rasputin, è tua di diritto. Mentre Cloud si accende il sigaro per la decima volta penso a Sheila. In verità non ho mai smesso di pensarci, e non smetterò più. Ripenso agli occhi che ho socchiuso tra le lacrime, ripenso alla sua bocca, al suo profumo, ripenso ai piccoli seni punteggiati di sangue. È un dolore talmente inconcepibile che non fa neppure male. So di essere a un punto di non ritorno. Ne ho una lucida, razionale consapevolezza. Mi rimane Simon, o meglio rimango io a lui, poi lascerò che lo Scrittore termini la sua lunga, gloriosa impresa. Mi volto verso Cloud che cerca una posizione più comoda sul sedile. “Perché stai facendo questo?” Mi guarda leggermente divertito e sorpassa con un’improvvisa accelerata un camion. “Non lo faccio per te. Temo di non essere ancora un fottuto angelo Dan!” Apre il finestrino e vi getta finalmente il sigaro con uno sbuffo. “Lo faccio soltanto per me, per riuscire ancora a chiudere gli occhi la notte, non so se capisci.” Annuisco con tristezza. È una sensazione che nella mia vita ho conosciuto fin troppo bene. “Sto facendo questo perché credo in qualcosa.” Io credevo nella mia famiglia Penso. Credevo in me stesso


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“Credo che chi uccide sia sempre colpevole Dan, e forse il buon Dio saprà dargli il fatto suo un giorno, ma talvolta ci accadono cose, spiacevolissime cose…” Le sue mani stringono la presa sul volante, le unghie scalfiscono la plastica scura. “…che ci ricordano che se davvero Dio esistesse, andrebbe mandato affanculo senza esitazione.” Vorrei cercare di consolarlo ma non ho più parole per nessuno. È strano vedere come tutto sia cambiato così velocemente. “Sto facendo questo perché non l’ho fatto in passato e per colpa mia la tua famiglia ne ha pagato le conseguenze.” “Non è questo il punto Cloud. Rasputin, a suo modo, crede di essere un dio lui stesso.” Mi guarda alzando le ciglia da dietro i vetri scuri. “Il dio di un posto in cui per un po’ di tempo ho vissuto anch’io.” “Non capisco Dan, che vuoi dire?” Sorrido e metto una mano in tasca per massaggiare il delicato profilo della stilo. “Ho le mie colpe in tutta questa storia. Vergogne difficili da ignorare, e vorrei parlartene, davvero, cercare di condividerle con qualcuno, anche solo per capire il motivo per cui Sheila è morta, se c’è un motivo…” Gli occhi mi si appannano nuovamente di lacrime, caldi sudari di qualcosa che muore in silenzio. “… capire perché la mia vita si sta dissolvendo come una bolla d’aria…” Non voglio piangere davanti a lui, non voglio piangere più davanti a nessuno. Ma non prendiamoci in giro Dan, quando mai sei stato forte? “… ma la verità… Cloud, la verità è che sono molto più simile a Rasputin di quanto potrò mai ammettere davvero. Che tutto questo, visto sotto un’altra luce, per me potrebbe avere anche un qualche dannato senso.” Cloud mi osserva in silenzio maledicendosi per aver gettato il sigaro. Impreca e schiaccia con rabbia l’acceleratore. Viaggiamo così. Due anime ferite e arrabbiate verso il nulla alla ricerca di un mostro. Un mostro che ha saputo farci assomigliare a lui.


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Capitolo 20 Jolie F. Melee

Il territorio della Delange si estende subito al di là del confine, lungo una frastagliata costa oceanica. La sua principale caratteristica sono le interminabili strade che si perdono in mezzo a gialli campi di grano. Di giorno, col sole alto nel cielo, sembra di essere in mezzo ad una miniera dorata all’aria aperta. Tra i centri cittadini di cui il territorio è costellato il principale è Fort Troath, un agglomerato urbano circondato da verdi vallate e bellissime cascate. Oltre queste si trova la Terra Gialla, il distretto da cui sono originari i Melee. Ci fermiamo in città per fare rifornimento. Il brusio intorno a noi mi sveglia dal senso di torpore che l’ultima parte del viaggio mi aveva regalato. Osservando gli alti edifici attorno a me immagino l’infanzia di Rasputin, cresciuto poco lontano da questo posto, covando i germi di una follia che lentamente, come un fiore malato, sarebbe sbocciata con l’età adulta. Mi trovo a chiedermi una cosa tanto banale quanto ovvia: ho iniziato a sentire la Voce quando ho incontrato lo Scrittore, quasi fosse una parte della sua maledetta eredità. Ma lui? Quale è stato l’evento che lo ha condizionato? Da dove è partito tutto? Sento il mio animo di scrittore che si mette in moto. Persino in questo momento, in mezzo ad una tragedia da far perdere il senno. Una parte di me sta pensando alla storia che ne verrebbe fuori. Sento di avere dentro una porta saldamente chiusa. Ciò che riguarda Sheila è sigillato con un immane sforzo. So di non poter durare a lungo, ma capisco che se mi aprissi del tutto perderei le forze per salvare Simon. È una riprova della duttilità dell'animo umano, penso, riuscire a funzionare anche quando ormai non c’è più alcuna speranza.


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Passando davanti ad una vetrina vedo il mio volto riflesso. Ho un’espressione smunta e dimessa, come se fossi dimagrito di venti chili nelle ultime ore. I capelli un po’ arruffati mi cadono in ciocche irregolari sulla fronte, la barba sta iniziando a coprire le guance di una scura brughiera incolta. Che eleganza piccolo coglione! La Voce mi colpisce in un sussulto, mi ero abituato al suo silenzio delle ultime ore. Ma stavolta non starò passivamente ad ascoltarla. Mando una piccola imprecazione e decido di andare dritto al punto senza esitazione. Entro in un piccolo bar fumoso e mi faccio strada tra grasse megere e avventori ubriachi. Arrivato al banco squadro il barista, un nerboruto volto da campagnolo sorridente. “Una birra per favore.” Quello mi riempie generosamente il bicchiere, in un attimo lo vuoto dentro la mia gola. “Un’altra.” “Hey amico!” esclama il barista, “sei proprio in forma oggi!” Lo osservo senza sorridere. “Mi serve per non pensare.” E trangugio il secondo bicchiere con il rapido movimento della mano. Vuoi venire fuori Voce di merda? Penso. Ti aiuto io a schiarirti la tua ugola del cazzo. E, senza esitazione, mi scolo anche la terza mandata. Una volta scrissi un racconto su un ragazzo che si ubriacava. L’inebriante sensazione della perdita totale del controllo, la malinconica magia che viene a crearsi in quei momenti. Adesso, col quinto bicchiere sulle labbra, capisco quanto siano tutte cazzate. Non sento magia nè eccitazione, soltanto un lento, progressivo tracollo, come un pesce morto che le correnti spingono sempre più in profondità, là dove il mare non è più blu ma nero e dove i crostacei lasciano spazio a mostri grotteschi. Se c’è una sensazione inebriante è la perdita di inibizione ma, Cristo, quanto è lontano da una qualsivoglia forma di magia. “Forse è meglio se la fai finita amico.” Le parole del barista si dilatano e si contraggono come onde concentriche, annaspo sottovuoto. “Non si preoccupi.”


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Tento di scandire correttamente le parole. “Ciò che devo affogare sa nuotare dannatamente bene. Un altro e me ne vado.“ Dentro la Voce aspetta nel buio. Mentre mi violento per far entrare altro liquido in bocca avverto del frastuono alle mie spalle. mi volto sento quanto pesante sia diventata la mia testa, i miei movimenti sono meccanici e scombinati. Con gli occhi abituati all’oscurità del locale mi trovo ad osservare una scena bizzarra: accanto alla porta ci sono due alte figure che parlano animatamente tra loro. Una terza, di cui mi accorgo solo dopo, è a terra tra le gambe del tavolino. Il barista mi si avvicina parlandomi nell’orecchio. “Non immischiarti amico, non guardarli neppure, finisci la tua birra e vattene.” Registro confusamente le sue parole scegliendo di ignorarle. C’è qualcosa nella figura a terra che calamita la mia attenzione. I due individui in piedi iniziano a spintonarsi, riesco a cogliere brandelli di conversazione. “Questa troia mi ha morso il cazzo Roy, che Dio mi strafulmini se non le faccio saltare tutti i denti.” “Dai Guts, lascia perdere, le conosci le regole no?” La figura a terra si alza iniziando a sua volta a sbraitare. Dalla voce capisco che si tratta di una donna. “Fottiti maledetto stronzo, non lo voglio in bocca quel tuo cazzetto moscio.” Il tizio chiamato Guts scatta colpendola duramente al volto; la donna piroetta all’indietro per poi cadere nuovamente accanto al tavolo. Roy allora si frappone nuovamente tra i due riuscendo a ristabilire la calma. “Ok Guts, calmati e riavrai tutti i tuoi soldi va bene? Ma ti prego, calmati…” Quello sbraita un altro paio di “cazzo” e “puttana”, poi viene sospinto all’esterno e si mette fine a quella triste scena. La donna, rimasta sola, si mette faticosamente a sedere cercando di tamponare con un fazzoletto il sangue che le esce dalle labbra. “Chi è?” Chiedo ancora intontito rivolto all’oste. “Chi è quella donna?” Quello mi guarda sorridendo e strizza l’occhio. “È la... bè, si, insomma, ci siamo capiti, è la prostituta più ricercata del-


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la zona.” Poi fa cenno al tizio appena uscito. “Quello invece è Roy, il suo protettore. I soliti casini. Il problema di quella donna è che non ha la mentalità da puttana, e, insomma, se non le va di fare qualcosa non la fa.” Ridendo fra sé e sé mi colpisce amichevolmente il braccio. “… e comunque scordatela amico, a quella non piacciono gli stranieri. È una che se li sceglie i clienti.” Il fumo del locale si dirada lentamente inquadrando il volto della donna misteriosa. Sono colpito dal forte contrasto causato dal sangue scuro su quella pelle altrimenti perlacea. Gli occhi sono piccoli, quasi una fessura, contornati da una sottile matita nera. Una delicata piccola bocca incornicia un volto non più giovanissimo, ma forse per questo ancor più affascinante. Apre uno specchietto e tenta di aggiustarsi il trucco nella migliore maniera possibile. Intanto Roy rientra nel locale guardandola torvo e sedendole accanto; tamburella nervosamente le dita sul tavolo. “Non fissarmi così, i patti erano chiari, niente pompini.” Lei si accende una sigaretta e, fumandola, continua a tamponarsi il labbro gonfio. “Cosi non va, è il secondo cliente che perdo in una settimana. Cazzo Jo, devi capire che non ce l’hai soltanto tu!” Sento scattare dentro di me un campanello d’allarme, improvvisamente la nebbia nella mia testa inizia a diradarsi e un terribile dubbio prende campo. Mi volto verso il barista mettendogli in mano una banconota di grosso taglio. “Tenga pure il resto.” E mi avvicino un po’ barcollando al loro tavolo. Il breve tragitto mi dà più problemi di quanto pensassi. Un paio di volte scorgo a malapena le sedie davanti a me rischiando di inciampare, mi schiaffeggio e arrivo al loro cospetto. La donna mi lancia un’occhiata distratta mentre finisce di medicarsi il labbro, poi, ignorandomi, torna a parlare con Roy. “Quello stronzo me lo ha infilato in bocca senza che potessi fiatare, ti giuro che stavo per strapparglielo a morsi.” Roy mi fissa con aria interrogativa. “Chi è questo? Lo conosci?”


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Lei scuote il capo e poi, guardandomi con aria di scherno, esala una boccata di fumo nella mia direzione. “Smamma cocco.” Mi dice con una smorfia. “Oggi non sono proprio in vena e poi, scusa se te lo dico, ma ti servirebbe una bella doccia.” Continuo a fissarla perso tra i vapori alcolici e lo stupore. “Ti chiami Jolie?” Quella aggrotta le ciglia incuriosita. “E tu chi saresti?” Chiede divertita. “Ti chiami Jolie Melee? Rispondimi.” Il suo sguardo si trasforma in un lampo di puro terrore. Per un momento mi sembra che tutto il locale si sia fermato e mi stia osservando in silenzio. Anche il fumo nell’aria pare essersi ghiacciato. Roy si alza in piedi di scatto afferrandomi per il colletto, mi spinge contro il muro grugnendo a pochi centimetri dal mio volto. “Senti pezzente, non so chi tu sia ma forse non sai come funzionano le cose qui.” Sento la chiara fitta di un pugno allo stomaco. Questo fa riaprire la ferita che ho sulla schiena e crollo a terra gemendo. La donna si abbassa verso di me prendendomi per i capelli e alzandomi la testa verso di lei. “Come fai a sapere il mio cognome?” Mi dà un altro strattone che mi fa vedere le stelle. “Nessuno lo usa qui, e nessuno sa che mi chiamo cosi. DIMMI CHI CAZZO SEI.” Tento di divincolarmi dalla sua stretta ma il suo compagno, afferrandomi nuovamente per il colletto, mi alza di peso. “Questo pezzente cerca guai Jo, sei sicura di non conoscerlo?” La fisso con sguardo penetrante. So di poter andare oltre il dolore, niente importa al di là della mia vendetta. “Ne sono sicura.” E poi, titubando un attimo. “Non fargli male, voglio da lui delle spiegazioni.” Roy mi sorride con cattiveria mentre con la coda dell’occhio vedo il locale svuotarsi velocemente. “Spiacente coglione, odio chi mi disturba sul lavoro.” Alza il braccio preparandosi a colpirmi di nuovo. Chiudo gli occhi maledicendo la mia inerzia e mi preparo a ricevere il pugno… che non arriva. Quando li riapro vedo la possente sagoma di Cloud alzare di peso il mio aguzzino e lanciarlo contro la parete. Quando quello prova a rialzarsi


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Cloud estrae la pistola puntandogliela a pochi centimetri dal naso e mostrandogli il distintivo di guardia. “Hai voglia di dire qualcosa coglione?” Lo apostrofa duramente. Roy balbetta spaventato, forse per i suoi numerosi scheletri nell’armadio e, lanciando un’occhiata di sfuggita a Jolie, fugge fuori dal locale. Cloud mi aiuta ad alzarmi sentendo il pregnante odore dell’alcol su di me. “Dan, si può sapere che cazzo stai combinando?” Mi alzo faticosamente in piedi e, tamponandomi la schiena, indico la donna dall’aria spaventata accanto a noi. “Ti presento Jolie Francoise Melee.”


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Capitolo 21 Passato e presente

“Sentite brutti stronzi, sarò pure una puttana, ma non significa che sia stupida. Conosco benissimo i miei diritti e da nessuna parte sta scritto che io sia obbligata a seguirvi.” Jolie ci guarda torva e infuriata attraverso lo specchietto retrovisore. Ogni tanto batte un pugno contro il finestrino mandando un’imprecazione e blaterando di farci finire in prigione se non peggio. Cloud guida tranquillo ignorandola e limitando la conversazione alle domande sul percorso da seguire. Seduto accanto a lui mi sfioro la schiena sentendo l’umida consistenza del sangue sulle dita. Sapevo di non essermi ancora rimesso, ma il tempo è un lusso che non abbiamo. “Insomma!” Sbraita verso di me. “Chi sei tu? Come fai a conoscermi? Non pensavo di essere famosa anche fuori dalla città.” Cloud la osserva attraverso il vetro. “Si sbaglia signorina Melee, non sono tanto le sue gesta ad essere giunte a noi…” Quella lo fissa irrigidendosi. “Quanto quelle di suo fratello.” Jolie rimane per un attimo a bocca aperta, come colta in fallo con le dita nella marmellata, per poi afflosciarsi sul sedile in silenzio. Un caldo sole pomeridiano lancia i suoi ultimi raggi e si appresta a scomparire dietro l’orizzonte. Il viaggio procede per qualche minuto nel più totale silenzio, poi mi sento afferrare da una mano sulla spalla e, voltandomi, scopro il suo volto a poche dita da mio. “Rasputin.” Sussurra con un filo di voce. “… sta venendo qui vero?” Il mio viso è una maschera inespressiva. Forse dovrei avere pietà per quella donna, non so, ma mi esce soltanto una gelida frase. “Esatto Jolie, sta venendo a finire il suo lavoro.” Cloud mi guarda con la coda dell’occhio senza aggiungere nulla, quella abbassa gli occhi a terra lasciando la presa.


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“Me lo sentivo sapete? Sono decine di anni che non sento più pronunciare quel nome, ma avevo la netta sensazione che qualcosa stava accadendo, non so spiegarlo…” “A cosa si riferisce?” Chiede Cloud. Jolie si perde con lo sguardo fuori dal finestrino incerta su cosa dire. “Signora Melee, noi siamo qui per impedire a suo fratello di farle del male ma ogni suo aiuto sarebbe prezioso.” “SMETTILA DI CHIAMARMI IN QUEL MODO!” Grida lei prendendosi la testa tre le mani. “È tutta la mia dannata vita che cerco di liberarmene e all’improvviso arrivate voi due. Ma chi cazzo siete? Poliziotti?” Inizia a singhiozzare stringendosi sul sedile in posizione fetale. La osservo ancora un attimo per poi tornare a concentrarmi sulla strada. Cloud decide di rimandare la discussione per darle il tempo di sistemare le idee. Poco dopo usciamo dalla via principale attraversando un giallo campo che si perde davanti a noi. Una vecchia colonica un po’ dimessa si rivela essere la nostra destinazione, alle spalle uno scuro bosco tende i suoi rami nell’aria serale. Due ore più tardi sediamo ad un robusto tavolo di legno scuro, io e Cloud da una parte, lui con un sigaro in bocca, Jolie dall’altra, vestita di una comoda tuta grigia e un panno in testa. In quegli abiti quotidiani non sembra neppure la donna che poche ore prima calamitava l’attenzione di un intero bar. Sorseggio lentamente un caffè riflettendo sulla totale assurdità di quella situazione: tre perfetti estranei ad affrontare cose tanto intime e personali da far paura. Jolie è la prima a rompere l’imbarazzante silenzio che si è venuto a creare. “Tu sei Dan Solo vero? Lo scrittore…” Non immagina neppure quanto sia ironico chiamarmi in quel modo. “Mi sembrava di averti riconosciuto. Ho seguito i fatti di pochi giorni fa, è da lì che ho iniziato a sentire che stava per succedere qualcosa.” La guardo finendo il mio caffè. I vapori dell’alcol scompaiono del tutto dalla mia testa, e, quasi fatalmente, la Voce torna a farsi sentire. E quello non è ancora niente puttanella, vedrai tra poco… Ormai ho imparato ad ignorarla, anche se questo mi causa una leggera, costante emicrania. Jolie mi guarda come per chiedermi qualcosa ma


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alla fine sceglie di tacere. Gliene sono grato. “Rasputin ha con sé mio figlio, Simon.” Le spiego cercando di tappare la mia mente il più possibile. “Forse come ostaggio, non so, ma venendo qui, dove lui è diretto, spero di riuscire... Cosa speri fallito di merda? Tu lo sai che Rasputin gli sta “parlando” vero? … di riuscire a salvarlo.” Jolie annuisce con tristezza. Non capisco se si senta in qualche modo responsabile, non so neppure se capisca davvero in che situazione si trovi. “Signora Melee, cosa può dirci di suo fratello?” La domanda di Cloud riecheggia nella stanza in modo sinistro. Mi accorgo che è stato toccato un punto vivo, quello che brucia di più. “Non posso dire di averlo davvero conosciuto.” Inizia lei. “Quello che so è ciò che mi è stato raccontato dai miei genitori. La sensazione che ho sempre avuto è che Rasputin non appartenesse a questo mondo, che fosse nato per fare cose molto più grandi che il semplice contadino.” “A cosa si riferisce?” Chiede Cloud. La donna ci osserva immobile e poi, dopo un lungo sospiro, inizia a raccontare. La storia di Rasputin Emerald Melee Tanto tempo fa, prima del rapimento di Simon, prima di Dan e del suo enorme successo, prima ancora delle Scritte sul muro, c’era un'umile famiglia di contadini proveniente da lontano. I loro antenati si erano insediati nella Terra Gialla già da tre generazioni. Quella famiglia aveva visto fiorire il grano innumerevoli volte, lo aveva raccolto, si era cullata al dolce vento settembrino che carezzava i campi come un manto. Lì aveva visto nascite e morti, aveva vissuto momenti belli e altri tristi. A quel tempo i Melee erano gli agricoltori più in vista della regione. Riuscivano ad ottenere tre volte il prodotto dei loro vicini, tutto grazie alle fatiche dei capofamiglia, instancabili lavoratori temprati da sudore e terra.


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Correva l’anno 1959, l’anno del grande caldo, l’estate più torrida che i vecchi del paese ricordino, un periodo deleterio sia per i raccolti che per la salute. Molti furono gli anziani che morirono in quel periodo, e molti pure i neonati, gracili creature cui l’afa pomeridiana toglieva lentamente il respiro. In quel periodo Penny Melee ebbe la sventurata idea di rimanere incinta. Nei mesi seguenti vi fu un via vai senza sosta di medici e dottori; i capofamiglia non avrebbero sopportato di perdere uno dei loro, e cosi il piccolo Emerald nacque, in un'assolata mattina di settembre, tra le lacrime commosse dei presenti. Il momento difficile non era già finito: negli anni successivi, quelli più a rischio per il piccolo, continue cure ne garantirono la piena salute. Con l’arrivo del marzo Emerald iniziò a correre tra i filari di grano, i suoi capelli erano dorati mentre gli occhi tendevano ad un cupo nero e profondo. Penny e suo marito Duff guardavano crescere il piccolo col cuore pieno di orgoglio, scoprendo giorno dopo giorno un nuovo progresso, un piccolo passo avanti verso il futuro. Era un bellissimo bimbo sano e pieno di vita. Suo nonno Chuck fu il primo ad accorgersi di alcuni strani atteggiamenti. Spesso lo portava a giocare al ruscello in mezzo al bosco; qui gli insegnava a riconoscere le piante e i primi rudimenti sulla pesca. Il piccolo Emerald, aveva sette anni allora, lo guardava a bocca aperta con gli occhi sgranati mentre gli venivano mostrate la canna, la lenza e i bachi; poi insisteva perché lo facesse provare. Sotto lo sguardo soddisfatto di nonno Chuck prendeva l’amo e lo osservava a lungo rigirandoselo tra le dita, poi afferrava un piccolo baco e lasciava che si divincolasse per qualche secondo nella sua mano. Si voltava verso il nonno sorridendo e infilzava il baco per la coda. In una di quelle giornate, ripetendo quell’operazione per l'ennesima volta, qualcosa cambiò in lui. Il verme si agitava convulsamente sul ferro acuminato dell’amo: Emerald scoppiò a ridere ma, nonno Chuck ve l’avrebbe confermato con un fil di voce, non fu la risata di un bambino di sette anni. Era uno stridulo gorgoglio, il rumore di un pneumatico che si sgonfia misto ad un’unghia fregata contro una lavagna. Emerald osservò il baco piegarsi su se stesso e rise. Poi, con lo sbigottimento del nonno, afferrò la testa del baco rigirandola verso la punta dell’amo e trafiggendolo nuovamente. Le risate si fecero ancora più


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terribili alla vista di quella povera creatura che moriva, il piccolo si voltò verso il nonno e smise di ridere riassumendo l’innocente espressione di sempre. Quella fu la prima volta che Chuck ebbe paura di lui. Un terrore maturato sulle molte leggende della sua infanzia, storie di spiriti maligni che infestano bambini, baobab e uomini neri che ne prendono il controllo. Fu la prima volta, ma non l’ultima. Una sera si trovava in veranda a fumare la sua vecchia pipa impegnato nel suo passatempo preferito: intagliava il legno con un coltellino tascabile. Si accorse di Emerald solo grazie ad un movimento alle sue spalle. Voltandosi lo trovò lì, in piedi nell’ombra, che lo osservava. Sorrideva innocente. I suoi occhi erano fissi sul coltellino, occhi neri e profondi come un pozzo scuro. Chuck si sentì subito a disagio e gli disse di andare a letto. Ma quello era come in trance quindi il nonno lo scosse per le spalle. Emerald gli lanciò allora un’occhiata vacua e assente, uno sguardo pieno d’odio e furia che, avrebbe giurato, non apparteneva a questa terra. Pochi giorni dopo morì Fragonard, il pappagallo colorato che Penny teneva in cucina. Fu trovato completamente spennato con una profonda incisione appena sotto il becco. Chuck da quella sera non trovò più il suo coltellino. Passarono altri anni, nuove stagioni e nuovi raccolti. Il tempo copre anche ciò che dovrebbe essere tenuto a mente, e quando, l’inverno successivo, Chuck Melee spirò, portò con sé nella tomba i dubbi che aveva covato sul giovane nipote. Emerald continuò a pescare da solo e presto fu introdotto dal padre nell’arte della caccia. Era il migliore in questo campo. Non vi era colpo che andasse a vuoto, i suoi occhi brillavano ogni volta che stringeva tra le mani il corpicino straziato di un uccellino. Si sentiva bene quando uccideva, ma si sentiva meglio quando le prede non morivano subito, quando ancora si divincolavano davanti a lui. Era in quei momenti che l’eccitazione saliva al massimo, che si sentiva un potentissimo dio, un dio latore di morte. Un settembre, con l’apertura delle scuole, tutto sembrò cambiare... Emerald aveva quindici anni quando conobbe Betta Excel. Le si sedette accanto in una bella mattina di primavera e per una volta


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i suoi occhi parvero addolcirsi; poche ore dopo discutevano animatamente, un po’ imbarazzati e confusi. Al ballo della scuola, tre mesi dopo, si scambiarono il primo, lungo bacio. Seguì un periodo di gioia assoluta. Emerald usciva la sera di nascosto e sgattaiolava in città sulla sua bicicletta nera; l’appuntamento era sempre nella piazza centrale, sotto il lampione spento. Lì rimanevano sere intere guardandosi negli occhi. Il tempo sembrava trascorrere veloce in quei momenti, quasi fatato. Betta aveva la pelle chiara esaltata dalla luce lunare, sfiorarla era un’estasi assoluta che il giovane Melee avrebbe voluto provare per sempre. In una di quelle sere Betta confessò a Emerald la sua grande passione: la scrittura. Il discorso nacque quasi per caso, ma già la notte seguente stavano leggendo abbracciati un piccolo racconto scritto da lei. Emerald sentì di entrare a contatto con un mondo di purezza assoluta, lontano mille miglia dal campo dei suoi genitori, dal raccolto stagionale e dalle ore di lavoro sotto il sole. Sentì subito il bisogno di esternare ciò che aveva dentro, di farlo defluire attraverso la delicata punta di una penna. Iniziarono a scrivere insieme. Spesso dopo aver fatto l’amore, sdraiati sul fieno dietro casa sua, completamente nudi si lasciavano andare alla poesia di un verso o all’indeterminata malinconia di un pensiero fuggente. Scrivevano pagine intere magari ridendo abbracciati, poi se le rileggevano con un po' di imbarazzo. Si interrompevano solo quando sentivano i passi di qualcuno che si avvicinava, rendendo quel loro piccolo segreto ancora più proibito ed eccitante. Amava Betta con tutto se stesso. Amava il suo corpo e la sua mente, ma ancora di più amava il mondo che gli aveva fatto conoscere, dove con una penna in mano sentiva di poter cambiare il corso della storia. L’adolescenza di Emerald trascorse così, in un soffio magico quanto breve. A diciassette anni venne a contatto con un aspetto della vita che non conosceva ancora: le classi sociali. Avvenne con durezza inaudita. Betta era una Excel, e nella Delange voleva dire appartenere alla metà con le mani prive di calli. Emerald era un Melee, la metà che sul cibo che mangiava doveva sputare sangue.


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Non passò molto perché il padre di Betta venisse a conoscenza della relazione della figlia; un dramma Sheacksperiano che la storia ha perpetuato più volte, e non passò molto perché prendesse drastici provvedimenti. Era la sera del suo compleanno, lui e Betta si erano ritrovati nel consueto fienile. Lei era ancora più bella del solito; con un sorriso porse al ragazzo un piccolo pacchetto ornato con carta fiorita. Quando l’ebbe aperto Emerald sentì il cuore sprofondargli dalla gioia. Una bellissima stilografica dorata scintillava nell’oscurità del luogo, sul dorso aveva una decorazione con un drago intrecciato che si mordeva la coda. Guardò la ragazza con occhi umidi e si avvicinò per baciarla. Senza preavviso si sentì alzare di peso e con sua somma sorpresa fu scaraventato contro la parete. Betta gridò spaventata ma un’altra ombra le tappò la bocca trascinandola fuori. Emerald tentò di alzarsi ma ricevette una serie di calci sul fianco che gli fecero sputare sangue. Poi una possente mano lo trascinò alla luce continuando a colpirlo sul volto e gettandolo nella polvere illuminata dalla luna. Quando Emerald aprì gli occhi tumefatti scorse il profilo del padre di Betta. Quello si avvicino parlandogli piano, la voce tremava di rabbia e vergogna. Disse che non avrebbe voluto arrivare a questo punto, che se pensava alle sudice mani che avevano sfiorato sua figlia si sentiva rabbrividire… disse che se si fosse nuovamente avvicinato a lei avrebbe fatto finire tutta la famiglia Melee in una fogna. Un ultimo colpo gli fece battere forte la testa a terra. Prima di perdere i sensi il giovane scorse in un angolo, nascosta, la stilo dorata che Betta gli aveva donato pochi minuti prima. Pianse lacrime di rabbia e frustrazione e improvvisamente sentì dentro di sé esplodere con violenza tutto il suo sadismo represso. Tutta la sua voglia di fare del male, attenuata dalla presenza di Betta, riemerse con fragorosa, trionfale crudeltà. Adesso però non era come un tempo, pensò con un sussulto, adesso aveva imparato a scrivere. Dopo quella sera niente fu uguale a prima. Emerald si svegliava ogni mattina bruciando rancore, odiava gli Excel per come l’avevano spinto verso la parte più buia di lui, odiava se stesso per non aver il coraggio di vendicarsi, odiava anche Betta per avergli mostrato l’amore e poi non aver fatto niente per preservarlo intatto. Odiava la sua famiglia e la sua esistenza, una quotidianità che tarpava


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le angeliche ali del suo genio. Scrivere non gli bastò più. Con Betta si era sentito un dio, ed era esattamente quello che era: il dio di un mondo bianco, simile alle pagine che aveva davanti. Un mondo dove tutti gli uomini sono bianchi fogli di carne. Lui è uno scrittore, gli scrittori scrivono.

Jolie guarda fuori dalla finestra verso un indefinito punto del cielo. Cloud rimane a braccia conserte riflettendo su ciò che ha appena sentito, io mi rigiro nelle mani la stilo dorata. “Il resto dovreste conoscerlo pure voi.” Conclude lei. “Iniziò a scrivere dapprima sugli animali, per poi passare al piccolo Edgar, mio fratello.” Trattiene a stento un gemito. La osservo ma la mia mente è altrove. Mi chiedo quando abbia iniziato a sentire la Voce, perché anche lui, ci giuro, la sente. “Io, dopo la morte dei miei genitori, ho dovuto convivere con questo cognome maledetto. In una realtà come questo piccolo villaggio può essere un vero inferno.” I suoi occhi sono duri e temprati. “Mi sono trasferita in città arrangiandomi come meglio potevo e il resto, bé… anche questo è storia.” Cloud tossisce tentando di alleggerire la tensione. “Si è più rivisto con Betta?” Chiede incuriosito. Jolie sorride malinconicamente carezzandosi la lunga ciocca di capelli. “Quella notte fu il loro ultimo incontro. Non molto tempo dopo Rasputin fu spedito al sanatorio. Vedete? In questa terra maledetta persino le belle favole vanno a puttane.” Mi alzo avvicinandomi alla finestra, ignoro ancora la Voce che ridacchia in me e mi rivolgo alla donna. “Jolie, sento di dover essere sincero con te.” Quella mi guarda seguendomi con lo sguardo. “Se siamo venuti solo noi due, senza la polizia, c’è un motivo ben preciso.” Cloud mi osserva in silenzio. So che non può esserne convinto quanto me ma non importa, è un cammino che finirò da solo. “Non siamo qui soltanto per fermare tuo fratello, io sono qui per ucci-


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derlo.” Jolie annuisce piano. Poi, alzandosi, mi mette una mano sulla spalla. “Ti auguro di riuscirci Dan, ma ricorda che in questo posto sono molti anni che manca un lieto fine.” E infatti nessun lieto fine brutta troia. Sottolinea caustica la Voce.


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Capitolo 22 Dubbio

La notte trascorre inquieta e silenziosa. Abbiamo tutti dei fantasmi contro cui lottare e alcuni di loro si nascondono là fuori nel buio. Cloud continua a consumare la sua industriale quantità di sigari. Si affaccia ogni poco alla finestra scrutando l’ombra circostante e poi lancia una piccola imprecazione. Lo osservo sprofondato nel divano del salotto e la sua continua tensione contrasta con la mia totale inerzia. Non ho più molto tranne la volontà di salvare mio figlio. Comprendo, nella vita, di aver incrociato la strada di un essere che rappresenta tutto ciò che odio, eppure è anche tutto ciò a cui una parte di me aspira senza tregua. Mi rendo conto che la storia di Rasputin è una storia fantastica. È il racconto che ogni scrittore vorrebbe produrre, ed ecco il sottile divario tra lo scrivere e l’essere scritti. Da qui passa tutta la storia, nostra e dei nostri cari. Dall’intuizione geniale di una mente isolata nasce un mondo di infinite possibilità, e, di contro, di responsabilità di cui ti devi far carico. È. facile creare un personaggio, un po’ meno renderlo credibile, ma quando ci riesci, quando dalla tua penna escono frasi che non gli metti in bocca, ma che sai lui direbbe, fin dove puoi spingerti? Quando quel personaggio inizia ad avere dei diritti con i quali fare i conti? La mia vita è stata tutta un’oscillazione tra questi due estremi. Creare ed essere parte di un creato ben più grande e forse questa è la vita di tutti, forse siamo tutti, a modo nostro, scriventi e scritti. Jolie entra in salotto chiedendoci se gradiamo del caffè. Cloud ringrazia annuendo, io faccio cenno di no rimanendo nella penombra lunare. E poi, in mezzo a tutti i miei pensieri, c’è un particolare oscuro, quasi un angolo sfuocato di una foto rivelatrice. C’è un’analogia in tutto il


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racconto di Jolie che mi sfugge, qualcosa che sento potrebbe essere fondamentale. Rasputin ha sempre avuto un grande disegno per ciò che ha fatto: i suoi piani prima del sanatorio, la paziente attesa di un’occasione per fuggire, i metodici squartamenti su cui scriveva. In questo quadro l’unica cosa che stona è il finale. Cloud lo trova perfettamente comprensibile ma io no. Rasputin non ha mai conosciuto Jolie, mi chiedo se davvero stia rischiando tutto tornando qui soltanto per porre fine alla vita di sua sorella. In qualche modo, e non che la cosa mi faccia piacere, sono entrato in contatto con la tenebra di Rasputin. Forse condividendo in quell’attimo fatale la sua follia, ma adesso penso di capire il suo punto di vista. Sento che ancora non abbiamo completamente chiare le sue intenzioni. Dalla stanza accanto mi arrivano ovattate le voci dei miei due compagni: un disperato secondino dall’esistenza distrutta e una prostituta dalla sfiorita bellezza. Il riflesso che vedo sulla finestra mi suggerisce che non sono migliore di loro. Era l’ora che te ne rendessi conto mister “Prima pagina”. Mi prendo la testa tra le mani maledicendo la Voce, ma soprattutto maledicendo me stesso, la mia esistenza, le infinite cazzate che ho compiuto che hanno condannato chi mi stava accanto al dolore e alla morte. Vorrei davvero morire in questo istante, sprofondare nelle tenebre che ormai ho imparato ad occupare. La delicata mano di Jolie mi si posa sulla spalla. Non avrei voluto che mi vedesse così ma ormai le apparenze non servono poi a molto, mi sorride tristemente sedendosi accanto a me e porgendomi un bicchiere di liquore. “Non ci crederai ma nel mio lavoro ne ho visti a bizzeffe di uomini piangere.” La ringrazio sorseggiando piano il liquido; questo scende nella mia gola bruciando senza pietà ogni debolezza. “Persone che si atteggiano a grandi uomini inscenando un pre-scopata da oscar, ma che, una volta venuti, si rivelano per quello che sono: relitti di questa realtà senza dignità né orgoglio.” Il suo sguardo è dolce e severo allo stesso tempo: lo sguardo di una zia premurosa che riprende il nipote a cui vuole tanto bene. “Pur con molta fatica, e credimi, sottolineo molta, ho cercato di mantenere sempre una mia dignità, nonostante il mio lavoro e la mia vita, no-


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nostante la fama di mio fratello. Ho sempre pensato che il cognome Melee non meritasse di morire con uno psicopatico e una puttana idealista.” Si lascia fuggire un’amara risata. “Adesso mi dite che invece sarà proprio così, o almeno ci sono buone possibilità che accada.” Prende le mie mani nelle sue. “Dan, sono pronta ad accettare il mio destino, ma non voglio che nessuno soffra più per le azioni di mio fratello, mi capisci?” Mi colpisce la sua capacità di introspezione. Con poche occhiate la donna che ho davanti ha colto perfettamente la mia volontà di morire, una volta salvato Simon. “Forse non posso capire come ti senti adesso ma so benissimo cosa significhi crescere da soli, tuo figlio non merita questo.” “Cosa sai tu di mio figlio?” Le dico lasciando la sua mano. “Cosa cazzo sai di cosa è meglio per lui? Pensi di aver qualche diritto di parlare della mia famiglia? Se la vostra fottuta stirpe non avesse messo piede qui loro sarebbero ancora vivi e io… io…” Le parole mi si inaridiscono sulle labbra. Mi rendo subito conto di aver sbagliato di nuovo, di aver fuggito una parola di conforto ignorando le mie responsabilità. E ne hai, cazzo se ne hai. Finisco l’alcolico in un sorso e cerco di calmarmi. Jolie mi guarda ancora, visibilmente ferita dalle mie parole, non se le meritava. “Scusa Jolie, non avevo il diritto di dirti quelle cose.” “No, scusami tu. È tutta la vita che tento di sopprimere questo dannato atteggiamento da crocerossina.” Le sorrido stringendole nuovamente le mani. “Non devi, è una qualità rara, credimi.” Quella risponde alla stretta e poi, dopo averci pensato un attimo, annuisce. “Promettimi che salverai tuo figlio ma promettimi che salverai anche te stesso, ti prego.” Mi guarda dritta negli occhi. Forse è una cosa che serve anche a lei: la tenue certezza che da tutta quella storia possa uscire qualcosa di buono, qualcosa di puro. “Sono qui per questo Jolie.”


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Le mento. “Secondo i miei calcoli, studiando la velocità dei suoi spostamenti, Rasputin stanotte dovrebbe essere in città.” Cloud osserva attentamente la mappa del territorio stesa sul tavolo di cucina. “Potrebbe aver avuto qualche inconveniente.” Dico. Quello scuote pensoso il capo. “Sa di non poterseli permettere. Te l’ho già detto Dan, è al limite e ne è consapevole, sapevi che ha ancora il proiettile nel cranio?” Lo guardo stupito. “Non glielo tolsero al momento giusto perché si trovava in una posizione delicata, ma il fatto è che le cose non sono cambiate. Se Rasputin prendesse una brutta botta in testa potrebbe lasciarci le penne all’istante. Il che va tutto a nostro vantaggio.” Conclude. “Pensi che il signor P. sia ancora con lui?” Ho ancora in mente la sua pupilla dilatata con la mosca sopra. “Possibile. Quello stronzetto è una pellaccia dura a morire, e sicuramente non avrà gradito le decorazioni facciali che gli hai regalato l’ultima volta.” “Né io ho gradito il suo ricordino.” Ribatto toccandomi il centro della schiena, ancora dolorante e pulsante. “Bene Dan”, mi guarda a braccia conserte, “come vogliamo organizzarci?” Studio attentamente la zona intorno alla cascina Melee. Una vasta area boscosa si estende quasi abbracciando la casa. Al di là vi sono campi che delimitano ulteriori abitazioni. Sento nuovamente la pulce nell’orecchio, quel dannato particolare che continua a sfuggirmi. Lo scaccio con forza tentando di organizzare i miei pensieri. “Non so Cloud, sei tu l’esperto, io so soltanto scrivere.” Scandisco quest’ultima parola rabbrividendo. Il mio compagno mi guarda scuotendo il capo. “Ok, propongo di fare dei turni al di fuori dell’abitazione. Uno di noi starà qui con la signora Melee, l’altro pattuglierà la zona intorno.” Estrae dalla tasca due piccole trasmittenti grigie. “Con queste saremo sempre in contatto, che ne dici?” Ne prendo una annuendo un po’ sollevato. L’idea di trascorrere tutta la notte in quella casa mi metteva i brividi. Il


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piccolo Emerald vi ha lasciato molto più che la sua adolescenza, è come se una presenza oscura permeasse le mura stesse. “Inizio io fuori, d’accordo?” Impiego qualche minuto per convincerlo ma quando gli mostro la pistola che tengo saldamente in tasca, pur a malincuore, mi lascia fare. “Fatti sentire ogni cinque minuti Dan, altrimenti vengo fuori a prenderti a calci in culo.” Sorrido infilandomi il giubbotto. Jolie mi porge una torcia intimandomi di fare attenzione. Il delicato profumo che emanano i suoi capelli mi ricorda per un attimo Sheila, stringo le labbra ed esco nella buia campagna. Nel farlo mi coglie un brivido. Mi volto di scatto verso la casa ma la porta è già stata chiusa. Ho una strana sensazione, come se quella fosse l’ultima volta che avrei visto Jolie. L’aria è molto più fredda in quel luogo. Un vento fastidioso mi smuove i capelli. Guardandomi intorno mi assale con un brivido il ricordo di una settimana prima. Pensi forse che stasera qualcosa andrà diversamente? Accendo la piccola torcia osservando il secco profilo degli alberi che circondano la casa. I rami, talvolta verdi, talvolta scheletrici, tendono le braccia verso le mura in cemento, quasi a volerle ghermire. Dentro, al di là dei cespugli, un nero pece emerge pesante. Ho appena finito il giro della casa quando sento la radiolina gracchiare al mio fianco. “Tutto bene lì?” La voce di Cloud è mutuata dalle onde radio a guisa di un robotico linguaggio. “Tira un bel po’ di vento, mettiti il giubbotto quando starà a te.” Concludo riponendola in tasca. Accanto al capanno della legna scorgo una vecchia altalena. Ne tiro le funi per saggiarne la tenuta e, con gli occhi ormai abituati alla luce lunare, mi ci siedo spegnendo la torcia. Il vecchio legno sotto di me cigola sommessamente. D’istinto mi metto le mani in tasca sentendo la fredda consistenza della pistola. Nell’altra si trova, avvolta da un panno nero, la stilo di Rasputin. Ignoro quale dei due oggetti mi sarà più utile con lui. Seduto sull’altalena mi torna alla mente Simon e il cuore mi si stringe diventando piccolo piccolo. In tutti questi giorni ho tentato di non pen-


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sare troppo a lui per avere la necessaria lucidità di fare ciò che andava fatto. Adesso però il suo volto sorridente si fa avanti senza possibilità di scampo. Tremo e non per il freddo, giurando a me stesso che lo ritroverò, sano e salvo. Che potrò riabbracciarlo. Lo sai che Rasputin gli parla. Non è il momento, grido dentro, non adesso. E lo sai che effetto ha la sua voce. Il tic nervoso all’occhio torna a farsi sentire. Sta andando sempre peggio. Gli attacchi della Voce, un tempo contenuti, adesso mi dilaniano il cervello e mi fanno desiderare di poterci infilare una mano dentro pur di farla cessare. Credo di star diventando matto. Non fare il modesto, hai già fatto tutto da solo… Mi alzo di scatto riprendendo il mio giro di perlustrazione. Forse muovermi mi aiuterà a non ascoltarmi. Una foglia mi si posa piano sulla spalla facendomi sussultare. Mentre me la scrollo di dosso sento ancora quella bruttissima sensazione. Ma davvero pensi di aver capito tutto? Quel particolare che ancora si ostina sfuggirmi, quella maledetta analogia. Vuoi venirci con me? Mi irrigidisco sentendo quest’ultima frase. Senza che possa arginarla in alcun modo la nenia di Rasputin torna inesorabile a farsi sentire. Qualcosa di fianco attira la mia attenzione. Deglutisco nervoso. Lentamente l’analogia che cercavo si disvela con tragica ovvietà. C’è un piccolo sentiero nel bosco, in disuso e mal illuminato. Davanti a me i cespugli si piegano ossequiosamente aprendo un piccolo passaggio. Al di sopra i fitti rami rendono impossibile il passaggio dei raggi lunari. Senza pensare a quello che sto facendo lo imbocco iniziando a camminare sempre più veloce. Il fascio della torcia mi indica le svolte improvvise, salto un paio di tronchi caduti ed esco nuovamente alla luce lunare. Davanti a me… Attraversa un campo di grano, un campo rosso sangue. Davanti a me si estende uno dei tanti campi della regione. Le spighe di grano sono piegate dal vento sempre più forte ma resistono


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fieramente simili ad un immenso esercito. Inizio a rendermi conto di qualcosa; non so ancora bene cosa sia, ma abbiamo fatto un errore di valutazione, e forse può costarci molto caro. Accendo con frenesia la radiolina gridando il nome di Cloud. Quello risponde spaventato chiedendomi cosa sta succedendo. “Passami Jolie, presto.” Tento di sovrastare il sibilo del vento con la mia voce. Per un attimo mi sembra quasi una sinistra risata, una risata di scherno e sconfitta. “Che succede Dan?” La voce di Jolie mi arriva filtrata da un migliaio di onde radio impazzite. “Rispondi a questa domanda senza chiedermi perché.” Mi chino tentando di prendere il segnale più chiaramente possibile. “Al di là del bosco dietro casa tua, al di là del campo che si trova dopo, c’è qualche grande abitazione nei paraggi?” Arriviamo a quella grande casa….. Jolie tace per qualche secondo. Poi la sua voce torna, ancora più spaventata. “Perché mi chiedi questo Dan?” “Ti prego, DIMMELO IMMEDIATAMENTE.” Grido con tutto il fiato che ho in corpo. “Al di là del campo c’è una grossa tenuta conosco chi ci abita è la tenuta degli Excel, vi abita Betta con la sua famiglia.” … la piccola donna di carta… Cado in ginocchio digrignando i denti per la rabbia e la frustrazione. Colpisco forte a terra lanciando un grido selvaggio. Stringo le mani a pugno fino a sentire le unghie. “Cloud.” Ansimo riaprendo la comunicazione. “Avevamo sbagliato. Rasputin non è tornato nella Delange per sua sorella. La sua ultima vittima sarà Betta Excel.” Scriviamoci sopra vuoi? Lei è tanto gentile, grida sempre in silenzio…


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Capitolo 23 Betta play the piano

Ignorando le fitte di dolore che vengono dalla mia schiena corro a perdifiato facendomi strada attraverso le alte spighe. “Mi vuoi spiegare dove ti sei cacciato?” La voce di Cloud mi arriva ovattata e lontana. Afferro la radio e cerco, ansimando forte, di fargli capire la situazione. “Ascoltami bene Cloud perché non avrò il tempo di ripeterti neppure una parola. Quando incontrai Rasputin la prima volta mi ipnotizzò cantandomi una strana canzoncina.” Decido di ignorare i mugugni increduli che avverto all’altro capo della comunicazione. “Questa parlava di un bosco, di un campo e poi di una grande casa. Ora, se la tua teoria dell’ultima vittima è valida, forse vuol dire che già allora era convinto che avrebbe finito con Betta, colei che, indirettamente, lo aveva salvato dalla sua follia per poi rigettarcelo in maniera definitiva.” Sputo a terra tentando di scandire bene le lettere. Cristo, è tutta la vita che scrivo e adesso non ho il tempo di costruire una frase che abbia senso logico. “Non ti capisco Dan.” “CAZZO, FREGATENE DI CAPIRE E FIDATI DI ME. Rasputin sta andando alla tenuta degli Excel e lì ucciderà Betta e Simon. ALZA IL CULO E RAGGIUNGIMI CON LA MACCHINA.” Mando un’imprecazione spegnendo la radio. “CAZZO CAZZO CAZZO.” Davanti a me si staglia una grande massa scura, probabilmente la mia destinazione. Le luci dei lampioni, illuminanti la strada maestra, sono spente in prossimità del perimetro della villa. Esco con un salto dal campo inciampando sui miei piedi e capitombolando in mezzo al sentiero. Nel rialzarmi mi tocco le tasche accertan-


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domi che tutti gli oggetti siano al loro posto. Rallento la corsa estraendo la pistola, la osservo un attimo togliendole la sicura. Dentro di me la Voce riprende a cantare quella maledetta nenia. Vuoi venirci con me? Vuoi venirci con me? Accanto al cancello d’ingresso si trova una scura macchina senza targa, l’interno è vuoto. Mi irrigidisco scorgendo l’inferriata socchiusa e un lucchetto spezzato a terra. Vuoi venirci con me? Vuoi venirci con me? Al diavolo la discrezione, al diavolo la prudenza e pure al diavolo Betta, là dentro si trova mio figlio. Spalanco il cancello con un calcio entrando nell’oscuro giardino. L’imponente struttura assomiglia ad un’aulica villa granducale. Un vialetto ben curato è costeggiato da cespugli regolari, l’unica tenue luce proviene dal portico sulla facciata. Intravedo a grosse lettere la targa “EXCEL” su un rilievo di marmo. Mi avvicino al portone di legno scuro. In una mano impugno saldamente la pistola, intorno a me il vento sembra essersi momentaneamente placato. Vuoi venirci con me stronzetto? O ti caghi troppo sotto per farlo? L’atrio è, tanto per cambiare, completamente buio. Mi chiedo se sia il caso di gridare per attirare l’attenzione. Odio ammetterlo ma ho paura, una fottuta paura di perdere nuovamente mio figlio. Striscio in compagnia delle ombre all’interno dell’abitazione. C’è un pesante silenzio che copre tutto come un sudario. L’arredo è di pregevole fattura, quasi da cartolina, e contribuisce a creare un’atmosfera surreale di incredibile consistenza. Mi asciugo dalla fronte le perle di sudore della corsa. Ancora una volta sono una preda, cazzo, e Rasputin è sempre il solito dannato predatore. Improvvisamente inciampo su un ostacolo di cui non mi ero accorto e, mandando un vergognoso grido, finisco per la seconda volta a terra. Nel rialzarmi vedo il corpo martoriato della prima vittima. È un maschio adulto. La luce lunare che filtra dalle finestre gli illumina il volto contratto in un urlo soffocato. La pelle sotto gli occhi è arricciata su se stessa scoprendo le vene sottostanti, alcuni denti gli sono stati strappati con violenza. L’apparato genitale è stato asportato. Mi metto una mano alla bocca soffocando un conato di vomito e scatto in piedi sull’attenti. Maledico me stesso guardandomi intorno con


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l’arma stretta in pugno, quando avviene qualcosa che trasforma le mie ginocchio in mollicce appendici. Nel buio immobile della stanza, infrangendo un silenzio quasi sacrale, sento le dolci note di un pianoforte. Chiudo un momento gli occhi pensando di essere totalmente impazzito, ma quel tenue suono resta, quasi come un richiamo proveniente dal piano superiore. È una musica delicata, suonata con raffinatezza. Le note si dilatano dolcemente nell’aria dipingendo onde concentriche di magiche vibrazioni. È una suonata triste e malinconica, come un addio tra due amanti o la rabbia repressa verso un mondo che non si riesce ad accettare. Mentre la musica continua la Voce mi parla ancora, ma stavolta con maggior garbo, stavolta assomiglia quasi alla voce di… … Sheila Ciao amore mio… Il cuore si stringe in una morsa di commozione. So che non è lei, lo so bene, ma ad una parte di me non interessa pur di poterle parlare ancora. Mi manchi sai? Gli occhi mi si inumidiscono senza che possa farci niente, sei uno stupido! Mi grido di correre di sopra, di andare a salvare Simon, di smetterla di perdere tempo. Qui è tutto buio e freddo… Mi muovo piano avvicinandomi alle scale. La musica viene da un pianoforte al primo piano, la sento sempre più forte. Come mai è finito tutto cosi, amore mio? Digrigno i denti lottando con la voglia che ho di risponderle. Se inizio a parlare da solo è finita, vanificherei tutti gli sforzi di mantenere un pur tenue controllo della situazione. Tutti i nostri sogni, la nostra felicità, tutte le nostre promesse… Comincio a salire le scale stringendo il calcio della pistola con tutta la forza che ho. La musica si fa sempre più vicina. Mi avevi detto che sarebbe andato tutto bene, tutto bene… Mi sento vicino al limite, un recinto oltre il quale non sarei più in grado di tornare. ...e adesso sono qui da sola, al buio e al freddo… Estraggo la stilo di Rasputin dalla tasca facendola oscillare nel buio dell’atrio. … dimmi che mi ami, ti prego, dimmi che…


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Con una smorfia me la pianto sull’avambraccio mugolando di dolore. La punta di acciaio penetra nelle mie carni bevendo un sangue che da troppo tempo non aveva più ricevuto. Quando la estraggo ansimo forte e il sudore si mischia alle mie lacrime. Sheila non parla più. Sono al limite. Lo sono come non lo sono mai stato, con un’intensità che per anni, invano, ho cercato di far emergere nei miei romanzi. Riprendo la pistola e arrivo in vetta alle scale. Il corridoio è pieno di quadri dai severi ritratti alle pareti, l’unica finestra sul fondo è tarpata da bianche tendine ricamate. I suoni provengono dalla porta sulla sinistra. La musica, come era cominciata, finisce. L’ultima nota, un do basso e prolungato, riecheggia in tutta la villa per qualche secondo. Con una spinta spalanco la porta. È una stanza grande: una specie di salotto, con al centro un elegante pianoforte bianco. Sul sedile, di spalle, un’esile figura femminile. Immobile. Mi faccio avanti come ipnotizzato, la mano con la pistola inizia a tremare. Arrivo alle spalle della donna e allungo le dita verso le sue spalle, le ombre della stanza sembrano sinistri fantasmi in movimento. Appena la sfioro si reclina all’indietro come nel mio sogno, e per un attimo sono sicurissimo di trovarvi il volto di Sheila. Colei che un tempo doveva essere Betta cade a terra con un tonfo secco. Le sue palpebre sono vuote. Le pupille strappate sadicamente via, le dita sono sporche di sangue e innaturalmente contratte, premute con forza sui tasti rossi del pianoforte. Sulle guance, ancora rosee, si trova un’incisione fatta col sangue. Ti sono mancato amore mio? Il senso di sconfitta si mescola in me ad un crescente terrore. Mi aspetto da un momento all’altro un agguato alle spalle. E in effetti la porta dietro di me si spalanca. Mi volto preparandomi allo scontro quando intravedo il profilo di Cloud, i suoi lineamenti tesi e nervosi. “Dan!” Esclama agitato, fermandosi sulla soglia. Faccio un passo nella sua direzione quando si scatena l’inferno. Un’ombra scatta repentina da dietro la porta agitando le braccia. Non faccio in tempo neppure ad aprire la bocca che il grido mi muore dentro. Il corpo di Cloud sussulta ripie-


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gandosi all’indietro. Le luci si accendono illuminando una scena da incubo. Il signor P. si trova accanto al mio compagno. Il suo braccio, agile e possente, è penetrato dentro il suo inguine. Sul suo volto un ghigno malefico mi ricorda l’abisso di follia dal quale tutti proveniamo. Cloud boccheggia emettendo un flebile gemito, chiamo il suo nome ma mi rendo conto che è del tutto inutile. La mano, come era entrata, esce con chirurgica precisione portando con sé parte dell’apparato genitale di Cloud che cade a terra mentre il sangue inizia a schizzare ovunque dalla ferita aperta. Il signor P. si volta verso di me sibilando. Sul suo volto numerose cicatrici tentano invano di rimarginarsi: un occhio è completamente chiuso, l’altro bizzarramente sbilenco, quasi cucito da un sarto maldestro. Inizia a ridere con tono crudele, poi, in un attimo che non dimenticherò mai, addenta i sanguinolenti testicoli di Cloud strappandone una parte con un morso selvaggio. Mentre mastica, un filo di bava rossa inizia a colargli dal labbro e finisce a terra, presto seguito da un grumo di carne molle e impastata. Sputa il suo macabro trofeo e si avventa con rabbia su di me. I miei gesti sono meccanici, freddi e lucidi, dotati di un distacco che in una situazione normale non mi sarebbe appartenuto. Alzo la mia arma verso il suo volto e faccio fuoco. I lineamenti del signor P. si dilatano per un istante per poi confondersi in un vortice scarlatto. La sua faccia si spalma sulla porta aperta creando un curioso origami liquido. Il corpo decapitato mi supera sbattendo contro il pianoforte e riversandovi sopra. Il sangue inizia ad uscire dal collo creando un forte contrasto col bianco dello strumento. Lentamente inizia a gocciolare sui tasti mischiandosi a quello delle dita di Betta. Cloud è a terra che urla e si divincola dal dolore. Le sue mani sono premute tra le gambe e tentano invano di arginare la cascata rossa che fuoriesce. Un’ombra sulla porta mi fa scattare sull'attenti. Mi volto puntando la pistola sul volto di Rasputin Melee. Quello è immobile e sorride. Accanto a lui, tenuto per un braccio, Simon mi guarda con espressione assente. Dentro di me esplode una furia immensa. Comincio a premere il grilletto accecato dalla sua immagine, una messa a fuoco che desidero ardentemente tingere di rosso. “SEI SICURO DI VOLERLO FARE PICCOLO DAN?”


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Le sue parole sono schermi da infrangere, stavolta non avrò alcuna esitazione. “SEI MORTO BASTARDO!” Grido alimentato dall’odio e dalla paura. Rasputin, con un gesto fluido, avvicina al collo di mio figlio la punta di una penna scura. “Non l’avevo previsto”, inizia a dire con una voce che sembra stanca, “ma posso aumentare ulteriormente il numero delle mie vittime se lo desideri.” Simon mi guarda ma sembra non vedere niente. Non posso neppure immaginare quello che ha dovuto passare in questa settimana. “LASCIALO STARE RASPUTIN, LASCIALO.” Grido con sempre minor convinzione. La penna preme sulla pelle del suo gracile collo. Con disperazione mi rendo conto che siamo in una situazione di stallo. “PICCOLO DAN MI HAI STUPITO SAI? Non credevo che il bambino piagnucolante di quindici anni fa potesse arrivare cosi lontano.” “STA ZITTO PEZZO DI MERDA.” I gemiti di Cloud alle mie spalle vanno via via scemando. Sta morendo dissanguato. “Perché ti ostini a non rendertene conto? Io e te siamo simili, siamo della stessa razza, e anche tuo figlio seguirà le nostre orme.” “NO!!!” Grido con le lacrime agli occhi. “CHE CAZZO GLI HAI FATTO BASTARDO. CHE CAZZO GLI HAI FATTO?!” Rasputin sorride ma un’ombra vela i suoi occhi. Come Cloud aveva previsto è al capolinea. “Niente di cui preoccuparsi, gli ho soltanto parlato.” Le mani mi tremano di rabbia. Ad un tratto capisco che è il momento che Rasputin aspettava. Mi spinge Simon addosso facendomi perdere l'equilibrio e in un attimo sento le sue mani fredde colpirmi sul volto. La pistola mi sfugge rotolando in fondo alla stanza. Il suo corpo, pur gracile ed emaciato, rivela avere ancora una grande forza. Ricevo un pugno alla bocca dello stomaco e cado in ginocchio. Rasputin mi è immediatamente addosso. Lottiamo avvinghiati con furia selvaggia. Il suo volto è a pochi centimetri dal mio, il suo ghigno surreale mi schifa come il peggiore degli scarafaggi. La stanza sembra girare su di noi: Cloud tremante a terra, Betta dalle vuote pupille, il signor P. senza testa. Tutto diviene una girandola di movimenti confusi e suoni incerti.


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Fino a che non sento una fitta di dolore al petto. Rasputin ride estraendo dal mio corpo la penna che teneva in mano e mi cavalca con aria di trionfo. “SCRIVERO’ ANCHE SU DI TE PICCOLO DAN.” I suoi occhi sono quasi fuori dalle orbite in un delirio di folle onnipotenza. “RASPUTIN MELEE È IL PIU' GRANDE SCRITTORE DEL MONDO.” Mentre il sangue defluisce accanto al mio cuore sento di essere vicino a Sheila, sento di essere quasi arrivato a lei. Il braccio mi si affloscia inerte sul fianco. Sto per perdere i sensi quando avverto il profilo della stilo di Rasputin nella tasca dei miei pantaloni. Gli occhi mi si spalancano con rabbia per l’ultima volta. Infilo una mano in tasca ed estraggo la stilografica dorata. Quello se ne accorge e per un attimo il suo volto si dilata per lo stupore. “TE LA RICORDI QUESTA STRONZO?” Grido piantandogliela alla base del collo. “TE LA RICORDI?” Rasputin emette un sibilo penetrante scattando in piedi con le mani sulla ferita. Il sangue ruscella come una fontana impregnando l’aria di un’infinita quantità di goccioline. Gemo per la rabbia tentando di alzarmi ma la ferita sul fianco rende il tutto difficile. Rasputin barcolla voltandosi verso la pistola. Cerco di precederlo cingendogli le gambe. Cadiamo entrambi a terra, su questo pavimento rosso. Mi sembra che tutto il mondo sia rosso. Poi ci voltiamo verso la pistola, insieme, per afferrarla, quando... Simon è a pochi metri da noi con l’arma in mano. Con sguardo assente la punta nella nostra direzione. Rasputin inizia a ridere sputando copiosi fiotti di sangue. È una risata di vittoria. Osservo mio figlio, un innocente bambino di sette anni, e tento di raggiungerlo. “Ti prego Simon…” Boccheggio. “Lascia stare la pistola…” Un poderoso calcio mi schiaccia a terra. Sento il mio naso spaccarsi contro il pavimento. Le ultime energie defluiscono dal mio corpo, sento di aver perso. “SI, PICCOLO SIMON, SI.” Rasputin grida esaltato continuando a colpirmi sulla schiena.


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“ANCHE TU SCRIVERAI, ANCHE TU.” Sul fondo delle vuote pupille di Simon scatta qualcosa. Il suo volto assume una durezza che mi terrorizza. Con occhi carichi d’odio punta l’arma sullo Scrittore e fa fuoco. Le parole pronunciate da Rasputin cessano di colpo. Il suo corpo si affloscia accanto al mio. Vedo, nella sua bocca spalancata, un buco attraverso il quale gocciola sangue scuro. Chiudo gli occhi e mi avvolge quel senso di stanchezza infinita, la voglia di riposare, di dormire per sempre… Simon rimane immobile con l’arma in mano, la sua bocca è spalancata in un’espressione incredula. Sulle sue guance ci sono schizzi del sangue della sua vittima. “Simon…” Tento di chiamarlo nei miei ultimi secondi. Quello inclina appena il capo, il suo volto è una maschera spenta e fredda. “Non ascoltare mai le voci… mai.” Le pupille mi si reclinano all’indietro e con un sospiro le membra si irrigidiscono nella pozza di sangue che mi circonda. Simon rimane lì. In una solitudine venata di follia, accanto a quattro corpi martoriati da un odio profondo quanto l’amore. Le sue orecchie registrano appena il suono delle sirene della polizia. Quando riapro gli occhi Sheila è lì con me. Non mi stupisco, è di certo l’epilogo ideale per ogni amore che si rispetti, la giusta corona all’opera di un grande scrittore. sorrido con amore infinito e lei mi bacia teneramente sulla fronte. “Mi perdoni Shy?” Le sussurro in un orecchio mentre l'abbraccio. “Ormai sono abituata a doverlo fare.” Ride con quella sua espressione che riconoscerei tra mille, che non ha mai smesso di farmi battere il cuore. “Ma Dan! La vuoi smettere di chiamarmi cosi?”


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EPILOGO

Dopo gli eventi di quella che fu definita come “La notte in cui la Delange si tinse di rosso” la vita riprese, lentamente e con fatica, il normale corso di sempre. Cloud Shinra fu portato d’urgenza all’ospedale ma purtroppo morì durante il tragitto. Medici affermarono che aveva perso troppo sangue. Non aveva famiglia né parenti prossimi; al funerale, in un piccolo cimitero locale, erano presenti soltanto poche persone, per lo più colleghi del sanatorio. Lo scrittore Dan Solo fu celebrato con pompose esequie alle quali fu presente anche la televisione. La sua storia, dal vago gusto romantico, sembrò quella di un amore irriducibile che lo aveva portato a vendicarsi per la morte di sua moglie. I suoi libri subirono tutti un’improvvisa impennata nelle vendite per la gioia del suo editore. “Scritte sul muro” entrò nella top ten dei libri più venduti del secolo. Di Rasputin Emerald Melee si fece un gran parlare nei mesi successivi alla sua morte. Nella Delange divenne una leggenda con la quale i genitori spaventavano i bambini per farli rigare diritti. “Se non vai subito a letto viene a prenderti Rasputin col suo amico che non dorme mai.” E cose così. Jolie Melee chiese e ottenne, non senza qualche riserva, l’affidamento di Simon Solo. Parlò di un qualche suo “spirito da crocerossina” ma la verità era un’altra. Questa donna, forte e di indomito spirito, tentò fino alla fine di riportare dignità sul cognome di famiglia, di dimostrare che una mela marcia non poteva contaminare un intero frutteto. Volle bene a Simon come se fosse stato suo figlio. Simon non tornò mai ad essere un bambino normale.


Non fu mai come gli altri bambini, persi nei miti e nei sogni che l’età regalava loro. Non si relazionava agli altri, né condivideva con loro i momenti della sua crescita. Nessuno seppe mai cosa ricordasse della sua vita trascorsa o cosa gli avesse davvero detto Rasputin durante la settimana del sequestro. La sera amava salire sul tetto e da lì osservare il manto di stelle che costellavano il cielo. Talvolta Jolie gli faceva compagnia ma lui non le rivolgeva mai parola. Non perché avesse del risentimento verso di lei, semplicemente la sua presenza gli era il più delle volte del tutto insignificante. Dormiva pochissimo. Passava molto tempo ad osservare il soffitto della sua stanza cercando di districare la pesante nebbia che gli aleggiava nella testa. Poi una notte la sentì. Dapprima simile ad un sussurro, una voce gentile gli parlò con estrema delicatezza e amore. Gli disse che adesso non doveva più preoccuparsi, che non sarebbe più stato solo. Gli disse che c’era tutto un mondo là fuori che aspettava solo lui. Un mondo che aspettava di sentire parlare di lui. Quella fu la prima volta che Simon sorrise nel buio.


RINGRAZIAMENTI

Mari, babbo e mamma, l’ambiente fertile dove tutto è nato. Ale che era con me quando ho iniziato a scrivere e che ha dato un volto a questo libro. I miei primi lettori, Andre, Ric e Simo, per le critiche e i complimenti. Francesca, Luisa, Romina e Stefania, per l’entusiasmo contagioso. Cat che ci credeva anche prima di averlo letto. Andrea F. che, in un momento di svogliatezza, ha risvegliato le mie folli ambizioni. Cami per avermi mostrato la faccia di Rasputin. Infine Paola, la mia piccola isola felice circondata da onde scure. Fabio.



UN AIUTO A COLPI DI PENNA &

IL CLUB DEI LETTORI Grazie! TI RINGRAZIAMO PER AVERE ACQUISTATO QUESTO LIBRO, con il quale hai contribuito ad aumentare il fondo di “UN AIUTO A COLPI DI PENNA”, che a fine anno sarà devoluto a scopo benefico a favore di ASSOCIAZIONE DYNAMO CAMP ONLUS terapia ricreativa per bambini con patologie gravi e croniche (www.dynamocamp.org) Vota! INOLTRE, SE VOTERAI ONLINE QUESTO LIBRO parteciperai gratuitamente al concorso IL CLUB DEI LETTORI (www.clubdeilettori.serviziculturali.org) Soddisfatto o “Sostituito” Se la lettura di questo libro non ti avrà soddisfatto, potrai sostituirlo con un altro libro che potrai scegliere dal nostro vastissimo catalogo. (informazioni su www.ilclubdeilettori.com)

Le iniziative sono promosse da: => Zerounoundici Edizioni (www.0111edizioni.com) => ASSOCIAZIONE SERVIZI CULTURALI, che promuove la letteratura italiana emergente ed esordiente (www.serviziculturali.org)



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