Il veleno del cuore

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"Il veleno del cuore" di Barbara Risoli

Titolo: IL VELENO DEL CUORE Autore: Barbara Risoli Genere: Sentimentale Editore: Zerounoundici Edizioni Collana: Gli Inediti Pagine: 160 Prezzo: 12,70 euro Leggi online (integrale)

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PRODOTTO COPERTO DA COPYRIGHT Questo libro è stato regolarmente pubblicato ed è disponibile in libreria e nelle maggiori librerie online

DESCRIZIONE Siamo nell’estate del 1788 nella Francia pre-rivoluzionaria, messa a dura prova da un rigido inverno e in attesa del giorno dell’assemblea degli Stati Generali che precederanno la presa della Bastiglia. I protagonisti sono Eufrasia, figlia del conte Xavier des Fleuves, facente parte dei fisiocratici sostenitori del cambiamento, e Venanzio, un assassino prezzolato dal torbido passato. A seguito del mancato matrimonio della ragazza, i due s’incontrano e tra loro viene a crearsi un saldo legame dai risvolti inquietanti che mette in luce i loro animi senza scrupoli e disposti a tutto a favore di se stessi, a scapito degli altri. La richiesta di Eufrasia di inscenare il proprio omicidio per evitare il convento e l’esecuzione del servizio da parte del bandito, porta entrambi a cambiare identità celandosi nel cupo scenario della Francia in fermento, in ginocchio sotto la neve incessante dell’inverno 1788. Leggi online (integrale)


Barbara Risoli

IL VELENO DEL CUORE

www.0111edizioni.com


www.0111edizioni.com www.ilgiralibro.com

IL VELENO DEL CUORE 2008 Zerounoundici Edizioni Copyright Š 2008 Barbara Risoli ISBN 978-88-6307-126-9

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2008 da

Meloprint – Il Melograno Cassina Nuova - Milano


PROLOGO Anno 1784 Era riverso sul bancone dell’ultima locanda di Saint-Malo ove ancora gli facevano credito, permettendogli di avvelenarsi e trovando divertente la sua lenta agonia stillata dall’alcool con innumerevoli brindisi alla vita. Era un uomo giovane, arrivava a stento ai trent’anni e non conosceva più né dignità né limiti; viveva allo sbando, solo nelle notti buie e volteggianti o nei giorni accecanti ed insostenibili. Aveva perduto tutto o forse non aveva mai avuto niente. Respirava faticosamente, esisteva per una grazia divina senza senso, serviva a poco nel mondo e da tempo non riusciva più a dormire. Scrutava intorno a sé con un’espressione ferina ed il suo sorriso inclinato e triste incuteva un profondo disagio. Era allettante guardarlo scivolare nel delirio, poi accasciarsi come una bandiera senza vento e magari sospirare vinto da se stesso. Nessuno poteva salvarlo e la sua indifferenza allontanava chi pensava di poterlo fare per una sfida attuata sulla sua pelle. Detestava gli sguardi che lo fissavano impietositi o le parole pie che gli davano Dio come unico impalpabile appiglio. Non gli era più possibile dire quali erano i suoi desideri, ma li comprese tutti una sera, per caso, senza che potesse prevederlo, senza che il destino si fosse degnato di avvertirlo. Capì in un attimo di avere un solo sogno e quel sogno gli si presentò davanti in carne ed ossa, luminoso come una stella, simile ad un angelo e pesante nella caduta che lo affiancò a lui. Lo vide battere l’esile mano sul legno tarlato e guardare l’oste, sorridere magnifico e chiedere qualcosa di forte, contro ogni supposizione, contro qualsiasi regola… un diamante tra le pietre di quel locale malfamato. Era una giovane donna elegante e bellissima, vestita preziosamente, pallida e profumata, con grandi occhi neri e lunghi capelli corvini. La osservò tacito, percorrendo ogni centimetro di quel corpo serrato in un abito blu privo di scollatura. Aveva uno strano respiro, a scatti, che alzava ed abbassava il florido seno nascosto; la sottile vita le conferiva un aspetto regale e le lunghe unghie la facevano sembrare un gatto pericoloso. Indugiò sulle labbra rosse e notò i bianchi denti perfetti. L’oste versò del rhum in un minuscolo bicchiere e lei ingurgitò tutto senza esitare. Veder-


la bere mente il suo sguardo tremava per un arcano dolore gli fece male e quando ne chiese dell’altro, lui inaspettatamente la bloccò, appoggiandole la mano ruvida sul polso candido. La donna trasalì e finalmente si accorse di quella presenza: i suoi occhi ebbero un fremito, come se si fosse segretamente spaventata. Non le disse nulla, si limitò a scuotere il capo, riservandole un vago sorriso implorante. Poi veloce ritrasse la mano da quel polso che aveva sentito caldo e morbido, dal quale senza volerlo aveva tratto un immenso ed innocente piacere. Lei non fece la stessa cosa e priva d’enfasi, placata dallo stupore, continuò ad osservarlo. Non ne percepì la pietà e si accorse di non divertirla con il proprio lieve vacillare, dovuto alla testa che non smetteva di far girare il mondo. L’oste versò altro rhum e lei con un gesto lo rifiutò, seguendo il consiglio dello sconosciuto. Egli stava per approfittarne, afferrando il bicchiere con avidità. Questa volta fu la ragazza a fermarlo con una sola occhiata che si fece accusatoria. In lei era svanito quel dolore che l’uomo aveva visto nitidamente, una luce si era accesa nella vita di quell’essere ultraterreno. - Non vedete che è ubriaco? – disse al padrone della locanda che rise di gusto, infastidendola. - Dovreste usare il cervello… e capire quando è il caso di aiutare un incosciente – gli recriminò decisa.

- Io sono qui per guadagnare… ed oltretutto lui non mi paga! Voi non lo conoscete, siete venuta dal vostro paradiso per lo stesso motivo per il quale lui è sceso in quest’inferno! – l’accusò acido ed allusorio. Lei s’impettì e posò sul banco una moneta. Non disse altro e se ne andò coraggiosamente: attraversare quel posto di bassa lega richiedeva molto nervo per una donna altolocata! La seguì con lo sguardo offuscato, mentre scompariva per sempre e poi volse l’attenzione al bicchiere rimastogli davanti. Lo vuotò in un fiato e portò il capo sulle braccia incrociate, nell’attesa del dolce effetto dell’oblio. Si addormentò e fu gettato sulla strada, nel fango di quella notte che non era stata come le altre, nel male della solitudine che gli era rimasta. Al sorgere del sole aprì gli occhi arrossati e sentì la testa pulsare come il solito, però stranamente non pensò a bere e si chiese, dopo tanto tempo, cosa avrebbe potuto fare, come si sarebbe potuto salvare. Dimenticò quella donna, forse non la ri-


cordò neppure per un attimo e si rialzò barcollante, con il fuoco nelle vene, con il sangue nello sguardo.



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CAPITOLO I

Non era solo il popolo ad essere stanco della situazione ormai insostenibile che serpeggiava nella Francia del 1788, c’era anche quel ceto non riconosciuto politicamente che veniva chiamato borghesia, composto prevalentemente da professionisti quali avvocati, intellettuali ed altri. A questa classe bistrattata si univano straordinariamente alcuni privilegiati che accettavano l’uguaglianza degli ordini e che interpretavano il proprio benessere come un mezzo d’investimento e quindi di produzione. Si trattava d’aristocratici proprietari terrieri che non vivevano di sola rendita, bensì di guadagno sulle terre affidate e coltivate e sugli armenti allevati e venduti. Erano i cosiddetti Fisiocratici, i quali si rifacevano alle ideologie, debitamente scartate dai reazionari, di Turgot, ex primo ministro del Regno. Essi sostanzialmente tenevano in piedi le sorti della Nazione, afflitta nell’estate di quell’anno da violenti fenomeni meteorologici che avevano messo in ginocchio l’agricoltura, e sostenevano i borghesi nella richiesta della convocazione degli Stati Generali, attraverso i quali si sarebbe potuta tracciare una linea di ripresa con degli equi compromessi tra Nobiltà, Clero e Terzo Stato. Paradossalmente a volere con più insistenza gli Stati Generali erano i nobili reazionari, convinti che tutto sarebbe naufragato senza toccare i loro privilegi, riassumibili nel concetto spicciolo di un totale esonero dal pagamento di tasse, corvèes, balzelli e quanto altro opprimeva i cittadini in quel periodo. Da un lato dunque vi erano i liberali, mossi da buone intenzioni che accettavano mezzi drastici; dall’altro vi erano i conservatori che vedevano nelle buone intenzioni dei primi l’arma migliore per abbattere le pretese. Tra i fisiocratici convinti, monarchici e liberali, vi era il conte des Fleuves, importante personaggio della città di Saint-Malo, feroce oppositore del parlamento locale, amico leale dei borghesi del posto, abile uomo d’affari che aveva organizzato l’importazione del grano dalla Polonia con la sua splendida nave, regalo per la defunta moglie ed impiegata sino ad un anno addietro per viaggi di piacere. Aveva messo insieme un buo-


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no e fedele equipaggio, ottenendo il permesso del sovrano stesso per importare un’alta quantità di grano. Era già stato compiuto un diporto con lodevoli risultati ed era stato rimandato il prossimo per il matrimonio imminente dell’unica figlia del nobile. Oltre a quest’iniziativa commerciale, il conte aveva numerosi appezzamenti che aveva affittato ad un prezzo ragionevole a gente lavoratrice, selezionata personalmente, con la quale aveva raggiunto degli accordi accettabili, ponendola ai margini della crisi profonda delle campagne. I suoi affittuari erano uomini soddisfatti che riuscivano a vivere dignitosamente senza rinnegare le proprie origini. Erano il bersaglio preferito dei primi briganti che iniziarono in sordina ad infestare le aree periferiche dei grossi centri cittadini della Francia. Il conte stesso, timoroso di vedere sfumare le notevoli rendite, aveva armato i propri contadini, permettendo loro di difendere se stessi ed il bestiame. Così le proprietà del conte Xavier des Fleuves di SaintMalo lentamente avevano acquistato una sorta d’alone leggendario che le faceva inespugnabili. Era il 5 luglio 1788. Eufrasia si sentiva felice. Sposarsi significava realizzare il suo sogno e farlo con Aldo, dopo tanti anni, era una conquista. Per lui aveva lottato con le unghie e con i denti, contro le regole e contro il mondo, contro il padre che non aveva avuto pietà nella guerra senza riserve che li aveva resi nemici. Aldo non era quello che il genitore avrebbe voluto per lei, era un soldato, mentre lei era la figlia di un nobile e questo pensiero era sempre stato il punto debole dell’uomo, noto per le sue idee liberali. Non c‘era nulla che di Aldo andasse bene: né il carattere placido e paziente né ovviamente il ceto cui apparteneva, misero e distante. Lo aveva amato per la sua dolcezza, per il modo d’essere così diverso dal proprio, per la capacità d’analisi che in lei difettava. Aldo vagliava tutto, in ogni senso, e spesso le aveva recriminato la sua impulsività. Per lui aveva fatto l’impossibile ed ora era giunto il momento agognato, il matrimonio, la vita insieme! Entrò in Chiesa con l’abito bianco e vaporoso che l’avvolgeva come una nuvola, sottolineando tutto di lei: i grandi occhi neri ed i lunghi capelli corvini, la figura snella e florida, il fascino che emanava per un dono naturale che andava oltre ogni volontà. Il suo sorriso era rilassato, meraviglioso e quando avanzò verso l’altare parve stare sospesa da terra. Aldo la guardò incredulo, la sapeva bella, ma non la ricordava così. Nel momento in cui giunse al suo fianco, le sorrise. Lei abbassò lo sguardo tre-


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mante. La cerimonia iniziò, ma Eufrasia non ascoltò una parola del prete ed i suoi pensieri corsero al passato. All’improvviso quel passato le apparve costellato d’angosce, d’offese, di dolore e delusione; ne sentì il gusto acido in bocca e ricordò una sera in cui il padre le aveva detto senza mezzi termini di liberarsi di Aldo e l’aveva minacciata, era arrivato alle mani, lui che non aveva mai alzato un dito su di lei! Lo aveva sfidato, gli aveva risposto che se ne sarebbe andata con l’uomo che amava ed era uscita per raggiungerlo. Lo aveva atteso davanti alla caserma e quando era arrivato, Aldo le aveva consigliato saggiamente di tornare a casa, di non fare follie delle quali si sarebbe potuta pentire. Era corsa via, aveva percepito il peso della solitudine e dell’incomprensione. Si era sentita tradita su tutti i fronti. Ogni suo gesto le era sembrato inutile ed il desiderio di dimenticare aveva azzannato il suo cuore e la sua mente. Un po’ per ripicca ed un po’ per disperazione, aveva varcato la soglia di un inferno a lei sconosciuto e precluso. Non lo aveva più scordato, ancora aveva dentro quel locale fumoso e poi il sapore che allora le aveva preso il petto. E non aveva scordato neppure quello che era successo prima di entrarvi e… si accorse in quel momento di non essere mai stata capace di perdonare Aldo. Deglutì, mentre il prete poneva la domanda di rito ad Aldo e tremò al suo si. Poi venne il suo turno ed alzò il volto corrucciato, tanto che il sacerdote tentennò per un attimo. Iniziò a dire la formula e lei posò lo sguardo sulle vere scintillanti. Ci fu un minuto di silenzio, Aldo la scrutò senza troppa preoccupazione; i fiati erano fermi, come se i presenti sentissero il giungere imprevisto di una tempesta. - No – rispose inaspettata e fissò l’uomo per il quale aveva pianto, sofferto, lottato e creduto di poter morire. Non aggiunse altro, posò il mazzo di fuori sull’altare e scese i tre gradini, volando con gli occhi sulla folla impietrita e soffermandosi sul viso di ghiaccio del padre. Avrebbe dovuto essere il giorno più bello della sua vita e lo era stato al risveglio, lo era stato sino a pochi secondi prima, poi… ogni convinzione era crollata ed ora si sentiva bastonata e livida ma… libera e non sapeva da cosa. In fondo era stata lei a volere tutto questo, a perseguirlo con tenacia. Era stata lei… lei, appunto… solo lei. Guardò ancora Aldo, sempre incapace di reagire, di prendere in mano la situazione, di fare qualcosa, probabilmente intento a vagliare ogni cosa dentro di sé. Si diresse verso l’uscita e nessuno la fermò. Sorrise amara aprendo il pesante portone con le sue sole forze. Il cielo era grigio sopra di lei. Raggiunse la carrozza bianca


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trainata da due cavalli candidi, vi salì e li spronò lungo il viale frondoso, diretta verso la campagna, vicino al fiume Rance, ove era solita rifugiarsi sin da bambina per sognare, per piangere o per giocare. Bloccò il convoglio e scese. C’era una grotta nelle vicinanze, quella che aveva sempre immaginato come il suo castello personale. Si diresse sulla sponda del fiume baciato dai tristi salici che vi riversavano il loro pianto. Si tolse il velo. Il sole fece capolino tra le nuvole, presto la giornata avrebbe volto al meglio. Si tolse anche le scarpe scomode ed immerse i piedi nell’acqua. Un brivido la fede sorridere ed il senso d’assoluta libertà che aveva dentro non le fece pensare alle conseguenze del proprio gesto. Neppure rifletté sul motivo che l’aveva indotta a non sposare Aldo, lo avrebbe fatto più tardi, non adesso. - Davvero una bella scena! Non ricordo di essermi mai divertito tanto! – disse una voce alle sue spalle ed Eufrasia trasalì. Si voltò e vide un uomo appoggiato al tronco di un albero. Era baldanzoso ed ironico, con l’aria di chi la sapeva lunga e riusciva a capire l’incomprensibile. Repentina si alzò e lo affrontò, come se le avesse lanciato una sfida. Lui la fissò minaccioso, ma non era proprio così, era che il suo sguardo scuro veniva sottolineato dalle folte sopraciglia nere inarcate e taglienti. Non era attempato nonostante uno spolvero di grigio screziasse il nero dei capelli ed il viso fosse incolto. Non era eccessivamente prestante, non era bellissimo ed il suo sorriso era pungente ed enigmatico. Vestiva discretamente, senza pretese, essenziale con la camicia bianca ed i pantaloni scuri infilati in lucidi stivali neri. - E’ dunque Eufrasia il tuo nome – le disse, turbandola. Ebbe l’impressione che la conoscesse. - Eufrasia… - ripeté, avanzando verso di lei che indietreggiò - Attenta, Eufrasia… potresti cadere nel fiume – la riprese sardonico, fissandola insistentemente, entrandole nell’animo con ingiusta facilità. Non aveva due occhi, bensì due laghi di sangue, ma non per il rosso vivo che si poteva immaginare, bensì per una vena scarlatta che lo rendeva demoniaco in un’invisibilità che lei scorse nitidamente. Sorrise nella speranza di tranquillizzarla, ma ottenne l’effetto contrario. - Ero presente al tuo matrimonio… il caso mi ha portato in quella chiesa e… il mio ritorno a Saint-Malo è stato davvero divertente! Credo che si stia parlando del tuo rifiuto in tutta la città e mi domando con quale coraggio tornerai a casa – rifletté tra sé, alzando lo sguardo al cielo ed un


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raggio di sole cozzò contro l’iride tetra. Eufrasia non ribattè, lo scrutava diffidente ed indifferente all’accaduto. - Non mi chiedi chi sono? – la interrogò meravigliato e lei caparbia non mosse un solo muscolo. - Mi presento… sono Venanzio, un fantasma, uno spettro… colui che tutti dovrebbero temere – accennò un inchino. Eufrasia alzò un sopraciglio e finalmente sorrise. - Fantasma? – gli fece notare, incuriosita da quella battuta. Venanzio allagò le palpebre soddisfatto. - Mi stai ascoltando – asserì recitando un’esagerata felicità. - Ascolto sempre chi mi rivolge la parola – si adombrò. - Oh, lo so! Tu ascolti anche chi la parola non te la rivolge affatto – fu sibillino. Non raccolse quell’oscura provocazione e continuò a fissarlo, cercando di comprendere le sue intenzioni. Però… era difficile reggere i suoi occhi che la mettevano in un forte disagio, che la facevano sentire priva di difese. Strinse i denti, non sopportava la superiorità psicologica altrui, amava esercitarla ma non subirla! Rifiutò di distogliere l’attenzione ed il cuore le cavalcò in petto senza ragione. Venanzio sembrava captare le sue emozioni, giocandoci a piacimento. - Cosa volete? – sibilò allo stremo, il silenzio era la sua migliore arma, ma anche quella più efficace per abbatterla. L’uomo scosse il capo in segno di diniego. - Perché siete qui? – era rigida, l’ilarità provocata dalla battuta di poco prima era scomparsa. Venanzio alzò le sopraciglia e sospirò rassegnato. - Se tu potessi anche solo immaginare perché sono qui, Eufrasia… se solo lo sospettassi, saresti esattamente come ti vorrei! Ma la perfezione non esiste… anche se tu la rasenti! – e lei tremò ancora. - Cosa sapete di me? – aggrottò lo sguardo e lo fissò minacciosa. - Nulla che possa farmi dire che ti conosco. Di te so solo che esisti ed ho passato quattro lunghi anni con questa consapevolezza – non era chiaro, proprio non lo era ed Eufrasia scivolava nella più completa confusione. - Non lo so se sono tornato per te, in realtà ti avevo dimenticata e con te il tuo profumo e la tua pelle… così liscia. Ti ho rivista per un gioco del destino e ti ho seguita – fu così diretto che lei quasi barcollò. - La mia pelle? Cosa state dicendo? – si attaccò a ciò che di più osceno carpì da quel discorso sconnesso. Venanzio sorrise malefico, spaventoso e lei… si spaventò. La vide sbiancare, rendersi conto che la memoria si


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stava aprendo nella sua mente fu gratificante. Eufrasia oscillò il capo e sospirò incredula. - Voi… - sussurrò con un filo di voce. Lui non reagì. - Voi siete l’uomo della locanda – finalmente ogni nebbia si dipanò. - Non mi hai dimenticato? – fu sottile e velatamente speranzoso. Eufrasia tentennò e lo superò pensierosa, dandogli così le spalle. - Voi siete l’uomo che m’impedì di bere… si, lo ricordo bene, ricordo tutto come fosse stato ieri! E voi… ricordate me? – fu quasi infantile e turbata dal fatto che davanti all’altare aveva rammentato proprio quella sera. Venanzio ebbe un’espressione scontata, come se trovasse tutto logico ed ovvio. Eufrasia rise sommessamente. - E’ soltanto il mio polso ciò che avete toccato di me – aggiunse quasi sollevata. - Tutto è stampato nella tua mente – le fece notare. - Quella notte ero disperata, quella notte volevo morire, di quella notte non ho dimenticato un solo minuto – ammise tristemente, poi sogghignò sdrammatizzando il momento e si sedette su una grossa pietra, appoggiandosi sulle mani e regalandogli il profilo. - Cosa fate accanto a me nel momento più difficile della mia vita? – gli chiese dopo un po’ con un sussurro. - Questo non è un momento difficile per te – la corresse e lei lo scrutò truce. - Cosa dite? – storse il naso. - La verità – e si sedette vicino a lei impunemente, senza essere allontanato. - Non siate troppo sicuro delle vostre affermazioni – si difese. - Non sei abbattuta, nei tuoi occhi non c’è una lacrima e non piangerai per quello che hai fatto – le sorrise suadente. La ragazza tacque. - Non te ne importa nulla – calcò la mano chinandosi sulle ginocchia. Lei sospirò. - Non è giusto che parliate così – si lamentò senza slancio. - E’ forse giusto ciò che lui ti ha fatto? – era recidivo. Incontrò ancora quello sguardo abissale e feroce, e tratti fatto di fiamme. - Cosa volete saperne? – si ribellò, ma era inchiodata a quella pietra. - Soltanto che ti ha costretta a rifiutarlo e che non ha cercato di fermarti, è rimasto immobile e non ha detto una parola, si è sentito semplicemente ferito nell’orgoglio. E’ facile amarti e lo è anche odiarti… ma lui non fa né l’uno né l’altro – fu esplicito e lei lo guatò infastidita.


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- L’ho solo stupito – sbottò per giustificarlo ancora una volta. Venanzio sogghignò. - Chi trova il tempo per stupirsi, non ne avrà mai per combattere – concluse e la seguì, mentre raggiungeva la carrozza, decisa a non ascoltarlo più, a non farsi altro male. - Trovi le mie parole sbagliate, Eufrasia? – le chiese quando la vide afferrare le redini. Lo guardò freddamente e non rispose. - Presto ci rivedremo – la salutò e si diresse verso il proprio cavallo che sbucò da dietro un cespuglio. Eufrasia ebbe un brivido lungo la schiena: era uno splendido stallone nero con i finimenti rossi, pareva una creatura dell’Inferno. L’uomo montò in sella e le diede un’ultima occhiata. - Sentirai parlare di Venanzio Sauvage… e saprai chi sono – e dopo avere impennato l’animale, galoppò nella direzione opposta alla sua. Lei esitò, poi spronò i destrieri per tornare al palazzo del padre. - Una vergogna! Una vergogna senza eguali! – urlò il conte, vedendola entrare ancora vestita con il suo abito da sposa che gli era costato un occhio, perché nonostante tutto per sua figlia aveva voluto il meglio. Eufrasia rimase sulla porta, immobile come una statua, incapace di reagire, di controbattere l’ira del genitore, ira che sostanzialmente comprendeva e che mai avrebbe voluto scatenare, non fosse stato che per il fatto che aveva ragione. Non abbassò gli occhi, lo fronteggiò con il coraggio inutile di sempre ed attese il suo sfogo che niente e nessuno avrebbe fermato. Era pronta a farsi travolgere dalla tempesta che aveva preparato lei, alimentata dalla sua assenza di tutto il giorno. - Dove sei stata? – rombò astioso, ferito nell’orgoglio, imbestialito sino ad essere pericoloso. Non gli rispose, ogni giustificazione in quel momento era superflua. - Il tuo comportamento… mi ha messo in cattiva luce con tutti coloro che mi hanno sempre stimato e considerato una guida sicura… una guida che evidentemente non è stata capace di farsi seguire proprio da sua figlia! – si faceva del male da solo e lei non si sforzò di dissuaderlo. Scosse il capo e si diresse verso il mobile dei liquori, si versò del rhum. Lo aveva sempre inconsciamente evitato, disgustata dal ricordo di quella sera che era riemerso nel momento più importante della sua vita. Lo ingurgitò in un sorso e tutto si fece più nitido e doloroso. Chiuse per un attimo le palpebre e rivide Venanzio, il suo volto torvo di allora, il suo volto torvo di adesso. In apparenza poco era cambiato di lui, ma dentro quell’uomo a-


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veva una forza che poteva percepire a distanza, ora, mentre era in atto una battaglia che la vedeva sconfitta in partenza. - Avete ottenuto esattamente ciò che volevate, di cosa vi state lamentando? - lo provocò in cerca di uno scontro che le avrebbe semplicemente tolto il pensiero. Egli non tardò ad accalorarsi e sentì la sua ferocia alle spalle, mente lei fissava il vuoto… e si sentiva vuota. - Si, è così! Lo avete pregato allo spasimo il vostro dio e Lui vi ha ascoltato – insistette flemmatica, quasi annoiata. Il silenzio ribollente del genitore la indusse a voltarsi senza fretta e guardarlo ferma, con quel sopraciglio destro alzato ed odioso, capace di irritarlo sino all’esasperazione e per questo più inarcato del solito, più rigido di quanto non fosse necessario. - Dietro quale misero pretesto vi state barricando, padre? Quale astio andate cercando adesso nei miei confronti? Adesso che il motivo dei nostri screzi è decaduto? – sorrise malefica e la sua logica fece vacillare il conte. - Hai fatto in modo che Aldo Ribaud passasse dalla parte della ragione – l’accusò avanzando minaccioso. Allora Eufrasia rise divertita. - E cosa mai potrà cambiare per voi? Siete il conte Xavier des Fleuves di Saint-Malo ed avete il prestigio per fare della sua ragione motivo di scherno! Quale freno vi inibisce nell’agire contro di lui con la stessa assenza di pietà che avete riservato a me? Siete un nobile di sangue, potente ed intelligente, conoscete più gente voi del re in persona. Uccidetelo, se questo potrà salvarvi dal fango che credete di avere addosso, fatene ciò che volete, sapete farlo… io lo so – fu sottile e penetrante come un ago nel cuore in subbuglio di Xavier che la fissò attonito. Non conosceva quella parte quasi ferina di sua figlia, l’aveva sempre saputa onesta e leale, nonostante i suoi scopi e le sue mete non coincidessero con ciò che lui le aveva insegnato. Aveva sempre rispettato gli altri, aveva sempre rispettato anche lui davanti alle angherie, riuscendo straordinariamente a giustificarlo. - Una buona tattica, Eufrasia… quella di convincermi che non te ne importa più nulla… ma puoi immaginare da sola che questo mi è assai difficile crederlo. Lo hai amato sino a questa mattina, il tuo grande amore è sfumato in un attimo? – e la prese in giro, ponendo l’accento sulla parola amore per dire che in realtà lui non aveva mai pensato a quel sentimento come a qualcosa di autentico. Eufrasia s’irrigidì e lo guardò con determinazione.


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- Si… in un attimo. Ogni sentimento può infrangersi in un attimo, può resistere anni e poi, stanco, può abbassare le ali a lasciarsi schiantare al suolo – lo fulminò e non si riferiva ad Aldo. Il conte, uomo istintivo, lo comprese e tremò dentro, ma non lo diede a vedere. Non disse altro e la lasciò sola nella stanza a fissare il niente, a smarrirsi nel vuoto che si era costruita. Dopo un po’ decise di andare in camera a togliersi quella ridicola maschera da sposa. La notte era iniziata, finalmente il buio avrebbe coperto ogni cosa. Si svestì, si spazzolò i capelli, indossò la camicia da notte e s’infilò nel letto. La sua mente corse veloce alla sera nella locanda e delineò ogni momento. Allora non era successo niente, non aveva notato Venanzio. Tuttavia, la sua immagine non si era cancellata in lei: lo ricordò distrutto, ubriaco ed appena lucido per pensare a lei più che a se stesso. Adesso era diverso, anche se alcuni graffi impietosi del suo passato circondavano il suo sguardo e si soffermò proprio su quegli occhi vividi, impetuosi, abilmente usati per sconvolgere, per entrare dentro, per inchiodare ed immobilizzare. Cercò di liberarsi del suo pensiero ed il sonno l’aiutò, anche se il mattino dopo la vaga figura dell’uomo tornò a balenarle in testa. Era passato poco più di un mese dal giorno del mancato matrimonio. Per Eufrasia tutto era già un ricordo lontano, a tratti le pareva solo un sogno, neppure realtà. Si era dimenticata di Aldo e non le era mancato. Era come se non lo avesse mai conosciuto e vedere i soldati a cavallo non la induceva più a verificare se c’era anche lui tra loro. La vita ricominciò senza scosse, senza emozioni, senza niente di rilevante. Spesso andava al mercato e passeggiava annoiata tra le bancarelle. La folla parlottava, lamentandosi del re e della regina, dichiarandosi pronta a difendere i propri diritti, come avevano fatto a Grenoble. I ribelli si erano appollaiati sui tetti, scagliando tegole e mattoni contro i soldati per protestare contro l’ordinanza reale che aveva fatto sciogliere il parlamento locale. I rivoltosi l’avevano spuntata ed ora erano un esempio per tutte le province del Regno. Il malcontento serpeggiava, i discorsi vertevano quasi tutti sulla città di Parigi e sulla fastosa reggia di Versailles. Era l’estate peggiore degli ultimi anni, battuta da calamità naturali che avevano distrutto molti raccolti, Saint-Malo era un fiorente porto ed un importante centro di snodo per il commercio. I contadini portavano le loro merci ai mercati rionali e gli allevatori d’ostriche facevano fortuna. Ma a Saint-Malo era sviluppata anche la delinquenza, la nomea della pirateria


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non era stata sfatata dall’evolversi degli eventi e la città restava la meta ed il rifugio di banditi, ladri e contrabbandieri. In merito girava una voce in quei giorni: un brigante giunto da poco derubava i nobili ed i borghesi. Era impossibile acciuffarlo vista la sua furbizia. Eufrasia ascoltava i gruppi di persone, fingendo di osservare la merce e sorrideva, affascinata nell’intimo da quel personaggio, del quale ovviamente non sapeva nulla. Presto sentì fare il nome di Venanzio, proprio Venanzio Sauvage, tornato dall’Inferno per compiere la sua vendetta. Rimase attonita a quei racconti di vendetta cruda e spietata e si sentì quasi sconvolta, quando percepì nel tono dei sussurri un’intrinseca paura, un timore recondito che sfiorava tutti. Il cuore le balzava in gola ogni volta che udiva quel nome e l’attenzione si faceva assoluta se prevedeva che ne avrebbero discusso. Così scoprì che Venanzo era un assassino, un ladro, un truffatore… un delinquente. Non riusciva crederlo, come non riusciva a credere che in realtà la cosa non la disturbava affatto. Del resto… lui stesso l’aveva avvertita, le aveva assicurato che avrebbe scoperto chi era… tutto andava secondo un piano che sembrava prestabilito. Il giorno in cui finalmente il re aveva comunicato la convocazione degli Stati Generali, l’8 agosto 1788, Eufrasia smise di andare al mercato. Il padre passava gran parte delle giornate e delle notti alle riunioni organizzative in vista del grande evento. Lei, come da sue precise disposizioni, avrebbe dovuto occuparsi dell’andamento della casa in sua assenza. Lo aveva sempre fatto durante i suoi viaggi di lavoro e lo aveva fatto anche quando era partito per la Polonia. Dopo aver disposto le faccende ed incaricato la servitù sulle varie incombenze, trascorreva le giornate estive nel parco, leggendo noiosissimi volumi, ma i suoi pensieri, quasi rumorosi e sfiancanti, tornavano sempre al bandito e di Aldo non rammentava più nulla. Di tanto in tanto alzava lo sguardo dalle pagine e fissava il vuoto. Le mancava quell’uomo, anche se lo aveva incontrato una sola volta… - Qualcuno desidera parlarvi – la sorprese la giovane domestica, svegliandola brutalmente e lei tacita chiese di chi si trattasse. - Non ha voluto dirmi chi è – rispose. La sua speranza si accese con la stessa velocità con la quale si spense alla vista di Aldo che, impettito nell’uniforme, la stava raggiungendo. La domestica si defilò, lasciandoli l’uno davanti all’altra. Eufrasia non si alzò e continuò a leggere, accorgendosi di non tremare, scoprendosi davvero indifferente, leggermente infastidita.


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- Mi aspettavo una spiegazione – disse il giovane che aveva i suoi stessi venticinque anni. Non gli rispose, dava l’impressione di non averlo neppure sentito. - Ho atteso abbastanza… anche troppo – fu deciso. Solo allora lo degnò di uno sguardo glaciale. - Hai solo aspettato l’assenza di mio padre, conscio del fatto che lui non ti avrebbe permesso di entrare – lo mise a nudo. - Sono inezie alle quali non è il caso attaccarsi – sibilò punto nel vivo. - Questo lascialo dire a me, Aldo – lo contraddisse annoiata. - Voglio sapere perché lo hai fatto, ho il diritto di sapere cosa ti ho fatto per meritare una simile umiliazione – s’impuntò patetico. Lei alzò un sopraciglio seccamente e sorrise, illudendolo di proposito. - Gli unici diritti che hai avuto nella vita sono quelli che io ti ho concesso e che ora non sono più disposta a riconoscerti – sbottò senza esitazioni. - Sai essere crudele – si lamentò. - So essere anche peggiore… ma non capiresti, non ti sarebbe proprio possibile, perciò considera semplicemente il fatto che ho smesso di amarti – tagliò corto, era già stanca della sua presenza. - Dopo tutto quello che abbiamo fatto per realizzare i nostri sogni… sparlava, perdeva la dignità, rendendosi odioso a se stesso. - Dopo tutto quello che io ho fatto – lo corresse rigida. Aldo vacillò. - Non puoi dirmi questo, Eufrasia… sai che ti ho sempre amata, sai che per te ero disposto a tutto – fu sciocco, andò ad infilarsi in un vicolo cieco, si vantò di ciò che non era stato capace di fare. - Non parlare del tutto, Aldo… non ti appartiene questo concetto perché sei niente e nel niente esisti, di niente vivi… parli, parli, parli e non concludi nulla. Non venirmi a raccontare favole perché ti faccio notare che sono una donna ormai – era dura e determinata, decise di colpirlo laddove lo sapeva debole, lo avrebbe ucciso se soltanto… ne avesse avuto l’occasione. - Mi stai offendendo – si ribellò, ma era così fragile che Eufrasia provò quasi pena per lui. - Tu invece mi stai disturbando – concluse, facendolo sentire idiota nel tentativo di rimettere a posto qualcosa d’infranto ed irreparabile. - Non capisco cosa tu mi stia recriminando – disse. - Ne ero sicura – sogghignò ed io giovane non ribattè, era vano insistere o cercare di persuaderla. Se ne andò senza commenti, così… come era giunto, senza gloria e senza infamia. Lo osservò tacita: non aveva avuto


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pietà di lui e non la sfiorava neppure un alito di pentimento. La compassione in un attimo aumentò, ma riuscì a cancellare tutto in breve tempo ed il suo pensiero tornò a Venanzio. Si chiese dove fosse e cosa stesse facendo, mentre sorseggiava un the caldo, il migliore sul mercato, quello che il conte faceva arrivare appositamente da Londra. La servitù faceva un gran parlare del furto che la proprietà confinante aveva subito e si diceva che i guardiani fossero stati sgozzati. Eufrasia ascoltava i pettegolezzi appiattita contro le porte ed immaginava, senza fatica, le azioni repentine di Venanzio. C’era anche, continuava ad esserci, una certa ansia per quanto riguardava l’ormai ossessiva convocazione degli Stati Generali, vista dai ceti più bassi come la soluzione quasi magica di tutti i problemi, anche se i servi del conte potevano ritenersi fortunati per il trattamento che ricevevano. Durante una silenziosa cena, la prima dopo quasi un mese d’assenza, Eufrasia accennò qualche domanda al padre il quale si limitò a risponderle che, come donna, certe cose non dovevano interessarla. Decise di insistere con il segreto desiderio di compiacerlo, interessandosi alle questioni che più gli stavano a cuore. - Se dovesse succedere qualcosa, padre… nessuno vi difenderà e non avete scritto in faccia che siete diverso da tutti gli altri nobili, siete un conte ed il popolo non sembra vedere di buon occhio i blasonati – disse tristemente, rendendosi conto di stare arrancando verso di lui. - Sono un candidato per la rappresentanza del Terzo Stato agli Stati Generali, basta per separarmi da quella massa di fannulloni che credono di poter avere tutto dalla vita soltanto perché possiedono un titolo nobiliare – sbottò frettolosamente. Non sembrava apprezzare l’interessamento dimostrato dalla figlia per gli eventi incalzanti degli ultimi giorni. Poi la scrutò di sottecchi e sorrise capzioso. - Temi forse d’essere uccisa, Eufrasia? – la provocò. Era sottile nei suoi confronti, sfogava il risentimento così, colpendola con l’intento di inquietarla per poi regalarle assoluta freddezza. Onestamente Eufrasia non lo capiva: aveva ottenuto quello che voleva, avrebbe dovuto essere contento… invece sembrava quasi stare dalla parte di Aldo. - Ho saputo che Ribaud ha avuto l’ardire di presentarsi in casa mia – la sorprese dopo tanto tempo di silenzio in merito. Eufrasia comprese che stava cercando lo scontro. Non ripose e continuò a mangiare.


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- Sai che in mia assenza non voglio che entri nessuno nel mio palazzo – l’accusò apertamente. - E’ stato qui pochissimo, non più di dieci minuti ed ho provveduto a farlo andare via – finalmente si decise a rispondere. - Cosa voleva? – sibilò astioso. - Avete detto mille volte che non volete saperne più niente – gli fece notare. - Esigo delle risposte alle mie domande, Eufrasia, ed il tuo comportamento non mi piace! – l’aggredì, era da un pezzo che non lo faceva. - Il mio comportamento? – alzò un sopraciglio, pur sapendo che quella era una cosa che il genitore detestava. - Non guardarmi in quel modo, Eufrasia! – si adirò, alzandosi e sbattendo la forchetta sul piatto di porcellana che si spezzò e riversò il sugo dell’arrosto sulla pregiata tovaglia di lino. - State cercando un pretesto per litigare – lo stuzzicò con l’incoscienza che sapeva sfoderare. - Non giudicare il mio modo di essere e dammi le spiegazioni che ti sto chiedendo! – le urlò in faccia, chinandosi sul tavolo per poterla guardare negli occhi. - Non sono stata io ad invitarlo, si è fatto annunciare prima che potessi disporre per il suo allontanamento ed io ho ascoltato le sue parole per potergli far sapere che era tutto finito. Avete qualche altro assillo che io possa dipanare? – ringhiò tra i denti. - Non dovrà ripetersi una cosa del genere, non sino a quando starai in questa casa – concluse, scansando il piatto rotto e suonando il campanello. Giunse la domestica zelante che provvide a sistemare ogni cosa. Eufrasia non tollerava la sua autorità ed era gravoso tollerare i suoi umori variabili come il tempo. Del resto, l’inimicizia tra loro era feroce. Dalla morte di tisi della madre, con ei si era sfogato in guerre psicologiche insostenibili; il culmine dell’astio lo avevano raggiunto il giorno in cui lei aveva scelto un uomo ed a lui ovviamente non era andato bene. Ora era anche peggio di prima! Non la sapeva giustificare, non la sapeva perdonare, il nome a suo dire infangato era per lui inaccettabile ed era talmente accecato da non rendersi conto che ormai tutto era stato dimenticato e che probabilmente niente era stato importante per la gente. - Ho preso delle decisioni su di te, Eufrasia… le ho dovute prendere ed è giunto il momento che tu ne venga a conoscenza – la colpì violentemente. Lo spirito indipendente della ragazza tremò forte, la sensazione di es-


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sere manovrata la irritò a tal punto che ebbe una smorfia inconsapevole di disgusto. - Questa volta farai esattamente quello che ti dirò io, sia chiaro sin dall’inizio – insistette. Voleva lo scontro, non c’erano dubbi. - Non credo di meritare una punizione per avere salvato la mia vita – si lamentò, non riuscendo a trattenersi. - Hai venticinque anni… questo sembri dimenticarlo spesso – cominciava a farsi crudele, lo conosceva troppo bene per potersi sbagliare. Non ribattè, lo guardò nella sua ottusità. - Hai perduto il tempo migliore della tua gioventù ed io devo provvedere a rimediare le cose – aggiunse sempre meno magnanimo nei suoi confronti. - State asserendo che sono vecchia? – sorrise, ma dentro sentiva male. - Esatto! Vedo che sei abbastanza intelligente per afferrare i concetti basilari delle mie parole – e quello fu uno strappo interiore che la fece sanguinare, che le allagò il cuore e che per poco non la soffocò. Avrebbe voluto piangere. Non ebbe parole, non ebbe neppure reazioni, non riuscì a dire niente e terminò la cena con lentezza. Poi posò il tovagliolo accanto al piatto e guardò il genitore nell’attesa che la licenziasse. Non fu così, non era ancora finita. - Non è piacevole ciò che mi costringi a fare… ma è l’unica soluzione che ho trovato – ricominciò imperterrito, placato dal silenzio di poco prima. Eufrasia rimase immobile. - La Chiesa non mi è mai stata simpatica, considero i preti dei buoni commercianti… ed io in fondo sono come loro, perché ho deciso di regalare a loro tutta la mia ricchezza, la tua eredità – le comunicò, turbandola. - Mi state diseredando – asserì senza enfasi, fredda e segretamente sollevata, perché aveva creduto in una decisione più dolorosa, qualcosa come un matrimonio combinato. - Niente affatto! Sei la mia unica figlia, non potrei mai fare una cosa simile, non sono la bestia che credi – si difese con una sorta di furore represso. Non voleva arrabbiarsi, lo si poteva percepire nei suoi gesti lenti, studiati, precisi e quasi delicati. - Non capisco – disse Eufrasia, evitando per un soffio di alzare il sopraciglio. Irritarlo era l’ultima cosa che avrebbe voluto in quel momento. - Diverrai una di loro – le rivelò oscuro, incapace di dire le sue intenzioni in tutta la loro chiarezza.


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- Un prete? – sussurrò ironicamente confusa, mentre il significato di quell’affermazione diveniva sempre più limpido. - Ho parlato con chi di dovere e sarai accolta come novizia in un convento di Parigi, le mie ricchezze diverranno della Chiesa al momento della mia morte, saranno la tua dote come sposa di Cristo – Il cuore le balzò in gola, amaro e ringhiante, urlò in lei con una voce che l’assordò; il sangue le andò alla testa, divenne paonazza e poi lo sentì scendere, sino ai piedi ed allora fu bianca come un cencio. - State scherzando? – non frenò quella domanda tendenziosa e fu inevitabile uno sguardaccio del padre, un invito tacito a non contraddirlo. - Io non scherzo mai – le abbaiò in faccia. - Potrebbe esserci una prima volta… visto che voi contrastate la Chiesa anche politicamente… - fu sarcastica, non capendo dove trovasse la forza di prenderla così allegramente; ma fu anche veritiera, vista appunto l’attività politica che lo metteva in netta contrapposizione con i ranghi più alti dell’istituzione religiosa. - Partirai entro pochi giorni. Questo hai voluto con il tuo comportamento e questo hai ottenuto – fu recidivo, cattivo e tuttavia disperato a modo suo. Non era felice di quella decisione, non lo galvanizzava come faceva di solito provocarla o ferirla profondamente. - Non fareste prima a rinnegarmi? In molti lo fanno – cercò una via di scampo doppiamente tragica, ma meno gravosa per il suo carattere. - Sei una des Fleuves… dimentichi anche questo con troppa facilità – le recriminò e la fissò truce. - Suppongo… che non sia possibile raggiungere un compromesso in merito – sbuffò con il fiato grosso. Il conte neppure le rispose, era intrinseco, era logico, con lui non era mai possibile una discussione che potesse accontentare entrambe le parti. Eufrasia annuì e si alzò, non si sentiva bene, s’immaginò con l’abito da suora e tremò dentro. Dovette ammettere che questa volta il genitore l’aveva spiazzata, non si era aspettata una simile soluzione, lo aveva sempre saputo acerrimo contestatore della Chiesa, era un credente ma non un praticante; ciò che lo legava ai riti religiosi era solo la facciata che doveva mantenere, ma lui diceva che con Dio sapeva parlare senza intermediari e forse non ci parlava mai, dall’alto delle ideologie correnti, le quali negavano l’esistenza del divino per dare il passo, libero ed assoluto, alla ragione, all’età dei Lumi.


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Si avviò verso la porta con passo sicuro, fiera nella nuova sconfitta che il destino le aveva riservato e l’aprì con calma, senza tremare più. I suoi occhi tradivano la ferita infertole, profonda e lancinante. - Non fare la vittima, Eufrasia… e cerca di capire che quello che sto facendo è soltanto per il tuo bene – la bloccò. - Ho forse l’aria di una vittima? – sospirò rancorosa. - Direi di sì – volle stuzzicarla. - Ringraziate il vostro dio che sia così… e pregatelo perché lo sia per sempre – non riuscì a tacere ed era pronta a chinare il capo davanti alla tempesta che adesso le avrebbe scatenato addosso. Lo sguardo dell’uomo s’incendiò e lo scatto nell’alzarsi fu fulmineo. - Non avvicinatevi a me… oltre non potreste arrivare, di male me ne avete fatto abbastanza, non credete? – lo squadrò feroce ed il conte tentennò per un attimo. - Finirà questa storia, Eufrasia… finirà a modo mio – sbottò astioso. Lei sorrise e se ne andò. Le lacrime le salirono in gola e le sentì, mentre le bruciavano le palpebre, mentre la pungevano, partendo dal cuore.


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CAPITOLO II

Rideva con lo scalpitio degli zoccoli a tormentarle le orecchie. Rideva pensando che con il freddo che c’era si sarebbe potuta ammalare. Rideva immaginando la morte e giunse in riva al fiume. Scese con un salto, dimentica di calzare delle scarpe pericolose per certi movimenti. L’abito verde la confondeva con ciò che restava dell’estate sulle piante, ormai colorate a tinte forti e morenti per il loro meritato riposo, le foglie cadenti le sfiorarono il viso nella loro corsa con il vento. Si sedette sulla sponda e si lasciò andare ad un altro pianto silenzioso, con lacrime scottanti a solcarle il volto pallido, smunto e stanco per la notte insonne. Non aveva dormito ed aveva passato la mattina a letto, struggendosi in un male interiore che non aveva trovato consolazione. La vista era offuscata e non cercò di togliere quel velo dagli occhi, lasciò che la disperazione l’avvolgesse come un amante invadente, come il mantello che ora le mancava. Deglutì faticosamente, ingoiò saliva e dolore, tremò. Stranamente non tentava di trovare una via di scampo, nella consapevolezza che non ne esistesse una. I suoi errori le stavano ricadendo addosso e ne percepiva il peso sulla schiena. Non voleva diventare una suora: oltre a non avere la vocazione essendo atea, non aveva proprio il temperamento per sopportare quella vita più inutile della sua! Suora! Che idea crudele! Che idea balzana! Che sciocchezza senza limiti! Odiò Aldo, anche se forse non era responsabile di niente, la causa di tutto erano solo lei e le sue illusioni forzose, le sue sfide e poi il suo ritrattare con viltà, della quale a tratti andava paradossalmente fiera. Era giusto così. Era duro, ma era giusto. Doveva pagare per il male fatto a suo padre, per l’onta con cui non aveva esitato vestirlo per una sottile ed inconfessata vendetta in cambio della guerra che l’aveva costretta a combattere. Certo, era stata una vendetta consumata nel modo meno prevedibile ed aveva dato risultati mirevoli, ma ora era giunto il momento di pagare e lei… avrebbe pagato. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia flesse e posò la testa scompigliata sulle braccia incrociate.


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- Eppure… ero certo che una donna come te non fosse capace di piangere – le disse la voce di Venanzio alle spalle. Questa volta non trasalì e neppure rispose, lo ignorò e continuò a percorrere la strada dell’angoscia. - Cosa ti è successo? – indagò, sedendosi accanto a lei e cercando il suo sguardo arrossato. In Eufrasia vi era rabbia e dolore, rassegnazione e ferocia, morte e vita in lotta. La osservò per alcuni secondi e le sfiorò la guancia umida. - Andate via – gli ordinò roca e si alzò, dandogli la schiena. Fu penosa, quando esausta si appoggiò ad un albero e sospirò. Venanzio la raggiunse, impedendole di nascondere il volto con il semplice tocco di un dito sotto il mento. Avrebbe voluto abbracciarla e lei sicuramente glielo avrebbe permesso, ma non lo ritenne giusto: l’ultima goccia d’onestà che aveva conservato era per lei. Eufrasia parve svegliarsi all’improvviso, atterrita dalla sua vicinanza, memore della sua fama. Come poteva lasciare che si prendesse cura di lei? Proprio lui? - Voi siete un ladro – ringhiò, asciugandosi le lacrime con un polso e ritrovando la grinta, anche se non era possibile dire per quanto l’avrebbe mantenuta. Venanzio ebbe un sobbalzo, poi un sorriso sarcastico. - Anche un assassino… a pagamento il più delle volte e per necessità se capita, mai senza un motivo! – si vantò disgustoso e fuori luogo. - Non voglio avere a che fare con voi – concluse nervosamente. Doveva andarsene e farlo alla svelta! Doveva tornare a casa… perché era venuta in riva al Rance? Perché non aveva considerato che lì Venanzio probabilmente aveva il suo nascondiglio? - Sapevi di trovarmi… lo sapevi benissimo e sei qui perché hai bisogno di me – parve risponderle senza che lei avesse aperto bocca. Si voltò e lo guardò corrucciata. Ecco! La disperazione tornava inesorabile a piegarla, ad annullare la forza che la caratterizzava. Non riuscì a negare, disposta a lasciarsi travolgere dagli eventi e dalle parole, quelle taglienti dell’uomo, uno sconosciuto. Pur senza volerlo i suoi occhi neri si allagarono nuovamente e le stille del suo malessere rigarono la pelle candida. - Hai forse conosciuto la crudeltà umana? – ipotizzò il bandito, avanzando, non sopportava il distacco che gli imponeva. Furono uno davanti all’altra ed Eufrasia era più piccola di lui, fragile come un filo d’erba al vento ma flessibile da non spezzarsi mai. Il suo desiderio più grande era sfogarsi, non sapeva come, ma voleva liberarsi del peso che la opprimeva e piangere non bastava.


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- E’ finita – ammise mesta e tuttavia rigida. Stava arrivando un temporale, grosse nuvole gonfie di pioggia solcavano il cielo come leggendari cavalieri ed il vento fece frusciare la vegetazione in agonia, sconvolgendo i lunghi capelli della ragazza. Venanzio le prese la mano per portarla dentro la grotta. Ripararono nell’antro nel momento in cui l’acqua iniziò a cadere. Rimasero sull’entrata. La pioggia scese così forte da opacizzare il mondo e le ultime foglie si staccarono dai rami con innumerevoli schianti. L’uomo la scrutò: era passato del tempo dal giorno in cui l’aveva vista davanti all’altare. Avrebbe potuto lasciare Saint-Malo, le sue vendette avevano trovato compimento, ma era rimasto, l’aveva inconfessabilmente attesa, come se un’entità soprannaturale lo avesse avvertito del fatto che avrebbe dovuto aiutarla. - Che brutta cosa l’amore, Venanzio – disse dopo un po’, turbandolo. Il tempismo di Eufrasia fu sublime… mentre in lui si dipanava la nebbia dell’indifferenza, lei smorzava ogni illusione. Deglutì. - All’inizio pare eccezionale, poi ferisce ed arriva ad uccidere… ma voi lo sapete meglio di me – aggiunse in vena di confidenze. Non ribattè, non sapeva se darle torto o ragione. Non smise di guardare quel profilo perfetto, quella bellezza senza screzi, quello sguardo perso nel niente che scintillava quanto il proprio, ma di una luce diversa, non certo infernale. - Sapete cosa penso? – scattò, rivolgendosi a lui e cozzando contro il mondo nero dei suoi occhi fermi. Tentennò un attimo a strinse i denti. - Penso che l’amore renda stupidi! – sbottò astiosa, stava iniziando a liberarsi e lui fu felice di dargliene la possibilità - Se solo non avessi creduto d’amare, non sarei costretta adesso ad obbedire a mio padre – sibilò infastidita. Il silenzio calcolato di Venanzio la indusse a continuare. - Diverrò una suora – finalmente rivelò. No, non ce la fece a restare serio, tentò di trattenersi, ma lo sbuffo divertito che sfuggì dalle sue labbra diede via libera ad una grassa risata. Lei lo guatò delusa. - Tu… una suora? – sottolineò quell’idea comica ed assurda. La ragazza corrucciò le sopraciglia, non cogliendo la sfumatura del suo tono. Si sentì offesa e glielo fece capire. Lui si appoggiò alla parete rugosa della caverna e si calmò lentamente; poi le riservò quell’occhiata capace di confonderla. - Non hai il temperamento della santa – asserì adombrandola. - Mettete in dubbio la mia serietà? – lo interrogò contrariata.


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- No, assolutamente… metto in dubbio la tua vocazione… che non c’è ora e non potrà mai esserci – chiarì il concetto. Eufrasia ci rifletté, ma rinunciò a comprendere. - Non è giusto – continuò a lamentarsi ed il risentimento sovrastava ogni rassegnazione. - Mia cara… viviamo nell’ingiustizia e la normalità ci disgusta… io e te ci somigliamo – la sorprese con quell’affermazione e lei ancora lo accusò tacitamente. - Io non sono un’assassina – gli fece notare e Venanzio sogghignò. - Soltanto perché non ne hai avuto l’occasione, ma tu, come me, persegui il magnifico e ciò che per gli altri è normale, per te è inaccettabile – aggiunse serioso, troppo per pensare ad uno dei suoi sottili scherzi. - Dite solo delle sciocchezze – lo zittì, facendo spallucce. Però il suo parlare preciso e diretto l’aveva colpita: non era un’assassina, ma aveva desiderato uccidere Aldo per punirlo di una colpa sostanzialmente iniqua, per la sua inettitudine, per la sua incapacità, per il suo inconsapevole mentire dicendo di amarla… perché per lei l’amore, adesso, era qualcosa che non l’aveva mai sfiorata. Scosse il capo sconvolta da se stessa ed il bandito la osservò, mentre lottava contro i propri pensieri ed il proprio essere autentico. - Aldo era così normale, vero? – la colse in flagrante, ma neppure allora credette nella sua capacità di leggere il pensiero. Non gli rispose. - E tu vuoi un eroe o un bastardo, non sai cosa fartene di un uomo senza gloria e senza infamia – fu esplicito. Istintivamente ebbe l’impressione che stesse tirando l’acqua al suo mulino, poi escluse quell’evenienza. - Lo avete detto… un eroe – lo stilettò sottile. - O un bastardo… ho detto anche questo – sottolineò arcigno. Lei sbuffò, fissandosi sulla pioggia battente che scrosciava davanti a loro. Strano… ma si sentiva bene. Come poteva essere? L’appoggio inaspettato di Venanzio la sollevava e le toglieva quel masso abnorme dal petto. Eppure nulla era cambiato, il suo destino restava segnato, da lì a poco sarebbe partita alle volte di Parigi per entrare in convento e diventare una sposa di Cristo! Già, nulla era cambiato in quei minuti, nulla… e l’ombra per un attimo scemata tornò sul suo volto, con il magone ingoiato poco prima a serrarle nuovamente la gola. Sospirò esausta, quell’andirivieni di malessere e benessere la sfiancava ed anelò morire, magari senza accorgersene, senza dover lottare per sopravvivere… morire, così com’era nata, nell’inutilità del vivere che sentiva addosso. Certo, questa volta solo


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la morte avrebbe potuto salvarla, solo la… morte? Arrossì agguantata da un pensiero feroce, poi sbiancò e timidamente volse l’attenzione a Venanzio che non aveva smesso di studiarla. Si passò la lingua tra le labbra asciutte e strinse lo sguardo atro. - Voi… - sussurrò lieve ed una luce crudele le attraversò il viso. - Si… potrei essere la carta vincente che ti serve per gabbare il destino ed aggiudicarti la partita – la invitò a continuare per nulla intimorito, forse nemmeno sorpreso, probabilmente già a conoscenza dei suoi pensieri. - Voi siete un assassino – asserì acida. - Un assassino è sempre utile – le ricordò suadente come un serpente. La determinazione di quella ragazza era addirittura luminosa, come luminoso fu il suo guatarlo ferino. - Uccidetemi – disse e lui non sbatté ciglio. Il cuore però gli andò in testa, come se si fosse aspettato quella richiesta dal momento in cui aveva visto la sua disperazione sciogliersi in lacrime. Si mise a ridere, socchiuse lo sguardo nel farlo e se la ritrovò addosso, le mani bianche sulla camicia nera che indossava. Tornò serio e i loro occhi furono gli uni dentro gli altri, simili nel colore ed ora anche nella determinazione. Percepì il suo calore superare le stoffe degli abiti e un’emozione sconosciuta lo fece vacillare dentro come mai gli era accaduto, o forse come quella notte… al tocco casuale della pelle del polso di un angelo schiantato accanto alla sua agonia. Non tremò, trattenne ogni reazione con abilità e non si mosse, ascoltò il suo respiro e sentì addosso il ritmo saltellante del suo petto ansioso. - Aiutatemi… - lo supplicò con un tenero sussurro che lo spiazzò. Il languore che gli riversò addosso lo confuse e la sensazione di non avere scampo lo mise in agitazione. Tentennò. Cercò di fare mente locale ipnotizzato dal bagliore fascinoso degli occhi di Eufrasia che inconsapevole sapeva scatenare strane sensazioni negli uomini. Ritrovò a stento la propria freddezza e veloce, senza che lei potesse difendersi, le cinse le braccia e la bloccò. S’impadronì delle sue labbra socchiuse e scarlatte che da sempre lo attiravano con le loro sentenze e le loro parole discordati. La baciò improvviso ed appassionato senza che il ricordo di un bacio come quello emergesse dalla sua mente attenta, prudente nel non lasciarsi prendere e portare via. Eufrasia perse il fiato, l’impossibilità di poter prevedere quel gesto la piegò facilmente e l’emozione che le salì dallo stomaco fu nuova, frastornante ed incredibile, qualcosa che mai nella vita aveva immaginato e tanto meno provato. Non chiusero gli occhi e nel-


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la profondità poco rispettosa di quel contatto si fissarono fermi, come se stessero sostenendo una sfida senza sentimenti. Eppure entrambi colsero il sapore inequivocabile di un sentimento che non vollero analizzare. Senza parole si divisero e a cedere fu lei che senza più respiro si appoggiò al suo petto, senza percepire alcun battito impazzito sotto la stoffa scura. Parve prendere tempo e senza essere vista chiuse lo sguardo, mentre la stretta dell’uomo allentò, sbloccandole le braccia che non scesero. La sentì prendere il fiato perso e tornare alla calma che sapeva di avere minato con il proprio fuoco. - Cosa volete dimostrare con questo? – chiese con un filo di voce e la timidezza, per lei sconosciuta, a mutarla in quel momento. Venanzio ebbe un sussulto ironico che la irrigidì e non ebbe il coraggio di alzare il viso. L’uomo si avvicinò al suo orecchio e lei percepì il calore del respiro sfiorarle anche il collo. - Non c’è nulla che io possa dimostrarti, Eufrasia des Fleuves… nulla che tu non riesca a scorgere da sola – disse lieve, come se stesse confessando un segreto. La giovane non si mosse. - Eri il mio sogno… - aggiunse oscuro ed Eufrasia tremò, lo fece così intensamente da credere d’avere freddo. Tentò di guardarlo, vincendo l’imbarazzo che la scuoteva, ma Venanzio non glielo permise e le serrò il capo contro il proprio petto. - Ti ascolto – interruppe il languore tra loro, ma non era in grado di sostenere la vista del suo viso che sapeva bellissimo in quel momento, dopo averle regalato un’emozione che era sicuro ignota per lei. La giovane prese tempo e ritrovò se stessa a fatica. - Sarò io stessa a commissionarvi la mia morte. Lo avete detto, voi siete solito uccidere a pagamento… la vostra ricompensa sarà cospicua, credetemi – lo sorprese improvvisamente glaciale, anche se colse nel tono della sua voce un tremito che la faceva sembrare una bambina. Rimase fermo con il suo calore a penetrarlo come una spada. - Sembri decisa – mise in discussione ogni cosa. - Non sono tenuta a giustificarmi con voi, mentre voi dovete dirmi se accettate quest’incarico o se vi pare troppo terribile per poterlo portare a termine – fu dura, poco propensa alle celie, ingenuamente convinta di averlo sbaragliato. Era dunque esattamente come l’aveva immaginata: si barricava dietro la giustizia e l’onestà del suo rango, ma lo spirito che la muoveva non era come il suo aspetto, bensì crudele e senza scrupoli, esattamente come lui…


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- Sei diabolica – asserì roco. - Non più di voi, Venanzio – ribattè e fece per spezzare il loro contatto, ma lui l’avvolse in un abbraccio lieve eppure invitante al quale lei non volle rinunciare, memore e già nostalgica del bacio che l’aveva sconquassata, senza tuttavia riuscire a farle perdere la freddezza necessaria per difendere la propria vita in pericolo. - Mi stai chiedendo di ammazzare un innocente al tuo posto – andò al sodo, aveva capito tutto senza che lei gli avesse dettagliato il piano. - Io non sono forse innocente? – ringhiò amareggiata. - Sai difenderti molto bene – la stuzzicò. - Non escludo nessun mezzo per salvare me stessa – e finalmente riuscì ad alzare gli occhi su di lui che ebbe un secondo di smarrimento, causandole altrettanto discernimento. - Il mio compenso… - fu venale per uscire da un impaccio che non riuscì a sostenere. - Vi darò le direttive necessarie per entrare nel mio palazzo… la metà di quello che sarete in grado di prendere sarà vostro – era come un uomo d’affari, era sempre più ferma e macchinosa, ma la voce la tradiva e lui ne fu compiaciuto. - Ti fidi di me? Sai che potrei prendere tutto e scomparire – insinuò. - Non lo farete – asserì senza esitazione. - La tua sicurezza potrebbe costarti cara – l’avvertì. - Voi vi siete fidato di me, il fatto che siete qui lo conferma – lo sfidò alludendo che non aveva rivelato la sua presenza in riva al fiume. Si guardarono lungamente, erano diventati in pochi secondi complici di un crimine, stavano condannando a morte la figlia del conte des Fleuves. - Sarai una donna sola, Eufrasia… perderai il tuo nome, il tuo titolo e la tua vita agiata – volle farla ragionare, andando contro se stesso e cogliendone una sorta di mesta delusione. - Sono sempre stata sola. Mi avete conosciuta che ero sola e mi avete ritrovata sola. Credete che questo possa spaventarmi? So cavarmela e se non sarà così… soccomberò – parlava di sé come di un’estranea o di un nemico. - E’ una cosa della quale potresti pentirti e non potrai tornare indietro – fu quasi paterno e si maledì per questo, perché ciò che sentiva per lei in quei momenti non era certo amore di padre! - Se mi limitassi a fuggire, farei altro male a mio padre, lo getterei nella vergogna e non lo sopporterebbe. La mia morte sarà certamente meno


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gravosa per lui e non infangherà il titolo di cui va fiero – rivelò amara. Venanzio alzò le sopraciglia: Eufrasia pensava all’onore del conte, giocandosi il destino su un tavolo verde. Tuttavia, le porse la mano per suggellare il loro accordo. Lei si allontanò di un passo e gliela strinse con decisione. - Ricordate… la metà di ciò che vi sarà possibile rubare… solo la metà – precisò. - Certo… la metà – confermò e la stretta delle loro mani diverse, una candida come marmo pregiato ed una vissuta come metallo temprato, chiuse un discorso allucinante ed aprì un capitolo nella vita di entrambi. I loro occhi, anch’essi diversi, pur del medesimo colore, si promisero una fedeltà che andava oltre qualsiasi previsione. Tra loro si accese una scintilla letale e si avviluppò un nodo che nulla avrebbe potuto sciogliere. Sorrisero, apparentemente impegnati a programmare il delitto, ma segretamente scossi dal bacio che li aveva uniti in un fremito imprevisto. Il furto al palazzo des Fleuves fece scalpore. In passato qualcuno aveva asserito che il conte doveva avere dei contatti amichevoli con Venanzio Sauvage, perché era l’unico a non essere stato derubato. Tutto venne smentito con l’irruzione dell’uomo nella proprietà e con l’uccisione di due servi. Ciò che sconvolse la città fu però la morte di Eufrasia, trovata riversa ai piedi del letto e sfigurata da una ferocia disumana. Il sangue della ragazza aveva raggiunto anche le pareti: un vero massacro, quel corpo perfetto era stato martoriato da innumerevoli pugnalate ed un colpo di pistola ne aveva deturpato il volto. Indossava un abito blu, il suo preferito, ed i gioielli che portava erano stati la conferma della sua identità. Il conte era a Parigi quella notte a disporre per l’arrivo della figlia al convento. Il suo ritorno nella tarda mattinata fu terribile, lo fece cadere nell’apatia e nel rimorso che non confessò neppure al sacerdote che decise di stargli accanto. Non aveva versato una lacrima, era rimasto immobile davanti al cadavere coperto con un lenzuolo ed aveva risposto a monosillabi alle domande dei soldati giunti per verificare lo stato delle cose. La razzia al palazzo era stata fruttuosa per il bandito, aveva prelevato gioielli di fine fattura, monete d’oro e d’argento, un patrimonio. Ma non aveva depredato il corpo esanime. Non aveva toccato gli splendidi zaffiri che scintillavano alle dita della giovane, le quali uscivano dalla pietosa copertura che la celava. Xavier fissò quelle mani a lungo, non le avrebbe più dimenticate.


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Il funerale di Eufrasia fu sfarzoso, tutta Saint-Malo presenziò al triste evento ed il nero della folla ottenebrò ulteriormente la cupa giornata invernale e piovosa di quei primi giorni di novembre. La lucida carrozza era trainata da quattro stalloni scuri. Il lento corteo percorse le vie sino al cimitero e tra i presenti vi era anche lei, vestita a lutto ed irriconoscibile sotto la veletta. In coda al mesto seguito, ascoltava le preghiere sommesse ed i singhiozzi dei pochi parenti giunti. La sua attenzione era rivolta al padre, dal quale non distoglieva lo sguardo. Lo vide orgogliosamente disperato, non aveva creduto che potesse provare dei sentimenti così forti, non aveva previsto che potesse soffrire davvero per la sua mancanza. In fondo all’anima sentiva di essere stata crudele, ma le era impossibile dimenticare le decisioni sulla sua vita, cancellare l’idea di essere una suora e rinunciare per sempre all’esistenza. Si convinse che era giusto così e si consolò sapendo che il nome des Fleuves non era stato in alcun modo danneggiato, come avrebbe potuto fare una fuga, una ribellione, un gesto inconsulto. Ebbe un brivido, quando la bara cadde nella fossa con un colpo sinistro a causa di un errore degli addetti. Stavano seppellendo una ragazzina molto più giovane di lei, una vittima scelta da Venanzio a Rennes. Era venuta a conoscenza dei dettagli ed aveva provato una sorta di disgusto nei confronti dell’uomo privo di remore che giocava con la morte e con la vita. Ma… lei aveva voluto tutto questo, lo aveva pagato, aveva trovato la persona giusta. Una lacrima scese dagli occhi, era atterrita da se stessa. Cos’era diventata? Cos’era stata capace di fare? Non aveva vibrato i colpi mortali, ma aveva le mani egualmente insanguinate. Valeva tutto ciò la libertà? Valeva la beffa che stava imponendo a suo padre? Tremò ed abbandonò il cimitero, fuggendo inseguita dal Demonio. In quel momento il conte la vide, ma non realizzò, si limitò a soffermarsi su quella figura vestita di nero che scomparve oltre il cancello. Il rumore delle vanghe ed il cadere della terra umida sul legno lo riportò alla realtà e dimenticò l’accaduto. Solo tornando a casa si chiese chi poteva essere quella sconosciuta che quasi aveva corso per allontanarsi, spaventata o addolorata. Che differenza faceva? Ne faceva molta, ma questo lui non poteva saperlo, non in quel momento. - Potevate evitare di accanirvi tanto su un’innocente – sbottò Eufrasia di ritorno dal funerale, entrando nella grotta dove Venanzio aveva continuato a nascondersi. Seduto in fondo all’antro ed appoggiato alla


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parete, alzò lo sguardaccio sottolineato dal fuoco che gli crepitava davanti. - Mi hai chiesto un servizio con delle caratteristiche precise ed io mi sono attenuto alle tue istruzioni – non sopportava che venisse contestata la qualità del suo lavoro. - Non vi ho chiesto di farne uno scempio – si lamentò e raggiunse il calore delle fiamme, sedendosi e la nuvola nera dell’abito l’avvolse. Lui sorrise divertito. - Non cercare una scusante per quello che hai fatto, quella ragazza è morta anche per mano tua – la provocò. Non ricevette risposta e notò in lei un’ombra scura. Eufrasia sospirò, come se desiderasse soltanto dormire o magari dimenticare. - Mio padre era triste per la mia morte – sussurrò con un tono grave e cercò la comprensione del delinquente. - Cosa credevi che facesse? Una festa? – era piuttosto duro davanti a quella specie di ripensamento. La vide togliersi il cappello e senza veletta la sua bellezza rifiorì. - L’ho fatto per lui – stava per piangere. - Storie! Lo hai fatto per te stessa… ti piace farmi credere il contrario ed io, se vuoi, posso fingere di farlo! Questa commedia l’hai inscenata soltanto per salvare te stessa – fu odioso e velenoso. - Il vostro cinismo è fastidioso, Venanzio – lo zittì invano. - La verità è sempre fastidiosa – non cedette. - Pensatela come volete! – tagliò corto e si tolse i guanti di pizzo nero. - Più ti conosco, Eufrasia… più mi rendo conto di quanto ci somigliamo – asserì, entrandole dentro, pur sapendo di irritarla. - Continuate a dire delle sciocchezze – si spazientì. - Anch’io sarei andato al mio funerale… e forse un giorno avrò la fortuna di poterlo fare – sorrise acido. Lei lo scrutò con compatimento. - Eri là a vedere le lacrime di tuo padre, volevi essere sicura che il tuo gioco avesse fatto degli sconfitti… questo volevi e questo hai ottenuto… solo che tuo padre non ha pianto, non è forse così? – ma Eufrasia non rispose e gli riservò un’offesa indifferenza. La raggiunse con un balzo e le prese le spalle in cerca di un’approvazione. - Siete una bestia, Venanzio! Siete la bestia che mi è servita e che ho pagato profumatamente, non avete alcun diritto di giudicarmi e di insultarmi – si ribellò prontamente e si liberò. Non voleva un contatto, non voleva sentire il sangue sciogliersi.


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- Ti sto dando riparo – la stuzzicò, il viso a pochi centimetri. - Vi ricordo che questo nascondiglio si trova nelle mie terre – ribattè. - Dimentichi che Eufrasia non esiste più – non era tipo da farsi mettere i piedi in testa così facilmente. Sbuffò esasperata. - Non ho ancora capito cosa volete da me, Venanzio… avete avuto la vostra ricompensa e domani vi libererò della mia compagnia… cos’altro volete? – gli ringhiò in faccia. Lui sorrise. - Buffo… io invece so esattamente cosa tu vuoi da me – la colpì allusorio strappandole un rossore che lo divertì e la indusse ad abbassare gli occhi, per poi rialzarli fiera ed irriducibile. Storse il naso. - Stare approfittando della mia solitudine – asserì roca. - E’ quando sei sola, senza controllo, che sei pericolosa… approfittare di te sarebbe un rischio anche per uno come me, credimi! – ridacchiò, ma non accennava ad allontanarsi da lei che non aveva spazio per liberarsi del suo assedio. - Una bestia… continuate ad essere una bestia – mugugnò e se lo ritrovò addosso, le mani fermate al suolo, l’impossibilità di muoversi, il suo fiato addosso, i suoi occhi a trapassarla come pugnali. Non aveva voluto quel contatto, lo aveva evitato senza riuscirci ed ora sentiva il sangue farsi denso e poi scorrere veloce nelle vene. Il cuore impazzì e la bocca si asciugò in un attimo. Non ebbe la prontezza di scansarsi e ancora una volta quelle labbra incandescenti la presero in un bacio che rinnovò il ricordo di quello precedente, dopo avere passato ore ed ore a cancellarlo dalla memoria. Rantolò sotto di lui, atterrita per non avere vie d’uscita, nelle mani di un assassino che avrebbe potuto farle qualsiasi cosa, anche ucciderla per prendersi la sua parte di refurtiva. Valutò tutto, mentre un languore senza senso la intorpidiva e le toglieva la lucidità per tentare una ribellione, seppur lieve. - Vi ho già pagato per il vostro servizio – riuscì a dire e lo disarmò senza saperlo. Venanzio la guardò serioso, deluso da quell’asserzione, il sorriso ironico a morirgli su quelle stesse labbra che avevano creduto di regalarle un volo alto e magari di mutare i suoi piani. - Credi davvero che… - si fece sincero e lei serrò la bocca. - Credo a quello che vedo e mi siete addosso – ringhiò e come per incanto la morsa alle braccia si sciolse ed il bandito rinunciò, senza che lei si ponesse alcun quesito in merito. In entrambi prevalse l’orgoglio. Certa di averlo dissuaso, rimase distesa sul pagliericcio e si portò le mani alla nuca, intenta a fermare la cavalcata in petto. Lui fece la stessa cosa e ridac-


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chiò tra sé, scuotendo il capo incredulo. Eppure, non era uno sciocco, aveva davvero pensato di turbarla così profondamente da poterla prendere e salvare a modo suo. Invece era così distaccata e capace di governare le emozioni da fargli concludere che dentro fosse fatta di ghiaccio, che a tratti poteva emergere la fiamma dell’umanità, ma il suo cuore era talmente rigido da annullare ogni cosa e riportarla nelle macchinazioni che aveva scelto di vivere per non morire. Non negò a se stesso l’amarezza di un fallimento e promise di dimenticarla, di farlo non appena se ne fosse andata. Questa decisione lo rattristò, ma celò il proprio sentire ed insistette con un sorrisetto tagliente a nascondere ciò che provava. Eufrasia aveva ottenuto ciò che voleva, aveva salvato tutto ciò che c’era da salvare… ed un sottile desiderio di entrare in oblio la scosse con un brivido. Forse era colpa del freddo, ormai era inverno, le temperature esterne erano molto basse ed il tepore della grotta alleviava di poco il disagio. Sospirò. Vivere allo sbando era insolito per lei, abituata allo sfarzo, al superfluo, agli agi del ceto cui non apparteneva più. Con la paura per la prima volta a scuoterla guardò Venanzio, incontrandone gli occhiacci. Le piaceva scontrarsi con lui, era un gioco che la faceva sentire viva, era una lotta che trovava il suo compimento anche nel silenzio. Dal canto suo l’uomo provava una sottile felicità standole accanto. Ascoltare il suo strano respiro a scatti lo affascinava e cancellava il decennio che li separava. La vita che aveva condotto e le esperienze avevano fatto di lui un uomo dall’aspetto ancora giovane ma segnato come l’animo di un vecchio che aveva trascorso gli anni nella fatica e nella mediocrità per poi risorgere da un fango del quale non si sarebbe mai liberato. - Siete un uomo triste – disse all’improvviso. - Ti sbagli… posso affermare di non essere affatto triste – ribattè e guardò il fuoco. - Come avete fatto a non morire? – gli sparò al cuore senza saperlo. Lui alzò lo sguardo illuminato dalle fiamme cui pareva appartenere. Eufrasia lo trovò interessante, era un turbine inquieto che poteva travolgerla in qualsiasi momento. - Ricordi tutto così bene che dirti che quella notte era solo una notte significherebbe prenderti in giro… - blaterò e lei continuò ad osservarlo. - Perché siete tornato a Saint-Malo? – indagò incuriosita ed osservandolo forse per la prima volta. Ebbe un fremito nel ricordo dei loro baci improvvisi e poi taciuti come se nulla fosse accaduto. Una sorta di rimpianto l’avvolse e deglutì.


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- Niente sentimentalismi, se è questo che pensi. Sono tornato per pareggiare vecchi conti rimasti in sospeso ed ora posso ritenermi soddisfatto – fu esplicito. - Vi siete vendicato – concluse. - E adesso siete anche ricco… cosa farete? – gli chiese senza secondi fini. Era un uomo provato e cinico, un lupo solitario che non si fidava di nessuno, solo di lei ed in questo non c’era un senso apparente. - Ho ancora un po’ di anni davanti a me e la capacità di sopravvivere… non lo so cosa farò, forse niente o forse tutto… ah! Che differenza può fare? – sbottò dando l’impressione di vivere nell’attesa di qualcosa che nemmeno lui sarebbe stato capace di definire. - Tu… cosa pensi di fare? – indagò mosso dalla stessa curiosità. Eufrasia fece spallucce e sorrise impacciata. Il bandito si accorse della sua solitudine, o meglio… la poté vedere nel bagliore malinconico dei suoi occhi neri che ora erano bassi. Non ricevette risposta ed il desiderio di aiutarla lo violentò. Ma aiutare Eufrasia era impossibile, non accettava nulla ed era pronta a qualsiasi prova, anche a quelle che non avrebbe superato. Si domandò se, espletando l’incarico di simulare la sua morte, le aveva apportato un vantaggio o se era divenuto il responsabile della sua rovina. Il cuore batté forte in quel petto duro e la commozione gli salì alla gola davanti alla bellezza della giovane. Considerò l’idea di dirle qualcosa, sentì dentro il coraggio per farlo, poi ritrattò e volse lo sguardo altrove. Per quanto tempo si sarebbe pentito di quel silenzio? Per quanto tempo l’avrebbe rimpianta? Il mattino dopo Eufrasia se ne andò senza una meta. Montò sul cavallo baio che le aveva procurato e lo salutò, porgendogli la mano. Venanzio la strinse e la fissò. - Sei certa di potercela fare? - azzardò. Lei sobbalzò leggermente in un inconfessabile desiderio di essere trattenuta. Annuì ed il suo desiderio non si realizzò. - Addio, Venanzio… vi devo molto, ma credo di avervi pagato sufficientemente – cadde nella venalità. Lui sorrise e trattenne la sua mano, impedendole per un attimo di andarsene. La guardò certo di farlo per l’ultima volta. L’avrebbe dimenticata. - Sei un’amica leale… – disse e la deluse con il termine che le riservò, ma non lo diede a vedere. Cosa poteva pretendere dopo avergli fatto intendere senza troppi complimenti che per lui non provava nulla e che i suoi tentativi non l’avevano sfiorata? Aveva mentito, ma era troppo tardi.


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Venanzio la osservò mentre scompariva nella nebbia di quella giornata rigida. Strinse i denti nel momento in cui si rese conto d’averla perduta e si fece male nella consapevolezza di averla amata, di averlo sempre fatto a dispetto dei suoi modi e delle sue parole. Ma era troppo tardi.


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CAPITOLO III

La piccola villa di Nanterre era stata acquistata da poco più di un mese da una donna che non era solita ricevere ospiti. Il compito di scusarla era affidato ad una giovane serva elegante, vestita con fini abiti fruscianti, dall’aspetto emaciato anche se carina. Anche di quella ragazzina si sapeva poco e tanto meno che era stata una prostituta a causa della fame e della miseria dilaganti ormai in Francia. Si chiamava Lisette e non aveva un cognome, figlia d’ignoti, cresciuta in un orfanotrofio della Provenza e poi fuggita. Gentile, affabile, paziente, allontanava i visitatori che incuriositi si presentavano al cancello di ferro. La padrona stava male, non c’era, stava riposando… questo diceva a qualsiasi ora, in qualsiasi giorno ed in tutte le occasioni. La nuova proprietaria dava a vedere di sé solo lussuosi abiti neri che facevano pensare ad un inconsolabile lutto. Nient’altro era possibile carpire dall’esterno di quella modesta residenza. Lisette l’aveva conosciuta nella locanda in cui aveva lavorato due anni, un postaccio frequentato da ogni sorta d’immondizia umana come lei. Riceveva i clienti in una squallida stanza al primo piano ed era molto richiesta per i suoi sedici anni: la carne fresca piaceva specialmente agli avventori più attempati ed ai preti. Ricordava bene quando la porta si era aperta ed era comparsa quella donna. Aveva deglutito senza capire come mai una dama, perché il suo aspetto era tale da farla sembrare un’aristocratica, potesse volere da lei. L’aveva osservata celata da una veletta, vestita di nero come la morte e con un polso appoggiato sulla maniglia di legno tarlato. Lisette si era ricomposta per il rispetto che istintivamente le riservò, attendendo che fosse lei a parlare per prima, mentre il sospetto di doverla accontentare con una prestazione particolare l’aveva spaventata. - Lisette… suppongo – le aveva detto con voce ferma, immobile come se non avesse avuto intenzione di entrare. La ragazzina aveva annuito, avvezza a farlo con enfasi patetica.


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- Ho sentito parlare di te al piano terra, sembri essere molto apprezzata – l’aveva provocata ma il suo tono era stato così statico da non rendere chiare le vere mire che la stavano muovendo. - La vita non deve essere facile per te – aveva continuato indifferente e priva di disprezzo. Lisette non aveva risposto. - Sono certa che saresti disposta a tutto per cambiarla – era andata al sodo. Quell’affermazione aveva acceso una tenera illusone nella prostituta ed alla donna non era sfuggito. - Puoi lasciare questo posto e venire con me, diventare la mia serva e forse dimenticare – aveva detto infine, illuminandola in un attimo. Ma l’incantesimo era svanito velocemente e Lisette si era fatta diffidente. - Chi siete? – aveva sussurrato timorosa. - Il mio nome è Zoraide Bois – si era presentata. - Perché mi fate questa proposta? E poi… come posso fidarmi di voi? – aveva dimostrato un’inutile prudenza, divertendola. - Vedo che non sei interessata – sogghignò ed aveva fatto per andarsene. Tuttavia, Lisette si era affrettata a raggiungerla per fermarla con un tocco al braccio: il suo abito era di seta pregiata. - Non mi permetterebbero di andarmene – si era lamentata per giustificare il proprio intrinseco rifiuto. Zoraide aveva alzato la veletta, mostrandole il volto pallido e levigato, gli occhi neri, il sorriso tagliente e rassicurante. - Le cose sono disposte perché tu possa scegliere – le aveva risposto, rivelando il potere derivante dalla sua presunta nobiltà. La giovane prostituta si era guardata intorno, non aveva niente da portare con sé, solo un mantello lercio. Zoraide aveva pagato bene il proprietario della locanda in cambio della libertà di Lisette, semplicemente l’aveva comprata, per questo nessuno le aveva fermate, quando erano uscite ed erano montate entrambe sullo stesso cavallo baio. - Dove siamo dirette, madame? – aveva sussurrato, stringendole la vita per non cadere. - Mademoiselle… ricordalo – aveva ringhiato l’altra, accelerando l’andatura dell’animale e non le aveva dato la risposta che avrebbe voluto. Stolfo puntò la pistola verso l’entrata della locanda, nascosto nel buio dove nessuno avrebbe potuto vederlo. Il cavallo con il quale sarebbe


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fuggito lo attendeva in un vicolo. Attese due ore nel freddo di quella sera, certo che la vittima predestinata si sarebbe mostrata. Quel servizio gli avrebbe fruttato parecchie livres e, una volta concluso, sarebbe tornato a Rennes, nella sua tenuta, dove era in programma la festa da lui stesso organizzata. Il duca Stolfo Rues era molto mondano, allegro e simpatico; la nobiltà locale adorava i ricevimenti sfarzosi, i suoi bagordi e le sue risa, tanto che nessuno si era chiesto da dove venisse, accettando di buon grado la sua improvvisa comparsa. Finalmente l’aristocratico, del quale neppure sapeva il nome, uscì dal locale. Il colpo che gli riservò lo centrò alla testa e quello crollò a terra, nel sangue zampillante che luccicò sotto i lampioni, tra le grida della gente. I suoi trastulli segreti e bassi alla fine gli erano costati la pelle. Lo scalpitio degli zoccoli in fuga non fu notato e Stolfo si eluse senza difficoltà. L’appuntamento con il mandante era fissato davanti alla vecchia villa di Nanterre ed il duca non tardò, come non tardò il suo datore di lavoro. Non si parlarono, ricevette il compenso e si perse nel buio della notte. C’era stato un tempo in cui aveva creduto di poter cambiare vita, ma ora come ora, con il rinnovamento socio-politico in atto, era vantaggioso continuare. Gli intrighi e le tresche erano numerosi ed i nobili erano clienti solvibili, pagavano sempre e non mancavano di parola, spaventati dallo scandalo. C’era sempre qualcuno che voleva ammazzare qualcun’altro, a lui non importavano i motivi che muovevano quei folli, si limitava ad eseguire ad opera d’arte le istruzioni che riceveva. Il suo nome era conosciuto, o meglio… sapevano come trovarlo anche senza sapere chi era. Bastava che un servo si presentasse alla Locanda Soleil di Rennes, in Bretagna, e si facesse capire, sino a quando qualcuno provvedeva ad avvertirlo. A farlo era Nora, una donna sulla sessantina dal carattere volitivo, presa a servizio e che non si faceva intimidire dall’atmosfera dell’osteria di bassa lega, nella quale entrava con la scusa di comprare del vino. Lei sapeva che Stolfo non era un aristocratico e spesso lo metteva in guardia, dicendo che il giorno in cui lo avessero scoperto, sarebbe stata la fine. Lui rispondeva che quel giorno ci sarebbe stato qualcuno a salvarlo e poi rideva. Dopo un’intera notte di viaggio e parte della mattinata, giunse a destinazione: un palazzo grandioso con molti domestici, sfarzoso in ogni dettaglio. Era un tipo strano il duca Rues, dall’aspetto di un rozzo popolano vestito a festa, ma così ricco da incantare chiunque. Non aveva importanza se era quello che era per avere venduto la propria coscienza con la


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caparbia convinzione di poter dimostrare un valore personale soltanto così. - Iniziavo a credere che non sareste tornato! – si lamentò Nora, seguendolo nella stanza ed aiutandolo a spogliarsi degli abiti impolverati. - Ogni volta che partite per le vostre… imprese, mi viene il batticuore! – si fece arrogante, mentre lui s’immergeva nel tiepido bagno che era stato preparato. Gli massaggiò la schiena con una ruvida spazzola. - Hai forse paura di dire che sono omicidi in piena regola? – si voltò, fissandola con quei suoi occhi nerissimi che sembravano avere il fuoco dell’inferno dentro a zampillare. - Mi fate sentire complice delle vostre nefandezze – si difese e lo costrinse a girarsi per non doverlo affrontare. - Infatti è così – asserì, ma era ironico come suo solito, incapace di distinguere la serietà delle cose, il valore della vita, il senso della giustizia. - Non voglio discuterne e ditemi se state bene – tagliò corto la donna, insaponandogli i capelli sfiorati dal sale del tempo. - Meglio di così non potrei stare – fu cinico. Nora sbuffò e lo aiutò ad avvolgersi in un telo, dopo avergli sciacquato la testa con due caraffe d’acqua fredda. Quella donna corpulenta, un po’ arrossata dal sole e dagli stenti del passato, lo divertiva con la sua parlantina, con le sue lagne, con la sua bonaria allegria alternata ad una freddezza di spirito. Quando fu vestito, la guardò pensieroso. - A volte mi ricordi una persona – le disse. Era la prima volta che il padrone parlava di qualcosa che non fosse il presente. Lei alzò un sopraciglio e questo parve turbarlo. La fissò come ipnotizzato per un attimo da quel gesto inconsapevole e fu certa di vederlo deglutire in un’angoscia fulminea. - Una giovane donna… che come te si scandalizzava davanti a tutto… senza essere poi tanto diversa da me – sorrise nostalgico. - Chi era? – fu curiosa. - Non è importante… è morta poco più di un mese fa – chiuse il discorso e raggiunse la sala da pranzo, aveva una fame da lupo e come un lupo osservava le serve, mentre gli portavano i gustosi piatti cucinati da Nora. Lisette tornò tardi dalla spesa al mercato di Nanterre. Quando Zoraide la vide, appesantita dalle sporte, non la raggiunse per aiutarla, raramente lo faceva. Ascoltò il suo lavorio per mettere a posto ogni cosa e fece finta di nulla quando iniziò ad apparecchiare la tavola per il pran-


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zo. Continuò a leggere uno dei suoi libri, facendole un po’ invidia, perché lei era analfabeta. Poi si sedettero, Lisette era autorizzata a mangiare con lei. - Il pane è ormai raro, sapete? Quello che ho acquistato oggi l’ho pagato il doppio di ieri – disse dopo qualche minuto di silenzio e Zoraide la degnò di un po’ d’attenzione. - Non lo fare più… possiamo farne a meno – la riprese, ma non duramente. - I raccolti di patate stanno andando persi a causa del tempo – sottolineò senza ricevere alcuna risposta questa volta. Si creò un altro silenzio, del resto la padrona non era molto loquace, viveva avvolta in un mistero tutto suo. In realtà Lisette sapeva poco di lei e di come trovava i mezzi di sostentamento che permettevano loro di vivere in un lusso molto vicino a quello dei più facoltosi aristocratici. Eppure, la sua benefattrice non faceva parte del ceto privilegiato, lei stessa lo aveva affermato una volta alle sue insistenti domande. Tuttavia, non aveva mai sciolto l’arcano delle sue assenze notturne. Al giungere della sera, quando la campana batteva le nove, usciva in groppa al cavallo baio e tornava intorno alla mezzanotte. Non le piaceva restare da sola e per questo Zoraide le dava sempre una pistola che le riconsegnava la mattina dopo. Non aveva mai osato chiederle cosa andasse a fare a quell’ora fuori casa: all’inizio aveva pensato che avesse scelto la vita alla quale l’aveva strappata. Le era sembrato impossibile ed allora doveva essere una contrabbandiera, forse d’armi. Nonostante i suoi sedici anni, Lisette conosceva le difficoltà dell’esistenza, perciò non se la sentiva di condannarla, qualsiasi terribile compromesso avesse accettato. - Poco fa, davanti al cancello, ho trovato questo strano oggetto – ruppe il ghiaccio, estraendo dalla tasca qualcosa e porgendoglielo. Zoraide, sempre assorta in una muta malinconia, si svegliò e lo prese tra le mani. - Secondo voi… di cosa si tratta? – chiese affabile, decisa ad infrangere quella tensione senza senso. La padrona tremò e lei se ne accorse, ma fece finta di niente. Fu presa quasi dal panico davanti a quel ninnolo. - E’… un paraocchi per cavalli, qualcuno deve averlo smarrito – rispose con voce flebile. - Non trovate che sia un colore insolito? – insistette la serva, inconsapevole di scatenare in lei una violenta emozione. Quel finimento era rosso, assai raro… forse unico nel gusto macabro del suo proprietario. Non ripose a quella domanda e continuò a guardarlo attonita, turbata da qualco-


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sa, finalmente umana nella sua glacialità. Sospirò stancamente e si alzò con l’intenzione di ritirarsi alla svelta nella propria stanza. - Aspettate! Ho preparato dei dolci, non volete assaggiarli? – la fermò Lisette. Alzò un sopraciglio sorpresa. - Al cioccolato – specificò e Zoraide ebbe un sobbalzo. Provò tenerezza nei confronti della ragazzina e sorrise per non ferirla. - Lisette… non so come dirtelo… - farfugliò imbarazzata come non era mai stata. L’altra inclinò il capo. - Io… non sopporto il cioccolato… ma apprezzo il tuo gesto, davvero… - e sembrava vergognarsi. La serva non si offese e fece spallucce. In realtà, nonostante il rifiuto manifestato, era contenta di avere riscontrato nella padrona un filo di sensibilità. - Non importa, mademoiselle Zoraide… vorrà dire che in futuro ne terrò conto – la tranquillizzò, lasciando che andasse a riposare. Una volta chiusa la porta, Zoraide si appoggiò alla stessa ed inspirò profondamente: si sentiva esausta, la scossa interiore di pochi istanti prima l’aveva svuotata d’ogni energia. Guardò nuovamente il paraocchi sul palmo della mano, fissandolo come se vi scorgesse chissà quale verità. Lo portò al naso e percepì l’acre odore equino. Si sedette sul letto. Aveva creduto di non dover più sentire il sapore del passato sotto i denti o il veleno della nostalgia ad annegarle il cuore; aveva creduto di poter cancellare l’accaduto con un colpo di spugna e ci era riuscita, ma l’incantesimo si era spezzato in un baleno… ed ora le sensazioni di un tempo erano più forti. - Venanzio… - sussurrò con un brivido a percorrerle la schiena come una lama affilata. Perché sentiva la rabbia illogica di un mancato appuntamento con il destino? Nella sua mente tornò il volto del bandito: non lo aveva dimenticato, Dio solo sapeva quanto ci aveva provato, ma le era rimasto dentro e sapere di averlo avuto così vicino la innervosì. Il desiderio di rivederlo si mescolò alla necessità di sfuggirlo. Venanzio faceva parte di quei giorni che stava tentando di annullare con quella sua solitaria esistenza! Camminò inquieta, si sentiva in gabbia ed era un fastidio che non aveva mai saputo tollerare. Si sorprese a guardare oltre la finestra, verso il cancello, nell’inconscia attesa di vedere giungere Venanzio in tutta la sua baldanza. Ne sentì la mancanza. Doveva essere impazzita, il ricordo dei suoi baci profondi ed improvvisi la scaldarono e la fecero sospirare. Come poteva anelare a lui? A lui che era tutto ciò che un uomo non doveva essere! Venanzio Sauvage… dal passato maledetto e dal pre-


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sente efferato d’assassino, ladro e brigante! Venanzio Sauvage… che si era vendicato per i torti subiti, decimando intere famiglie in nome di se stesso, per placare la propria sete di sangue! Quello che sentiva dire di lui erano cose raccapriccianti, la sua completa mancanza di scrupoli era ormai leggenda tra i francesi che lo credevano morto… ma lei sapeva, aveva sempre saputo, che era più vivo che mai e gli ultimi omicidi perpetrati a Parigi, e non solo, non aveva esitato ad attribuirli a lui. Ecco. Un uomo così le dava emozione. Ecco. Un uomo poco meno che animale predatore la faceva sentire viva! Ecco! Ecco dove si annidava la sua pazzia… nel suo solo ricordo e poi nella nostalgia di lui! “… o un bastardo, ho detto anche questo”. Le sue parole la turbarono ancora. - Non dovete accettare! Dovete smetterla! – disse Nora, chiudendo la porta della sala dove il duca era solito passare gran parte del suo tempo libero, lucidando le armi che possedeva. Stolfo amava le spade, le guardava e le rigirava contro la luce delle candele, per poi sorridere soddisfatto davanti al loro sinistro scintillio. Ne aveva di tutti i tipi, con else d’oro lavorate o incastonate con pietre preziose. Aveva anche parecchie pistole, con le quali si esercitava nei pomeriggi nella campagna circostante. In quel momento stava ammirando un fioretto. Quando la serva si fermò a scrutarlo recriminante, lui resse il suo sguardo con una fermezza che la fece vacillare. - Lo dico per voi, duca… per voi e per la vostra vita – aggiunse. - Cosa sarà mai questa vita? – fu amaramente ironico. - E’ un dono di Dio che voi dovreste rispettare – lo riprese materna, ma anche un po’ ipocrita. Era lei l’intermediaria con i suoi clienti e lo dimenticava continuamente. - La vita, la mia vita, è una conquista che mi è costata molto cara – si fece brusco. - Così facendo finirete per giocarvela… e tutto per del denaro che non vi serve! Siete ricco, cos’altro volete? – insistette la vecchia, camminando avanti ed indietro. - Quello che voglio, Nora… l’ho irrimediabilmente perduto – la incuriosì. Si sedette davanti a lui e posò le mani grasse in grembo. - Sembrate avere un rimpianto, duca… non volete parlarne? – lo incitò abile, comprensiva e dolce come sapeva essere. Stolfo sogghignò e la


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guardò impietosito, deciso a farle abbassare gli occhi, certo di poterci riuscire. Vinse la sfida e ne fu contento. - Il rimpianto… ma tu sai cos’è il rimpianto? – iniziò a filosofeggiare. La serva alzò un sopraciglio e questo lo bloccò nuovamente, quell’atteggiamento aveva un effetto devastante in lui. - E’ una lama sottile che trapassa il cuore – concluse senza enfasi. - Solo una donna può farvi parlare così – asserì, centrando quel petto chiuso. Stolfo la fulminò, non sopportava i suoi tentativi di spogliarlo come se fosse un bambino. - A volte parli troppo, Nora – l’accusò ma lei non reagì, tacque nella speranza che si aprisse. - Dimmi chi devo ammazzare – cambiò invece discorso. Nora non rispose caparbia. - Chi è la vittima? – fu duro. - Un marchese… a Parigi – sussurrò, implorandolo con lo sguardo di non accettare anche quell’incarico nefasto. - Dov’è l’appuntamento? – indagò seccamente. - Alla Locanda del Delfino, nella Capitale… domani stesso vi attende un servo fidato del mandante – era afflitta, le era gravosa quella complicità. - E’ davvero fidato? – fu prudente. - Direi di sì – rispose a caso. Cosa poteva saperne se il servo scelto del mandante era fidato oppure no! Stolfo rifletté e poi ripose la spada sul tavolino. Nora si alzò e versò dell’altra limonata nel bicchiere di fine cristallo, glielo porse e lui pensieroso sorseggiò la bevanda. - State attento, duca… guardatevi sempre le spalle, Parigi è un covo di serpenti in questo periodo – concluse mestamente ed uscì sconfitta. Gli ripeteva sempre la stessa cosa ad ogni incarico. - Il mio angelo mi proteggerà – sorrise nostalgico e rimise il fioretto sopra il camino crepitante. Il calore lo invase e si fissò sul fuoco che lambiva l’aria partendo dai ceppi grossi ed incandescenti. Guardò le fiamme con un’espressione assente e la sua mente corse in riva al fiume Rance, accanto ad una grotta… il cuore cavalcò, mentre un groppo gli saliva alla gola ed un desiderio senza senso lo azzannava più feroce di lui. Era così difficile dimenticare ed a tratti il dolore cancellava l’importanza o i rischi delle cose che facevano la sua esistenza. Si chiese che fine aveva fatto quell’angelo, quale abile soluzione aveva trovato e se ne aveva trovata una… tremò, ma era avvezzo a quelle saette al torace ed aveva imparato a governarle, a lenirle con il suo incrollabile cinismo.


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Quella notte Stolfo avrebbe dovuto ammazzare il nobile e si era appostato poco lontano dalla cattedrale di Notredame. Era stato messo al corrente che l’uomo sarebbe andato alla messa di mezzanotte, come faceva ogni anno alla vigilia di Natale. Non era una bella cosa assassinare una persona in un’occasione sacra, ma gli affari erano affari e lui non si sottilizzava. Era a circa trenta metri dall’entrata e caricò la pistola, puntandola sulla gente che andava e veniva frenetica. Non aveva fretta, questa volta era stato pagato in anticipo, perciò non aveva appuntamenti a missione compiuta. Nevicava fitto e la neve ostruiva gran parte delle strade; faceva freddo e Stolfo lo sentiva nelle ossa e lo vedeva salire al cielo con il suo fiato come un fantasma. Riconobbe il marchese per lo sfarzoso abito rosso e per l’ampio mantello rifinito in ermellino. Era eccentrico, noto per i suoi gusti insoliti e vistosi, si diceva anche che fosse omosessuale e lui lo osservò lungamente, convincendosi che doveva essere vero. Mirò bene, non doveva sbagliare ed era possibile che accadesse, la visibilità era minima e la folla lo circondava. Lo sparo echeggiò, sovrastò le campane e ci fu un gridare isterico delle donne presenti, poi un fuggi fuggi generale. Strinse lo sguardo ed il sangue che intrise la neve gli diede la certezza di non avere fallito. Repentino si voltò per raggiungere il cavallo ma tre ombre lo bloccarono, parandosi davanti a lui. Uno degli uomini che lo avevano colto in flagrante allontanò l’animale che galoppò via. Stolfo sbarrò gli occhi neri e si sentì perduto. Gran brutta sensazione per lui quella… per lui che non l’aveva mai provata! - Il duca Rues… - dissero in coro ed il loro accento era bretone, le loro voci familiari ed i loro volti, illuminati appena dai flebili lampioni, conosciuti. Indietreggiò perché due di loro brandivano dei coltelli ed uno aveva il fucile. - Nessuno di noi avrebbe creduto di trovarvi così presto – affermò uno dei tre. Non aveva scampo, ma decise che se la morte gli era stata assegnata, almeno l’avrebbe contrastata. Veloce fuggì superandoli. Quelli gli stettero alle costole senza stancarsi, tampinandolo con l’agilità della loro giovane età. Ingenuamente s’infilò in un vicolo, non considerò i rischi cui sarebbe potuto andare incontro e così si trovò davanti ad un muro. Si fermò, scivolando sul ghiaccio sottile ed ascoltò l’arrivo dei suoi inseguitori. Era finita. Questa volta per lui non ci sarebbe stata alcuna possibilità di salvezza! Nel buio quasi pesto i ricami dei suoi abiti lussuosi scintillarono ed i tre uomini adesso ostruivano l’unica uscita. Respiravano affan-


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nosamente a causa della corsa, ma erano riusciti a metterlo in trappola. Si accorse di avere smarrito la pistola. Iniziò ad ansimare, la sua era paura pura, la testa gli pulsava: morire così stupidamente era l’ultima cosa che avrebbe voluto! Li scrutò stringendo quel suo sguardo bestiale, adesso iniettato di sangue, sovrastato dalle sopraciglia scure e minacciose, inarcate in un’espressione ferina ed estrema. La luce dei suoi occhi balenò nella tenebra, ma non bastò per persuaderli. Sapeva che non avrebbero avuto pietà, sapeva che il loro odio era devastante, perché per sua mano avevano perso le famiglie ed erano scampati ai massacri per dei casi fortuiti. Lo conoscevano, lo ricordavano nei giorni dell’oblio e lo avevano riconosciuto, aiutati dalla casualità. - Io l’ho sempre saputo che Venanzio Sauvage non era morto – sibilò uno di loro e brandì il coltello. Ebbe un ringhio disperato e poi un pensiero inutile in quel momento, un volto nella mente ed un respiro nel cuore, poi un nome a martellargli il petto ed un sorriso finale di addio ad Eufrasia che non aveva mai cancellato dall’anima. Il fragore che seguì fu amplificato dall’angusta via e l’aggressore con il fucile cadde al suolo in una pozza di sangue che schizzò sino al viso dell’assediato. Gli altri, presi di sorpresa, si voltarono e contro la luce dell’arteria principale videro qualcuno a cavallo, intabarrato ed irriconoscibile, con la pistola fumante puntata su di loro. Fecero per raggiungerlo ed un altro colpo abbatté l’attacco. Il superstite si bloccò attonito, incapace forse di realizzare ciò che stava succedendo. La sua titubanza non sembrò toccare lo sconosciuto che lo freddò a bruciapelo. Un rantolo raggelò la già gelida aria. Il cavallo entrò nel vicolo, facendo un gran rumore con gli zoccoli ferrati e si avvicinò al duca Rues che fissava incredulo quello scempio. - Salite! Gli spari attireranno la folla, non vorrete farvi riconoscere da questi pezzenti? – disse una voce femminile e lui non rifiutò l’invito a salire dietro di lei. Strinse la vita ed al galoppo superarono i primi crocicchi di gente, ma nessuno si accorse di loro. Nella fuga il profumo della donna lo pervase e la sensazione di familiarità che percepì fu come un fulmine al centro del cuore. Giunsero in un paese adiacente a Versailles, chiamato Nanterre. Si fermarono dietro la chiesa chiusa e l’uomo scese senza che lei facesse la stessa cosa. Gli porse la pistola, che scoprì essere la propria. - Siate più prudente la prossima volta, non sarete sempre fortunato come questa notte – fu ironica.


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- Perché lo avete fatto? – chiese, come se temesse un inganno. Non ne vedeva il volto nel buio e nella cortina della neve copiosa che continuava a cadere. - Avevate bisogno d’aiuto – rispose con naturalezza. - Sapete che avete salvato un assassino? – indagò. La sconosciuta lo scorgeva bene. - Ho salvato la vita al duca Rues – fu complice del suo crimine e indifferente al nome di Venanzio che probabilmente aveva udito. - Chi siete? – la fermò, afferrando il morso del cavallo. - Una cosa, duca Rues… - sorvolò sulla sua richiesta, scostando l’animale con un gioco di polso. - Non presentatevi mai a Versailles, seguite il mio consiglio se non volete dei guai – affermò. - Potete ingannare chiunque, ma non la Casa regnante, perché il casato Rues non esiste ed il vostro gioco potrebbe costarvi la vita – concluse facendolo trasalire. Si guardarono senza vedersi nitidamente, poi la donna spronò il destriero e scomparve nella neve, lasciandolo in balia degli eventi, paga d’averlo salvato. Nel periodo natalizio il conte des Fleuves sentì particolarmente la mancanza della figlia. Durante la giornata della vigilia aveva manifestato il rifiuto a partecipare alla Messa di mezzanotte e nel pomeriggio aveva visitato il cimitero. Era rimasto immobile sotto il nevischio gelido a fissare la lapide e leggendo continuamente il nome di Eufrasia scolpito nel marmo nero. La pioggia freddissima lo aveva inzuppato. Dal giorno dell’assassinio niente aveva importanza per lui, niente attirava più la sua attenzione e gli affari li seguiva poco, con grande preoccupazione dei suoi collaboratori che allontanava, quando tentavano di incontrarlo. Neppure le ultime notizie provenienti dalla Capitale lo scuotevano, la responsabilità di essere uno dei candidati per rappresentare il Terzo Stato agli Stati Generali non lo sfiorava più, tanto che si era scordato di ritirare il proprio nome dalla lista. Non partecipò dunque ai festeggiamenti che seguirono la decisione del parlamento parigino di concedere al Terzo Stato il doppio dei rappresentanti all’assemblea di maggio e non disse la sua in merito al fatto che restavano da stabilire le regole per le modalità di votazione. Non colse perciò l’ansia della borghesia e della nobiltà alleata circa l’emissione da parte di Luigi XVI del regolamento inerente al grande evento. Si lasciava semplicemente andare e con lui tutto ciò che


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lo circondava: era dimagrito, gli abiti gli andavano larghi ed il volto era stanco, emaciato, inciso da profonde rughe ed imbarbarito dalla peluria che radeva una volta ogni tanto. Era solito bere delle tisane mischiate ai liquori più disparati e passava il tempo davanti al camino schioppettante, fissando le fiamme sino al loro spegnimento; solo allora si sforzava di alzarsi per ravvivare il fuoco. Tutto andava a catafascio nel palazzo, alcuni servi se ne erano andati e quelli rimasti eseguivano malamente gli ordini blandi che dava. Quel giorno di festa il conte si era alzato tardissimo, a dispetto delle sue abitudini che ne facevano un mattiniero. Passata l’ora di pranzo, si era sistemato sulla poltrona, mentre all’esterno nevicava ancora. Di tanto in tanto ingurgitava whisky dalla bottiglia e si guardava intorno, nella folle speranza di vedere Eufrasia che sorridente gli annunciava di non essere morta. Lentamente, come sempre, l’alcool gli prendeva la testa ed allora i suoi ricordi si facevano nitidi nella paradossale nebbia che si costruiva per non soffrire. L’immagine della figlia martoriata lo tormentava e ripercorreva ogni particolare di quel corpo, soffermandosi sulle mani… che non avevano le unghie lunghe sempre contestate. Dentro di sé si accendeva una labile speranza che lo faceva sentire pazzo e con l’aiuto del liquore si convinceva che quel cadavere non fosse di Eufrasia… e ci rifletteva, lasciando che il rimorso si mischiasse alla rabbia: sua figlia sarebbe stata capace di fingere un decesso per sfuggire alle sue decisioni? E poi… quella donna al funerale… chi era? Forse lei? Scuoteva il capo stancamente: si aggrappava a delle supposizioni che nessuno avrebbe avallato! Lisette era ad un centinaio di metri dal cancello della villa, avvolta nel mantello di visone, simile ad una nobildonna e sgattaiolante come una fuggitiva. Camminava a piccoli passi, conscia dell’ennesimo ritardo: si era fermata a discorrere con altre serve ed aveva perso tempo. Doveva tornare alla svelta, non voleva che la padrona si adirasse, non il giorno di Natale. E poi… doveva raccontarle che a Parigi, nella notte, era stato consumato un altro assassinio, non si parlava che di questo nelle vie. Con le poche livres che Zoraide le aveva dato era riuscita a comprare dei dolcetti alla vaniglia da una vecchina fuori della chiesa e non vedeva l’ora di offrirglieli. Rasentò la strada a capo basso, quando qualcuno le si parò davanti, spaventandola. Alzò lo sguardo chiaro e si trovò faccia a faccia con un uomo intabarrato che la fissò, con gli occhi neri e profondi,


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folte sopraciglia e capelli un po’ arruffati. Indietreggiò e non resse quell’occhiata insistente. - Lisette – la salutò roco. - Non vi conosco – tagliò corto e tentò di superarlo, ma lui si spostò e le impedì di defilarsi così facilmente. - Sei la serva della Vedova – continuò per dimostrarle che invece lui la conosceva. Lisette scosse la testa frettolosa. Incuriosito dal salvataggio della notte precedente, il duca si era informato sull’esistenza di una donna con un cavallo baio che presumibilmente abitava a Nanterre. Era rimasto perplesso venendo a sapere che esisteva una persona con quelle caratteristiche e si trattava della Vedova. La chiamavano così per i suoi abiti sempre neri. Di lei si sapeva poco, tanto meno l’età, visto che le rare volte che usciva aveva il volto celato dalla veletta. Trovò quasi comico essere stato salvato da un’anziana, anche se forse non era così strano, pensando alla vitalità di Nora. Confessò a se stesso una certa delusione… aveva sperato che si trattasse di qualcun altro. Lisette alla fine annuì timidamente e l’uomo strinse lo sguardo. - La sto cercando, mi hanno detto che vive a Nanterre – insistette. - La mia padrona non vi riceverà – non trattenne un certo fastidio. Lui rimase immobile. - Dille che il duca Rues vuole conferire con lei – si fece poco rassicurante. - Non accetta visite… sarebbe inutile – non cedette, eseguendo gli ordini di Zoraide. - Tu diglielo, Lisette… dille che sarò da lei questo pomeriggio per ringraziarla – sorrise malefico e le permise di passare. La osservò divertito dalla sua fretta di tornare a casa, superando gli ostacoli della neve. Zoraide sentì la serva rientrare e veloce rimise in tasca il paraocchi rosso. - Sempre in ritardo – la riprese quando entrò nella saletta e si sistemò davanti al camino per scaldarsi. - Un uomo mi ha fermata e mi ha detto di volervi incontrare – balbettò ancora tubata. - Un uomo? – si fece sospettosa. - Dio… non ricordo il suo nome – confessò agitatamente. Zoraide alzò un sopraciglio, manifestando il proprio dissenso. - Come posso decidere di riceverlo, se non so chi è? – fu dura.


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- Sarà qui nel pomeriggio, per ringraziarvi – la informò. Si, c’era qualcuno che avrebbe potuto ringraziarla a seguito della sua attività notturna, qualcuno che le doveva molto per la sua magnanimità. - Che aspetto aveva? – chiese. - Più vecchio di me… - rispose vaga. - Più vecchio quanto? – insistette rigida, anche un ventenne sarebbe stato più vecchio di Lisette. - Non lo so… forse come voi, no… di più… I suoi capelli arruffati non erano proprio neri… ed era nobile, si… i suoi abiti erano preziosi, aveva bottoni di diamante sotto il mantello – disse tutto d’un fiato. La padrona riflettè e rammentò l’uomo al quale aveva concesso un pagamento dilazionato della perdita al gioco subita nella bisca che era solita frequentare. Così si guadagnava da vivere e nessuno lo sapeva. - Ti ha chiesto di me? – continuò. - Ha chiesto della Vedova… non conosceva il vostro nome – Giusto! Lei non aveva rivelato il proprio nome ed era conosciuta a Parigi come la Vedova. - D’accordo, Lisette… quando arriva fallo accomodare nella saletta ed avvertimi – concluse. Perché era venuto a cercarla? Le sue difficoltà forse erano superiori a quanto le aveva fatto credere? Ci pensò tutta la mattina e buona parte del pomeriggio. Era in camera a ritoccarsi il trucco, quando la serva entrò senza bussare. - E’ arrivato e vi sta aspettando al piano terra, mademoiselle Zoraide… e gli ho chiesto il suo nome – disse per rimediare alla propria negligenza. - Non ti sembra un po’ tardi, Lisette? – le riprese. - Non lo volete sapere? – fece il musetto e lei sorrise. Annuì, mentre si sistemava i capelli e si avvolgeva in uno scialle nero. - E’ un duca… - cominciò e già questo la mise in apprensione. L’uomo che stava aspettando non era un duca. Si voltò con il cuore in gola, non poteva essere ciò che pensò in un secondo. - E’ il duca Rues – finalmente affermò fiera di sé, inconsapevole di darle una stilettata al cuore. Zoraide ebbe un’espressione agghiacciata e sbiancò. - Mandalo via, subito, non permettergli di stare in questa casa un solo minuto di più – le ordinò inaspettata e la serva temette di essere la causa del suo cambiamento d’umore. - Ma… forse lo conoscete? – balbettò.


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- Non è importante! Mandalo via, inventa una scusa e fa in modo che se ne vada – fu perentoria, detestava dover rendere conto delle proprie decisioni. Lisette non ribattè e scese mesta al piano terra. Quando entrò nella saletta, il duca la scrutò un po’ deluso. - La mia padrona si scusa… purtroppo non sta bene – sussurrò. Stolfo la fissò. - Capisco – fu gentile. Lisette trasalì. - Le persone anziane hanno spesso dei problemi… non importa, Lisette… avrò modo di tornare a Nanterre e forse sarò più fortunato – fu suadente, persino dolce e quindi insolito, visto il suo aspetto graffiante. - Perdonatela, duca… - gli disse sulla porta. Zoraide era appiattita contro al parete ad angolo delle scale che portavano al piano superiore ed ascoltava la voce dell’ospite con il petto in fiamme. Era proprio il duca Rues… ovvero Venanzio Sauvage. - La tua patrona non ti ha insegnato a non giustificarti, quando esprimi un diniego, Lisette? – fu così piacevole nel modo di fare che la ragazzina arrossì e lui la trovò tenera. - A presto – la salutò ed uscì nella tormenta di neve in corso. Zoraide sospirò di sollievo e quasi si accasciò al suolo con tutto il sangue alla testa.


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CAPITOLO IV

Il palazzo del duca Rues era addobbato con drappi di seta rossa ed i lampadari erano stati accesi. Gli invitati erano una folla gremita e festosa. Le dame erano preziosamente vestite, con abiti di una sontuosità quasi imbarazzante e gli uomini non erano da meno. Fiumi di champagne si riversarono nelle coppe di cristallo e guantiere ricolme delle più raffinate pietanze sorvolarono i presenti, con l’abilità dei servi in livrea. La lunghissima tavola era imbandita, profumata e fragrante, scintillante con le posate d’oro ad ammiccare. Il duca se ne stava sulla gradinata, elegante con l’abito scuro e la camicia di seta che mostrava lo splendore di un rubino enorme. Fumava distrattamente il suo sigaro e sorrideva suadente alle donne che gli passavano davanti, riservandogli sguardi inequivocabili. Alcune di loro si fermavano e si sventagliavano il naso con leziosità. Lui le assecondava con occhiate balenanti ed allusive molto apprezzate. - Le vostre feste, duca… sono meravigliose, neppure a Corte ci si diverte come accade qui, sapete? – gli disse una nobildonna con accanto la figlia poco più che tredicenne. L’uomo la raggiunse, scendendo le scale e si avvicinò al suo viso incipriato. - Mi lusingate, madame… i vostri complimenti finiranno con il farmi arrossire – ma non erano le parole che diceva ad emozionare, bensì il modo con cui parlava, il tono ed il timbro di voce. - Oh, duca! Siete un simulatore! Sapete bene d’essere il migliore fra noi! – ridacchiò civetta, dando un colpetto al gomito della figlia perché cogliesse l’occasione per farsi notare. Piazzarla con un duca sarebbe stato un colpo perfetto per una famiglia in rovina come la loro, nobile ma povera in un paradosso frequente alla fine del diciottesimo secolo. Stolfo prese la candida mano della fanciulla che tremò al suo tocco, la baciò cavallerescamente e le riservò uno sguardo tagliente, impossibile da sostenere per una bambina. - Siete bellissima, mademoiselle… - rincarò la dose, facendola arrossire.


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- Non credete di avere diritto a divertirvi anche voi, mademoiselle? Vi prego, unitevi ai giovani presenti e festeggiate con loro la fine di questo anno – la incitò e lei obbedì come ipnotizzata. La madre non fu in grado di fermarla ed un po’ seccata guardò il duca. - Se voi, madame… sapeste chi sono veramente, non avreste tutta questa fretta di infilare vostra figlia nel mio letto – le sbatté in faccia una dura verità. Lei trasalì, scandalizzata alzò le sopraciglia e si dimostrò offesa. - Come mia moglie, s’intende – rettificò sarcastico e poi la fissò. - Avete sempre voglia di scherzare, duca Rues… - incassò e comprese di non averla dissuasa dall’idea di offrirgli quel fiore in nome del prestigio di un titolo. Disgustato da quel comportamento, nel frastuono della festa, Stolfo cercò la solitudine, riparando nello studio. Si sedette sulla poltrona e sorseggiò dell’acqua fresca. Si sentiva triste. Non era giusto che fosse così, con l’allegria ad assordare l’intero palazzo, ma la malinconia lo azzannò. Poteva accadere in qualsiasi momento. A tratti il ricordo di Eufrasia si faceva violento ed i suoi tentativi di cancellarlo erano inutili. Aveva creduto d’averla trovata, ma la Vedova era un’anziana… anche se in fondo non era neppure sicuro che fosse stata proprio lei a salvarlo. Come uno sciocco aveva sperato in un miracolo. Rammentò la notte a Parigi, gli spari che avevano abbattuto i suoi aggressori e poi il profumo della donna che lo aveva portato a Nanterre. Ah! Il desiderio di ritrovarla non lo aveva fatto ragionare a sufficienza! Restava il fatto che gli mancava e nei momenti di presunta gioia quella privazione del destino era ancora più pesante. Si alzò di scatto per non lasciarsi abbattere e tornò al ricevimento. Notò uno degli ospiti in disparte, un po’ contrariato e nervoso. Stringeva nella mano una coppa di champagne e la moglie accanto a lui sembrava annoiata. Preoccupato, lo raggiunse e guardò entrambi. - Marchese Saux… forse non vi state divertendo? – chiese inchinandosi davanti alla marchesa che sorrise educatamente. - C’è poco da festeggiare, duca… - brontolò, sorseggiando il vino pregiato. - Amico mio, il vecchio anno ci sta lasciando per dare il passo a quello nuovo, che è ricco di promesse, non siete d’accordo con me? – indagò. Il marchese sbuffò e si accostò a lui in cerca di un appoggio. - Avete mai sentito parlare del conte des Fleuves? – sibilò infastidito. Stolfo sentì il sangue fermarsi, ma si controllò.


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- Des Fleuves… non mi è nuovo all’orecchio – disse vago. - Gli è morta la figlia qualche mese fa, rammentate? – lo aiutò ed il cuore del falso nobile galoppò. Annuì per non parlare e celare così un lieve tremore. - Avevo con lui delle relazioni d’affari, ero uno degli investitori nell’importazione del grano… e quel pazzo mi sta facendo perdere una fortuna e non c’è modo di dissuaderlo! Per non parlare poi della presunta rappresentanza agli Stati Generali, a maggio… se andremo avanti di questo passo il Terzo Stato, che io sostengo, vedrà fallire ogni proposito – si lamentò dimentico della baldoria che li circondava. - Per quale motivo? – scavò l’altro. - Non si occupa più dei suoi affari, tutto è allo sfascio e farsi ricevere è ormai un sogno! – aggiunse disgustato. - Dovreste comprenderlo… in fondo la perdita che ha subito è stata terribile – temporeggiò turbato da quelle notizie. - Mio caro duca… qui si parla di quattrini e della sorte della Francia! – storse il naso il marchese. - Avanti! La vostra ricchezza è tale che non credo andrete in bancarotta per un investimento sbagliato… e le sorti della Francia non possono certo essere nelle mani di un uomo solo! – tastò il terreno. - Se sarà eletto, duca Rues… lui ci rappresenterà, rappresenterà la nostra regione, la Bretagna… e vi pare poco? – insistette arcigno. - Si dice che si sia dato all’alcool per la morte della figlia che è stata ammazzata – e si spazientì. - Una cosa terribile – commentò il duca. - E’ stata uccisa da un bandito locale, un tale… bah! Neppure ricordo che si chiamava! – e bevve l’ultimo sorso di champagne. - Venanzio… Venanzio Sauvage – gli sorrise maligno. - Bravo! Venanzio Sauvage! Un balordo con un passato altrettanto balordo! – - Cosa sapete di lui? – e sfidò la sorte come piaceva a lui. - Soltanto che era un debosciato e che dopo essersi ripreso, ha deciso di attuare delle vendette personali… ah! Tutti pettegolezzi di paese! Doveva trattarsi di uno dei tanti bastardi nemici della nobiltà! Un animale che sarebbe stato meglio sopprimere alla nascita! – - Già, pettegolezzi di paese – rise il duca ed incrociò il calice del marchese, debitamente riempito, con il proprio che non sorseggiò.


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Zoraide se ne stava seduta davanti al camino crepitante, mentre il mondo fuori salutava l’arrivo del nuovo anno. Le fiamme inquiete illuminavano la stanza calda e lei di tanto in tanto sorseggiava un bicchiere di rhum. Quel liquore le ricordava la sera in cui aveva incontrato per la prima volta Venanzio, in quella squallida locanda. Per tanti anni aveva rammentato quell’aroma con fastidio, mentre adesso amava rivivere qualsiasi cosa legata all’uomo. Tra le mani teneva il paraocchi rosso. Ridacchiò tra sé, nonostante la tristezza infinita che provava per la propria incapacità di riceverlo. Si chiese se in realtà non l’avesse riconosciuta nella neve fitta di quella notte, se la sua voce era risuonata in lui familiare. Poi scosse il capo perché l’aveva in qualche maniera distorta per impedirgli di capire, terrorizzata da lui e dal passato che rappresentava. Però… il sapore del rimpianto era fastidioso sotto i denti! Pensò a se stessa ed alla vita che aveva scelto di condurre, segreta e silenziosa, legata all’alea del gioco. Già, Zoraide Bois altro non era che un’assidua frequentatrice di bische clandestine, nelle quali nel giro di un mese aveva fatto una fortuna, scoprendo di sé una notevole capacità nel gioco. La buona sorte era tuttavia ancorata anche al fascino che esercitava sui presenti, essendo l’unico elemento femminile in grado di difendersi e non abbordabile, avendo sempre con sé una pistola. Così mandava avanti la piccola villa in cui viveva, acquistata a basso prezzo dal vile proprietario, fuggito in Inghilterra per la paura di una rivoluzione, a suo dire, imminente. - Lo avete ancora con voi? – chiese Lisette, appoggiando un vassoio sul piccolo tavolo e svegliandola dai suoi pensieri. - Potrebbe portarmi fortuna – rispose, trovando una scusa per giustificare il proprio attaccamento ad un oggettino senza valore apparente. Poi prese una delle tazze ed annusò l’aroma della camomilla. - L’anno nuovo è cominciato da pochi minuti, mademoiselle Zoraide – le fece notare. - Cosa pensi che ci porterà? – la interrogò annoiata. - Nulla di buono – abbassò lo sguardo azzurro e sorseggiò come lei la bevanda. - Sei pessimista – corrucciò le sopraciglia. - Voi no? – si difese mesta. La padrona fece spallucce. Con le emozioni degli ultimi giorni aveva smesso di preoccuparsi e non si lasciava più coinvolgere dal vento di rinnovamento che sentiva nell’aria, un rinnovamento che non sembrava facile, che portava con sé inquietanti interroga-


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tivi e nefasti presagi. Piuttosto, in quei momenti le tornò alla mente la proposta ricevuta giorni addietro, quella di entrare nel contrabbando d’armi. Le masse si stavano armando e lei era un’insospettabile, perfetta per un ruolo come quello di far pervenire il necessario ai ribelli in agguato. Aveva accettato ed allo spegnersi delle luci della casa, qualcuno avrebbe introdotto delle casse piene di fucili nella stalla. Lei stessa avrebbe provveduto a farle uscire con qualche espediente. Aveva tempo due giorni per avere l’idea giusta, i complici si fidavano e la consideravano una donna abbastanza fredda per non sbagliare mossa. Si sentiva investita di una pesante responsabilità, anche perché c’era di mezzo la sua vita! Intorno all’una decisero di ritirarsi e nel buio della propria stanza Zoraide stette alla finestra, intravedendo il lavorio esterno. Si portò il paraocchi rosso davanti agli occhi e la sagoma dell’oggetto la distrasse per un attimo. Venanzio l’avrebbe approvata e questo le bastò. Era una nave a tre alberi di notevoli dimensioni quella attraccata al porto di Saint-Malo da quasi quattro mesi. Le condizioni atmosferiche e le intenzioni del proprietario non ne permettevano la partenza. Stolfo, sul ciglio della banchina, la osservava e ne valutava il prezzo. Avvolto in un nero mantello non era riconoscibile, anche se con quel tempaccio non c’era in giro anima viva. Continuava a nevicare anche in riva al mare ed era una cosa insolita, ma l’inverno in corso era uno dei peggiori, tutti lo dicevano. Montò sul cavallo bianco, la perfetta antitesi di se stesso, e galoppò intrepido sugli spessi lastroni di ghiaccio che coprivano le strade. Non sbagliò percorso per raggiungere la tenuta del conte des Fleuves. Ricordava bene dove si trovava e presto fu nel piazzale davanti al palazzo. La sorveglianza era inesistente. Il conte aveva affidato la propria vita alla sorte, era imprudente non facendo controllare le entrate principali. Scese con un balzo e salì i gradini gelati, stando attento a non scivolare; poi bussò sonoramente alla porta di legno intarsiato. Non ricevette alcuna risposta ed insistette. Dopo un po’ finalmente qualcuno aprì. Non era tardi, le campane della chiesa battevano solo le sei del pomeriggio, anche se era già buio. Una serva corpulenta lo guardò, illuminandolo con la lampada ad olio ed ebbe un sobbalzo davanti al suo sguardo. Stolfo ringraziò il Cielo perché non lo riconoscesse, girare per Saint-Malo era un rischio per lui, ma il padre di Eufrasia non lo conosceva, di questo era certo. - Cosa volete? – chiese la domestica scontrosa.


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- Vengo da lontano e voglio vedere il conte des Fleuves – rispose. - Il conte sta male – si sentì dire. Al suo tentativo di chiudere la porta, Stolfo con un colpo del braccio riuscì ad entrare. - Dimmi dov’è – non sembrava disposto ad accettare un rifiuto ed usò tutto il proprio tetro carisma per intimorirla. La poveretta inevitabilmente farfugliò qualcosa. - Non ho capito – sibilò, calcando la mano. - Nella sala… - bisbigliò e sospirò di sollievo, quando lo sconosciuto si allontanò per raggiungere il padrone. Se ne infischiò della pericolosità di quell’individuo e si defilò. Stolfo aprì la porta della sala e rimase immobile ad osservare la luce che il fuoco del camino creava. Vide il conte, seduto sulla poltrona, più che altro sbattuto sulla stessa, con la bottiglia di whisky in mano ed il respiro pesante. Lo fissò e la pietà lo prese turbandolo. Rivide se stesso e non fu una bella scena, i suoi giorni gettati nel delirio, le sue disperazioni indefinibili, le sue paure e la morte che aveva potuto guardare in faccia. Lui allora era stato un mendicante, un povero diavolo senza né arte né parte, non certo un nobile dalla fama di grande affarista e dalle incalcolabili ricchezze. Pensò ad Eufrasia ed alle sue scelte. Si avvicinò con passo leggero e si mostrò accanto al fuoco che lo illuminò, rendendolo più minaccioso. Il conte alzò lo sguardo arrossato e lo guardò assente. - Chi siete? – sbottò senza meravigliarsi della sua presenza. Stolfo non rispose. - Andate via! Se vi manda uno dei miei indisponenti collaboratori… andate all’Inferno! – ringhiò e bevve altro liquore. - Sono qui per affari, conte – finalmente lo sorprese. - Gli affari non mi interessano, andate via – tagliò corto infastidito. - Sono qui per l’acquisto del vostro veliero – andò al sodo, non voleva perdere tempo ed inoltre stare a Saint-Malo lo innervosiva. - Non vendo niente… lasciatemi in pace – borbottò. - Conosco la vostra situazione, comprendo il vostro dolore e sono qui per sollevarvi dai vostri impegni. Vendetemi il vostro veliero e l’affare dell’importazione del grano non graverà più su di voi e sui vostri collaboratori – disse d’un fiato. - Voi non sapete niente e non potete capire il mio dolore – storse il naso e bevve ancora. - So della morte di vostra figlia – gli dimostrò il contrario.


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- Eufrasia non è morta! – esclamò e quella frase spaventò il bandito, come lo spaventarono i suoi occhi spalancati e colmi di una certezza che non poté ignorare. Cosa diceva? Cosa sapeva? La sensazione di essere in pericolo lo fece indietreggiare di un passo. - Dicono che lo sia – insistette. - Io vi dico che mia figlia non è morta! – non cedette e Stolfo capì che aveva sparlato, che era completamente ubriaco. Riuscì a tranquillizzarsi e lasciò passare qualche minuto di silenzio che fu l’uomo a spezzare. - Volete la mia nave? Cosa siete voi? Un vampiro o cos’altro? – sbuffò esausto. - Sono un uomo d’affari come voi, niente di più – ribattè. - La mia nave la vendo al doppio del suo valore commerciale… altrimenti non se ne fa niente - buttò lì una proposta inaccettabile. - Avrete il denaro che chiedete entro tre giorni, il tempo necessario per completare le pratiche – lo meravigliò ed il conte lo scrutò sospettoso. Chi era quell’uomo dall’aspetto poco rassicurante, dal modo di fare sicuro e fermo, dalla sfrontatezza necessaria per varcare le sue soglie senza essere stato invitato? Si alzò e barcollò. Stolfo non lo aiutò, sapeva che per lui sarebbe stata una cosa odiosa, ci era già passato e conosceva certe sensazioni. - Chiunque voi siate… siete pazzo – concluse e cercò l’appoggio di una sedia. - Sarò da voi tra tre giorni con tutti i documenti da firmare – tagliò corto e fece per andarsene. - Sono solito sapere con chi ho a che fare, signore – lo richiamò. Stolfo non lo esaudì. - Non mi piacete – lo offese. - Ne sono certo, conte des Fleuves – sorrise divertito. - Non mi piacete perché dovete essere uno di quegli sfaccendati del Terzo Stato, sbaglio? – sibilò allo stremo, rinnegando ogni convinzione manifestata in passato. - Sbagliate, conte… nelle mie vene non scorre sangue borghese – ed in fondo disse la verità. - Storie! Non avete l’aspetto di un nobile – insistette. - Neppure voi – non si trattenne, provocando una sua feroce occhiata. - Andate via… e tornate soltanto con i quattrini in mano, in caso contrario non vi riceverò nemmeno – lo cacciò senza mezzi termini. Stolfo non reagì, l’amarezza dell’aristocratico era velenosa, la si poteva tagliare con


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il coltello e nell’angolo più remoto del cuore si sentì responsabile della sua disperazione. Non era forse così? Ci pensò di ritorno a Rennes, ci pensò molto. Lisette non comprese il motivo per il quale Zoraide aveva deciso di acquistare un carro. La spiegazione che ricevette non la convinse: addurre la scusa che il cavallo doveva muoversi le sembrò un po’ stupido e non credette alla bontà manifestata, quando la padrona aveva aggiunto che così lei avrebbe camminato meno. Zoraide era sempre stata strana, un po’ oscura.. ma ultimamente andava peggiorando, evidentemente aveva qualcosa da nascondere e gli agi in cui vivevano le davano motivo di sospettare di lei. - Credete che io non sappia che per vivere come viviamo noi… siete costretta ad accettare dei compromessi? – le disse e lei non batté ciglio. - Ciò che non capisco è il motivo per il quale mi tenete fuori dai vostri affari, mademoiselle Zoraide – continuò a lagnarsi. - Non voglio farti correre dei rischi che potrebbero costarti la vita, Lisette – le rispose dopo un po’. - E la vostra vita? – le fece notare. - La mia vita è soltanto mia e sono io che decido se metterla in pericolo oppure no – la riprese duramente. - Sembrate non considerare che io posso stare in pena per voi – l’aggredì piccola e patetica. - In pena per me? Avanti, sai che so badare a me stessa e che tutto ciò che faccio è anche per te – fu rigida. - Voi non capite - gettò la spugna sconfitta. A volte la padrona era così distante, appariva estranea ai sentimenti ed andava convincendosi che in realtà non ne provasse affatto. - Non capisco… quali sono i tuoi timori, qual’è il tuo problema? Hai forse paura di perdere quello che hai ottenuto? Hai paura di ritrovarti… - Non ditelo, vi prego! Io vi stimo molto, siete una donna che sa cavarsela anche da sola, ma vorrei solo aiutarvi, solo questo… - abbassò le spalle. Zoraide alzò un sopraciglio. La fissò nel silenzio pesante che sapeva creare. Lisette la stimava. Ah! Aveva dei buoni motivi per farlo, ma quella rivelazione la colpì egualmente e la fece sentire fiera e misera nello stesso tempo. Sorrise accondiscendente. - Contrabbando di armi, Lisette – le disse a bruciapelo, senza tuttavia riscontrare in lei la reazione che si era aspettata.


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- Contrabbando e gioco clandestino, queste sono le attività che svolge la tua padrona – spinse su se stessa e la serva continuò a restare impassibile. Si alzò, dandole la schiena e si affacciò alla finestra. - Non mi fermo davanti a niente, sono pronta ad uccidere se è necessario e l’ho fatto… - continuò senza pietà, fredda e certa che tutto questo avrebbe atterrito quella ragazzina. Ma lei non parlava, ascoltava tacita le sue parole senza sorprendersi. - Ci sono cose che non sai e che non saprai mai, ci sono scelte che il destino induce a fare e questo certamente lo sai… ma è una questione di sopravvivenza – quasi si giustificò, guardandola ancora oltre la propria spalla. Stava aprendo il cuore, ma lo faceva così distaccatamente che pareva discorrere di qualcun’altro, non di sé. Lisette comprese in quel momento che soffriva, che aveva sempre sofferto, da quando l’aveva conosciuta. - Lo avete detto, mademoiselle Zoraide… è una questione di sopravvivenza – dichiarò come un soldato. - E io vi devo molto, la mia vita era perduta e la è tuttora… potrebbe finire adesso, sapete che non ho nulla da perdere. Vi offro il mio aiuto, mademoiselle… vi prego di accettarlo, non vi deluderò – fu determinata e commovente. Lisette era minuta, carina, un bocciolo di rosa in apparenza, con capelli biondi e occhi di un azzurro intenso. Aveva solo sedici anni e nell’animo non aveva un briciolo di speranza, niente, solo il buio profondo lenito dalla cessata umiliazione di prostituirsi per mangiare. Ma quello squallido passato nulla lo avrebbe potuto cancellare e Zoraide lo sapeva. Il passato… era una bestia a volte nera, impossibile da dimenticare, sempre vivo se doloroso e doloroso se piacevole. Le cose non cambiavano, comunque la vita offriva rimpianti e struggimenti ed i cuori asciugati generavano veleno, come il suo, tradito nelle aspettative sugli altri e su se stessa, e quello della sua serva, offeso dall’esistenza misera che la malasorte le aveva riservato. Istintivamente strinse il paraocchi nella tasca e ricordò anche il cuore di Venanzio, acido e vendicativo, freddo ed insensibile per i patimenti dovuti ad errori imperdonabili. - Va bene, Lisette… sei una di noi – dichiarò, illuminandola e sentendosi appagata nel dare a qualcuno una gioia. - Ma bada, le regole sono precise, il tradimento è punito con la morte non dimenticarlo – volle farle sapere come era stato fatto con lei. - Non vi tradirò – ripose Lisette ed ebbe il sapore di un giuramento.


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Quando Stolfo tornò al palazzo del conte, la neve aveva cessato di cadere ma il cielo plumbeo prometteva nuove precipitazioni. Attese il buio per varcare i cancelli incustoditi della proprietà. Xavier non aveva bevuto ed era lucido. Lo vide arrivare e scendere dal cavallo bianco. Mentre lo attendeva si accese un sigaro, poi ascoltò i suoi passi lungo il corridoio. Stolfo entrò nello studio su indicazione di un servo ed incontrò subito il suo sguardo di un verde intenso. Lo salutò con un sorriso inquietante e lui si sedette dietro la grossa scrivania. - Accomodatevi – disse serioso. Non se lo fece ripetere e di sistemò davanti a lui. - Mi ricordo di voi… - cominciò. - Siete l’uomo che vuole la mia nave – aggiunse con una vaga rabbia sotto i denti. - E’ un veliero meraviglioso – accennò. - Perché lo volete? – lo interrogò sospettoso. - Affari – rispose. - Certo, siete uno di quei pazzi che pensano di poter mandare avanti un’attività senza esperienza – storse il naso cinico. - Di affari ne ho curati più di quanti non crediate – si difese senza aggressività. Il conte sogghignò e poi lo scrutò pensieroso. - Suppongo abbiate con voi il denaro – andò al sodo. - Non manco mai alla parola data – sbottò, sentiva la diffidenza di quell’uomo. Faceva bene a non fidarsi di lui, in fondo era l’artefice del suo dolore e probabilmente lo percepiva a pelle. Con un gesto il conte chiese i documenti che iniziò a leggere attentamente. Non voleva essere imbrogliato, era una regola fondamentale quella di analizzare i contratti prima di firmarli. Stolfo si rassegnò ad attendere e si guardò intorno annoiato. Sulla parete alla sua destra c’era un quadro di dimensioni notevoli e raffigurante Eufrasia con un abito blu, lo stesso che aveva fatto indossare alla sventurata morta al suo posto. Rimase folgorato da quella visione. Fu ipnotizzato dal volto della giovane che sorrideva appena, che manifestava un’intrinseca tristezza, che lo guardava freddamente. Il pittore era stato abile, aveva colto di lei i risvolti più intimi, sembrava viva, addirittura pareva respirare a scatti. Il sopraciglio destro era leggermente inarcato, non troppo, ma era un’espressione che non era sfuggita all’artista. Il conte alzò il capo dai fogli e lo colse in quella sorta di tacita ammirazione.


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- Il duca Rues… - sussurrò con un filo di ironia che lo svegliò. Annuì sfacciatamente ed il nobile non trattenne una risatina sarcastica. - Siete fortunato, duca… avete con voi una somma che nessuno sarebbe disposto a pagarmi e mi avete trovato in un momento in cui non me ne importa niente del mondo e dei suoi noiosissimi intrighi. Però voglio che sappiate che non sono uno stupido e so benissimo che il casato Rues non esiste – lo fulminò e quelle parole gli rimbombarono nell’animo, quell’asserzione non gli fu nuova. Rimase inebetito per alcun istanti e rifletté velocissimo. Non si era sbagliato! Eufrasia, educata dal padre a conoscere sempre i propri nemici ed i loro inganni, lo aveva salvato e… Eufrasia era dunque la Vedova! Almeno c’erano delle buone possibilità che fosse così. Il suo sguardo atro scintillò d’una gioia assurda davanti alla furbizia del suo interlocutore che rimase perplesso. - Cosa volete… di questi tempi si fa di tutto per sopravvivere e sono pochi coloro che possono smascherarmi, basta evitare i luoghi a rischio… incassò il colpo, galvanizzato dalla segreta felicità che lo scuoteva. - Certo… primo tra tutti Versailles – precisò il conte e confermò ogni suo dubbio, inondandolo di un entusiasmo fuori luogo. Il nobile lo scrutò senza espressione. - Non ho mai creduto alla vostra nobiltà – precisò corrucciato. Il duca era un tipo strano, non solo incosciente. - E non avete neppure l’aria d’essere onesto – e firmò, mentre il cuore dell’ospite continuava a cavalcare. Il conte des Fleuves era perspicace, attento, poco ingannabile… assomigliava alla figlia, o meglio… la figlia assomigliava lui. Si alzò con i documenti in mano e fece per andarsene. Poi cambiò idea e diede un’altra occhiata al quadro. - E’ una donna bellissima… è forse vostra moglie? – fu crudele e non seppe dirsi perché. Il conte sobbalzò ed un’ombra oscurò il suo sguardo chiaro. - Non è mia moglie – sbottò nervosamente. Stolfo recitò una parte disgustosa, abbassando le spalle contrito. - Perdonatemi, avrei dovuto immaginare che si tratta di vostra figlia – si scusò falsamente, irritandolo, ma l’uomo non si attaccò a quella figuraccia e soprasedette. Osservò il duca continuare a fissare il volto di Eufrasia e, se non fosse stato per il fatto che sapesse della sua morte, avrebbe visto in lui l’amore, un amore grande. Scosse la testa sentendosi pazzo, come gli succedeva quando ubriaco e credeva la figlia ancora viva.


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- Doveva essere molto intelligente, i suoi occhi parlano da soli… - insistette con quella vena sadica che lo rendeva meschino. - La era – sussurrò il padre con la voce rotta dal dolore divampato nuovamente. Il duca Rues non gli era piaciuto all’inizio e non gli piaceva neppure ora, ma la dolcezza dimostrata davanti a quel ritratto lo turbò ed accese in lui una specie di inspiegabile luce. Accadde stupidamente… ma accadde. Stolfo se ne accorse con l’istinto quasi animale che lo caratterizzava.


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CAPITOLO V

Il carro della Vedova si apprestò davanti alla Chiesa di Nanterre ed il prete corse fuori, seguito da alcuni uomini che avrebbero provveduto a caricare vecchi abiti ed alcune derrate alimentari da consegnare a Parigi, al Bureau de la Ville, un’organizzazione che aveva chiesto disperatamente aiuto per i poveri della città, provati da quell’inverno eccezionale. Non nevicava e le operazioni furono più agevoli. Lisette stringeva le redini ed osservava i giovanotti che lavoravano di buona lena. Quando ebbero terminato, si diresse verso la villa, dopo avere informato il parroco che avrebbe dovuto prelevare la padrona per poi partire alle volte della Capitale. Nella stalla le due donne usarono il carico di stracci per coprire cinque casse d’armi. Prima di presentarsi presso l’associazione si sarebbero fermate in un vicolo, dove dei complici le attendevano. Ripartirono che nevicava ancora. - Accidenti al tempo! – sbottò Lisette, sistemandosi il cappuccio di pelliccia sulla testa e la padrona fece lo stesso. Non avevano fretta, era mattina inoltrata ed i pericoli si correvano più che altro di notte, con la tenebra a celare l’identità dei briganti. I contrabbandieri furono veloci nel liberarle dello scomodo carico e la felicità degli addetti del Bureau de la Ville per il sostentamento arrivato accentuò l’ipocrisia di quel gesto. Sulla strada del ritorno Lisette era meno tesa, il suo sorriso soddisfatto tradiva la leggerezza che sentiva a missione compiuta. Zoraide la scrutava da dietro la veletta, trovandola piena di risorse. - Mi sembri contenta – asserì per rompere il silenzio. - Tutta apparenza, mademoiselle Zoraide… - confessò. Tacque. - Cosa faremo se dovessero fermarci le guardie di Versailles? – chiese. In effetti quel rischio esisteva, per arrivare alla città dovevano passare davanti ai cancelli della Reggia. - Pensate che accadrà? – volle sapere la serva.


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- Certo che accadrà – fu ovvia, raggelandole il sangue. L’andatura del carro addirittura rallentò per il discernimento di chi lo conduceva. Zoraide afferrò le briglie e la sostituì. - Ce la caveremo… non ti ho nascosto i rischi che tutto questo avrebbe comportato – le fece notare e l’altra non la contraddisse. - Siete molto sicura di voi stessa – osservò con ammirazione. - Non si è mai sicuri di niente, Lisette… semplicemente sono pronta ad affrontare qualsiasi tipo di alea… giocando si impara anche questo – ed assunse quel tono freddo a tratti invidiabile. - E se qualcosa andasse storto? – mormorò. - E’ una legge della natura che neppure i ribelli potranno cambiare: il più debole soccombe sempre – concluse cinicamente, contro la logica e contro le nuove ideologie emergenti. Lisette deglutì. Sarà stato pure così, ma la cosa non la tranquillizzava! Si fermarono al mercato del paese prima di rientrare e Zoraide attese pazientemente la serva, provocando intorno a sé curiosità: nessuno aveva mai visto la Vedova di giorno ed in pochi avevano avuto modo di accorgersi che era solita uscire di notte. Tuttavia, le voci sulla sua disponibilità ad aiutare i poveri della Capitale era corsa velocissima e nel giro di un giorno i paesani avevano finito con lo stimarla. Certo, aveva un aspetto tetro, come tutte le donne in lutto. Quando furono nuovamente nella stalla, Zoraide decise di strigliare il cavallo, mentre Lisette avrebbe acceso il camino e preparato la cena all’interno della casa. Erano solo le cinque. - Patate, suppongo – scherzò la padrona. Era rara la sua ironia. La serva sorrise impacciata, era stata lei a vietarle di comprare il pane per non sottostare allo strozzinaggio dei rivenditori. Rimasta sola, Zoraide si tolse il mantello e lo ripose poco distante con la pistola che portava alla cintola. Si rimboccò le maniche dell’abito di velluto ed iniziò a liberare il cavallo dai finimenti, spostando il carro a braccia di pochi metri. Prese la spazzola e cominciò a passare il pelo umido della bestia che sbuffava e mangiava contemporaneamente. Poi un pensiero la fermò e si stiracchiò inarcando la schiena. Infilò la mano in tasca e strinse per l’ennesima volta il paraocchi rosso, deglutendo. Il volto di Venanzio le balenò davanti. Si appoggiò al legno del ricovero del cavallo e desiderò piangere, ma non lo fece. Dio! Perché quell’uomo le mancava? Perché? Serrò i denti in un attacco di rabbia.


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- Se solo fossi stato più attento, avrei capito tutto sin dall’inizio ed allora… allora non me ne sarei andato quando hai rifiutato di ricevermi – disse qualcuno. Zoraide sobbalzò e percorse con lo sguardo tutto l’ambiente. Indietreggiò ed afferrò la pistola, puntandola contro il nulla. L’uomo era nell’ombra e stringendo gli occhi lo individuò. Se ne stava appoggiato ad un palo di legno, con le mani incrociate al petto; l’abito blu che indossava sfoggiava dei bottoni preziosi. - Ma guarda quanto è piccolo il mondo… e quanto è facile farsi ingannare dalle apparenze – avanzò e la lanterna lo illuminò, evidenziando la sua espressione arcigna. - La Vedova… il travestimento migliore per non permettere a nessuno di avvicinarsi, usando il rispetto comune per il lutto – e rise di sottecchi, divertito dalla fantasia e dall’intelligenza perverse del suo angelo… che proprio celestiale non era. - Non mi sparerai, Eufrasia… - le fece notare, accarezzando il cavallo che brontolò e si agitò. - Non pronunciate più quel nome – parlò e lo fece duramente. La sua emozione però era palese e lui si sentì felice. Annuì fingendo un timore improbabile. - Qual è dunque il tuo nome? – la interrogò e lei strinse le labbra, rifiutandosi di rispondere. - Cosa volete? – sibilò astiosa. Aveva fatto di tutto per evitarlo, anche sofferto pur di non doversi scontrare con lui… tutto inutile. - Sono qui per ringraziarti, mi hai salvato da morte certa e sapevi chi ero – affermò deciso a spogliarla della diffidenza che aveva addosso. Sembrava stanca ed il desiderio di darle sollievo si accavallò a quello di piegarla, di scoprire il suo vero modo d’essere, certamente meraviglioso, sicuramente degno di una donna unica. Ah! Doveva davvero essere innamorato per scorgere in quel blocco di ghiaccio anche solo una labile fiamma che rappresentasse un po’ d’umanità. Eufrasia era cambiata, nei suoi gesti non c’’era più incertezza ed il cinismo assoluto screziava i suoi lineamenti perfetti. - Perché lo hai fatto? – le chiese, sedendosi su una delle balle di fieno ed appoggiando i gomiti sulle ginocchia. Il sale che spezzava il nero dei suoi capelli scintillò alla luce tremolante della lampada. - Avevate bisogno di aiuto – rispose scontata, scatenando in lui nuova ilarità.


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- Se non ci fossi stata tu, sarei morto – insistette e la ragazza trasalì, forse quell’idea la atterriva, forse per lui nutriva qualcosa… forse, forse… non ricordava di essere mai stato così titubante davanti a nulla! Zoraide aveva il sangue in ebollizione, la stalla non era eccessivamente calda, ma sudava. Il cuore era un masso che saltava nel petto e che serrava la gola. Per un attimo lo scrutò, gustò segretamente quel suo aspetto maturo ed affascinante, così graffiante, minaccioso ed anche ingiustamente segnato da un tempo che non era passato. Venanzio la sapeva ipnotizzare, nonostante le sue ribellioni interiori. Lo trattava come un nemico, mentre in realtà era l’unico amico che potesse dire di avere. Lo allontanava perché se solo lo avesse avuto accanto… se solo lo avesse avuto accanto… come nei giorni della propria fittizia morte, con le sue labbra a scaldarla dentro, con i suoi abbracci a toglierle il respiro… Non aveva dimenticato, non le erano stati indifferenti quei contatti, non era riuscita ad essere superiore all’emozione che aveva provato, non era servito a nulla fuggire da lui, non… Dio! Dove e come avrebbe trovato la forza che sapeva per prima essere vacillante? Nel silenzio da lui voluto tornò accanto dal cavallo per continuare a strigliarlo, per simulare una tranquillità lungi da lei. L’uomo la osservò, percorrendo il suo corpo sminuito dal nero dell’abito, un colore che non smorzava però la sua bellezza, che le dava qualche anno in più, ma… era giovane e non contava molto. - Vedo che sei riuscita a sopravvivere, proprio come ti eri prefissata – ruppe la tensione e Zoraide, di schiena, fece spallucce. - Come voi – rispose. - Quanto credi che dureranno i nostri inganni? – la gelò e si voltò, fissandolo. - Sino a quando ci sarà possibile mantenerne il controllo – sbottò, conducendo lo stallone nell’angolo della stalla e tirandosi giù le maniche. - Quello che stai facendo è molto pericoloso – la sorprese, indicando con il capo il mucchio di paglia che celava altre casse d’armi. Dunque Venanzio sapeva tutto. La cosa non la preoccupò affatto, di lui, solo di lui, poteva fidarsi. - Quello che fate voi, invece, cos’è? Sapete di rischiare la ghigliottina ogni giorno? – sorrise capziosa. Lui non si difese, indifferente alla morte, sempre uguale. Poi Zoraide rise, incuriosendolo. La interrogò con lo sguardo di ferro.


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- Ma sono certa che voi sapreste corrompere il boia! Per questo non ve ne importa nulla! - ed il duca sogghignò. Aveva abbandonato quei suoi amari atteggiamenti d’inimicizia e sembrava gradire la sua clandestina presenza. Si, la gradiva, non c’era altra spiegazione per quel sorriso luminoso e stupendo. La guardò, mentre s’infilava la pistola alla cintola; indossò il mantello e lo guardò a sua volta, invitandolo tacitamente ad andarsene. Stolfo non colse quell’ordine, non volle farlo e si alzò per andarle davanti: continuava a fissarla, ad entrarle dentro, a scavarle l’animo con ingiusta facilità. Forse era cambiata, ma l’effetto che quell’uomo aveva su di lei non era mutato. Avrebbe voluto dirle cosa provava, ma ancora una volta non trovò il coraggio, sapeva che non era il momento, che la forza di Eufrasia avrebbe potuto scatenare il suo orgoglio. Le prese la mano destra, estraendola dalla tasca in cui era infilata, e se la portò alle labbra, senza cessare di scrutarla e lei abbassò gli occhi fieri. Percepì il suo tremore, dovuto a qualcosa che guardava in terra. Lo vide anche lui il paraocchi rosso, scivolato dalla tasca. Si chinò e lo prese tra le dita ruvide, poi la cercò con un sorrisetto inequivocabile. - Questo mi fa capire molte cose – disse. Lei trasalì. Alzò un sopraciglio, assumendo un’aria di compatimento, mentre un rossore disarmante la colorava. - Non avete perso la brutta abitudine di essere convinto di sapere cosa gli altri pensano… siete superbo, come sempre – sibilò, ma non interruppe quel loro contatto fisico, riservandogli addosso, senza saperlo, tutta l’elettricità che la scuoteva. - Gli altri? Non mi interessano gli altri… io so cosa pensi tu – si vantò, insistendo su di lei. - Ridatemelo, mi appartiene – si lamentò quasi infantile e lui posò le labbra sulla sua mano, senza distogliere gli occhiacci dai suoi. - No, appartiene a me… - sussurrò, percorrendole il braccio sino a riuscire a cingerle la vita come un serpente strisciante. - Non è per questo che lo porti con te? – sorrise magnifico. Zoraide fece per muoversi, ma lui la bloccò. - Potresti avere me… invece di un oggetto senza vita – ed il cuore le andò sotto i denti. Il rossore divampò ingiusto, gli occhi a correre altrove, la paura e poi l’imbarazzo a fare il resto, il calore a salirle sino al mento per poi raggiungere il capo, il desiderio di scomparire a farla sentire vile. Un ringhio la difese invano.


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- Non dite sciocchezze! Mi credete una bambina? – tentò ancora di liberarsi dalla sua stretta. Lo aveva lasciato fare avvinta dalla voglia di stare solo per un secondo tra le sue braccia. Era successo, doveva bastarle! Ma il bandito non accolse la sua richiesta e serrò la presa. - Non sono lo stupido che vorresti, Eufrasia… e tu puoi giocare con chiunque, ma non con me… Sei stata abile, sei stata furba e sei stata anche forte… considerando quello che provi sei riuscita a starmi distante. Ma è finita, non ti credo più e so leggerti dentro come nessuno al mondo ed ora… vedo molto bene quello che provi, scintilla nei tuoi occhi e puoi rabbuiarti sino allo spasimo, non cancellerai nulla, non ci riuscirai… ed io non ti permetterò di sfuggirmi un’altra volta – non la smetteva di metterla in tentazione e non considerò i suoi strattoni. Poi la sua ironia scemò dal volto scuro ed incolto che le stava a pochi centimetri e quella serietà la bloccò, lo guardò, in attesa che quel contatto sfociasse in qualcosa di più intimo. Stolfo la fissò lungamente e lei fu certa che stesse per baciarla, fu così lento che le diede tutto il tempo necessario per fermarlo, ma non lo fece. Poco meno di un centimetro separava le loro bramosie, il fiato dell’uomo scivolava sulla sua pelle e quello della ragazza lo colpiva al naso, caldo ed invitante, profumato di menta. Stolfo aveva il cuore di Zoraide in mano, lo sentiva palpitare con una violenza che se fosse stato un proiettile avrebbe aperto una breccia nei muri della Bastiglia. Desiderò piegarla, immaginò di farlo ed assaporò l’illusione di un suo sorriso. Desiderò averla e sognò l’istante in cui della donna bellissima sarebbe divenuta sua. Desiderò renderla felice e delineò un piano perfetto per realizzare quel sogno. Desiderò stringerla con la dolcezza che sapeva avere e ricordò gli istanti in cui improvviso lo aveva fatto, facendola tremare. Desiderò cancellare la vita che li aveva provati. Erano maledetti, entrambi, in maniera differente eppure così simile da essere due pezzi perfettamente incastrati l’uno all’altra. Desiderò tante cose e decise che avrebbe ottenuto tutto, lo giurò sul proprio sangue, l’unica cosa che non aveva ancora venduto per sopravvivere. - Tieni – disse. Infranse l’incantesimo, senza che lei potesse prevederlo. Ruppe la magia, allentando l’abbraccio e liberandola, come se vederla così da vicino lo avesse persuaso, come se avesse semplicemente giocato ad illuderla per poi ridere di lei. Zoraide si aspettò che lo facesse. Posò gli occhi neri sull’oggetto e lo prese avida, accontentandosi di quel poco che poteva avere di lui. Deglutì, respirò profondamente e si stirò la gonna nervosamente, umiliata per ciò che era accaduto.


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- Sempre pronto a dimostrare quanto siete forte, sempre intento a mettervi su un piano superiore… ma il vostro gioco è patetico, considerando che lo fate con una donna… - lo stilettò, il distacco la rese più forte, bastava starle lontano per rivederla risorgere dal panico in cui sapeva trascinarla. Sorrise di questo. - Non ti aspettare che io mi scusi per quello che ho fatto – volle scavare nella sua disillusione. Lo guardò, sorrise maligna e lo squadrò con voluta insistenza. - Mi pare che non sia successo niente, duca Rues… - lo provocò e dentro l’uomo ammise d’essersi meritato quell’allusione neppure tanto velata. - Sei fortunata… ma non lo puoi sapere – volle l’ultima parola e Zoraide alzò il mento sfidante, come se in realtà non lo credesse affatto eccezionale come voleva fare intendere. Stolfo sorrise e fece per andarsene con la testa colma di pensieri, di piani, di cose da fare, di pedine da spostare, di tempo da aspettare, di sogni da realizzare. Poi si fermò e le diede il profilo, indossando il mantello scuro. - Non vorrei mai arrecarti danno, voglio essere leale come sei stata tu nei miei confronti… - iniziò e lei attese che continuasse. - Il tuo nome… qual è il nome che hai scelto? – le chiese. - Zoraide Bois – lo esaudì, la mano serrata al paraocchi in tasca. - Zoraide… va bene. A presto… Zoraide – la salutò ironico. - Non credo – ribattè rigida e Stolfo rise di gusto. - Neppure io credevo tante cose… eppure alla fine ti ho ritrovata! Quindi… a presto – insistette e la lasciò sola. Sbuffò esausta e si appoggiò allo steccato che ricoverava il cavallo. Eufrasia lo amava. Adesso lo sapeva. Eufrasia lo amava… e la felicità provata, quando se ne era reso conto lo aveva gettato in una confusione pericolosa. Certo, Eufrasia lo amava e lui amava lei… ed amarla significava non farle del male, non quello vero, non quello che può entrare nell’animo per non uscire più… non come quello che le aveva fatto il passato e lui non voleva far parte del suo passato, lui voleva essere il suo futuro. La cena con Lisette fu silenziosa e la serva si sentì quasi responsabile del malumore della padrona. Quando la tavola fu sparecchiata, Zoraide si alzò e fece per andare a dormire. - Domani faremo un altro viaggio a Parigi – le disse prima di defilarsi.


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- Domani mattina – specificò e uscì dalla stanza. Il tremore che la scuoteva le impedì di dormire subito. Il ricordo del momento in cui il volto di Venanzio le era stato così vicino la fece piangere silenziosamente, solo una lacrima scese dai suoi occhi fermi ed ancora illanguiditi da ciò che era successo e che poi non era successo. Perché si era fermato? Perché non le aveva dato ciò che voleva e che tacita gli aveva chiesto, in lotta con la parte di sé che non voleva più amare, che rifiutava il sentire del cuore in subbuglio? Perché? Perché quel gioco crudele a rompere il suo equilibrio? Del resto, Venanzio era un uomo senza scrupoli, lo aveva sempre saputo… era un uomo che giocava, si… giocava con la vita altrui! Lo detestò per l’illusione che le aveva strappato davanti al naso, con quel suo vago ed indefinito sorriso, con quello sguardo penetrante come un ago che la pungeva sempre e che la faceva sanguinare dentro. Fece spallucce a se stessa, ma la mano strinse con forza quel maledetto paraocchi che lui le aveva lasciato come una concessione suprema, come se fosse un tesoro. Tesoro! Maledetto cane! Neppure sapeva cos’era un tesoro lui! Aveva poco da arrabbiarsi, era sempre stata lei a respingerlo con l’abilità di non creare certe situazioni… e si chiese se in realtà il bandito l’amava. Forse l’aveva amata, ma lo scherzo che le aveva fatto quella sera dimostrava la morte di un eventuale sentimento… la morte, un’altra triste morte. Sospirò esausta e si gettò sul letto sfiancata dai pensieri che le procurarono un leggero mal di testa. Si addormentò agitata, senza neppure cambiarsi e si svegliò all’alba. Si affacciò alla finestra: la neve aveva cancellato le orme di Venanzio, o meglio… del duca Stolfo Rues di Rennes… un uomo inesistente. Mangiò qualcosa ed attese che Lisette si levasse per organizzare il nuovo viaggio. Anche quella mattina il carro fu caricato d’aiuti per il Bureau de la Ville. Quando partirono la neve cessò di cadere. - Credete che smetterà di nevicare, mademoiselle Zoraide? – ruppe il silenzio la serva. - Perché non dovrebbe? – rispose con un brivido alla schiena. - Pare impossibile, quando guardo quest’inverno terribile a volte temo che non finirà mai – ridacchiò con il fiato visibile che le usciva dalla bocca. - Che idea… e quando sarà estate, non crederai possibile che possa esistere il freddo – sorrise divertita dall’inutilità della conversazione.


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Proprio mentre Zoraide aveva riacquistato il buonumore, in lontananza videro un gruppo di soldati. Lisette rallentò e la padrona repentina, ma senza movimenti bruschi, sistemò il velo davanti al viso. La pattuglia accostò, intimando loro di fermarsi. Erano Guardie Reali e stavano controllando Versailles. Zoraide abbassò leggermente il capo, assumendo l’aria contrita del lutto stretto. - Cosa trasportate? – chiese uno di loro e la padrona tese l’orecchio. Quella voce le era familiare. Stupidamente pensò a Venanzio, da lui ci si poteva aspettare anche che si spacciasse per un militare. Tuttavia, non era possibile, non fosse stato altro che per l’età apparente. Sbirciò oltre la veletta ed il cuore le balzò in gola. Non fu emozione quella che provò, fu fuoco velenoso! Chi aveva parlato era Aldo, lo riconobbe nella stupenda uniforme della Guardia Reale, tronfio nel suo orgoglio misero ed ingannevole. - Aiuti per i poveri di Parigi, signore – rispose Lisette con disinvoltura. - Chi siete? – insistette Aldo autoritario. - La mia padrona è vedova da pochi mesi… - lo esaudì e sfoderò uno sguardo di pietà. Lui la scrutò altezzoso, stringendo le redini con la mani guantate. Zoraide continuava a fissarlo, chiedendosi come era riuscito ad entrare nel corpo più prestigioso dell’esercito, aperto solo ai rampolli delle famiglie aristocratiche. Colse nel suo sguardo patetico e spento la felicità di avere in qualche modo ottenuto ciò che voleva. Ci fu un momento in cui anche lui guardò lei, senza ovviamente poterla riconoscere. Ripartirono lentamente, sotto l’attenzione della ronda, poi udirono il loro allontanamento e Lisette fece un sospiro di sollievo. - L’abbiamo rischiata grossa, vero? – sussurrò. - Te la sei cavata molto bene – la lusingò. - Davvero? – ed era così contenta per quelle parole che smise di tremare. - Cosa avremmo fatto se ci avessero scoperte? – ipotizzò ansiosa. Zoraide sollevò la veletta e la guardò. - Li avremmo uccisi – sentenziò gelandole il sangue. - Poi ci avrebbero cercate – le fece notare. - No, non sarebbe successo – e non parlò più. Dov’era Venanzio? Sentì di avere bisogno di lui. Desiderò che tornasse, pregò il cielo perché si facesse vivo al più presto. Un’ansia crudele l’azzannò con denti aguzzi. Un sapore amaro le disturbò la bocca e la voglia di fare giustizia si confuse con il risentimento mai sopito. Si rese conto di odiare Aldo e non si preoccupò della legittimità della cosa. Era colpa sua se ora era costretta a


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vivere in un tetro anonimato; era colpa sua se aveva inferto a suo padre un male senza eguali; era colpa sua se in lei si era svegliata una bestia capace di tutto. Lui era il responsabile e lui avrebbe dovuto pagare. Dio! Lo aveva dimenticato ed il destino glielo aveva messo davanti all’improvviso! Come avrebbe potuto rimanere indifferente, vedendolo realizzato e forse felice, dimentico di lei che aveva creduto stupidamente in lui? Si, l’errore lo aveva commesso lei… ma se ne infischiava nel cinismo che ormai faceva parte del suo essere e bramò il suo sangue, simile ad un vampiro che per vivere necessita della morte altrui; simile ad una donna spezzata in due e tuttavia fiera come un guerriero in agonia. Perse nuovamente la sua vitalità. Di ritorno da Nanterre il duca Rues si fermò presso il conte des Fleuves. Il suo era un’impulso che non tratteneva ed inoltre aveva bisogno di lui, contro la logica che aveva comportato l’acquisto della nave, ancora ferma al porto di Saint-Malo e sorvegliata da un gruppo di fidati servi. Quando arrivò, non trovò nessuno ad accoglierlo, nel palazzo regnava la più assoluta anarchia e percorrendo il buio corridoio udì i lazzi spensierati dei servi rimasti nei loro alloggi. Evidentemente il padrone di casa non aveva più interesse neppure per se stesso ed il sottile rimorso già provato lo pervase fastidioso. Deglutì per vincere quella scomoda sensazione ed entrò nello studio. La situazione era immutata come la compassione che provò. Fissò il conte semiaddormentato e si avvicinò con passo pesante per non coglierlo di sorpresa. L’aristocratico alzò lo sguardo offuscato e colpito dalla luce del fuoco acceso. Lo scrutò contrariato e sbuffò, bevendo un sorso di whisky. - Avevo creduto di essermi liberato di voi, duca… o cos’altro siete – si lamentò, accendendosi un sigaro. - Presto la nave potrà partire, conte – lo informò e quello ridacchiò. - Sono problemi vostri, voi stesso mi avete detto di volermi sollevare da impegni troppo gravosi… e superflui, aggiungo io – lo rimbeccò. - Mentre voi, conte… sapevate che avrei avuto bisogno del vostro aiuto… non è stato per questo che vi siete affrettato a farmi notare che avevate capito la mia posizione? – si fece sottile, creandosi una difesa nel torto marcio in cui si trovava. Il conte lo fissò truce: quel pezzente aveva cervello, accidenti! Riusciva a cogliere dei risvolti e delle intenzioni per chiunque oscuri. Il problema era prettamente burocratico: Stolfo non era


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un nobile e prima o poi, usando quel nome fasullo, l’inganno sarebbe stato scoperto. Inoltre, la disposizione del re di premiare chi importava grano lo avrebbe messo in serio pericolo. Il duca aveva in testa un incarico per suo conto, con il quale non sarebbe risultato in alcun documento, se non in quelli di proprietà del veliero, poco soggetto a controlli. E solo Xavier poteva accettare, perché non gli avrebbe dovuto dare alcuna spiegazione ed aveva il permesso del monarca per l’importazione di grano. - Siete un uomo intelligente, duca – affermò dopo un po’. - Ma cosa vi fa supporre che io sia disposto ad allacciare degli affari con voi? Ne andrebbe anche della mia sicurezza, non trovate? – era ubriaco ma lucido, abbastanza per sapere di cosa stava parlando. - Siete stimato, presto sarete anche deputato bretone agli Stati Generali… non si aspetta che il vostro ritorno, sono tutti concordi nel dire che si sente la vostra mancanza – lo lusingò e riuscì nell’intento. L’altro sorrise. - Comandante della vostra nave, suppongo… con delega per gli accordi economici d’importazione… - sussurrò il nobile, valutando mentalmente l’offerta. - E cosa ci guadagnerei? – aggiunse. - La metà dei proventi, mi pare ragionevole – rispose Stolfo. Xavier strinse lo sguardo liquido. - Troppo ragionevole, non avete l’aria di una persona generosa – sbottò diffidente e il bandito posò l’attenzione sulle bottiglie vuote intorno al camino ed ebbe un brivido gelido che gli trapassò il cuore. - Vedete bene come sono ridotto… cosa vi muove? – insistette. Ancora non ricevette risposte. - E chi siete veramente per affidarvi ad un uomo perduto come me? – era spietato con se stesso, somigliava ad Eufrasia come una goccia d0’acqua. Adesso gli era chiaro perché tra loro non c’era mai stato un rapporto decente: erano due forze uguali. Inarcò le folte sopraciglia e sorrise forzatamente. - Non sono solito sottilizzarmi davanti alle apparenze, conte… sono convinto del vostro valore e questo valore nella sua grandezza riuscirà a sconfiggere i fantasmi del passato… e quelli del presente – e diede un calcio ad una bottiglia che rotolò rumorosa. Xavier sobbalzò. - Parlate per esperienza? – lo colpì. Stolfo non lo esaudì e fece per andare via. - Sarò da voi molto presto per conoscere la vostra decisione – concluse e scompare alla sua vista.


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Il conte sospirò esausto, nonostante avesse previsto quella visita, si sentiva stanco e preso alla sprovvista. Pensò in un attimo a ciò che era stato, all’uomo che aveva dimostrato d’essere contro l’immagine corrente dell’aristocratico annoiato e parassita; pensò alla vitalità di un tempo, alla voglia di fare, al desiderio di uscire dall’apatia che il benessere regalava; pensò anche ad Eufrasia, a ciò che le aveva insegnato e cioè a non arrendersi mai davanti alle difficoltà della vita e a riflettere sempre, ogni giorno, perché tutto poteva cambiare ed allora solo chi aveva testa poteva sopravvivere e lei… lei lo aveva imparato quel vangelo paterno, lo aveva capito, lo aveva anche sfruttato quel sapere fondamentale per non soccombere… ma non le era servito a nulla contro Venanzio Sauvage, contro la bestialità che l’aveva uccisa! E non le era servito neppure nelle sue scelte e così si era rovinata la vita con un uomo sciocco, costringendo lui a scegliere al suo posto! Scosse il capo avvinto dalla convinzione di non avere mai sbagliato e dalla rabbia per la crudeltà di un destino che gli aveva tolto tutto, ammazzando sua figlia. Avrebbe voluto dimenticare ed aveva creduto di poterlo fare bevendo, ma le sue sbornie erano ingiustamente lucide e non gli davano alcun sollievo. Chiunque il duca Rues fosse, gli stava dando la possibilità di andarsene e di occupare il tempo in faccende che gli avrebbero permesso di distrarsi. Aveva perduto quella possibilità vendendo la sua nave in un momento di sconforto, ma la sorte gli stava dando una nuova change. Si, avrebbe accettato. I giorni passavano e Zoraide attendeva Stolfo con sempre più ansia. Ogni mattina, o quasi, doveva sopportare il controllo, che poi non era mai tale, di Aldo che le fermava con il loro carico scottante e faceva le stesse monotone domande. All’inizio non ci aveva fatto caso, ma si era accorta di quanto fosse strano che il giovane svolgesse sempre il medesimo turno di servizio. Non ci mise molto a capire come stavano le cose e quanto pericolose stessero diventando: Aldo nutriva un forte interesse nei confronti di Lisette, mentre Lisette provava un’istintiva repulsione per lui. Non potendola manifestare per ovvie ragioni, pareva incoraggiarlo: i suoi dolci sorrisi venivano fraintesi e la sua gentilezza interpretata come un segnale di simpatia. Zoraide decise di interrompere i viaggi ed informò i complici sui dettagli. Lo scopo era di fare in modo che Aldo non le vedesse più e che scordasse Lisette. Si trattava di una serva, conoscendo il suo innato arrivismo, presto avrebbe rinunciato. Non fu così e


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la sua rabbia raggiunse livelli quasi dolorosi, l’insofferenza nei confronti del soldato arrivò a farla soffrire quasi fisicamente. Una sera, dopo una settimana di cessata attività, le due donne udirono un rumore di zoccoli davanti al cancello. La serva guardò oltre il vetro della finestra ed intravide la figura di un uomo. - Forse è quel duca di Rennes – ipotizzò e la padrona sobbalzò. Dunque Stolfo aveva la sua dimora nella città bretone poco distante da SaintMalo… e Lisette lo sapeva perché la gente parlava di lui e delle sue feste. Si sentì sciocca per non averglielo chiesto prima, ma sentì egualmente una profonda soddisfazione, perché ora era in grado di trovarlo. Andò anche lei alla finestra, ma in quella sagoma semicelata dal buio non riconobbe il bandito. - Vai a vedere di chi si tratta, potrebbe essere uno dei nostri complici – la incitò. Non le piacevano le visite impreviste, i patti erano stati chiari e non voleva correre rischi. Osservò la ragazzina giungere al cancello. - Dunque abitate davvero qui – disse l’uomo, vedendola e togliendosi il cappello. Non era in uniforme, ma si trattava del militare che era solito fermarle, senza mai controllarle. - Voi? – sussurrò sgranando gli occhi azzurri. - Non è stato difficile trovare la casa della Vedova, la vostra padrona è famosa a Nanterre – sorrise sventolando chissà quale arguzia. - Cosa volete? E poi… chi siete? – continuò seriosa, raggelando sotto la neve che cadeva silenziosa e fitta. - Il mio nome è Aldo Ribaud, mademoiselle – si presentò e lei deglutì. Zoraide aveva visto giusto, era interessato a lei ed era un increscioso contrattempo! Mai avrebbe voluto essere un impaccio nell’attività della quale aveva chiesto di far parte. - Ed il vostro nome? – le domandò a sua volta. - Lisette – fu essenziale. Lui sorrise con una grazia esagerata ed accennò un gesto rispettoso con il capo. - La vostra padrona è ancora sveglia? – indagò prudente e lei non seppe cosa rispondere. Forse quel contatto poteva essere utile a Zoraide. - Non lo so… dovrei controllare – fu incerta. - Vi prego, vi renderete conto che fa molto freddo – la incitò a verificare. Lei colse quella supplica e giunta in casa trovò Zoraide ad attenderla nel corridoio. - Chi è? – tuonò seriosa e tesa. - E’ quell’uomo – ed aveva il fiatone.


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- Quale uomo? – alzò un sopraciglio. - Il soldato che ci ferma sempre… si chiama Aldo Ribaud – aggiunse. - Cosa vuole? – procedette attenta a non svelare la propria inquietudine. - Entrare – era rigida quanto lei. - Fallo accomodare. La tua padrona sta dormendo. Ricevilo ed ascoltalo. Vediamo se ha secondi fini – le ordinò con un fuoco devastante a scuoterla. - E se così fosse? Se sospettasse la verità sul nostro conto? – era spaventata. Il suo silenzio fu esplicito: lo avrebbero ucciso, non c’era altra soluzione. Zoraide era certa che Aldo non fosse mosso da sospetti, era troppo stupido per poter cogliere il sia pur minimo indizio sul contrabbando in corso sotto il suo naso, era troppo impegnato ad autocelebrarsi per essere divenuto una Guardia Reale, lo conosceva abbastanza bene per vedere in quei suoi occhi privi di enfasi un’inutile fierezza. Non fu gelosia la sua, non lo aveva amato veramente e non lo avrebbe rivoluto per nulla al mondo; ciò che provò fu un profondo fastidio scatenato dalla sua serenità, dall’assenza del ricordo di una donna che sarebbe dovuta diventare sua moglie e che era morta tragicamente. Si appostò in un punto delle scale che le avrebbe permesso di spiare e non essere vista. Lisette gli offrì dei pasticcini, finalmente qualcuno le avrebbe dato soddisfazione, visto che la padrona li rifiutava sempre. - Avete mani d’oro, Lisette… - commentò il ragazzo al primo assaggio. Lei non disse nulla, in realtà la sua presenza la metteva a disagio e non le faceva piacere. - Ditemi qualcosa di voi – cambiò discorso domandandosi per quanto avrebbe dovuto sopportarlo. - Sono certo che vi siete chiesta come io faccia parte della Guardia reale pur non essendo nobile – la sorprese e la ragazzina inclinò il capo biondo. Non se lo era affatto chiesto, anche perché non sapeva che non era nobile. Rimase perplessa. - Non lo siete? – chiese ovvia. - Non lo sono. Devo la mia posizione ad un amico che ha intercesso in mio favore e… sapete come vanno le cose, quando si dimostra di valere davvero qualcosa, il titolo conta poco – si pavoneggiò nella convinzione di avere a che fare con una sprovveduta. Lei sgranò gli occhi con ammirazione.


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- Dovete essere molto bravo nel vostro lavoro – asserì indifferente. Ma perché Zoraide l’aveva costretta a riceverlo? Un lungo silenzio la imbarazzò e per distrarsi versò del the nella tazza dell’ospite. - Vi ho notata subito al fianco di quella vostra padrona così tetra – la gelò dopo un po’. - Come potete sopportare la tristezza di quella donna? Siete buona e paziente… - la stava abbindolando, ignaro del fatto che la serva della Vedova ne sapeva più di una donna matura e certi trucchi con lei non funzionavano. - Vorrei rivedervi, Lisette… credete che sarà possibile? – e si alzò per raggiungerla e prenderle le mani. - Non lo so… la mia padrona non approverebbe – s’inventò una bugia. - Parlerò con lei – quasi la implorò. - Non credo che sia una buona idea – farfugliò presa dal panico. - Perché? Mi state forse respingendo? – ed il suo tono era mieloso, disgustoso alle orecchie di Zoraide che teneva i denti stretti. Per lei non aveva fatto neppure la metà di ciò che stava facendo per Lisette; per lei non aveva mai chiesto di parlare con suo padre per poterla incontrare! - Allora… vi rivedrò? – insistette ansioso, mettendola in difficoltà ed inducendola ad abbassare lo sguardo. - Io vi attenderò, Lisette… non deludetemi, vi prego – non la smetteva di essere insopportabile. La sua fortunata posizione lo faceva sentire forte. Quando se ne andò, Lisette aveva un’espressione corrucciata e guatò Zoraide. - Voi… mi costringete a fare… – l’aggredì. - Adesso sappiamo esattamente come stanno le cose – fu piuttosto pratica. - Non era questo l’aiuto che vi ho offerto, mademoiselle… e non ho potuto fare nulla perché quel soldato non si innamorasse di me! Forse fargli sapere che sono stata una prostituta lo allontanerà – azzardò nervosamente. - Assolutamente no! Potrebbe invece diventare diffidente ed indagare su di noi – smorzò quell’idea. Poi tacque ed entrò nella saletta per versarsi in un bicchiere di cristallo del rhum. - Dobbiamo toglierlo di mezzo e per farlo abbiamo bisogno di tempo e… conosco la persona giusta che può darmi una mano – si fece macchinosa davanti a Lisette che non comprese.


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- Stanotte stessa avvertirò i nostri complici della nostra partenza per Rennes… non potranno non approvare la mia soluzione – dichiarò e prese il mantello per uscire, poi la pistola. - Perché a Rennes? – la interrogò la serva. - Ho un amico fidato che ha la possibilità di togliere Aldo Ribaud dalla nostra strada – rispose vaga. - Di chi si tratta? – non si accontentò. Sulla porta Zoraide la fissò. - Del duca Rues – affermò, lasciandola perplessa. - Ricordo che avete rifiutato di riceverlo – le fece notare. Lei simulò una risata ed aprì l’uscio. - Tra noi esiste un insolito rapporto di amicizia e rivalità. E’ un gioco che va a vanti da tanto tempo – asserì augurandosi che ci credesse. Lisette rimase sola e ci pensò. Rivedere quell’uomo la inquietava un po’ e la allettava. Lo aveva trovato simpatico… nonostante il suo ceto e il suo aspetto minaccioso.


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CAPITOLO VI

Le due donne lasciarono Nanterre all’alba, come previsto, con il cielo ancora scuro e la neve alta ai lati delle strade, con qualche fiocco a cadere di tanto in tanto. Viaggiarono di buona lena, incontrando dei rallentamenti dovuti ai poveri che facevano l’elemosina lungo le vie principali. Giunte alla città bretone nel tardo pomeriggio, persero un po’ di tempo chiedendo dove si trovasse la dimora del duca, sino a quando qualcuno diede loro le giuste direttive. La residenza di Stolfo era sontuosa, scintillante nella tenebra, valorizzata dal candore della neve che la circondava e che, ricominciando a scendere, la avvolgeva in turbini iridescenti ed indugianti intorno ai lampioni del lungo il viale. - Una festa – sbottò Zoraide, osservando l’andirivieni delle lussuose carrozze che si fermavano in prossimità dell’entrata principale. - Non vorrete percorrere quel viale con questo carro da mercato? – andò subito ai ripari Lisette. - Abitualmente i palazzi hanno due entrate, dobbiamo trovare quella secondaria – disse e prese in mano le redini, rasentando il muro alto che circondava l’edificio. Arrivarono nel retro dopo parecchi minuti e finalmente trovarono il sistema per penetrare all’interno della proprietà. I servi erano intenti a portare in casa le riserve di champagne, le provviste, l’argenteria e mille altre cose necessarie per il ricevimento. - Vai da loro e chiedi se possono avvertire il padrone che la Vedova lo vuole vedere – ordinò a Lisette che obbedì repentina. Aveva molto freddo e desiderava il tepore di un ambiente chiuso. Parlottò con i braccianti che annuirono e dopo un po’ una donna corpulenta uscì guardinga. Si rivolse alla ragazzina, si parlarono e poi quest’ultima raggiunse Zoraide. - Nora ha detto che possiamo accomodarci nel salottino in attesa del duca – l’avvertì con i piedi ghiacciati ed il fiato che saliva al cielo. Prudentemente si coprì il volto con il velo. Seguirono Nora ed entrarono nel salottino. Zoraide si sedette sul divano.


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- Tu, Lisette… puoi andare a scaldarti nelle cucine, sempre che Nora lo permetta – disse dopo un po’ e la serva del duca prese il braccio della giovane portandola via. - Il duca sarà da voi tra pochi minuti, madame – l’avvisò. Assentì con il capo celato e poi ascoltò il loro allontanarsi lungo il corridoio. Qualcuno le fermò. - Lisette? – la salutò il duca e lei arrossì miseramente. - Come vedete, la mia padrona ha deciso di incontrarvi – sogghignò complice e l’uomo le riservò un buffetto sul naso. - Nora, trattala bene… Lisette è una mia cara amica – esagerò. La donna alzò quel suo sopraciglio tanto simile a quello di Eufrasia. - In che senso amica? – le chiese quando l’uomo fu distante. L’altra fece spallucce. Il nobile le piaceva, al contrario di Aldo. Stolfo si fermò davanti alla porta del salottino e restò immobile per alcuni istanti. Era venuta a cercarlo. Aveva fatto un viaggio per vederlo. Aveva realizzato il suo inconfessato desiderio e la gioia stupida di un ragazzino lo scosse. Prese fiato ed appoggiò la mano sulla maniglia preziosa. Quando entrò, vide Eufrasia seduta sul sofà. In realtà non la vide affatto, nascosta dal suo caparbio lutto. La fissò senza espressione, poi sorrise sardonico e chiuse la stanza. - Mio dio… Zoraide? – la salutò allusivo sul suo nome. Lei si voltò dietro il velo. - Porti un vento di colorata allegria nella mia casa! – la prese in giro e lei lo scrutò con un tremolio di dissenso. - Non siate irrispettoso, Stolfo – lo apostrofò. Lui inarcò le sopraciglia e la interrogò tacito. - A cosa dovrei portare rispetto? – - Al mio lutto – sbottò sentendosi stupida. - Quale lutto? – si fece smarrito come un cucciolo. - Non vedete che vesto di nero? – gli fece notare e questa volta si sentì idiota. Il duca non trattenne una grassa risata. - Non voglio sindacare sulle tue scelte che non approvo… dimmi perché sei qui, deve trattarsi di una cosa importante, molto importante… oppure l’amore travolgente che ti scuote ti ha reso imprudente – sorrise suadente ed appoggiò la mano sul divano per avvicinarsi al suo volto. Zoraide arrossì sotto il velo e lui non se ne accorse. - Ho bisogno di voi – affermò ferma.


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- Tu hai sempre bisogno di me… da quando hai assaggiato il sapore delle mie labbra – fu volutamente pesante e lei fece spallucce per mascherare il turbamento. - Non fatevi false illusioni… il motivo per cui sono qui è prettamente affaristico, se così possiamo dire – lo smorzò. - Affari! Affari! Sempre affari! Mia cara, Zoraide, tu non sembri conoscere il divertimento… ti sei accorta che è in corso una festa? E dimmi… hai desiderato almeno per un attimo di parteciparvi? – fu sottile, ma lei non raccolse. - Non sono avvezza alle gozzoviglie, non ne ricordo una nella mia vita. Le lascio a voi che vedo sapete apprezzarle più di me – fu amara. Suo padre non aveva mai organizzato un ricevimento, lamentando poi la sua mancanza di valide conoscenze. Ma quella era un’altra storia. - Bene, Zoraide… ti sei fatta capire. Sono tutto orecchi, qual’è l’affare che sei venuta a propormi? – si sedette sulla poltrona ed accavallò le gambe. Solo allora la donna svelò il viso e fu una cattiva idea perché incontrò gli occhi del duca che non le risparmiarono un’insistenza imbarazzante. Trattenne il respiro per non arrossire. - Si tratta di Aldo – disse secca e Stolfo non reagì. - Chi è Aldo? – le chiese, deludendola. Era sempre stata convinta che lui lo conoscesse, che sapesse il nome di chi era stata sul punto di sposare. Era così, lo rammentava bene. Alzò il sopraciglio recriminante. - Non lo vuoi dire chi è Aldo? – e capì che stava giocando con la sua sensibilità. - Lo sapete benissimo chi è – si stizzì. - Non lo ricordo – sibilò. - E’ l’uomo che avete visto accanto a me in quella chiesa, quel giorno… davanti all’altare – ed abbassò lo sguardo che vacillò. - Quale giorno? – insistette e Zoraide lo saettò. In un attimo Stolfo vide in lei una fragilità che lo intenerì, anche se decise di non lasciarsi commuovere. - Allora? Quale giorno? – si fece pungente, senza ricevere risposta. - Di quale giorno? – e scattò imprevisto, parandosi davanti a lei ed assediandola con le mani appoggiate sul divano ai suoi fianchi. Ancora una volta il suo viso era vicinissimo. - Non siate crudele… - storse il naso senza riuscire a guardarlo. La sua voce era fievole e sembrava che stesse per piangere.


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- Il tuo matrimonio… - sospirò alla fine, tornando alla poltrona. Ridacchiava indifferente al suo dolore. Ci fu un lungo silenzio ed entrambi pensarono che le cose erano andate davvero male e che le scelte erano state obbligate. - Lasciami indovinare… sei qui perché vuoi la sua morte ed io sono un professionista, la chiave che apre tutte le tue porte, la tua carta vincente… - ed era velenoso, ma Zoraide lo lasciò fare. - Io dispenso morte come Dio dispensa vita, vero? – rasentò il delirio di grandezza. Lo fissò compatendolo e poi sorrise minacciosa. - Voi sapete fare di meglio – lo sorprese. Dove voleva arrivare quel demone travestito da angelo? - Non è forse vero che la morte non è una vendetta, bensì un regalo? Forse il più bello che si possa fare ad un nemico – sentenziò e lui dovette ritrovare se stesso per tenerle testa. - Non è forse meglio la rovina, la miseria, la solitudine? Siete d’accordo con me, Stolfo? – continuò capziosa. Il duca non la interruppe. - Non lo voglio morto, lo voglio vivo ed attento, voglio che senta il dolore che voi, abile come siete, saprete procurargli – concluse freddamente, il suo sguardo nero aveva i bagliori cristallini del ghiaccio. - Abile come sono… mi lusinghi, Zoraide… e non è da te – osservò sospettoso. - So riconoscere l’altrui valore – - Mi sbaragli ogni volta di più, il fatto che sei qui è già motivo di confusione per me – temporeggiò. - Ditemi solo se accettate questo nuovo incarico – fu concisa. - Non accetto appuntamenti al buio – si difese. - Dimenticate che mi dovete la vita – non gli risparmiò il colpo che aveva tenuto in serbo sin dall’inizio. - No, Zoraide… abbiamo solo pareggiato i conti – - Siete stato pagato, Stolfo… allora vi ho dato il pattuito senza battere ciglio e quando si è pagati per un lavoro, non sussiste più alcun debito. Perciò, voi mi dovete la vita, mentre io la mia l’ho riscattata da tempo – si spazientì. Osservò la sua grinta ringhiante, la sete di vendetta era cresciuta a dismisura in quei mesi. - Un servizio gratuito… ma sei un’amica e posso fare un’eccezione – concluse. Zoraide sorrise. - Mettetela come volete, Stolfo… a me va bene anche così – fu secca.


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Il suo respiro a scatti era agitato, solo l’idea di vedere Aldo a pezzi la eccitava. Il duca la assecondava e si chiese se non sarebbe stato meglio tentare di dissuaderla. Decise di provarci, sapendo di perdere in partenza. - Perché non dimentichi il passato, Zoraide – osò e lei non trattenne un’espressione di disprezzo. - Non dimenticherò nulla, mai! Chi mi ha anche solo scalfita deve pagare – scandì le parole. - Non credi di avere causato abbastanza dolore? – continuò invano. Lei alzò un sopraciglio. - Parlate di mio padre? – sbuffò e Stolfo annuì. - Ha avuto ciò che meritava, ho bilanciato la partita. Sapete bene che non è nel mio carattere sopportare delle imposizioni – giustificò se stessa. L’uomo non smise di guardarla, provando una specie di pietà causata dal suo veleno e dall’inquietudine che la vita le dava. - Non pensi mai al perdono? – le chiese flebilmente. Il suo pulpito non era il migliore per mettersi a parlare di certe cose. - Le mie lacrime, duca… sono state tante e le mie illusioni… ne sento ancora l’agonia dentro e voi siete un uomo di mondo, dovreste capire il mio stato d’animo… No, non penso mai al perdono… non conosco questo concetto perché a me non è mai stato riservato – ed il suo tono era rotto, disperato; il suo cuore era spezzato in due ed era un’utopia credere di poterlo sanare. Stolfo non la contraddisse, conosceva le sue sensazioni, le aveva provate sulla pelle, i motivi erano stati diversi, ma il male non conosceva differenza. - Ma non voglio trattenervi oltre, duca… i vostri ospiti stanno reclamando la vostra presenza – cambiò discorso ed anche modo di fare. Si diresse verso la porta. - Sarò da voi domani per discutere i dettagli del nostro accordo… come ai vecchi tempi, non trovate? – scherzò grottesca, ma lui non trovò divertente quell’asserzione. - Dove andrai? – s’incuriosì. - In una locanda – lo esaudì. - Nulla di più rischioso, due donne sole di questi tempi sono un facile bersaglio – si affrettò a trattenerla. Zoraide si preparò a rifiutare il suo invito di passare la notte nel palazzo. - Disporrò per una stanza… - fu veloce e lei non fece in tempo a ribattere, lo vide uscire e lo sentì chiamare Nora a gran voce. Sbuffò contro se stessa, non aveva neppure provato a dirgli di no! Percorse marciando il


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corridoio e lo incontrò con la serva e Lisette, la quale sorrideva luminosa, guardandolo con ammirazione. Il rumore della festa era forte e quando Nora annuì, Stolfo tornò tra gli ospiti dopo avere baciato la mano della ragazzina che arrossì nuovamente. La stanza che fu loro assegnata era di uno sfarzo esagerato che Zoraide non mancò di notare. Il duca stava realizzando tutti i sogni che il passato gli aveva negato. Loro due erano decisamente diversi. L’una aveva rinunciato al futuro, l’altro se lo stava costruendo mattone su mattone, anche se il suo castello trovava le fondamenta sulla sabbia. L’arrivo della carrozza del conte des Fleuves mise in fermento gli ospiti, alcuni di loro sfidarono il freddo per uscire a guardare il nobile, mentre scendeva. Erano i primi di febbraio e la sua elezione come deputato del Terzo Stato era stata definita solo il giorno prima. Parte dell’aristocrazia presente faceva parte dei fisiocratici ed ammirava il nobile per il suo coraggio e la sua determinazione. In pochi sapevano del suo degrado, sospettabile solo per la magrezza che ora lo caratterizzava. Tuttavia, era un uomo dall’indubbio fascino, austero ed altissimo, i suoi cinquant’anni erano appena screziati dai capelli ingrigiti che celavano un antico castano e che sottolineavano il verde degli occhi fermi ed attenti. E poi… il conte Xavier des Fleuves non aveva eredi, questo di lui ogni famiglia lo sapeva bene e sapeva anche che era ricco, molto ricco. Quella sera non aveva bevuto, erano un po’ di giorni che non si affidava alla bottiglia, ed aveva deciso di presenziare alla festa di Stolfo senza abbandonare il lutto, con l’abito nero ad evidenziarne il pallore dovuto alle notti insonni ed al dolore che non aveva ancora vinto. Era altezzoso e fiero come un guerriero, il suo dimagrimento lo faceva apparire più giovane. Quando entrò nel salone, nel mormorio generale, il padrone di casa celò la propria meraviglia ed il nervosismo che ovviamente lo prese. Lo sguardo fermo dell’aristocratico lo mise al muro, ma non si fece intimorire e lo accolse con affabilità. Riuscì a trovare comico il fatto che sia lui che Eufrasia portassero nella sua festa l’allegria del lutto! Sorrise per questo e parve gentile. - E’ un onore, conte des Fleuves, avervi al mio ricevimento… è davvero lusinghiero sapere che avete scelto la mia dimora per abbandonare la solitudine – disse affettato, ma era goffo. No, forse non proprio goffo… piuttosto poco avvezzo a certi comportamenti, frenato dal fatto che quell’uomo era l’unico a sapere che non era quello che diceva d’essere.


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- Sono qui per darvi la risposta che aspettate e vi ho risparmiato un viaggio – asserì solenne Xavier. - Il fatto che siete qui mi ha già tolto qualsiasi dubbio, conte… e ve ne sono grato. Suppongo che la mia offerta vi sia stata gradita e ne avete compreso la convenienza – lo precedette. - Siete arguto ed intelligente, sapete impostare le cose in maniera tale che non sia possibile rifiutare – gli fece notare. Stolfo sogghignò bonariamente, offrendogli una coppa di champagne che Xavier non accettò, optando per un bicchiere della stessa limonata che beveva lui. - Non mi sono sbagliato, la vostra forza e la vostra moralità non vi hanno permesso di soccombere – disse, mentre il ballo iniziò sulle note dei musicanti. - Non aspettatevi che ve ne sia grato, non vi devo nulla, duca Rues – e marcava il suo nome con ironia. - So bene d’essere io a dovervi qualcosa, conte… ma le cose cambiano e a volte non sono esattamente come appaiono. Lo sappiamo entrambi – sussurrò insinuante e il nobile lo scrutò sospettoso. - Entrambi – ripeté arcigno e Stolfo sorrise bieco. Tuttavia, si sentiva soddisfatto e pronto ad iniziare quell’avventura onesta che gli faceva credere di potersi riscattare e che nello stesso tempo lo spezzava in due, vittima ed artefice di una doppia vita. Pensò a Zoraide che probabilmente stava già dormendo ed in quel momento si accorse di Lisette. Era stata attratta dalla festa e se ne stava seminascosta sotto la scala; nessuno la poteva notare e lui stesso la vide per caso. Sobbalzò, ma si calmò alla svelta. Si avviò verso di lei, seguito da Xavier, poco avvezzo ai ricevimenti e forse imbarazzato dagli sguardi avidi delle donne presenti. Ah! La bassezza umana poteva celarsi anche nello splendore di volti incipriati e nelle pieghe fruscianti di preziosi abiti di seta! L’arrivismo sociale poteva nascondersi persino nello scintillio dei rari gioielli sfoggiati! - Lisette – la sorprese il duca ed il conte si accorse di lei. Ne rimase inaspettatamente colpito. Era minuta, fuori posto con il vestito grigio che portava, anche se di fine fattura. Poteva essere una novizia e questo lo turbò. Ma ciò che di lei era inevitabile notare erano gli occhi azzurri, grandi, vivi per la giovane età e per l’indubbia intelligenza che doveva possedere. I lunghi capelli biondi acconciati incorniciano un visino dai lineamenti fini e carini. Anche lei rimase folgorata dalla prestanza di quell’uomo maturo, amico di Stolfo, e sorrise. Non fu finzione, ma emo-


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zione, qualcosa che non ricordava di avere mai provato. Deglutì per mascherare quella debolezza e cercò il duca. - Cosa fai qui? – le chiese duramente. - Non ho mai visto un ricevimento e… la padrona già dorme – strinse le spalle, giustificandosi con la voce di una bambina. - Non dovresti stare qui – la riprese. - Avete ragione… - e fece per andarsene, spaventata dalla sua rigidità. - Perché tanta severità? – intervenne Xavier, bloccandola e scatenando in lei nuova agitazione. Stolfo lo osservò: era palesemente avvinto e lei non era da meno. Realizzò subito il complicarsi degli eventi e tentennò. - Torna nella tua stanza, Lisette – rombò riprendendo il controllo e la vide defilarsi. - Lasciate perdere, conte… si tratta solo di una serva – tagliò corto, trascinandolo con sé nel rumore della baldoria. - Non vi pare di essere un po’ cinico? – alluse al fatto che probabilmente anche lui era un servo. Stolfo inarcò le sopraciglia e si fermò arcigno. - Sono dell’idea che ognuno debba stare al suo posto – affermò. Xavier non celò il divertimento. Il falso nobile non la pensava realmente così, ma non aveva trovato altro da dire e da fare per impedire che avesse luogo un contatto scomodo. - Non sono qui per un viaggio di piacere, duca – disse Zoraide, quando si accorse dell’estrema ospitalità che l’uomo le stava dando. Aveva fatto imbandire la tavola per la colazione con ogni ben di Dio. Era molto presto, non dovevano essere ancora le sei del mattino e Lisette dormiva. Tuttavia, nessuno dei due aveva riposato quella notte: lui per la festa che si era protratta sino a tardi e lei per il frastuono che aveva dovuto sopportare. - Sei perennemente controllata e diffidente, mia cara… non ti rilassi mai? – la schernì come sempre. - Non posso permettermi certi lussi… e voi lo sapete meglio di me. Ci sono mille motivi per i quali devo stare costantemente all’erta e voi, da quanto ho potuto constatare, di certo non mi aiutate – gli recriminò. La scrutò interrogandola tacito, si accomodò prima di lei e si versò del latte in una tazza. - Con me sei sempre al sicuro… anche se non lo vuoi capire – asserì distrattamente e la colpì sapendo di farlo.


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- La vostra sfrontatezza è disgustosa, vi piace sfidare la sorte e così facendo finirete con il cadere nella vostra stessa trappola – storse il naso e si sedette accanto a lui, attendendo che versasse anche a lai del latte. - Cos’ho combinato questa volta? – si dimostrò sorpreso. - Non vi sembra di esagerare stringendo delle relazioni con mio padre? – lo fulminò con lo sguardo fermo e nerissimo. Stolfo incontrò quegli occhi profondi e freddi. Sogghignò scuotendo il capo. - Credevo dormissi – non si difese. - Non lo facevo ed i miei occhi ci vedono bene – si fece astiosa. Lui sospirò annoiato. - No… non bene come credi, ci sono dei particolari che ti sfuggono – ma non la smosse dentro questa volta. - La carrozza del mio casato la so riconoscere anche al buio – sibilò allo stremo, ignorando le sue provocazioni. Stava esigendo una spiegazione per la presenza di suo padre alla festa della sera prima. - Poco meno di un mese fa ho comprato la ‘Belle’ – ammise. Era inutile mentire, prima o poi avrebbe scoperto ogni cosa ed inoltre era meglio metterla nella condizione di evitare un incontro con il conte. Zoraide si alzò di scatto, palesando il proprio dissenso e si diresse alla finestra con il respiro pesante. - Sono nata su quel veliero, lo sapevate? Ve lo ha detto il conte des Fleuves che sua figlia ha visto la luce sulla ‘Belle’, al largo delle coste italiane? – quasi esclamò, ferita dal gesto del genitore, poi prese fiato. - E mia madre è morta sulla ‘Belle’, quando avevo tre anni. Non vi ha detto neppure questo? – insistette. Passò parecchio silenzio che permise al livore della giovane di crescere. - E voi… voi avete bisogno di quel veliero a tutti i costi? - lo accusò voltandosi. Stolfo annuì. - Affari, Zoraide – sorseggiò il latte. - Ma di cosa blaterate… voi che siete un assassino? – lo aggredì, appoggiando le mani sul tavolo per fissarlo adirata. - Come la sei tu… Zoraide – non attese a ribattere. Il colpo fu persino visibile in lei che non abbassò lo sguardo di fuoco su di lui. - Credevo di potermi fidare - dichiarò amara. - E’ così – la rimbeccò. - Non mi piace giocare con il fuoco – dichiarò decisa. Stolfo sospirò e sorseggiò ancora il latte. - Si direbbe che tu abbia paura… - commentò quasi annoiato.


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- Voi no? – - Io nel rischio di morire ci sono cresciuto… forse non so distinguere l’entità dell’alea in cui sono immerso da trentacinque anni… - rispose flemmatico. - Non era necessario tutto questo, potevate benissimo vivere anche senza l’amicizia di mio padre! – era davvero arrabbiata. - Già… non era necessario, ma può venire utile… l’amicizia di un nobile non è mai da buttare via – rifletté tra sé. - Dio! Il mondo è pieno di nobili! Perché lui? Ditemi perché lui? – Non l’aveva mai vista così alterata. - Intuito – finse una veggenza inesistente. - Piantatela di prendermi per i fondelli! – questa volta urlò. - La tua volgarità, Zoraide… mi lascia perplesso – la riprese. - Saprei meravigliarvi sino a farvi perdere il fiato, Stolfo… perciò date un taglio al vostro atteggiamento indisponente! – sbuffò stancamente, battendo un pugno sul tavolo. Passarono alcuni istanti di silenzio che lui spezzò con una risatina sommessa. Si divertiva a farle perdere le staffe, lei ne era ormai consapevole. - Il fiato me lo fai perdere ogni volta che ti guardo, Zoraide… e non cercare di farmi credere che non te ne sei mai accorta – le sparò in pieno petto, ma rimase in piedi. Sentì il calore dell’amore salirle dal cuore dopo averlo infranto in uno slancio che la violentò, che rifiutò il suo rifiuto, che la piegò dentro come una spada flessibile. Sentì il sangue correre e scivolare via, non sapeva dove, non poteva saperlo. Sentì il capo battere e poi raffreddarsi e gli occhi asciugarsi, la saliva seccarsi. Sentì tutto questo in un secondo e la dichiarazione assai particolare del duca la smorzò e la confuse, la certezza che lui la amasse la rese felice eppure incapace di analizzare la faccenda, di manifestare la propria gioia, di percepire i patemi dei mesi passati. Sentire di sentire fu un colpo sopra il colpo. Sentì e si accorse di non essere morta, non come aveva sperato. Riprese a stento il controllo di sé, gli occhi fissi su quelli dell’uomo che la guardava sornione, così sicuro di sé da sembrare un animale in attesa, senza fretta e senza timori. Lo amò per quella ferocia e poi per quella delicatezza che comprese riservarle perché… lo sapeva bestiale, spietato, privo di remore. Ma non con lei, no… mai. - Non… divagate, duca. E ritenetevi libero dall’incarico che ieri ho pensato di darvi – disse allo stremo, con il desiderio di andarsene subito.


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- Siamo certi che il nostro Aldo, graduato della Guardia Reale, non lo vogliamo morto? E’ importante, sai? Non vorrei che mi scappasse di ammazzarlo, avrei anch’io un buon motivo per desiderarne la scomparsa definitiva – la fermò, ricordandole ciò che il ragazzo pareva avere ottenuto. Zoraide lo guardò oltre la spalla e strinse gli occhi taglienti. - Sapete sempre dove andare a parare, vero? – si lamentò. - E’ solo una questione d’età… esperienza, niente di più – asserì ripiegando il tovagliolo ed accendendosi un sigaro. La fissava con quella sicurezza che inizialmente l’aveva abbacinata e che continuava a farlo. La totale mancanza di scrupoli dell’uomo lo rendeva pericoloso, ma anche infallibile. - Comincio a credere che per voi sia un gioco ed io il vostro giocattolo – aggiunse. - Non ricordo di avere mai giocato con te – sorrise malizioso e volle farla arrossire per togliersi un’inutile soddisfazione. Poi tornò alla loro conversazione seria. - La vita è un gioco, Zoraide… e tra me e te c’è una sostanziale differenza. Io la prendo come va presa, mentre tu trovi il lato tragico in tutto! Non ti diverte sapere di avere tra le dita la vita di una persona? Eppure mi era parso che fosse così… - insistette annebbiando l’atmosfera con il fumo che espelleva dalla bocca. - Non diverte dover pareggiare i conti – affermò secca. - Allora dimmi perché sei qui – si fece altero ed accusatorio. Lei tentennò, poi lasciò cadere le spalle. Non rispose. Sarebbe stato tutto inutile, qualsiasi cosa avesse detto, lui avrebbe colto la verità. - Va bene… procedete come riterrete opportuno – concluse quasi mesta. Era lì, a Rennes perché… scosse il capo. - Non mi hai risposto – la incitò duramente. Zoraide sorrise amarissima. - Non lo farò – e lui comprese che avrebbe mantenuto quella promessa… per il momento. - L’equipaggio è pronto a partire – disse il conte, accavallando le lunghe gambe ed accendendosi un sigaro. - Nel giro di un mese sarò di ritorno, in tempo per potermi occupare delle faccende previste nella Capitale. Sono un rappresentante del Terzo Stato e gli Stati Generali sono stati convocati dal re per il 5 maggio… - continuò e lo scrutò. Stolfo, seduto sulla poltrona antistante, era distratto,


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l’entusiasmo di una settimana prima durante la festa pareva scemato ed il conte non negò a se stesso una certa preoccupazione. - Forse i nostri accordi non vi interessano più? – azzardò per capire come stavano le cose. Il duca scosse il capo, lo aveva invitato al proprio palazzo per la cena non certo per disdire tutto. Sorrise impacciato e lo guardò con l’intenzione di incuriosirlo e ci riuscì. - Qualcosa non va? – si dimostrò sensibile al suo stato d’animo. - Lasciate correre, conte… sono cose che non voglio dirvi, risveglierei il vostro dolore e non lo meritate – si fece insinuante, costruendo la situazione di cui aveva bisogno. Xavier tacque, non riuscendo ad immaginare il motivo di quell’abbattimento. - Se non volete dirmi nulla… non insisto – concluse. - Si tratta di un uomo, conte… di un uomo che voi conoscete molto bene e del quale probabilmente non sapete più nulla – iniziò come si era prefissato. L’ospite s’irrigidì, come se avesse compreso. - Non vi conosco abbastanza per sapere se lo odiate, ma forse è giusto che sappiate come stanno le cose – temporeggiò, osservando con la coda dell’occhio le sue reazioni. - Si tratta di un nostro collaboratore? – ipotizzò e l’altro negò con un gesto del capo. - Parlate chiaro, duca Rues… altrimenti tacete! – si spazientì. - Aldo Ribaud… lo conoscete? – finse di verificare, ma il pallore del nobile fu la risposta che voleva, l’odio che divampò nel verde di quello sguardo fu la conferma che andava cercando. - E voi, duca… lo conoscete? – sibilò ed il ricordo della figlia lo pervase senza pietà. - Ho avuto modo di incontrarlo a Versailles, dov’è di servizio, nella Guardia Reale – e lo disse con credibile naturalezza. Xavier non si soffermò sul fatto che lui da Versailles doveva stare lontano, il nome dell’uomo lo aveva annebbiato. - Cosa dite? – sbottò infiammato. Stolfo fece spallucce. - Quel miserabile non è un aristocratico, come può far parte del corpo più prestigioso del nostro esercito? – rombò ferito quanto sua figlia. - Non è un nobile come voi? Non stava forse per sposare Eufrasia qualche mese prima che fosse uccisa? – calcò la mano, affrontando il rischio della sua ira. Xavier non si adirò, si alzò e cercò del liquore nel mobile dove pensava ce ne fosse. - Come sapete tutto questo? – lo interrogò deluso dalla propria ricerca.


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- Se ne è parlato in tutta la Francia – mentì. Ma sapeva che così lo avrebbe riempito dell’astio necessario. Xavier trasalì e poi tornò sulla poltrona. - Perché avete voluto che lo sapessi? – era diffidente, ma aveva considerato anche questo. - Ho pensato fosse giusto rendervi nota la vita dell’uomo che a vostro parere ha rovinato quella di vostra figlia. Aldo Ribaud è realizzato e felice, sapete? In questi giorni sta corteggiando una donna, dimentico di Eufrasia e la sua carriera militare gli è stata garantita da un amico. Io non sono per le vendette, conte… piuttosto per la giustizia che certamente la vostra nobiltà di sangue reclama – fu meschino, lo fu nei confronti del ragazzo, cosa poco rilevante, ma lo fu anche con il conte. Mascherandosi da amico, lo stava istigando, gli stava instillando il tarlo della sete di riscatto, lo stava risvegliando dalla sua rassegnazione e non avrebbe cessato di farlo sino al raggiungimento dello scopo ultimo. Xavier sbuffò e lo fissò rigido. - Parlate per voi, duca… io la vendetta non l’ho mai perseguita, ma questa volta… - quasi ringhiò. - Non penserete sul serio di ucciderlo? – si scandalizzò. - So di un uomo proprio di questa città… - e si riferiva inconsapevolmente a lui. - Infrangere la vostra rettitudine per così poco? – lo fece ragionare. Zoraide non ne voleva la morte, doveva tenerlo bene a mente. - Non siete forse il conte Xavier des Fleuves? – gli fece notare. - La vostra influenza nei ranghi aristocratici del Paese è notevole, sfruttatela e ne uscirete pulito. Non è forse per il rispetto di certe regole sociali che fareste in modo di farlo congedare? E non sarebbe meglio lasciarlo vivo nella miseria, piuttosto che stroncare la sua vita con un dolore di pochi attimi? Mi pare che quell’uomo abbia la famiglia d’origine sulle spalle… toglietegli la possibilità di mantenerla, mettetelo alla fame… chi contesterebbe un simile gesto? Ammesso che il vostro nome emerga… non sussisterebbe nessun crimine – fu lineare ed ovvio. Non si sbagliava. Xavier lo guardò attonito. Lo aveva convinto, lo percepiva nel suo stesso respiro, lo vedeva nella luce dei suoi occhi. - Voglio sistemare questa faccenda prima di partire – concluse e Stolfo si ritenne soddisfatto. - Prendetevi tutto il tempo che volete – lo assecondò.


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- Non me ne servirà molto, credetemi – e volse l’attenzione al vuoto con il desiderio di bere ad inquietarlo. - Voi… non tenete alcolici? – lo accusò allo stremo. Stolfo scosse il capo. - Allergia, conte… allergia all’alcool – dichiarò e l’altro sorrise divertito.


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CAPITOLO VII

Stolfo scese da cavallo davanti alla villa di Zoraide, varcò il cancello e bussò alla porta. La ragazza, che stava leggendo nella saletta, sobbalzò spaventata. Lisette non c’era. Quando aprì, rimase sorpresa ed il salto al cuore la fece retrocedere di un passo. - Cosa accidenti volete? – chiese e lo fece entrare frettolosamente per non permettere a nessuno di scorgerlo. Lui la guardò serioso. - Tuo padre è a Versailles, ho ritenuto opportuno avvertirti – e lei tremò. - Cosa dite? – farfugliò dirigendosi nella stanza ove si trovava prima e lui la seguì. - Datemi una spiegazione… questa è l’ultima cosa che avrei voluto – fu prevenuta. - E’ qui per Aldo Ribaud e quando lascerà la Reggia, il tuo desiderio sarà stato esaudito – affermò e lei corrucciò le sopraciglia. Dopo un po’ realizzò, lo fece lentamente, ma lo fece! Gli diede la schiena e pensò lungamente. - Avete… usato mio padre – fu recriminante. Non la contraddisse e si sedette sulla poltrona davanti ala camino. - Lo avete istigato e convinto a rovinare Aldo con la sua influenza a Corte e nelle fila dell’esercito… - proseguì. - Il conte ha molti amici, più di me… che ne ho solo uno – affermò, riferendosi a lei. - Perché lo avete fatto? – storse il naso. Nel fondo del suo cuore non trovava giusto coinvolgere il genitore, rendendolo un burattino ignaro di tutto. - Perché lo odia come lo odi tu e… al contrario di te, ha la possibilità di vendicarsi! Lo voleva uccidere ed avrebbe incaricato me – rise e lei inarcò un sopraciglio. - Intendete dire che sa di voi? – bisbigliò. - Non essere assurda, Zoraide! Sa come trovarmi, come tutti coloro che cercano un uomo disposto ad assassinare un nemico – la riprese per la


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sua ingenuità. Si creò il silenzio, durante il quale Stolfo poté osservarla seduta sulla sedia accanto alla finestra con i vetri ghiacciati, oltre la quale nevicava ancora. Erano le ultime sortite dell’inverno, da lì ad una settimana sarebbe stato marzo e la primavera si sarebbe fatta vedere. Tutti lo speravano, quel tempaccio perdurava da troppi mesi ed aveva messo in ginocchio la popolazione sempre più scontenta, avvinghiata alla convocazione degli Stati Generali come ad un relitto in mezzo al mare in tempesta. Zoraide era stanca, lo notò. Era davvero esausta, confusa tra le pieghe di quella vita segreta fatta d’inganni, senza sbocchi, senza risa e senza sorrisi. La leggeva come un libro aperto e continuava a cogliere in lei un profondo dolore, una diffidenza che la allontanava dalla sua giovane età, che la rendeva fredda e distaccata, che annullava le sue remore dando spazio alla spietatezza. Armava i ribelli e viveva in un timido lusso in ricordo di un titolo cui aveva rinunciato quella gelida mattina di novembre. Ancora si chiese se aveva fatto sul serio la cosa migliore assecondandola. Gli fu inevitabile cercare dentro di sé un sistema per stanarla dal buio in cui esisteva. I loro occhi s’incontrarono per caso e la tristezza della ragazza fu devastante. - Non potrai resistere a lungo – le disse serio, lontano dagli scherzi e dall’ironia che li aveva sempre uniti. Lei non raccolse. - Spero che vorrete accettare di pranzare con me – disse inaspettata. Stolfo non rifiutò. Più le stava accanto, nonostante tutto, più si sentiva felice. Con il carro andare al mercato era certamente più agevole per Lisette, che dopo averlo caricato di provviste, vi risalì e spronò il cavallo verso la villa. Le altre serve la invidiavano un po’: era elegante come una gran dama rispetto a loro ed ora poteva evitare la fatica di camminare con pesanti sporte. Quella ragazzina era davvero fortunata! Silenziosamente, sotto la neve, senza fretta, osservava il mondo, lasciandosi illanguidire dal biancore circostante e sorridendo per un panorama che trovava romantico. L’atmosfera ovattata dava una profonda serenità che cancellava la sua infelicità di fondo e le preoccupazioni. Per un attimo dimenticò di essere stata una prostituta ed anche di essere diventata una contrabbandiera d’armi. Fermò il carro: era tutto così tranquillo, così bello… pareva impossibile che esistessero la miseria, la nefandezza e tutto ciò che faceva soffrire. Cosa ne sarebbe stato di lei se non avesse incontrato mademoiselle Zoraide? Forse avrebbe continuato la vita squallida in quella locanda e sarebbe morta di malattia o uccisa da un


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cliente ubriaco o insoddisfatto. Rabbrividì a quella riflessione. La figura scura di un uomo a cavallo la distrasse e rimase a fissarlo, mentre rumoroso sul ghiaccio avanzava. Trasalì quando si bloccò scoprendo il capo. Il cuore iniziò a batterle forte nel petto e l’emozione tornò a scuoterla. - E’ incredibile… - asserì lo sconosciuto che lei ricordava molto bene. - Già – sorrise teneramente. - Il nostro comune amico non ha voluto presentarci. Possiamo farlo adesso, non trovate? – propose e lei annuì contenta. - Il mio nome è Lisette – non se lo fece ripetere due volte. Desiderava sapere chi fosse, se lo era chiesto per giorni. - Xavier des Fleuves, conte di Saint-Malo – non fu da meno e la ragazzina s’illuminò. Adesso aveva un nome nei suoi pensieri! - Siete un aristocratico… perché parlate con me che sono una serva? – chiese lasciandosi prendere dallo sconforto. - Siete simile al duca Rues, vedo… entrambi avete un’idea distorta delle relazioni sociali – rise, trattenendo l’inquietudine del cavallo con un gioco di polso simile a quello della sua padrona. - Cosa fate qui, conte? – domandò per rompere l’imbarazzo che aveva addosso. - Una questione personale – fu conciso. - Spero nulla di grave – non sapeva cosa dirgli ed il nobile la osservava facendola sentire nuda. Forse era l’età matura che la induceva a credere che lui potesse prevedere ogni suo pensiero. Era impazzita! Come faceva a trovarlo affascinante? Sarebbe potuto essere suo padre e pure un padre attempato per i suoi sedici anni! Ma Xavier era così… sorprese se stessa, interpretando il proprio sentire come amore. Ma si! Lo amava, era stato un colpo di fulmine meraviglioso ed ora, in quel momento, stava bene e le pareva di volare. - Avete detto di essere una serva… di chi? – indagò incuriosito. - Di un’amica del duca, madame Zoraide – fu pronta a precisare che si trattava di una signora e non di una signorina, presto avrebbe scoperto che la chiamavano la Vedova. - Ah! Il duca conosce un sacco di persone… anche voi, grazie al Cielo – osò e lo fece sicuro di sé, abbacinandola. - E’ simpatico – parlava per non stare zitta. - Certamente! E’ anche insolito e più coraggioso di quanto non sembri – alluse ridacchiando. La campana della Chiesa batté mezzogiorno e Lisette sobbalzò.


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- E’ tardi… - si lamentò. - Vi lascio andare, non voglio che la vostra padrona si adiri con voi – la salutò tirando le redini. Lo osservò scomparire verso Versailles e sorrise. Poi sospirò addolcita da quell’incontro, pronta a sognarlo per sempre. Quella sera lo sguardo del conte era fermo mentre parlava oppure sorrideva alle battute di Stolfo. Il duca non gli aveva ancora chiesto com’erano andate le cose per non dimostrarsi troppo interessato, sempre attento alla diffidenza di base di quell’uomo potente. La vendetta ai danni di Aldo lo aveva rinfrancato, la rovina di quell’inetto non gli avrebbe restituito Eufrasia ma lo faceva sentire vivo e gli ridava la consapevolezza della propria posizione. Paradossalmente l’odio lo stava facendo rinascere e la ragione era tornata a muoverlo. Non era intenzionato a sbronzarsi, non rinunciava a qualche goccetto, ma aveva abbandonato gli eccessi. - Appena sarò a Saint-Malo disporrò per la partenza, duca… avete portato anche troppa pazienza – disse nel mormorio sommesso della locanda e l’altro ebbe un movimento atto a chiedergli, senza una parola, com’era finita la missione per la quale erano venuti a Versailles. - Per quel cane questo pomeriggio è finito un sogno – lo esaudì, capendo la sua curiosità ed intendendola come una dimostrazione d’amicizia. - Cosa gli avete riservato? – indagò ed il conte sorrise capzioso. - Ho seguito il vostro consiglio… la miseria di questi tempi è il sistema migliore per abbattere i nemici – sogghignò. - Congedo, suppongo – azzardò. - Supponete bene, a quest’ora il nostro piccolo uomo dovrebbe essere tornato nel sobborgo di Parigi da dove è venuto, in mezzo ai topi ed ai delinquenti che ammazzano per un tozzo di pane ammuffito – aggiunse con un sadismo in netta contrapposizione con la sua intenzione di rappresentare il Terzo Stato da lì a qualche mese. Stolfo immaginò la reazione di Zoraide a quella notizia e si accorse d’essere anche lui felice. - Ditemi una cosa, duca Rues… - Avete un’amica a Nanterre, vero? – lo gelò. Dio, se lo fece! E non aveva potuto prevederlo! Inarcò le folte sopraciglia. - Non volete rispondermi? – insistette il nobile. Lui allora annuì, ammutolito da uno strano presentimento.


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- Si tratta della donna per la quale lavora quella Lisette? – continuò imperterrito, ad un passo dalla scoperta, o dalla possibilità di scoprirlo, di qualcosa che andava oltre la sua stessa fantasia. Cosa poteva fare adesso? Negare era rischioso. Confermare… anche. Dovette vagliare in un secondo i pro ed i contro di entrambe le risposte. - Madame Zoraide, è questo il suo nome – insistette il conte. Com’era che sapeva tutto così precisamente? In quale modo ne era venuto a conoscenza? E perché tanto interesse? Deglutì. Aveva visto giusto quella sera, il fascino della serva aveva colpito Xavier! - Non vi sbagliate – mantenne la calma. - Vorrei conoscerla – lo fulminò e per un attimo temette di non reggere il ritmo forsennato del cuore. Decise di giocare d’astuzia con una lucidità invidiabile. -Conte, conte… non ditemi che gli occhi azzurri di Lisette hanno scalfito la vostra dura corazza! – lo prese in giro. - Perché no, duca? – fu quasi fiero ed il compagno continuò ad avere un’aria sorniona. Si maledì per ciò che aveva in testa di fare, ma non trovò altra maniera per smorzare l’insolita passione dell’aristocratico. - Non lasciatevi ingannare dal suo aspetto angelico… - iniziò con lo stomaco in subbuglio. Xavier lo osservò. Cosa poteva nascondere una ragazzina di poco più di sedici anni? - Lisette è una simulatrice – e si sentì meschino perché rammentava l’emozione di lei davanti allo sguardo di quell’uomo attempato. - Avanti, duca… è una bambina – rise incredulo, forse un po’ ingenuo. - Una bambina molto richiesta sul mercato – e si disprezzò da solo. - Quale mercato? – storse il naso l’altro. Non rispose ma la sua espressione fu eloquente. Sapeva del passato di Lisette perché si era debitamente informato: se fosse stata inaffidabile, si sarebbe affrettato ad avvertire Zoraide. Dalle sue ricerche era emerso solo il fatto che era stata una prostituta dai tredici ai sedici anni. Il suo problema era la bellezza. Lisette aveva l’aspetto chiaro e dolce delle donne del nord ed i suoi biondi capelli inevitabilmente attiravano l’attenzione. Quanto al conte… lo stava prendendo in contropiede, senza dubbio. Aveva superato i cinquant’anni, aveva alle spalle una vita solitaria screziata dalle lotte con la figlia, aveva la tragicità di due decessi in famiglia ed ora… si scioglieva come neve al sole per Lisette! Il destino stava congiurando contro Zoraide ed anche contro di


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lui; si convinse di avere sbagliato ad intraprendere delle relazioni così strette con il padre di colei che… aveva ucciso. - Date peso a queste cose, duca? – il suo piano fallì all’istante. Sussultò. - Perdonate il mio ardire… ma non eravate voi a contrastare l’unione di vostra figlia con un uomo del popolo? Volendo fare un paragone, la vostra scelta è peggiore di quella di Eufrasia, pace all’anima sua – fu crudele, ma c’erano in ballo rischi mortali. Xavier lo guardò ferito. - A volte si cambia… - si fece caparbio. Stolfo sbuffò pensieroso e si appoggiò allo schienale della sedia. - Non alla vostra età – lo stilettò. - Mi state dando del vecchio? – si stizzì e gli fece notare che anche lui non era un ragazzino, considerando che dimostrava più dei suoi anni a causa della vita sregolata che aveva condotto in passato. - Non mi permetterei mai… comunque mi dispiace dovervi dire che madame Zoraide e la sua serva hanno lasciato Nanterre solo ieri… - corse ai ripari, intuendo che aveva avuto modo di incontrare Lisette. Non sapeva quando ma sicuramente non il giorno prima, erano sempre stati insieme… tranne al mattino. Deglutì e scorse nell’amico un’espressione ironica. Non lo aveva convinto, la sua astuzia iniziava a vacillare? - Ci sarà un’altra occasione – concluse il nobile rassegnato. - Zoraide è vedova e non è solita ricevere alcuno – cercò di disporre gli eventi nel modo meno pericoloso possibile. - Voi si… e so di poter contare sul vostro aiuto – gli sorrise e si alzò lasciando due monete sul tavolo. Anche Stolfo sorrise forzatamente. - Certo – rispose e lo seguì. Era tardo pomeriggio, cavalcando di buona lena sarebbero giunti alle rispettive residenze all’alba del giorno dopo. Ovviamente il duca non poté andare da Zoraide, evitò accuratamente anche di volgere lo sguardo alla villa quando vi passarono davanti. Erano passati cinque giorni dall’ultima visita di Stolfo e Zoraide iniziava a preoccuparsi. I suoi complici stavano fremendo e lei non poteva muoversi. Il suo malumore dava a Lisette un forte disagio e le loro conversazioni erano rare. Il rischio di incontrare suo padre la costringeva a starsene chiusa in casa anche di notte e così le sue risorse economiche subivano giornalmente forti cali. Era marzo e finalmente la neve aveva smesso di cadere. La temperatura era leggermente salita, dando il via al lentissimo disgelo ed i fiumi si gonfiavano, raggiungendo i livelli di guardia: si diceva che la Senna


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sembrasse un leone ruggente, impetuosa come il mare, ma più letale con i lastroni di ghiaccio che cozzavano contro i pilastri dei ponti. I terreni delle campagne erano oceani di fanghiglia semicongelata e così anche le ultime speranze sulle semine dell’autunno si persero, peggiorando la carestia ed aizzando le masse sempre più povere. Una notte decise di rischiare e, raggiunto il covo dei complici, concluse con gli stessi che il suo servizio sarebbe stato irrealizzabile con i soldati che si stavano concentrando nei pressi della Reggia. Così, quell’attività redditizia cessò d’essere e la sua rabbia si manifestò nella velocità forsennata cui costrinse il cavallo, tornando a Nanterre. Quando rientrò, sbatté la porta e Lisette la raggiunse nel corridoio, anche se era molto tardi. Era ancora vestita e Zoraide lo notò. - Cosa fai ancora in piedi? – le chiese tonante ma non le permise di rispondere. Appese il mantello e sbuffò esasperata. - Mademoiselle… - tentò di dire. - Rovinate, Lisette! Siamo rovinate! L’attività è saltata e… sai cosa dovrò fare? Lo sai? – esclamò astiosa. Se la prendeva con lei senza che c’entrasse nulla. - Dovrò tornare in quelle odiose bische clandestine, con il rischio di essere sorpresa, perché Parigi pullula di soldati a causa delle continue sommosse! Accidenti a loro! Accidenti al re! Accidenti… - e si diresse nella saletta marciando, in cerca di un po’ di rhum. Quando entrò, seguita dalla serva, si bloccò ed impallidì. Repentina la fulminò. - Perché non mi hai detto che c’era qualcuno? – sbottò. Lisette cercò invano di giustificarsi e Zoraide ancora una volta le impedì di parlare. - Vattene in cucina e restaci –sibilò, poi chiuse la porta con foga. - Voi… - sussurrò trattenendo la ferocia che la scuoteva. Non rinunciò al rhum e ne scolò due bicchieri. - … suppongo che siate qui per avvertirmi del successo della vostra missione – trovò un po’ di calma. Fissando Stolfo speranzosa, neppure sorpresa della sua presenza. Lui accennò un vago sorriso di conferma, ma a Zoraide non sfuggì la sua amarezza. - Intendete dire che quel bastardo è stato sistemato? – volle sapere. - Com’era tuo desiderio – rispose alzandosi dal divano ed affacciandosi alla finestra. - Molto bene – asserì tronfia. Bevve dell’altro rhum sotto lo sguardo fermo del bandito. Forse era meglio che si alterasse un po’ prima di ascoltare ciò che aveva da dirle. La vide lasciarsi cadere sulla poltrona


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davanti al camino acceso e respirare a scatti come suo solito. Era felice, non ricordava di lei una gioia più grande, una smania così forte da farla tremare. Sembrava impazzita e le si leggeva in faccia che non avrebbe mai voluto che quell’attimo d’euforia crudele terminasse. Sorrideva capziosa, vincente, grande nel suo essere che scivolava sempre più nell’abisso della cattiveria e della vendetta indiscriminata. Aveva distrutto una vita, ne era consapevole e stillava il successo come un dolce elisir. Guardandola, provò un profondo dolore che non seppe definire sino in fondo ma che lo turbò molto. - Ditemi, ha sofferto? Ha pianto? – ed il suo tono era addirittura affannato. - Sai che non è accaduto per mano mia – le ricordò. - E lui… lui era contento? – continuava a chiedere spasmodica i dettagli di quella nefandezza e si riferì al padre con quella domanda. Il duca annuì, facendo spallucce. Zoraide lo guardò lungamente e lo raggiunse. - E voi… non vi sentite soddisfatto? – lo interrogò pretendendo una solidarietà improbabile. - Perché dovrei? - fu sottile. Lei abbassò gli occhi tremolanti, febbrili. - Potrei fare la medesima fine in qualsiasi momento, basterebbe una parola del mio migliore amico – fu sarcastico. Zoraide lo guatò. Il suo migliore amico? - Ma tu hai avuto ciò che volevi… e questo mi rende felice - la sua ironia era fastidiosa. - Sembrate accusarmi – gli fece notare senza mezzi termini. Stolfo le riservò un’occhiata di quelle che la atterrivano. - Sono molte le cose che potrei recriminarti ma non ho intenzione di farlo, non adesso o forse mai. Non mi trovo nella posizione giusta per potermi ergere giudice di alcuno. Sono un assassino – disse amaro. Alzò quel suo incontrollabile sopraciglio a dimostrazione di una certa contrarietà. - L’amore ci sta mettendo entrambi in pericolo ed onestamente… non so cosa inventarmi questa volta per uscirne incolume – fu sibillino e la preoccupò. - Di quale amore parlate? – storse il naso. Stolfo trovò sollievo solo guardandola. - Non del nostro – la fece sobbalzare, forse lei aveva sperato il contrario e quella risposta la deluse nel punto più remoto del suo cuore asciutto. Si allontanò da lui.


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- S’intende – lo colpì a sua volta. - Certo – ribattè con sicurezza e le fece perdere la pazienza. - Di cosa blaterate? – era sulle difensive. - Di tuo padre – fu secco nel tono. - Tacete! Sapete che in questa casa non dovete… - volse lo sguardo alla porta chiusa. - Di tuo padre e di Lisette – concluse ignorando il suo ordine. Zoraide lo fissò. Non colse il risvolto recondito di quelle stupide parole. Il duca riempì un altro bicchiere di rhum e glielo porse. Lei accettò. - La ‘Belle’ è salpata due giorni fa alle volte della Polonia, sarà di ritorno in aprile e… allora ci sarà una festa al mio palazzo per festeggiare il rientro del conte des Fleuves… - raccontò. - Allora? – ingurgitò il liquore senza un filo della sua grazia aristocratica. - Vuole Lisette presente, vuole anche te che sei la sua padrona… e ti vuole parlare – svelò brusco. - Parlare di cosa? – farfugliò. - Vuole frequentare la tua serva… e questo a Lisette non dispiace affatto – finalmente fu chiaro. Zoraide tremò, come previsto. Pietrificata lo guardava, incapace di accusarlo d’essere il responsabile di quel contatto. Il fiato era corto, ansimava impaurita e camminò nella stanza nervosamente. - Ho fatto il possibile per evitarlo, gli ho anche detto la verità su di lei – confessò, ma non servì a calmare la sua ira visibilmente repressa. Poi la giovane si fermò davanti al fuoco e fissò le fiamme. - Si è innamorato di una serva – sussurro dopo un po’. - Amore vero… a quanto mi dite – sibilò in un nuovo rancore ad allagarle il cuore sino alla bocca che tremava. - Posso disporre per la tua scomparsa, Zoraide… ho delle possibilità in Italia, nel giro di una settimana saresti al sicuro – le propose affiancandosi a lei. Osservò il suo profilo morbido nei lineamenti, ma duro nello scintillio degli occhi. - Non fuggirò. Lisette sarà presente a quella festa ed io gli concederò un incontro – sentenziò gelandogli il sangue. Quel coraggio era pericoloso. - Ti riconoscerà, dimentichi che è tuo padre – la fece ragionare. - Non succederà – fu sicura di sé. - Perché questa cocciutaggine? Hai la possibilità di uscire di scena… e se vuole Lisette, se la prenda… ma tu puoi far perdere le tue tracce subito! Penserò io a vendere questa casa – si arrabbiò.


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- A quella festa il conte avrà il suo amore – fu irremovibile. Stolfo sospettò delle sue intenzioni e non le approvò. No, questa volta non era d’accordo con lei, questa volta Zoraide stava esagerando. - Un tempo ero io a giocare con il fuoco e questo a te non piaceva – le fece notare serioso. Non era spaventato, era solo deciso a salvarla. - I tempi e le cose cambiano, duca – ringhiò. - Non ti aiuterò, non ti permetterò di calarti direttamente all’inferno… non contare su di me – s’impose. Lei lo guardò dritto negli occhi, in quei suoi occhi nerissimi e sottilmente letali e li affrontò con una freddezza disarmante. - Certo che lo farete, duca – disse con un filo di voce. Senza difficoltà l’uomo sostenne la sua sfida. - Non essere troppo sicura di quello che dici, Zoraide – si difese. Lei sorrise acida. - O preferite che vi chiami Venanzio? – lo colpì. - Non ricattarmi, potrei fare la stessa cosa - non si lasciò mettere in trappola. - Non mi tradireste mai – sogghignò odiosa. Non sopportava essere dato per scontato, non sopportava la sua improvvisa pretesa di capirlo sino in fondo. Ebbe una smorfia di rabbia che lo rese minaccioso, ritenne dentro di sé d’averla sopportata abbastanza. Si avvicinò minaccioso e lei indietreggiò con il rancore a fiammeggiarle sul volto. - Neppure tu mi tradiresti – le disse soffiando come un gatto. - Non mettetemi alla prova, duca – si fece altezzosa e… fu tutta lì la sua aristocrazia, nella semplice inclinazione dello sguardo superbo. - Ed invece… ti metto alla prova – la sbaragliò e si sentì vincente davanti al suo tentennamento. - Vi state costruendo la rovina con le vostre mani, le nostre vite sono legate l’una all’altra ed a me non importa cadere, non perderei che questo squallido rifugio, mentre voi… voi avete un’intera scenografia teatrale che potrebbe crollare – lo rimbeccò, mentre lui la assediava nell’angolo della stanza. Le fu ancora una volta ad un centimetro dal viso, il suo fiato che sapeva di tabacco a scaldarle la pelle tesa del viso. - Quando finirà questa storia? – le sussurrò con un tono meno graffiante ma non per questo rassicurante. Non rispose, sapeva che stava accettando, magari per forza… ma lo stava facendo. Illanguidì i grandi occhi neri per fare leva sul suo cuore e lui le regalò solo una sottile risata, rompen-


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do per la seconda volta un incantesimo che lei desiderava più d’ogni altra cosa. - Possiamo trovare un modo per metterci d’accordo… - aggiunse e lo turbò dentro come non aveva mai fatto, bloccandogli il respiro. - Non toccare il fondo… - e non nascose un’espressione disgustata. Accidenti! Aveva colto le sue intenzioni prima ancora che lei stessa le delineasse! Si sentì stupida, debole e disarmata. Arrossì davanti a se stessa e si voltò per celare la delusione. L’aveva rifiutata. Stolfo sospirò esasperato, le diede un’occhiata e fece per uscire dalla stanza. - Stai mettendo a repentaglio la tua vita – le disse. - Anche la vostra, duca…ma siete stato voi a cominciare questo gioco e lo porterete sino in fondo – ribattè ferma. - Io so sempre salvarmi, tu senza di me non hai speranze, non questa volta – insistette. - Lo vedremo – lo salutò e lui sorrise spaventoso. Il duca Rues lasciò Nanterre lasciando a Zoraide la convinzione di averlo fatto cadere nella sua trappola, di averne assunto il controllo… ma non era così. Questa volta l’avrebbe salvata da se stessa, era giunto il momento di spezzarle la schiena ed aprirle il cuore. - State dicendo sul serio? Davvero mi permetterete di partecipare a quella festa? – chiese Lisette incredula. La forchetta le tremava nella mano ed una gioia infantile la rendeva più bella. Era passato quasi un mese dalla partenza della ‘Belle’ che era rientrata al porto di Saint-Malo prima del previsto, con il ritorno del conte des Fleuves. Stolfo aveva organizzato il ricevimento in onore del capitano della sua nave e dovette farlo subito, perché da lì a pochi giorni l’uomo era atteso a Parigi per i lavori relativi all’imminente convocazione degli Stati Generali. - Il conte des Fleuves ti ha invitata – le fece sapere Zoraide. - Voi potevate rifiutare… sono una serva, lo dimenticate? – ribattè un po’ malinconica. - E’ desiderio di un aristocratico incontrarti, i desideri dei nobili sono ordini per la gente del popolo – ed il suo tono era vagamente contrariato, come se lei non facesse parte del popolo di cui parlava. - Credete che mi sarà permesso entrare? – sussurrò spaventata. Zoraide sorrise comprensiva.


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- Sarai al suo fianco, sarà lui a dover affrontare la maldicenza del suo ceto, non tu – le spiegò. - Non voglio metterlo in difficoltà – si affrettò ad affermare. Allora lei rise divertita. - Credo che il conte sia abbastanza maturo per sapere a cosa va incontro e sopportarne le conseguenze – replicò. Lisette la scrutò seriosa e tentennò. - Voi sapete la sua età? – chiese prudentemente. La padrona la fissò e strinse le labbra. - Ha cinquant’anni, la cosa ti disturba? – rispose secca. Dio, tra Lisette e suo padre c’era una generazione! Era forse ammattito? Non ci pensò. Lei per prima sapeva che a volte la logica non esisteva nelle cose! - No, affatto – sbottò la ragazzina arrossendo. - Il fatto che possa essersi innamorato di te ti meraviglia? – ed il suo rossore divenne fiamma scarlatta. - Come correte, mademoiselle Zoraide… l’amore è una cosa seria… - si difese malamente. - Ho parlato lungamente con il duca Rues che gli è molto amico… - e lasciò la conclusione in sospeso. La felicità della serva andò alle stelle. - Ma c’è una cosa che voglio sapere, Lisette – la freddò. - Dove lo hai conosciuto? – Voleva sapere tutto, ogni particolare, ogni insolito evento. Lisette non le nascose nulla, mentre la ascoltava Zoraide pensava al destino, bizzarro, a tratti crudele. Pensava anche a Stolfo, incosciente, a tratti persino stupido. - Saremo ospiti del duca… partiremo domani – le annunciò quando ebbero terminato di parlare. Lisette sobbalzò emozionata. Era così tenera e fiduciosa, incredula davanti al bacio violento della fortuna… o dell’amore, perché aveva tutti i sintomi inequivocabili dell’amore. Per un attimo, uno solo, rivide se stessa; guardò la gioventù della sua serva, le sue speranze, la sua ingenuità, il suo palese senso di potenza che partiva dalle profondità di un cuore enorme. - Così presto? – farfugliò con un sorrisetto bambino. - Piuttosto così tardi! Hai idea del tempo che dovremo perdere per scegliere il vestito adatto, per decidere l’acconciatura ed il trucco consoni e per insegnarti a comportarti? – le disse materna. Era certa che Lisette in fondo la considerasse una sorella maggiore. - Mi avete insegnato tutto voi, cos’altro dovrei imparare? – s’incuriosì.


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- A ballare, per esempio – la esaudì ed ancora trasalì. Per uscire dalla paura che già iniziava ad azzannarla, si alzò e sparecchiò la tavola. Ospiti di Stolfo… sarebbero state ospiti di Stolfo. Zoraide non ce la faceva a cancellare la sensazione di piccolezza che aveva sentito addosso nel momento in cui gli aveva fatto intendere d’essere pronta a tutto e lui l’aveva invitata a non scendere così in basso. Era stato sottilmente crudele, era stato spietato, senza che lei potesse aspettarselo… si domandò se avrebbe avuto il coraggio di guardarlo ancora in faccia, di sopportare il suo disprezzo… perché quella reazione era stata proprio di disprezzo! Sbuffò esausta, si stava stancando, ma doveva resistere. Fu ancora Lisette a distrarla dalle sue riflessioni. - Ci sarete anche voi alla festa? – le chiese a bruciapelo. Lei la fissò inespressiva. - Il duca non vi ha invitata? - insistette gelandole le vene. - Perché avrebbe dovuto? – sbottò. - Siete così amici… - sorrise con complicità. - Non posso rompere il mio lutto – tagliò corto. - Siete davvero una vedova allora – approfittò per saperne di più. - La gente deve continuare a crederlo, Lisette.. ma il mio lutto ha radici molto profonde – ribattè oscura come sempre e perentoria nelle decisioni pesanti. La serva non ritenne opportuno scavare oltre e se ne tornò alle proprie faccende. Dentro di sé, molto in fondo all’animo nero che si ritrovava, immaginò e poi desiderò di poter partecipare ad un ricevimento. Non ricordava di avervi mai preso parte, suo padre non era mai stato un tipo mondano ed aveva sempre evitato le inezie del suo rango. Com’era cambiato… dovette ammetterlo. Poi socchiuse lo sguardo e si vide al fianco di Stolfo, così diverso da lei, quasi la sua antitesi. Si lasciò trasportare dalla fantasia, non era avvezza a questo genere di cose ma non si frenò e si addormentò così, con un lieve sorriso sulle labbra rilassate ed il cuore in subbuglio, con le emozioni del sentimento da sempre nascosto anche a se stessa e con un sottile dolore dovuto all’alterco avuto con il bandito.


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CAPITOLO VIII

- Madame Bois sarà nostra ospite? – verificò Nora davanti all’espressione corrucciata del padrone. Non sembrava felice, eppure lei aveva giurato che ne fosse innamorato. Ricordava la sua euforia quando gli aveva fatto sapere che lo stava attendendo nel salottino durante l’ultima festa tenuta a palazzo. - Voglio che lei e la sua serva siano trattate nel migliore dei modi, che non manchi loro niente e che ogni richiesta venga esaudita – precisò inutilmente perché Nora sapeva come comportarsi con gli ospiti. - Non mi avete mai parlato di questa vostra amica – azzardò, ricevendo uno sguardaccio che resse per poter soddisfare la propria curiosità. - Non c’è nulla da dire su madame Bois, Nora… – sbottò infastidito. - E’ una donna così misteriosa, sempre con quel velo nero sul viso… se accetta la vostra ospitalità così facilmente, deve unirvi un profondo legame – asserì sospettosa. - E’ vedova, lo hai visto anche tu… ed io le sono stato vicino quando ne ha avuto bisogno, la nostra amicizia è salda e tra noi non esistono debiti di sorta – svelò scoprendosi a parlare di lei con estrema dolcezza, dimentico della rabbia che gliela aveva fatta detestare. - Non trovate che sia triste e malinconica? – non cedette la donna. - Ah, Nora! Hai avuto modo di incontrarla una sola volta e ne stai facendo un dettagliato quanto improbabile ritratto! Neppure io posso dire di sapere com’è realmente madame Bois… non posso soddisfare la tua curiosità e se è triste… considera che è vedova! – rise per rompere la tensione. La serva cadde nella finzione e se ne andò per disporre l’accoglienza delle ospiti che sarebbero giunte in giornata. Il duca rimase solo, davanti alla finestra, con il sigaro tra le dita a fare un gran fumo. Era una giornata uggiosa, presto avrebbe iniziato a piovere e l’ultima neve avrebbe subito un altro attacco, atto a scioglierla per dare il passo definitivo alla primavera. L’atmosfera lugubre gli diede uno scoraggiamento improvviso. Non aveva voglia di battute, di lazzi e di celie;


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proprio non aveva voglia di ridere, nonostante l’imminente arrivo di Zoraide. Zoraide… non riusciva a togliersi dalla testa il suo comportamento, ad accettare la sua velata offerta legata ai suoi favori! No, non l’avrebbe mai presa in cambio di qualcosa, non era quello che voleva! La tentazione di accettare e di accontentarsi era stata forte, ma il cuore reclamava più giustizia, voleva il sentimento che nella sua vita non aveva mai avuto e mai provato! Perché Zoraide non gli diceva che lo amava? O meglio… perché non accettava di farlo e continuava a lottare contro se stessa? Perché non capiva che non voleva perderla? Perché non capiva niente quell’ottusa senza scrupoli? Lo irritava sentirsi come un giocattolo nelle sue mani; lo faceva andare in bestia rendersi conto di minuto in minto che era legato a lei come un cane al guinzaglio! Un cane! Un cane fedele e scodinzolante… era così che doveva apparire, quando le stava accanto. No! Questo no! Non le avrebbe permesso di andare oltre! Il gioco lo aveva tenuto in mano lei sino a quel momento, ma ora toccava a lui, era il suo turno… e non avrebbe passato, assolutamente! In un attimo ritrovò la propria forza interiore e quasi ringhiò, spegnendo il sigaro nel posacenere d’argento. Propria allora udì il giungere del carro delle due donne e vide la figura tetra di Zoraide scendere, accolta dalla zelante Nora. Strinse lo sguardo feroce e sorrise sottile. - Benvenuta, Eufrasia des Fleuves… benvenuta nel mio castello – sussurrò a se stesso, sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto fare. Esattamente. Lisette non volle cenare con Zoraide ed il duca. Addusse la scusa che si trovava tanto bene con Nora. La padrona comprese che lo faceva per lasciarli soli nella puerile convinzione che tra loro ci fosse del tenero. Pensò come sarebbe stato bello se davvero l’uomo avesse provato per lei un affetto sincero, affetto che lei aveva distrutto con una proposta squallida. Rifletté su un modo per chiarire le cose uscendone pulita mentre scendeva le scale per raggiungerlo nella sala dove l’attendeva come un lupo attende il passaggio della preda. - Spero che tu mi abbia perdonato per non averti ricevuta come un buon padrone di casa – la salutò vedendola. Lei sorrise sarcastica quanto lui e rimase immobile a fissarlo. - Oh! Voi nobili avete sempre un gran da fare… - lo giustificò odiosa e mise l’accento sul suo inganno. - Vedo che capisci – aggiunse indicandole la sedia.


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- Non mi avete ricevuta semplicemente perché ce l’avete con me, duca – non gli risparmiò la prima stilettata della serata. Era insopportabile quando usava la verità per atterrire l’avversario. Tuttavia, Stolfo incassò come si era prefissato di fare. - Per quale oscuro motivo dovrei avercela con te? – finse un candore stonato in lui. - Perché avete frainteso le mie parole ed avete pensato che vi offrissi l’impossibile in cambio di questo nuovo contratto - sorrise senza distogliere gli occhi dai suoi. Ce la fece. Si, riuscì a guardarlo in faccia e lui sostenne la sua sfida con superficiale ironia. - Venire a letto con te non è una cosa impossibile – la abbatté in volo e lei ebbe un sobbalzo. Riuscì a non arrossire. - E io e te non abbiamo nessun contratto in sospeso – proseguì. - Verbale, s’intende – ritrovò se stessa. - Neppure verbale, non ti ho promesso il mio aiuto nel piano che hai in mente – era duro, non dava l’idea di bluffare. Zoraide sogghignò determinata quanto lui. - Mi state ospitando – gli fece notare. - Non farti ingannare dalle apparenze e ricorda che io non faccio mai nulla per nulla – fu poco rassicurante. Lo scrutò sospettosa e la sua sicurezza vacillò. - Ma ti prego… serviti degli antipasti – cambiò discorso porgendole il piatto ricolmo d’affettato italiano. - Non mi piacciono le mezze frasi, duca – si ribellò alla sua superiorità. Lui la guardò con una tale intensità che finalmente, dopo tanto tempo, la costrinse ad abbassare lo sguardo. - Non ho più intenzione di assecondare la tua pazzia – ed appoggiò il piatto accanto a lei. - C’è stato un tempo in cui concordavamo sul fatto che la pazzia è uno stato di grazia – sussurrò quasi affranta. Dio! Nel tuo tono c’era l’ombra del rimpianto… era la prima vittoria che poté ritenere di avere ottenuto. - Era il tempo in cui fingevi di avere perso la ragione mentre in realtà eri lucida ed attenta – ribattè. - Cosa state insinuando? – storse il naso. - Sto insinuando che quella ragione ora l’hai persa davvero, Zoraide. Se così non fosse… non saresti qui e non spenderesti il tuo prezioso tempo a consumare vendette inutili – fu esplicito, aveva deciso di non risparmiarle niente.


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- Mi state offendendo, state mettendo in discussione le mie decisioni senza esserne veramente a conoscenza – si mise in piedi con le mani puntate sul tavolo. - O forse mi state invitando a lasciare la vostra casa? – aggiunse con quel sopraciglio inarcato. Il duca sorrise. - Non lascerai la mia dimora, non te lo permetterò – e continuò a non farsi capire, attentando alla sua calma, determinato a farle perdere le staffe. Passarono alcuni secondi e poi la vide risedersi e servirsi degli antipasti con la massima pacatezza. - Quanto al fatto che io non conosco le tue intenzioni… ti sbagli, come sempre. So esattamente cosa vuoi fare ed il motivo che ti muove. Non puoi ingannarmi, Zoraide… - non le risparmiò neppure questo. Lei non batté ciglio e gli riservò un’occhiata di sufficienza. - Avete solo paura e fate la parte del leone per non farmelo comprendere – asserì tronfia, divertita dalla sua presunta fragilità. Stolfo avrebbe voluto piegarla in quel momento, chiuderle quella bocca che blaterava sentenze più grandi di lei! - Non posso permettermi di avere paura ed ho dovuto imparare a vincerla… le tue conclusioni continuano ad essere sbagliate, ma presto te ne renderai conto da sola e non serviranno parole, credimi – le rispose a denti stretti ed iniziò a mangiare. Rimase perplessa ma non replicò. Cos’aveva in testa? Aveva la sensazione di essere sotto ritiro, di avere puntata addosso una delle sue pistole e ciò che la preoccupava era la notoria mira di Stolfo! Cenò silenziosamente, sino al dessert che gustò, trattandosi di una torta alla vaniglia. Quando terminò, non attese e si alzò per andarsene. L’ostilità dell’uomo l’aveva colta di sorpresa, aveva stupidamente creduto di poterla sopportare, invece era terribile sapere di averlo contro, essere consapevole del fatto che non avrebbe avuto il suo aiuto. Si sentì sola, per la prima volta si sentì sola e sconfortata. - Vi credevo un amico – disse sulla porta. - Ecco un altro errore grossolano, Zoraide! – rise antipatico. Quella risposta la abbatté e quasi fuggì con un magone insensato in gola. Arrivò la sera del ricevimento in un baleno. Il salone del palazzo era stato allestito ed i musicanti avevano preso posto, iniziando a suonare allegri motivi che allettavano i servitori, mentre disponevano gli ultimi dettagli. Nei quattro giorni precedenti Lisette aveva cessato di essere una serva, in realtà era stata trattata come una principessa e Stolfo era stato


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gentile con lei nell’insegnarle i passi di danza. Era una brava allieva e la sua vitalità aveva riempito le grigie giornate di quella settimana. Zoraide non era stata da meno e l’aveva accompagnata nelle migliori sartorie di Rennes; aveva inoltre assistito Nora nelle prove per l’acconciatura dei capelli. Le emozioni della ragazzina erano state forti ed ora era al settimo cielo, davanti alle due donne che la guardavano soddisfatte. Lisette era bellissima. L’abito color lavanda le stava benissimo, sottolineando il pallore della sua pelle e l’azzurro del suo sguardo tremante. Sembrava più nobile delle vere aristocratiche e la grazia dei suoi gesti incantò persino la padrona. Zoraide la osservò invidiandola un po’, desiderando ancora una volta di essere al suo posto, accanto a Stolfo, con il quale dalla sera del suo arrivo aveva parlato appena. Si erano evitati a vicenda, anche se non dimostravano alcun rancore l’uno verso l’altra. E mentre immaginava di stargli accanto, lui entrò. Rimase senza fiato vedendolo, non le era mai successo di sentire una fiammata interiore di quella portata. Era elegante, certo… lui era sempre elegante, ma… quella sera il suo fascino era decisamente più luminoso e partiva dallo sguardo scuro, ombreggiato dalle sopraciglia, vivo d’una luce ferma e sicura, evidenziato dalla carnagione un po’ scura rispetto a lei e dai segni di un tempo che non gli apparteneva. Non era affatto bello. Se lo ripeté per consolarsi del loro distacco, ma… lo era eccome per lei, che solo e soltanto in quel momento si accorse, o ammise, di cogliere in lui qualcosa che andava oltre l’apparenza, che si celava dietro i suoi sorrisi, i suoi gesti, i suoi sguardi e che cancellava l’imperfezione dell’aspetto per dare spazio ad un bagliore che non era possibile contrastare. - Lisette… sei un sogno… ma manca qualcosa – le disse e lei terrorizzata si voltò verso lo specchio con l’ampia gonna a frusciare. L’uomo dischiuse la mano davanti al suo piccolo naso e lo scintillio delle ametiste montate su oro la pietrificò. Scosse il capo atterrita ed il duca non esitò a cingerle il collo con la ricca collana. - Adesso sei perfetta – le sussurrò dolcemente all’orecchio. - Come vedi… il mio padrone è molto generoso! – intervenne Nora un po’ grossolana nel tono. - Troppo generoso, non credo sia il caso di… - prese la palla al balzo Zoraide. - Non vorrai rovinare la sera più bella di questa giovane donna? – la interruppe fissandola duramente. Tacque. Aveva provato un profondo fa-


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stidio per la gentilezza ostentata nei confronti della serva, aveva desiderato, ancora, per l’ennesima volta, di essere al posto di quella ragazzina! - Xavier ti sta aspettando nella sala da pranzo – la informò all’improvviso ed il suo tremore si fece violento. - Di già? – farfugliò. Stolfo annuì paterno. Le diede qualche minuto per prendere coraggio, poi le porse il braccio e si avviarono verso la porta. Tuttavia, Lisette si bloccò e volse lo sguardo alla padrona. - Grazie, mademoiselle Zoraide… devo a voi tutto questo, spero di potere un giorno ricambiare questa felicità – volle dirle turbandola, andando a rivoltare il suo animo nero e a punzecchiare quella parte di lei feroce che la muoveva con uno scopo ben lungi da quello apparente. Non le rispose, si limitò a fare un vago sorrisetto forzato, sotto lo sguardo rigido del duca. I due uscirono e lei rimase sola con Nora. Il frastuono della festa era lontano da Lisette nel momento in cui entrò nella sala da pranzo al braccio di Stolfo e vide Xavier che si voltò di scatto al rumore della porta. I loro occhi s’incontrarono subito e la loro paura di non piacersi a vicenda fu persino tangibile per il duca che si sentì di troppo. Il nobile avanzò verso di lei che fece la stessa cosa arrossendo. - Lisette… ho atteso il vostro arrivo in questa stanza con ansia e vi confesso che ho temuto il peggio – la salutò e le baciò la piccola mano. - Lasciate che vi ringrazi per l’invito, conte… - farfugliò timidamente. Stolfo provò tutto questo divertente e tenero: l’amico era un bambino cresciuto e lei una donna bambina. Che coppia! Si scoprì certo della validità dei loro sentimenti, non se la sentiva di condannare il padre di Eufrasia per quella sbandata perché non era una sbandata, il tremore dei suoi occhi verdi non era una farsa e neppure un gioco crudele su una ragazzina facilmente abbindolabile. - Xavier, il mio nome è Xavier… lo avete dimenticato? – la corresse repentino e lei abbassò gli occhi azzurri. - Sono io che devo ringraziare voi per avere accettato il mio invito e la tua padrona per averti permesso di essere qui – aggiunse frettoloso porgendole il braccio. - Avrete modo di farlo personalmente domani pomeriggio, conte – s’intromise Stolfo fuori luogo ma doveva pur dirglielo che la Vedova aveva accettato di incontrarlo. Xavier lo fissò incredulo.


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- Siete dunque riuscito laddove tutti falliscono? – gli chiese ironico. Era così contento che nulla avrebbe potuto rovinare quei momenti. - Non vi ho mai negato il mio aiuto e non vi ho mai detto che non sarei riuscito a farvi ottenere un incontro – affermò fiero di sé con un’aria infallibile, quella che sapeva incantare le donne. - Vi ringrazio, duca… - Lasciate correre! Credo che per questa sera abbiate ringraziato abbastanza! Avanti! La vostra serata è già iniziata… vedete di divertirvi e ricordate che dopo questo trastullo il dovere di deputato del Terzo Stato vi attende – gli diede una pacca sulla spalla e l’altro sorrise, portando con sé la serva che ammutolita li osservava. Erano così grandi vicino a lei, due uomini che potevano avere l’età di suo padre. Li trovò simpatici, nonostante la loro nobiltà, anche se in Xavier vedeva qualcosa in più e si chiedeva come mai un duca stesse quasi agli ordini di un conte, di rango inferiore. Concluse che la loro amicizia doveva andare oltre i titoli ed inoltre sapeva dei loro affari e quindi della loro appartenenza e quel ceto aristocratico che si autodefiniva fisiocratico. La comparsa del conte des Fleuves nella grande sala ammutolì i presenti che lo avevano atteso, visto che la festa era in suo onore. Fu inevitabile che ognuno si chiedesse chi fosse la donna che lo accompagnava ed i maligni addussero che doveva trattarsi di una giovane amante che consolava il suo dolore. I più romantici invece erano certi che fosse una ragazzina da lui adottata per lasciarle la sua intera fortuna, perché con la morte di Eufrasia non aveva eredi. Stolfo osservava le reazioni dall’angolo in cui si era messo e sorrideva tra sé, perché nessuno sospettava che fosse l’amore a muoverlo, che dentro quel petto serrato in una fine giacca di seta nera battesse un cuore avvinto. In fondo era l’unico che avrebbe messo la mano sul fuoco per quei due. - Il conte des Fleuves non smetterà mai di sorprendermi, duca Rues – lo interruppe qualcuno. Era il marchese Saux, quello che sostanzialmente aveva dato il via alla sua idea di acquistare la ‘Belle’ con tutto ciò che ne era seguito. - E mi sorprendete anche voi – aggiunse il nobile. - Acquistando quella nave avete salvato i miei affari ed avete reso il viaggio in Polonia sicuro… perché non c’è uomo più perspicace di Xavier, credetemi! Ma come avete fatto a snidarlo? – stava intraprendendo una conversazione e Stolfo l’accettò di buon grado. Se avesse tenuto compagnia al marchese, padre di due maschi, non avrebbe dovuto affron-


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tare il solito attacco delle madri che gli offrivano le loro figlie su piatti d’argento. Abitualmente quel gioco lo divertiva, ma quella sera aveva altro per la testa e non lo avrebbe sopportato. - E’ una questione di diplomazia, marchese… e poi io sono noto per vincere laddove chiunque fallirebbe – ridacchiò. - Spero non siate famoso anche per perdere laddove chiunque vincerebbe – lo schernì. - Sempre in vena di scherzi, marchese Saux – incassò la battuta. Intanto il conte e Lisette avevano iniziato a ballare con le dame che li fissavano sospettose. Ma erano in un altro mondo ed era evidente. Si guardavano dolcemente e teneramente, si parlavano senza una parola e si capivano, nonostante la loro assoluta diversità. - Sembrate un angelo – le disse dandole un’ennesima scossa. Arrossì. Ormai lei stessa si era rassegnata a quella reazione ingovernabile. - Siete troppo buono, Xavier – balbettò e lui la strinse più forte mentre il suo piccolo cuore le andò alla testa. - Il duca ha detto che domani incontrerete la mia padrona… cosa le direte? – voleva saperlo, non ce la faceva a restare all’oscuro di tutto. - Che vi amo – dichiarò senza che potesse prevederlo, senza che anche la sua sfrenata fantasia glielo avesse suggerito. Sgranò gli occhi e deglutì, tale fu il colpo che il suo colorito non subì variazioni. - Cosa dite? – ebbe un filo di voce. - Ma prima di dirle che vi amo… voglio sapere se anche voi provate lo stesso sentimento nei miei confronti – la mise davanti all’obbligo di dargli una risposta e di farlo subito. - Come potete amarmi? Io sono… - prese tempo. - … più giovane? Certo… potreste essere mia figlia ma non la siete – la interruppe veloce, con un sorriso suadente e convincente. - Ma voi… domani partirete per Parigi, siete un uomo in vista… - continuava a prendere tempo. - Non sarà domani, bensì dopodomani… ma avrai tutto il tempo per preparati alle nozze che avranno luogo al mio ritorno, Lisette… sempre che tu voglia sposarmi – aveva la soluzione per tutto e lei tremò come una foglia. Sposare un conte? Diventare contessa? A sedici anni? Beh, presto ne avrebbe compiuti diciassette… forse era più grande di quanto non si sentisse. - Sposarvi? – aveva il labbro inferiore in fermento. Lui annuì con il capo.


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- Si… mi piacerebbe sposarvi – finalmente accettò e la felicità dell’uomo si manifestò con un volteggio che la fece volare. Stolfo, pur essendo distante, si rese conto dell’importanza del momento e pensò a Zoraide ed alle sue intenzioni, a quello che avrebbe potuto fare ad entrambi se lui non fosse riuscito a fermarla. Strinse le mascelle con decisione. In quel momento Zoraide stava giovando a carte con Nora al piano superiore. La vecchia serva si arrabbiava continuamente, perché veniva battuta con facilità. Il rumore della festa entrava nel cuore della Vedova. - Siete una professionista, madame Zoraide! Non è possibile che la spuntiate sempre! – esclamò ad un certo punto. Lei alzò gli occhi neri. Una professionista. Certo, una professionista della sopravvivenza… era stata costretta ad imparare quello che stava mettendo in pratica, come avrebbe vissuto altrimenti? Trovò tutto questo molto triste e si guardò dentro con una sorta d’assurdo disprezzo. Cos’era diventata? Una giocatrice d’azzardo, una contrabbandiera d’armi, un’assassina a sangue freddo… lei, la figlia del conte Xavier des Fleuves di Saint-Malo, lo stesso che in quell’istante stava realizzando un sogno, mentre i suoi erano schiantati al suolo tanto tempo prima. La festa era durata sino all’alba, Zoraide si era ritirata verso le due dopo aver fatto saltare i nervi di Nora. Si svegliò dopo l’ora di pranzo e fu la fame a farla alzare. Sul comò c’era un vassoio. Si era rifiutata di mangiare con Stolfo dall’ultimo insopportabile alterco. Mise uno dei suoi abiti neri, si pettinò e si truccò. Poi mangiò silenziosamente. Notò il vestito di Lisette riposto sulla sedia e si accorse della sua assenza. Terminò alla svelta, alle cinque avrebbe dovuto incontrare il conte. Frenetica si preparò, indossando un cappello nero piumato con una spessa veletta a celarle il volto. Infilò i guanti, le sue unghie lunghe sarebbero potute essere un inconfutabile segno che avrebbe potuto insospettire il padre. Si guardò allo specchio lungamente, si avvicinò al riflesso per verificare ogni possibile rischio ed infine si ritenne soddisfatta. Era tardissimo! Si voltò ma la sua fretta venne frenata ed il ghiaccio le entrò dentro. Stolfo era nella stanza, appoggiato allo stipite della porta, le mani incrociate al petto, lo sguardo fermo, fisso, per nulla ironico o baldanzoso. Non era l’amico di sempre. Indossava ancora l’abito della sera prima che gli dava un aspetto regale cancellando la bassezza delle sue vere origini. Non si mosse.


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- Lasciatemi uscire – sibilò. Stolfo inarcò le sopraciglia e le riservò un compatimento insopportabile. Con un gesto veloce chiuse la serratura e gettò la chiave distante che si perse sotto un tappeto ai piedi del letto. - E dove vorresti andare? – sorrise freddamente. - Ho un appuntamento al quale non posso mancare – continuò a sibilare come un serpente alle strette prima del morso letale. Il duca fece un passo verso di lei. - Cosa avete architettato? – - Un piano più perfetto del tuo, mia cara Eufrasia – le ripose e lei sobbalzò guardandosi intorno. - Non pronunciate mai quel nome, come devo ripetervelo? – lo zittì. Lui rise di gusto. - Siamo soli, Eufrasia des Fleuves… la servitù è tutta fuori, una giornata di riposo, un vero regalo per dei poveracci che passano la vita lavorando e Lisette… lei è indaffarata a visitare la città con Nora – ed il suo tono fu minaccioso. - …e la porta è chiusa – aggiunse strisciante. Zoraide indietreggiò atterrita, pallida per il cattivo presentimento che sentì dentro. Cosa voleva da lei? Per un attimo le parve uno sconosciuto, ebbe la certezza di non conoscerlo, si sentì piccolissima e si rese conto della capacità del bandito di farsi superiore. Che sciocca era stata! Aveva creduto di poter manovrare un uomo che conosceva il mondo e le sue nefandezze! Davvero ingenua! - Qualsiasi cosa abbiate in mente, Stolfo… vedete di ricredervi perché neppure la nostra amicizia potrà salvarvi – fu patetica, dimentica del piano più perfetto del suo. - Non ricordo di esserti mai stato amico… o forse lo hai creduto possibile? Sono un bandito, un assassino, un truffatore, la vita altrui non ha alcun peso per me… lo hai dimenticato facilmente - era antipatico. Lei socchiuse la bocca in un’espressione di mesta sorpresa. - Cosa dite? – farfugliò trasformandosi in un cucciolo fragile ed indifeso. Indietreggiò ancora. - La verità… che tu non puoi distorcere questa volta – sorrideva mentre la feriva. Era sempre stata certa della sua fedeltà, del suo affetto, i loro rapporti erano sempre stati sospesi tra il serio ed il faceto e questo l’aveva indotta a fidarsi di lui e lui… si era divertito con lei? No, non Stolfo! No… - L’errore è stato mio, questo te lo concedo. Ho sbagliato il giorno in cui ho accettato di ucciderti e rovinare così la tua vita, ho sbagliato a soddi-


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sfare il tuo desiderio di distruggere Aldo… ma non sbaglierò permettendoti di infrangere la vita di tuo padre, un amico che mi ha risparmiato da morte certa, che tace la mia identità, che mi rispetta per quello che dimostro d’essere e non per ciò che un titolo mi concede a priori – sproloquiò. Lei alzò la veletta, giusto per fargli capire che non lo temeva. - Ma tu guarda… sono la figlia di un eroe… - lo schernì. Ma non lo voleva più ascoltare, tra loro si era rotto qualcosa. Era inutile continuare quel discorso e si avviò verso il tappeto sotto il quale aveva visto scivolare la chiave. Voleva uscire dalla stanza e non sapeva neppure dove sarebbe andata. Non voleva essere sua ospite, lo avrebbe davvero cancellato dalla testa e… dal cuore? Scosse il capo a quel pensiero fastidioso e gli diede la schiena con un’aria di sufficienza che lo irritò. - C’è un’ultima cosa che dovresti conoscere, Eufrasia… - le disse e lei non s’interessò e fece per chinarsi in cerca della chiave. Non riuscì a piegarsi, non fece in tempo a reagire, non si accorse neppure dello scatto dell’uomo che le afferrò un braccio con una forza che non aveva mai esercitato su di lei e la rivoltò verso di sé senza grazia per guardarla in faccia: gli occhi di un lupo feroce ad entrarle dentro con una violenza che la scosse tutta, che la scaldò e poi la raffreddò con l’alito del terrore. Sgranò gli occhi e rimase senza fiato. - Una cosa che non hai mai avuto occasione di conoscere – sibilò rabbioso, il comportamento della giovane lo aveva definitivamente esasperato. Quella sua freddezza assoluta, quel suo saldo orgoglio lo avevano davvero seccato. Era giunto il momento di pensare a lei dimenticando Lisette, Xavier, il proprio nome fittizio e quello falso della donna che stringeva con la veemenza di un uomo, quello che prima di tutto era. La prese in un bacio che la fece rantolare ed oscillarono insieme nell’abbraccio che la mise in trappola. Nella profondità di quel contatto quasi volgare si mosse in un’inutile ribellione e la stretta di Stolfo fu ancora più ferrea, dal suo animo nero riemerse quella parte maschile che per tanto tempo aveva tenuto a bada, mascherandosi da baldanzoso nobile fasullo. Ma in quella stanza serrata non c’era il duca Stolfo Rues adesso e neppure Zoraide Bois; c’erano loro, solo loro e la loro verità nascosta, i loro animi in fermento, la loro meschinità. Quasi la morse ma non le fece male nel distacco delle loro bocche e continuò a fissarla senza temere d’essere respinto. Quel cuore fermo era deciso a spaccarlo in due ed allora avrebbe conosciuto la vera Eufrasia, donna sino al tremito dei sensi.


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- Non potrai sfuggirlo per sempre… - le ringhiò in faccia e lei riprese faticosamente il controllo di sé, le labbra scottate da lui. - Io posso fuggire sino alla morte se lo voglio, Stolfo – lo sfidò senza scampo eppure armata sino ai denti di parole e sentenze. - Venanzio, il mio nome è Venanzio… o forse la cosa ti disturba? – – Cosa volete dimostrare? Che siete il più forte? Fatelo – non cedette. Venanzio la osservò e sorrise appena. Con un gesto sempre imprevedibile come ogni cosa in quegli ultimi minuti, la gettò sul letto e le fu addosso in un baleno. - Troppo facile provocarmi senza conseguenze, Eufrasia – le sussurrò puntandole le braccia per evitare schiaffi e graffi, anche se aveva le mani guantate. - Degno di voi e di quello che siete – sbuffò rigida, un’amazzone incrollabile. Venanzio si fermò, non era possibile piegarla dentro e si sentì fragile ma ritrovò alla svelta se stesso e decise di giocare la carta che non avrebbe voluto. - Troppo facile giocare con l’amore, Eufrasia… - le disse e finalmente in estremo e scorse in lei una reazione diversa. - Di cosa pensate di poter parlare? – ma tremò e questo gli bastò. - Del mio amore per te – confessò come se stesse bestemmiando, come se la stesse insultando, come se la stesse accusando di averlo fatto innamorare. Eufrasia rimase ferma, allentò i muscoli sotto il peso dell’uomo e deglutì a causa del respiro affannato. Non rispose e specialmente non ribattè più. Rimase zitta, sostenne per un attimo i suoi occhiacci di fuoco e poi, esausta, gli diede il profilo sul letto morbido e profumato che il duca aveva voluto per lei. L’amava? Eppure più volte glielo aveva fatto intendere e lei… lei non aveva mai voluto comprendere, con voli alti per non soffermarsi a riflettere. L’amava? Si sentì confusa e non avere tempo per mettere ordine nei pensieri la agitò ed infine la sconfisse. Lo aveva addosso, sentiva il suo desiderio, il suo respiro, il suo calore. Lo aveva addosso e si accorse di averlo desiderato per tanto tempo e di avervi sempre rinunciato. Lo aveva addosso con rabbia e delusione e lei non sapeva cosa fare, cosa dire, qualsiasi parola sarebbe stata deleteria, qualsiasi azione sarebbe stata fraintesa. Lo aveva addosso e non ebbe il coraggio di guardarlo ancora, si sentì perduta eppure giunta ad un capolinea che non era terribile, bensì allettante ed invitante. Lo aveva addosso… e conoscendolo, presto si sarebbe allontanato. Sospirò e chiuse gli occhi misera, sola e smarrita, vin-


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ta ed abbacinata da… dall’amore? Dell’amore aveva parlato Venanzio e lei non aveva colto il risvolto tragico della sua disperazione. L’amore… quello che provava anche lei? Ma era amore? Lei, Eufrasia, poteva amare? Ne era capace? Non ricordò le sensazioni di quei momenti, era la prima volta che aveva addosso un uomo , che un uomo la emozionava così, da credere d’essere sul punto di svenire. Sentiva gli occhi di Venanzio piantati sul volto, sentiva il suo respiro che tornava ad un ritmo decente, il suo languore riversarsi sul collo e poi invadere tutto il corpo che fremette. - State… solo scherzando… - sussurrò e sembrò una bambina, l’esatta antitesi di ciò che era veramente. - Hai infranto il mio animo, Eufrasia… e non mi diverte – la contraddisse. - Non vi ho fatto nulla… non vi ho mai tradito e voi non lo avete mai fatto con me – polemizzò flebile a caccia di un tempo scaduto. - Avresti potuto – la imboccò ma non le strappò uno sguardo. Sollevò le mani dalle sue braccia e si appoggiò accanto ai suoi fianchi, senza che lei, libera, si divincolasse. - Vi ho minacciato, ma non avrei mai mosso contro di voi – Ammettere la debolezza fu per lei un’impresa titanica e Venanzio attese. - Non m’importava se voi… io non lo avrei mai fatto e non lo farò – aggiunse titubante nel pronunciare parole profonde. Venanzio non tolse l’assedio, le era sempre addosso e percepiva il battito impazzito del cuore che stava per spaccarsi in due in un’esplosione che sarebbe stata colossale. - Non lo sapevo, non potevo saperlo… - e lo scintillio di una lacrima lo scosse. Eufrasia stava piangendo, un pianto secco e minimo, ma stava piangendo. Con gli occhi lucidi come specchi finalmente lo guardò e non crollò davanti al suo fuoco, alla sua intenzione ormai imminente di fare di lei ciò che avrebbe voluto. - Non lo sapevo, non potevo saperlo… - ripeté spasmodica. Lui non l’aiutò. - Non lo potevo sapere che voi mi… – e le era gravoso pronunciare quella parola. - Ti amo – fu magnanimo e un tremito li fece vibrare entrambi. - Non lo sapevo, non lo potevo sapere – non era in sé, era sconnessa. Gli fece tenerezza, si sedette sul ciglio del letto, la prese tra le braccia e la strinse in un abbraccio che lenì il suo spavento.


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- Sbagli, come sempre… - fu ironico, ma non troppo. - Non vi siete fatto capire, non potevo immaginare che voi… - insistette. Si lasciò cullare come una bimba e godette di un’attenzione assoluta che per anni aveva desiderato senza riceverla mai perché lei… era sempre così forte, così determinata, apparentemente distante, quindi capace di bastarsi. No, nessuno le aveva mai dato la tenerezza che Venanzio invece era disposto a donarle. - Neppure tu ti sei fatta capire – tentò di sviare il discorso su un altro percorso, avrebbe ripetuto le stesse parole all’infinto. - Sbagliate, come sempre… - riuscì ad essere anche lei ironica. - Non ti sei mai fatta capire… - le fece il verso. Eufrasia lo cercò e scosse il capo frenetica. - Non lo so da quando vi amo – e il cuore di Venanzio si colmò di una felicità che scintillò nei suoi occhi nerissimi, discordante con il suo essere ruvido. - Da molto tempo… – la provocò. - Dal giorno del mio matrimonio? – cercò in lui una risposta e lo fece sorridere. - Si… può darsi – - E’ tanto tempo… sembrano secoli – - Pochi mesi – - Secoli… - sbuffò e riparò sul suo petto, trovandosi ad osservare i diamanti dei bottoni dell’abito che indossava. Ne sfiorò uno, lo liberò dell’asola e Venanzio la cercò per guardarla interrogativo. - Diamanti… - disse senza senso. La mano di Eufrasia giocò con il bottone e inavvertitamente scivolò all’interno della camicia toccando la pelle del bandito. Lui la fermò e piano la privò del guanto che portava per gettarlo in terra. Percepì allora le sue unghie inciampare sui muscoli del petto. - Facile provocare senza conseguenze… - la riprese senza convinzione e lei ritrasse la mano. - Davvero vi do emozione? – chiese sparuta e l’uomo ebbe il dubbio che stesse fingendo tanta insolita dolcezza e tanto languore, due cose distanti da lei. Non rispose, il desiderio a sconvolgerlo. - Non capisco… Venanzio… - si lamentò. - Sto male… ho caldo… e non capisco perché voi siete così… – sparlava, il sangue alla testa le stava dando strane sensazioni. La fece sdraiare


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e controllò che non stesse per svenire. Fece per allontanarsi, ma Eufrasia lo trattenne con un tocco lieve al braccio. - Non andate via… non ora… - lo supplicò e rimase immoto. - Vi prego – sospirò e volse la testa altrove. - Non è dolore ciò che dovresti provare – le fece notare. - Non sento dolore… no… - ed era persa in una dimensione che lui non poteva vedere. Smise di piangere e sorrise bellissima in una corsa della mente segreta. - Vi amo… posso dirlo? – si preoccupò all’improvviso e lo guardò. - Se… insisti… - sorrise divertito, ma era teso. - Si, vi amo… perché no? – parlava con se stessa. Venanzio fece spallucce ilare. - E voi? – fu sciocca. - Anch’io… te l’ho detto - tornò serio ed attento. - Sono felice… può essere? – lo interrogava con domande stupide e lui si sentiva stupido a stare al gioco. Si chinò su di lei e si avvicinò al suo orecchio. - Considerando chi sono ed il mio fascino… può essere, Eufrasia – le sussurrò tra il serio ed il faceto. Le mani di Eufrasia gli sfiorarono le guance ispide e la mano guantata gli diede un po’ fastidio. Veloce lei la liberò e lo accarezzò ancora. Poi gli rubò un bacio e lui non si tirò indietro a quell’invito unico. Si baciarono e lo fecero per interminabili minuti, il braccio di Venanzio l’avvolse e quando percepì la sua intenzione di sbottonarle l’abito dietro la schiena lo lasciò fare, lento, inesorabile. Lo lasciò fare e respirò quando il vestito scese sino alla vita e liberò il petto florido nel quale lui immerse il viso caldissimo, il respiro incandescente. Eufrasia cercò gli altri bottoni di diamante e li aprì uno ad uno, veloce e poi titubante, inesperta in merito. Riuscì a liberare il torace dell’uomo ed a percepirne il calore sul seno che si scaldò ancora, pressato dal cuore che si era spaccato in due lasciando uscire un fiume di lava che la invadeva e che aggrediva anche lui. Si confusero tra le lenzuola volutamente di seta e non si chiesero se era giusto o sbagliato ciò che si stavano concedendo. Si amarono senza fermarsi, guardandosi negli occhi alla luce tremula delle candele che si stavano esaurendo, con l’atmosfera tenue esterna ad andare verso la sera. Si amarono e lo fecero con il trasporto che entrambi non frenarono, con la passione che avevano sognato e lui più di lei, consapevole di cosa significasse fare l’amore con una donna e desideroso di scoprila esattamente come si stava rivelando, viva. Si la-


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sciarono trasportare dalle emozioni e poi dalle illusioni, tutto divenne possibile, mentre le mani, le gambe, le labbra ballavano una danza irrefrenabile e trascinante. Si baciarono e si guardarono, avrebbero voluto parlare, ma non ebbero una parola che fosse degna cornice della loro passione senza giustizia e senza logica. Si amarono e lo avrebbero fatto per sempre, di questo erano certi. Avrebbero ancora ingannato oppure no… ma non si sarebbero più lasciati e la gioia che sentivano crescere dentro annullava la loro nefandezza, faceva credere davvero che ogni cosa sarebbe potuta andare al suo posto. Fu una lunga giornata per entrambi, un rincorrersi e un trovarsi senza fine. Volarono, lo fecero insieme e poi uno nelle braccia dell'altro, raggiunsero il paradiso e tornarono in un planare a raso terra da brivido e nei brividi pericolosi della passione estrema furono felici. Si rannicchiarono in un abbraccio tra le lenzuola morbide e calde del loro improvviso, o forse no, amore. Sospirarono in una sincronia insperata e rimasero in silenzio con il buio esterno a fare da padrone anche lì dentro e le candele terminate a sbuffare con un filo di fumo in un saluto malinconico. Eufrasia aprì gli occhi ed osservò la luce dell’alba senza muoversi. Respirò piano, come se temesse di dimenticare ciò che aveva sognato. Sorrise appena e si stiracchiò, accorgendosi d’essere nuda sotto le lenzuola. Un leggero discernimento la fece arrossire e corse con gli occhi nella stanza semibuia e fredda. Si rannicchiò e rimase immobile, avrebbe voluto restare così per sempre, sospesa nel tempo che presto avrebbe ricominciato a passare e l’avrebbe risucchiata nella realtà che c’era dietro la porta ancora serrata. Inavvertitamente sfiorò l’uomo accanto a sé. Sentì il sangue gelarsi nelle vene. Stolfo era appoggiato sui cuscini sovrapposti, con il bacino coperto e le gambe flesse. Era la prima volta che lo osservava, durante la loro passione non si era soffermata sui particolari del suo corpo, intenta a comprendere le reazioni del proprio. Notò dei vecchi segni alle ginocchia, uno sfregio lieve che attraversava il torace e una profonda cicatrice nell’incavo della spalla, probabilmente il risultato di una ferita da arma da fuoco. Era segnato dalla vita. Poi guardò il suo profilo, la barba incolta, il naso dritto e gli occhi corrucciati, poco raccomandabili eppure affascinanti, fiammeggianti, pericolosi quanto allettanti. Non ebbe il coraggio di rompere il silenzio e fu lui a farlo.


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- Stai approfittando della situazione – le disse e non ricevette alcuna risposta, semplicemente la vide con la coda dell’occhio voltarsi verso la finestra. - Non sei mai riuscita a guardarmi per più di qualche secondo… - la prese in giro. - Non è vero – si difese flebile ed un magone le salì alla gola senza che riuscisse ad evitarlo. - Dopo quello che ho sentito stanotte… non credo di potermi più sbagliare con te – affermò soddisfatto e lei colse un tono tronfio ed offensivo nella sua voce. - Potrei dire la stessa cosa – si difese, ancora schiava dell’orgoglio che la raffreddava facilmente. - Fallo… ma rischieresti di mentire – la provocò e si avvicinò con un abbraccio che la colse alle spalle e la fece ancora tremare. Si sentiva stranita, priva di forze, se si fosse alzata probabilmente le gambe non avrebbero retto ed il desiderio di dormire la fece sentire facile preda. - Stanotte non avete sentito nulla… - parve lamentarsi e tentò invano di allontanarlo da sé. - Non hai parlato molto… è vero – le sussurrò all’orecchio e senti il calore della vergogna scaldarla. - Vi state divertendo… - … e tu non lo sopporti – la schernì e si alzò, liberandola di un assedio che non sarebbe stata in grado di reggere a lungo, lo sapeva. S’infilò i pantaloni e si sedette a gambe accavallate sulla sedia accanto alla finestra per accendersi uno dei suoi sigari pestilenziali. Eufrasia lo seguì con gli occhi dal cuscino ove rimase sprofondata e continuò a contemplarlo. Stolfo fumava silenzioso, pensieroso e di tanto in tanto guardava oltre i vetri. - I segni sulla vostra pelle… - lo vegliò da chissà quali riflessioni. - Ferite di guerra – rispose distratto. - Quale guerra? – sorrise scettica. - Quella della vita… - la esaudì scontato ed Eufrasia annuì sconsolata. Sospirò ed attirò la sua attenzione. - Perché avete voluto farmi questo? – finalmente chiese con un tono terribile che lo turbò e lo adombrò. - Farti cosa? – non voleva farsi fragile, la sapeva capace di rinascere dalle proprie ceneri. Lei scosse il capo imbarazzata e gli diede il profilo che lui percorse.


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- Non sono solito mentire in certi momenti… - sbottò. L’alba di un altro giorno uggioso stentava ad alluminarsi. - Perché? – insistette. - Vuoi che te lo ripeta? – la tormentò e lei non rispose. - Perché ti amo… e l’unico modo per fermarti era… - e sbuffò esasperato da quel terzo grado. Si alzò e cercò la chiave sotto il tappeto. Raggiunse la porta e l’aprì rumorosamente, facendola sussultare. - Non andate via – lo richiamò con un sussurro e Stolfo si bloccò. - Non lasciatemi sola – lo implorò a distanza senza degnarlo di uno guardo. - Avete vinto… ma non lasciatemi sola, non ora – aggiunse e percepì nella sua voce bassa il languore di un pianto trattenuto. Era la seconda volta che gli chiedeva di restare, non riusciva a fare a meno di lui e questo lo inorgoglì. - La mia non era una sfida – la riprese duramente. - Ma avete vinto egualmente – e a quel punto il bandito si sedette accanto a lei e la girò verso di sé delicato, con il viso offeso. - Non ho vinto nulla se una sola lacrima scenderà dai tuoi occhi, Eufrasia… - e lei serrò la gola. - Ti ho aperto il cuore in due, si… ed ho visto quello che c’è dentro e… sorrise inaspettato. - … e neppure tu sai cosa ti scuote dentro, neppure tu sai quale amore custodisci nell’animo e quale dolore sei disposta a pagare per non ferire oltre, per non uccidere più – fu oscuro, tanto che lei si sedette, stringendo le lenzuola al seno in cerca di una spiegazione. - Non avresti fatto nulla per distruggere il sogno di tuo padre e la vita dorata di Lisette, non avresti mosso contro di loro, non avresti mietuto alcuna vendetta… - la sbaragliò e lei tentò invano di riacquistare il proprio sguardo di ferro. Le passò una mano sugli occhi come a scacciare l’ultimo brandello di ferocia. - Me lo hai fatto credere ed io l’ho voluto credere, ma… l’unica volta che hai ucciso è stato per salvarmi la vita – svelò ed Eufrasia non ribattè, si sentì stranamente sollevata senza comprendere di quale peso era riuscita a liberarsi. - Sapete bene chi sono – cercò di dissuaderlo e Stolfo non trattenne uno sbuffo ironico. - Si… certamente –


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Si diresse verso uno degli armadi per gettare sul letto un abito blu. Lei lo scrutò astiosa. - La servitù tornerà solo nel pomeriggio… vorrei che indossassi questo almeno mentre faremo colazione, visto che dovrò sopportarti ancora per molto tempo con i tuoi abiti a lutto – fu ironico ed Eufrasia alzò un sopraciglio poco convinta. - Valorizza i tuoi occhi – le disse ed uscì, certo di essere raggiunto nella sala da lì a poco. Gli fece il verso, poi si lasciò cadere sul letto e respirò a pieni polmoni. Tutto era complicato ma si sentiva felice, come la sera prima, quando gli aveva detto di amarlo anche lei. Si sentiva felice e quella gioia sarebbe durata sino al ritorno della servitù per la quale avrebbe continuato ad essere la Vedova. Si vestì e si sistemò, curando il trucco degli occhi visto che non avrebbe dovuto celare il volto. Era bello sentirsi libera di muoversi, di mostrarsi, poter parlare con Venanzio ed accettare i suoi lazzi con la leggerezza nel cuore. Era bello sentirsi come si sentiva adesso, profondamente donna e desiderosa di mostrare di sé la femminilità che un lutto sapeva stroncare. Quasi volò giù dalle scale e lo raggiunse nella sala ove lui stesso aveva disposto una magra colazione, con pane raffermo e brioches del giorno prima. Non le importava molto, non aveva fame ed il latte era tiepido. Quando l’uomo la vide sulla porta con un colore a ravvivare il suo aspetto, ne rimase incantato e non esitò a baciarle la mano con la delicatezza del rango cui fingeva di appartenere. Eufrasia era euforica e ritrasse la mano con stizza. - Non è questo il bacio che vorrei ricevere, duca – lo schernì con un musetto a renderla simpatica, a cancellare il buio della sua vita. Venanzio sorrise magnanimo e la strinse come la sera prima, la baciò con la stessa profondità che le aveva tolto il fiato. La sentì respirare, attingere la vita da lui, aggrapparsi al suo corpo come se stesse per morire ed invece era viva, fremente e desiderosa. - Non credo sia opportuno che io ti… - interruppe la sua veemenza ed Eufrasia non lo contraddisse, ancora impacciata e timorosa di essere fraintesa. - Siete sempre malizioso, duca… e capite ciò che volete senza che sia mai la realtà – si difese bonaria e raggiunse il tavolo per osservare la colazione male disposta. Anche lui si sedette ed osservò la gioia che presto sarebbe tornata nella gabbia di Zoraide Bois. Sorseggiarono del latte e


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mangiarono le brioches rafferme. Poi Eufrasia si fece pensierosa e lo fissò. Lui tremò, ma era pronto a tutto. - Voglio sapere – affermò e lui fu pronto a darle tutte le spiegazioni necessarie. L’aveva sostituita. All’appuntamento con il padre ci era andata un’altra donna addestrata a fare e dire ciò che avrebbe fatto e detto la padrona di Lisette. Aveva pagato poche livres alla prima che aveva accettato quell’incarico, certamente meno gravoso che prostituirsi per l’ennesima volta. Venanzio aveva temuto per lei, non glielo nascose e la turbò, quando le raccontò dei dubbi del padre, del fatto che il cadavere trovato non aveva le unghie lunghe che era solita portare e che il conte lo aveva notato. Rimase basita sapendo che Xavier aveva accettato l’amicizia di un falso nobile dopo averlo smascherato, esattamente come aveva fatto lei la sera in cui lo aveva salvato. Le cose dunque non erano proprio come sembravano, lentamente il bandolo della matassa poteva essere trovato e correre ai ripari era d’obbligo. Mangiò un’altra brioches e pensò lungamente. - Cosa pensate sia meglio fare? – chiese dopo un po’ senza avere trovato una soluzione. Venanzio si accese un altro sigaro e osservò i legni disposti nel camino prendere fuoco. - Non lo so… ma non voglio perderti – rispose sovrapensiero ed Eufrasia lo raggiunse per cingergli il braccio davanti alle fiamme. Si guardarono senza espressione, due animali braccati, due banditi a rischio di vita, due… e sorrisero, avevano ancora poche ore di libertà, poi lui sarebbe tornato ad essere Stolfo e lei Zoraide.


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CAPITOLO IX

- La mia padrona è partita? – allargò gli occhi Lisette, guardando il duca. - E’ tornata a Nanterre per vendere la casa e sistemare alcune faccende – affermò davanti al latte fumante ed a un paio di brioches calde, niente a che vedere con quelle rafferme della mattina precedente ma molto meno dolci per certi versi. Sorrise insensato agli occhi della serva. La primavera era ormai tiepida in quei giorni di metà aprile, mentre la tensione per la convocazione imminente degli Stati Generali scuoteva la Francia. Stolfo non celava a se stesso una certa preoccupazione nel sapere che Eufrasia era sola a Nanterre, assediata ormai come Versailles dai soldati che controllavano la situazione ed i preparativi. Inoltre, la Capitale era ad un tiro di schioppo e si segnalavano sempre più disordini, il malcontento non strisciava più per le vie putrescenti della città, bensì divampava furibondo in focolai rivoltosi e manifestazioni popolari. Gli Stati Generali erano previsti per i primi di maggio e l’euforia aveva dato il passo alla frenesia per l’arrivo dei deputati delle province, con il conseguente mercato degli alloggi attentamente controllato dagli ufficiali municipali di Versailles. A tutto questo si sommava la fame della massa e la carenza di pane e farina. Sospirò pensandoci e si augurò che il piano che aveva in testa funzionasse. - Tornerà? – gli chiese svegliandolo dai suoi crucci. - Appena possibile – rispose conciso. - Non mi ha detto nulla dell’incontro con Xavier – si lamentò. Lisette non aveva più avuto modo di incontrare nuovamente Zoraide. - Ha incaricato me di farlo – le fece sapere. Lei allora attese che continuasse. - Il conte partirà per Parigi questo pomeriggio, tu e Nora vi trasferirete nel suo palazzo, siamo invitati a pranzo per l’occasione – spiegò. - Nora? – sottolineò sorpresa. Stolfo la fissò in quel modo particolare che la intimorì.


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- Nora si prenderà cura di te, devo un favore a Xavier e poi… io sarò assente per un periodo e posso fare a meno di lei – concluse alzandosi e riponendo il tovagliolo. L’arrivo della vecchia serva fece loro comprendere che era giunta l’ora di avviarsi. La carrozza venne caricata dei bagagli delle due donne e si mosse dopo che i tre passeggeri furono a bordo. Si trovarono al palazzo des Fleuves quasi subito. La servitù era indaffarata per l’imminente partenza del padrone. Lisette vide Xavier nel momento in cui scese, aiutata dalla mano del duca. - Lisette, con tutte queste cose da fare, pare un secolo che non ci vediamo – la salutò il nobile sotto lo sguardo austero di Nora che si sentiva già investita del ruolo di tutrice. - Mi… siete mancato – sussurrò timidamente e Stolfo non trattenne un sorrisetto. - Anche tu… e sarà così anche durante la mia permanenza a Parigi – rispose il conte galante, allettato dalla superiorità che esercitava su una ragazzina di sedici anni. Entrarono e si accomodarono nella sala da pranzo. Anche Nora fu invitata a sedersi con loro e la cosa la imbarazzò un po’. - Il mio palazzo ha bisogno di una governante, Nora… ed il duca è stato estremamente gentile dell’offrirmi i tuoi servigi, visto che mi ha fatto sapere che anche lui è di partenza – le spiegò l’uomo sorridendo accanto alla piccola fidanzata che stringeva le spalle come un animaletto impaurito ed ancora intimidito da lui. - Inoltre, aiuterai la mia futura sposa a conoscere la casa – disse ancora cingendole le braccia e facendola tremare. - Sposa? – farfugliò lei. Lui si dimostrò meravigliato davanti al suo stupore. - Perché credi che ti abbia permesso di abitare qui? – la prese un po’ in giro e lei arrossì. Sentirglielo dire così, davanti a dei testimoni, la mise in agitazione. - Piuttosto, duca Rues… qual’è la vostra destinazione? – cambiò discorso e lui lo guardò teso. - Sconosciuta, conte… ognuno di noi ha dei segreti, non trovate? – sorrise sarcastico e l’altro la prese relativamente bene. - Il nostro duca ama avvolgersi in un alone di mistero, forse è questo il suo fascino! – commentò allegro. Era al settimo cielo, la sua vita era rinata con il giungere di Lisette e con l’impegno di rappresentare il popolo


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e le proprie idee agli Stati Generali. Poi, il viaggio in Polonia gli aveva fatto proprio bene, lo aveva rilassato e gli aveva regalato la giusta rassegnazione per la perdita della figlia. Stolfo pensò cosa sarebbe potuto accadere se avesse scoperto la vera identità di Zoraide. - E madame Zoraide? Mi sorprendo di non vederla con noi – si ricordò della Vedova solo in quel momento. - Sapete bene che anche lei ha degli affari da portare avanti, è tornata a Nanterre per chiudere alcuni conti in sospeso. Si scusa con voi per aver dovuto declinare il vostro invito – fu pronto. - Donna insolita la padrona di Lisette, non credete? – continuava a parlare per tutti. - La vedovanza è una cosa spiacevole, considerando anche che deve essere molto giovane… io ne so qualcosa… - si abbatté, ricordando la morte della moglie e poi quella della figlia. - Non vorrete lasciarvi prendere dallo sconforto proprio adesso, conte? – andò ai ripari Stolfo. - No, assolutamente… piuttosto pensavo a madame Zoraide, una persona amabile, nonostante tutto e… golosa – sogghignò interessando Lisette che lo scrutò. Il duca non colse quella sfumatura e non poté essere abbastanza veloce per evitare ciò che stava per succedere. - Golosa? – sottolineò la ragazzina. Xavier annuì divertito. - Adora il cioccolato, ne ha voluto ben tue tazze. E’ davvero un piacere averla come ospite – disse ilare. Lisette corrucciò le sopraciglia chiare sotto lo sguardo attento di Stolfo. - La mia padrona detesta il cioccolato – dichiarò pensierosa. Il sangue del falso nobile andò alla testa e poi scese in fondo ai piedi. - Non direi – rise il conte e poi anch’egli sbiancò. Dio! Che guaio! - Deve avere fatto molta fatica per non offendervi, il cioccolato la mette in agitazione. Lo so perché una volta io stessa ho cucinato per lei dei… spiegò candida. Un bicchiere di cristallo cadde a terra e distrasse tutti. Stolfo aveva prontamente creato una situazione che impedisse a Lisette di continuare. Accidenti ad Eufrasia! Non aveva mai saputo che odiasse il cioccolato e la donna che l’aveva sostituita evidentemente ne andava matta. - Duca… avete intenzione di infrangere tutto il mio servizio o vi limiterete ad un solo bicchiere? – lo schernì il padrone di casa. Lui sorrise impacciato.


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- La mia allergia, conte… stavo inavvertitamente per sorseggiare il vostro buon vino… - si giustificò. - Certo, l’allergia… ci sono un’infinità di allergie al mondo, lo sapevate? Anche quella per il cioccolato… - parlò lentamente. Un pensiero gli attraversava la mente, un pensiero funesto a giudicare dal colore che assunse il suo volto. A salvare il salvabile fu l’arrivo della prima portata e l’insistenza del conte perché Lisette mangiasse un po’ di più. Stolfo si sforzò allo stremo di parlare, qualsiasi argomento andava bene, niente escluso, cominciando con asserzioni inique sul tempo sino a volgere la conversazione sulla situazione sociale e sulla possibilità che gli Stati Generali cambiassero qualcosa. Alla fine del pranzo era addirittura rauco e dentro di sé sperava di aver fugato nel conte ogni dubbio. Finirono con un liquorino che il duca rifiutò, mentre Nora dimostrò di non disdegnarlo affatto. Quando giunse il momento della partenza del conte, Lisette volle accompagnarlo alla carrozza e Stolfo rimase alla finestra ad osservarli. Vide che si baciarono appassionatamente, poi tra loro ci fu un gran parlottare, con la ragazzina che a gesti dava delle direttive. Finalmente salì sul convoglio, il quale si allontanò ed il duca sospirò esausto. - Tenete a quella bambina come se fosse vostra figlia, duca – commentò Nora che era stata ad osservarlo per tutto il tempo. - Non è mia figlia… - sbuffò astioso meravigliando la donna che se ne andò a sistemare le cose nelle varie stanze. Quando Lisette rientrò, un po’ triste per il distacco, il duca la fissò truce. - Di cosa avete parlato? – fu brusco e la fece trasalire. Lo sguardo duro che le riservò non le permise di eludere la risposta. - Mi ha chiesto dove si trova la villa della mia padrona – lo esaudì e gli gelò il sangue nelle vene. Lo vide sbiancare come era accaduto a tavola e poi sorridere forzatamente. - Duca… forse non state bene? – gli chiese dolcemente. - Febbre… credo di avere la febbre. Tornerò al mio palazzo, ho bisogno di un po’ di riposo – quasi esclamò dirigendosi verso la porta. Neppure la salutò mentre pareva fuggire… ma da cosa? Quando Xavier giunse davanti alla villa indicata da Lisette, vi notò un gran fermento nel giardino. Scese dalla carrozza e si fece notare dal gruppo di donne che stavano alle direttive di un vecchio parroco. Il religioso avanzò verso di lui, aprendo il cancello.


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- E’ questa la casa di madame Bois? – domandò osservando ogni centimetro di quella modesta quanto piacevole dimora. - Certo. Siete forse uno dei deputati che cercano alloggio in attesa dell’assemblea? – rispose il vecchio sorridente. Il conte annuì. - Non potete essere più fortunato, avrà luogo a Versailles, a pochi chilometri da qui e nessuno ancora si è presentato perché madame Bois ha deciso di affittarla soltanto oggi – gli spiegò e lui lo ascoltò bene. - Intendete dire che la padrona è ancora qui? – fu quasi ansioso. Il sospetto che gli era sorto a tavola era violento dentro di lui e neppure Stolfo era riuscito a sradicarlo dal suo cuore. - Madame Bois è ripartita nel primo pomeriggio. La sua intenzione era quella di venderla, poi io stesso le ho suggerito di affittarla e lei gentilmente mi ha incaricato di seguirne l’andamento… disponendo che ogni incasso sia per la nostra parrocchia. Una donna umana e sensibile, non trovate? – continuò a spiegargli con ammirazione per la misteriosa Vedova. Stava fuggendo. Questo pensò Xavier, mentre sorrideva al prete. Madame Zoraide Bois stava fuggendo ed alla svelta. Si convinse in un attimo di non aver parlato con lei il giorno prima, di non avere avuto il consenso di sposare Lisette da lei. Un brivido gli percorse la schiena, qualcosa tra l’ira e la gioia, la rabbia e l’illusione. Nella mente ricomparvero le immagini del giorno della morte di Eufrasia e poi quella donna vestita di nero che si allontanava dal cimitero… Possibile? Se davvero madame Bois era in realtà Eufrasia… ora era in corsa per sfuggirgli definitivamente. Si sentì pazzo ma il cuore in subbuglio e il dubbio che si trasformava come un demone in certezza assoluta gli tolsero il respiro. Cercò di convincere se stesso che stava sbagliando, l’istinto non lo aveva mai tradito ed in quei momenti lo aveva dentro a ringhiare come una bestia che voleva liberarsi. Ritrovò la propria flemma attenta e si rivolse ancora al prete che lo stava osservando come se in lui avesse colto il turbamento. - Parlatemi di lei… - disse senza che la cosa potesse avere un senso e la fretta di tornare indietro lottava con il dovere del suo incarico. - Una donna misteriosa, oscura, toccata dal lutto che l’ha colpita e… silenziosa, raramente in vista di giorno. Ci è stata di grande aiuto questo inverno portando gli aiuti al Bureau de la Ville – si affannò il prelato un po’ spaventato dallo sguardo duro del nobile.


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- Vedova? Di chi? – lo interrogò e l’altro alzò le spalle ignaro di quel particolare, poi ebbe una sorta di lampo di genio e sorrise divertito. - La sua serva, una piccola donna dolcissima… stranamente la chiamava mademoiselle. Lo notai allora… ma non volli chiedere nulla per il rispetto che porto alle donne colpite dalla sventura… - lo informò senza riuscire a terminare la frase. Il conte risalì sulla carrozza dallo scintillante stemma e ordinò al cocchiere di tornare indietro e di farlo il più velocemente possibile. Certo… mademoiselle… Xavier riconobbe il modo di agire della figlia, il suo sfidare le convenzioni e lo aveva fatto anche questa volta, vestendosi da signora e facendosi chiamare signorina. Certo… Eufrasia non era mai stata sufficientemente prudente nei suoi inganni, per questo l’aveva sempre scoperta in passato nei tentativi infantili di metterlo in difficoltà. Questa volta non ci sarebbe riuscita, a costo di sfiancare i cavalli, di farli cadere morti. Mentre il convoglio sobbalzava, pensò anche a Stolfo, l’amico oscuro che era ricchissimo, vestito d’un titolo che non gli apparteneva. Non aveva l’aspetto dell’aristocratico per quanto si travestisse con abiti preziosi e bottoni di diamante. Stolfo e Zoraide… li pensò entrambi e la carrozza laccata sfrecciava in direzione di Saint-Malo. Decise di non raggiungere la dimora del duca. Si sarebbe fermato al porto. Lisette aveva cenato con Nora cercando di mascherare lo sconforto che l’aveva presa dopo il saluto di Xavier. Sorrise alle insistenti domande della donna che tentava in ogni modo di saperne di più, di capire il sentimento capace di unire due persone così diverse in ogni senso. Il conte aveva trent’anni più di quella ragazzina ed aveva ignorato la verità su di lei. Lo sapeva per certo perché Stolfo le aveva confessato la propria meraviglia in merito. Nora fingeva di non sapere nulla del suo passato, restava l’incredibile colpo di fulmine scoccato tra loro. Maliziosamente pensava che in realtà il conte volesse un erede per il proprio patrimonio e nulla poteva essere migliore di una donna giovane per averne più di uno. Ma poteva sbagliarsi, forse Xavier era cambiato, la morte della figlia gli aveva fatto mutare pensiero e modo d’essere… poteva essere, perché no? Non lo conosceva, anche se le voci sul suo carattere difficile erano corse per anni in Bretagna. Si era mormorato che sua figlia, bellissima ed intelligente, non fosse stata da meno, affermando che non si poteva dubitare che fosse sangue del suo sangue. Erano stati di pubblico dominio gli alterchi fra i due, anche se entrambi erano stati poi molto abili nel non dare


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adito a conferme. La stessa partecipazione alle feste del duca da parte del nobile le erano apparse straordinarie perché lui non era stato solito organizzare ricevimenti e neppure prendevi parte, se non erano indetti dai suoi collaboratori fisiocratici e quindi propensi ad una mondanità di tipo affaristico. La figlia non lo aveva mai seguito, lui era un vedovo d’oro che nessuna donna aveva mai scalfito. Quando Lisette si alzò, non la fermò, rimase seduta ad attendere che le domestiche sparecchiassero per dar loro delle direttive. Si trattava in gran parte del personale del duca, visto che i servi del conte se l’erano data a gambe nei momenti bui del loro padrone. Lisette, agitata ed inquieta, girovagò per il palazzo incuriosita da ogni cosa, da ogni stanza, dallo sfarzo di quella ricca dimora. Però non c’era Xavier e chissà quando sarebbe tornato, chissà se l’impegno agli Stati Generali lo avrebbe lasciato un po’ libero per stare con lei. In fondo, dopo il loro fidanzamento lampo, non avevano avuto momenti per se stessi, per conoscersi; l’aveva lasciata al suo palazzo ed era partito. Sospirò aprendo una porta, quella dello studio. Nella penombra che si era creata con il crepuscolo, notò cumuli di scartoffie e numerosi volumi. Ebbe un moto di rabbia perché lei era analfabeta e non avrebbe potuto leggere nulla. Desiderò imparare a farlo e si ripromise di chiedere al suo futuro sposo di insegnarglielo. Era così dolce che ne sarebbe stato certamente felice. Tuttavia, voleva conoscere il mondo dell’uomo che amava e che le dava un brivido ogni volta che ne pronunciava il nome. Accese le candele su un mobile alla destra della grande scrivania e la stanza si delineò meglio. Si voltò e guardò ogni angolo con infantile interesse. Sfiorò la penna d’oca nera fermata da un sostegno di legno intarsiato e posò lo sguardo tremolante sul calamaio di cristallo. Scrutò un libro trovandolo incomprensibile, poi lo richiuse delicatamente. Scrutò scaffali ricolmi di grossi tomi rilegati in pelle, alcuni erano riposti alla rinfusa. La tentazione di rimetterli a posto fu grande ma non volle toccare nulla. Si incantò davanti ai soprammobili provenienti dai luoghi visitati dal conte durante i suoi innumerevoli viaggi. Aprì un cassetto e vi scorse delle monete e delle banconote di valuta straniera. Nell’aria vi era un sottile odore di fumo che neppure l’apertura della finestra aveva cancellato: tutto sapeva di lui e strinse le spalle, diretta verso la sedia della scrivania. Vi si sedette ed era morbida e di velluto verde. Si stiracchiò sentendosi fortunata d’essere amata da un uomo come quello. Si appoggiò allo schienale e


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volse gli occhi estasiati alla parete di sinistra che ospitava un enorme ritratto illuminato dalle candele… Rimase immobile. Pietrificata. Fissò quel magnifico ritratto con il cuore fermo e le parve per un attimo di morire, mentre un calore scottante poi il gelo le pervasero le membra. Non si mosse, spaventata ed atterrita dal volto inconfondibile di mademoiselle Zoraide. Non poteva trattarsi di semplice somiglianza perché il sopraciglio lievemente inarcato dava al viso la sua espressione. Percorse la scollatura modesta, arricchita dai gioielli di zaffiro; osservò l’abito blu e le mani con le unghie insolitamente lunghe. Chi aveva fatto quel dipinto, lo aveva reso quasi vivo, reale come se il soggetto fosse presente nella stanza. Nell’angolo occhieggiava la data 1785 e Lisette concluse che quella era… Eufrasia des Fleuves, la figlia assassinata di Xavier. Si rimise in piedi ed appoggiò le mani sulla scrivania. Si accorse di tremare. Non sapeva perché, ma sentì addosso il peso del mondo. Poi si calmò, respirando ritmicamente per non perdere il controllo. Doveva riflettere, non voleva trarre conclusioni affrettate. No, Xavier non era responsabile di niente, Xavier non sapeva e non nascondeva niente! Rimpianse di non avere ascoltato bene Nora, quando le aveva raccontato la storia del conte e della disgrazia che lo aveva investito. La testa le ronzò e si portò sotto il ritratto, davanti allo sguardo quasi beffardo della sua padrona. Era l’alba quando Zoraide tornò al palazzo di Stolfo. L’edificio attendeva di essere chiuso per la partenza del suo proprietario; la servitù era stata prevalentemente trasferita a Saint-Malo, dal conte. Entrò dalla porta principale ed una volta all’interno si liberò del mantello. I suoi bagagli restarono sulla carrozza priva di stemma che il duca le aveva prestato. Si diresse verso la saletta ove era certa di poterlo trovare, ansiosa di rivederlo. Aveva fatto tutto velocemente come lui stesso le aveva detto e la gioia del sentimento che dentro la scuoteva l’aveva fatta sentire forte più di quanto non avesse dimostrato in tutti quei mesi. Entrò. - Ti aspettavo – le disse Stolfo seduto davanti al camino, le gambe incrociate, il sigaro a creare giochi di fumo. Era stanco. Non dormiva da parecchio. Tra la festa, l’invito a pranzo del conte e l’attesa del suo ritorno, gli mancavano quasi tre giorni di sonno. Ma il suo fascino fece egualmente leva su di lei che gli sorrise timidamente, come se tra loro non ci fosse stata la confessione di un amore.


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- Non l’ho venduta la casa… non c’era il tempo materiale per poterlo fare alla svelta, ho lasciato tutto nelle mani del parroco… - lo informò e percepì nell’aria un’atmosfera che non si era aspettata. Lo interrogò con gli occhi, senza avere il coraggio di raggiungerlo. L’uomo si alzò lentamente, il volto preoccupato. Si avvicinò e la guardò in faccia, percorrendo ogni centimetro di quel suo viso pallido, lieve eppure caratterizzato dallo sguardo scuro e vivo, scintillante alla luce distante delle fiamme. Le prese le mani con un tremore che a lei non sfuggì. - Le cose sono precipitate in poche ore, Eufrasia – le disse e lei non comprese, ma la fiducia riposta in lui le fece cogliere la serietà della situazione. Stolfo l’abbracciò, un abbraccio disperato che la scosse e la indusse a cercarlo mettendo da parte il desiderio che la scuoteva, la voglia che sentiva dentro d’essere da lui stretta e consolata, rassicurata, protetta. - Spiegatevi… - gli ordinò seria, i suoi occhi continuavano a vibrare, la sua vicinanza la scuoteva e spezzare l’incanto era gravoso per l’uomo che come lei desiderava solo starle accanto. Tutto era difficile, tutto sarebbe stato difficile per loro che non erano chi dicevano d’essere. - Il tempo stringe e l’equipaggio sarà pronto a partire domani sera – le comunicò senza darle le spiegazioni che esigeva. Eufrasia si spazientì, il bacio che volle rubarle la placò. Non rifiutò la stretta che l’avvolse e sorrise quando ancora il bandito volle guardarla. - Non permetterò che nessuno ti faccia del male, ti salverò anche a costo della mia vita e… se sarà necessario ucciderò oppure scenderò a qualsiasi compromesso, ma la tua vita sarà salva come ti ho promesso il giorno in cui ti ho incontrata – sproloquiò confondendola. - Ti proteggerò, lo giuro sul mio stesso sangue… e ti sposerò perché voglio che tu sia mia moglie, voglio che la tua vita sia mia per sempre e che tu prenda la mia senza lasciarla mai – aggiunse con un tono affranto eppure deciso. Eufrasia deglutì e non disse nulla, certa che avesse ancora qualcosa d dire. - Non perderò il mio sogno, il destino non mi strapperà l’unica cosa al mondo per cui valga la pena vivere… non lo permetterò a nessuno, neppure al mio migliore amico! – concluse in uno sbuffo che lo allontanò da lei e lei… ebbe un colpo al cuore. - Mio padre ha scoperto l’inganno? – fu perspicace e gli si parò davanti. Stolfo non si mosse, gli occhi di ferro che sembravano due specchi immobili.


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- Presto lo farà… è un uomo intelligente – non mentì ed Eufrasia sobbalzò, un’agitazione più forte di lei la indusse a guardarsi intorno come se cercasse un via di scampo. - Siamo stati prudenti, voi siete stato prudente… cosa è andato storto? – chiese in preda ad una specie di panico. Stolfo sorrise contro la sorte, le coincidenze, gli imprevisti che non aveva considerato. - Il cioccolato – la interessò e la disgustò… e fu l’atroce ed inutile conferma che lei detestava il cioccolato, come aveva detto Lisette. Le raccontò velocemente l’accaduto ed Eufrasia sospirò incredula, poi sorrise come aveva fatto lui. - Maledizione! Non lo sapevate che io non lo sopporto? – gli chiese astiosa. - Non abbiamo mai avuto delle piacevoli conversazioni sui tuoi gusti gastronomici, Eufrasia… non lo sapevo, non lo potevo sapere – sbottò esasperato, non erano adirati l’uno con l’altra, erano alle strette. - E Lisette adesso è a casa di mio padre? Bene… libera di poter vedere il ritratto della figlia del conte… - gli ricordò spaventata. - No… l’ultima volta che sono entrato nello studio era coperto da un drappo nero – si affrettò a specificare. - Certo… un ottimo scudo – non fu ottimista ed aveva ragione. Il conte lo aveva scoperto il giorno in cui era tornato dalla Polonia. Pensarono all’unisono e rimasero con il fiato sospeso per alcuni minuti. - L’assemblea è prevista per i primi di maggio ed oggi è il 27 aprile… mio padre non abbandonerà le sue responsabilità – disse dopo un po’. Stolfo la guardò senza espressione. - Lo farà… se pensa che sua figlia sia viva, lo farà… esattamente come farei io – la deluse e la mise all’erta. Colse in lei un tremore fastidioso e veloce se la riportò addosso come se il proprio calore avesse potuto lenire il gelo della paura che aveva dentro. - Non c’è nulla che possa fermarci, Eufrasia… nulla spezzerà il nostro amore – la rassicurò. - Parlate senza cognizione, duca… siamo due clandestini in Francia, se uno solo dei nostri nomi tornasse fuori… le nostre vite si divideranno per sempre – ed aveva ragione. Forse il suo ritorno avrebbe anche potuto essere giustificato, il padre era abile nel convincere gli altri, ma Venanzio Sauvage… Venanzio Sauvage sarebbe stato condannato a morte per i crimini del passato e per essersi spacciato per nobile. Era terribile ciò che li attendeva e fuggire era per loro ora una priorità assoluta. Si guardarono


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intensamente negli occhi e quelli di Eufrasia non trattennero una lacrima che le solcò la guancia. Il pollice dell’uomo la cancellò e un sorriso forzato volle regalarle un attimo di pace. - Nulla spezzerà il nostro amore… te lo giuro sul mio sangue – ripeté convinto, disposto adesso a tutto, nulla escluso. Xavier entrò nel palazzo inatteso e la servitù lo accolse senza parole, compresa Nora che non si era certo aspettata di rivederlo così presto. Era mattina inoltrata e dispose per il pranzo con solerzia. L’uomo corse nello studio con gli stivali che indossava a fare un gran rumore lungo i corridoi del palazzo. Aveva fretta, era stanco, esausto, ma aveva fretta, doveva organizzare tutto celermente per non rischiare d’essere gabbato. Al porto aveva appreso ogni dettaglio sull’imminente partenza di Stolfo ed aveva provveduto a dare le direttive giuste perché il falso nobile, nonché proprietario della ‘Belle’, non avesse sospetti. Entrò nello studio spalancando la porta e trovò le tende aperte che illuminavano con la luce tetra esterna il grande quadro che raffigurava Eufrasia. Si soffermò a guardarlo e colse in lei un’espressione beffarda che gli fece salire una rabbia ingiusta alla gola. Era trafelato, la barba incolta, i capelli un po’ scompigliati e gli abiti stropicciati dalla notte in carrozza. Ma nello studio non vi era solo il fantasma di Eufrasia a fissarlo, vi era anche Lisette che seduta sulla sua sedia, i piedi sulla scrivania in una posizione poco elegante, guadava il viso della padrona con l’aria di chi non aveva dormito. - L’avete rinnegata, vero? – chiese flebile e lui non rispose, colto alla sprovvista. - Avete fatto credere che fosse morta per rinnegarla… perché? – volle sapere e lo guardò da lontano, gli occhi azzurri arrossati da un pianto insensato. Xavier si avvicinò e si parò davanti alla scrivania per osservarla meglio. Era piccola e fragile, eppure attenta e pretendeva delle spiegazioni. - Cosa sai di lei? – cambiò la direzione della conversazione e Lisette ebbe un sobbalzo, abbassò le gambe e si sedette decentemente sulla sedia di velluto verde. - Nulla – rispose. L’espressione dura del conte la intimorì. - Siete voi che dovreste darmi una spiegazione, non io… se è vero che volete sposarmi – si lamentò offesa.


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- Dimmi cosa sai di lei e ti darò tutte le spiegazioni che vorrai – non cedette e puntò le mani sul tavolo che scricchiolò per l’impeto che ci mise. - E’… la mia padrona, è madame Zoraide Bois – confessò ed ancora le lacrime le salirono agli occhi. - Madame? Sei solita chiamarla così? – indagò sospettoso. Lisette, alle strette, scosse il capo. - Solo in presenza di estranei… in realtà ha sempre voluto che la chiamassi mademoiselle – ammise e Xavier sorrise sottile. Il suo silenzio la costrinse a continuare. - Mi ha comprata – e lo fece sussultare disgustato. - Nella locanda dove… - e si morse il labbro inferiore. - … dove facevi la prostituta – concluse per lei senza rispetto. La cosa non lo tangeva, Stolfo si era affrettato a farglielo sapere per allontanarlo da lei e da Zoraide. Stolfo, certo… il conte realizzò anche questo. Lisette arrossì e chinò il capo umiliata. - L’ho sempre saputo… e non è di questo che voglio parlare, anche perché non m’importa cosa eri, cosa sei stata… voglio solo che mi parli della tua padrona – la meravigliò e piano raccontò vari aneddoti su di lei: i suoi modi, le sue parole, le sue espressioni, il fatto che portasse le unghie lunghe ed ogni parola metteva insieme i pezzi del mosaico con l’immagine finale ed ineluttabile di Eufrasia che continuava a guardarli dall’alto del ritratto. Cercò di omettere che per vivere aveva giocato nelle bische clandestine e che infine aveva contrabbandato armi, ma l’insistenza del conte non le permise di mantenere il segreto. Quando non ebbe più nulla da dire, Xavier si sedette sulla poltrona davanti alla scrivania e sospirò ancora più esausto, come se una mandria di cavalli gli fosse passata sopra. Lisette rimase immobile, timorosa di avere combinato un guaio ed ancora in attesa di una spiegazione che l’uomo aveva eluso. Si fissarono. - L’avevo destinata al convento – le disse e la ragazzina non reagì. Guardata dal suo punto di vista, il convento era meglio di una misera locanda con i suoi avventori. - Poi è stata assassinata… e l’ho sepolta io stesso – concluse. - Volete dire che… non sapevate che era viva? – farfugliò con la luce della speranza di non essere stata presa in giro a lucidarle gli occhi adoranti. Xavier annuì, la decisione sul suo viso attempato capace di emozionarla sempre.


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- E adesso ho bisogno del tuo aiuto… - la interessò e la fece sentire importante. - Ve lo darò… non abbiate dubbi – sorrise e si alzò per raggiungerlo ed inginocchiarsi davanti a lui che le strinse le mani esili. - Non le permetterò di fuggire… e tu sarai con me – concluse. Lei sorrise e sfiorò le mani del conte con le labbra umide. - Sempre, conte… perché vi amo – fu sfacciata. Il cuore era nuovamente colmo della fiducia che aveva risposto in quell’uomo meraviglioso. Xavier sorrise e guardò oltre la finestra. Non c’era molto tempo e gli uomini della nave non avrebbero potuto fare miracoli. Non c’era tempo… ed Eufrasia stava fuggendo. Sembrava ad entrambi che intorno a loro il mondo fosse un immenso monumento scricchiolante sul punto di crollare e travolgerli per ucciderli. Avevano addosso il sentore graffiante della paura e il desiderio che tutto finisse presto, il tempo quel giorno sembrava non voler passare, aveva deciso di rallentare e persino il pendolo non batteva le ore come sempre. Tutto era dilatato, i loro stessi gesti erano strani, i loro sguardi, le poche parole che riuscivano a dirsi per definire, delineare, perfezionare la loro fuga. Dovevano attendere il buio ed il buio non arrivava mai. La pioggia aveva iniziato a cadere e li avrebbe rallentati. Erano ansiosi, preoccupati, incerti e frettolosi. Se ne stavano nella saletta ad aspettare, il fuoco come sfondo e il crepitio come musica monotona a renderli nervosi. Eufrasia non rinunciò ad un po’ di whisky, trovato in fondo al mobile che avrebbe dovuto ospitare ogni tipo di liquore. Stolfo non smetteva di fumare e l’aria era pestilenziale lì dentro. La ragazza si sedette sul tappeto, appoggiandosi alle sue gambe e sorseggiando quell’accidenti che le dava la sensazione di poter sopportare tutto. La mano del duca le accarezzò una guancia e lei la fermò per poterne trarre il calore che sapeva scottarla. Sorrise per quel contatto e ricordò la notte in cui era stata sua e si emozionò. Avrebbe voluto che succedesse ancora. Forse il bandito sapeva leggerla dentro a tal punto da cogliere quel suo pensiero e si chinò su di lei che lasciò cadere il capo tra le sue gambe, senza distogliere lo sguardo dal fuoco inquieto. - Un gioco crudele … - si lamentò fuori luogo, del resto il loro terrore era fisso ormai. - Nulla di preoccupante, Eufrasia… considerando che tu sei una professionista – le disse suadente, la dolcezza del tono a farla sentire assurda-


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mente fiera d’essere una giocatrice infallibile frequentatrice di malsane bische clandestine. - E voi? – sussurrò. - Io sono il tuo maestro… – ed alludeva alla notte della loro passione ed a tutto ciò che era accaduto dal giorno in cui si erano conosciuti. - Vi amo… adesso che vi amo… tutto vuole travolgermi – continuò a lamentarsi e Stolfo non trattenne un sogghigno divertito. - Non mi ami da adesso, mi ami da sempre… hai solo perso tempo – la volse verso di sé e lei si appoggiò sulle sue cosce e lo guardò smarrita. - Non è vero – lo contraddisse per un gioco infinito che non avrebbe mai trovato un epilogo. - E quando il tempo è poco… bisogna sfruttarlo tutto – la provocò e scivolò sul tappeto, stringendosela al petto. Si sdraiarono lentamente, lei sopra di lui che non smetteva di guardarla. - C’è una cosa che non credo di averti mai detto… - aggrottò le sopraciglia scure. Lei ebbe un’espressione interrogativa, l’alito di whisky ad inondarlo. - Sei bella… molto – asserì e le tolse il bicchiere per annusarne il contenuto e portarlo alle labbra senza distogliere gli occhi da lei. Ne bevve un sorso e appoggiò il cristallo poco distante. Il calore del liquore lo inondò e scatenò in lui la totale passione che la tensione sapeva smorzare. La baciò tenendosela addosso, l’abbracciò, la strinse. Non sopportò d’esserle inferiore e la rivoltò, sovrastandola con il proprio peso alleggerito dai gomiti sul tappeto. - Non posso dire la stessa cosa di voi – lo prese in giro e lui sorrise rassegnato. - Non m’interessa essere bello… mi interessa che mi ami – la zittì e sconfitta chiuse gli occhi. Non lo aveva mai fatto, neppure la prima volta aveva chiuso gli occhi, se non quando il sonno l’aveva vinta. In quel momento li chiuse e lasciò che le labbra di Venanzio le sfiorassero quel poco che l’abito nero scopriva del collo. - Un giorno ti strapperò di dosso questo lutto insopportabile… - commentò improvviso e lei rise piano, divertita dalla sua ironia che emergeva nei momenti meno opportuni. - Ed io ve lo lascerò fare… - sussurrò accondiscendente, mentre i bottoni iniziavano ad aprirsi ed il respiro si liberava d’ogni costrizione. - E vestirai di bianco quel giorno – fu sottile illudendola che avrebbe potuto sposarla anche se non aveva idea come e dove, visto che erano due


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clandestini della vita. Percependo il suo scetticismo, Venanzio la cercò serioso. - Quando faccio una promessa sono solito mantenerla, Eufrasia… e ti sposerò, lo farò e sarai una sposa bellissima, fastosa e meravigliosa… come meriti, come sarebbe dovuto essere quel giorno e come sarà al mio fianco. Non dirai no… la tua voce sarà squillante ed il tuo sorriso luminoso. Farò di te mia moglie e potrai scegliere il nome che vorrai per noi… perché ho ingannato una volta senza di te, posso farlo altre mille volte per te – le riversò addosso un fiume di speranza, una marea di possibilità realizzabili. - Siete un affabulatore, Venanzio… ma le illusioni non fanno parte del mio modo d’essere – lo smorzò senza riuscirci, mentre quelle mani sicure continuavano a volerla nuda. Lei non esitò più e sciolse il foulard bianco dopo averlo liberato della spilla di rubino che lo aveva fermato sotto il collo dell’uomo. - Sbagli, Eufrasia… dovresti lasciati andare ai sogni. Ma va bene così… se nulla ti aspetti da me, la gioia che saprò darti sarà molto più grande… - si ritenne soddisfatto e lo fu ancora di più quando ammirò estasiato il seno florido che svettò davanti ai suoi occhi lucidi. - Un affabulatore… - ripeté e lo lasciò fare, lo lasciò giocare, lo lasciò percorrere vie segrete e poi sentieri tranquilli in un crescendo d’emozioni che la travolsero come aveva desiderato che accadesse dal momento in cui era tornata da lui, per lui. Dimenticarono i crucci che li tormentavano insistenti, il tempo che stringeva e poi ciò che avrebbero dovuto fare per sfuggire alla sorte. Scordarono i loro nomi fasulli, si chiamarono in sussurri dolci e poi feroci, ringhianti e poi languidi. Cavalcarono e raggiunsero lidi che solo loro sapevano esistere. Si morsero lievi e si graffiarono leggeri. Si avvolsero e si strinsero. Si guardarono e poi spensero gli occhi. La vita sembrava bellissima, era bellissima, la sarebbe stata per sempre… e quando le membra si accasciarono esauste sul tappeto, i loro corpi furono scaldati dal calore delle fiamme, i loro respiri si placarono ed Eufrasia volle restargli addosso per giocare lieve con i salti dei muscoli del torace che lentamente divenne come l’onda quieta di un mare di speranze.


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CAPITOLO X

Venanzio ed Eufrasia lasciarono il palazzo che finalmente era buio. Giunsero veloci al porto di Saint-Malo con la carrozza priva di stemma e scorsero dai finestrini il gran lavorio degli uomini dell’equipaggio. Nessuno avrebbe riconosciuto la ragazza, ma lei teneva egualmente il velo calato sul viso. Accanto a Stolfo la sua figura era tetra e triste. Scesero e lui, attento e guardingo, lento nei movimenti per non farsi cogliere di sorpresa da nulla, disse ad alcuni marinai di caricare i bagagli e di sistemarli nella cuccetta del capitano. In alcuni bauli vi erano le fortune di entrambi: monete e gioielli che tintinnarono per gli scossoni. Eufrasia era immobile, in piedi accanto alla carrozza. Stavano fuggendo e l’unica cosa che la consolava era la vicinanza di Venanzio che la faceva sentite al sicuro e le dava un pizzico d’ottimismo in quella situazione disperata. Si, fuggire era la cosa migliore, anche se non avrebbe più rivisto la Francia, il suo paese in fermento; anche se non avrebbe più potuto respirare l’aria della sua terra e non sapeva quale altra terra l’avrebbe accolta ed in quali condizioni avrebbe vissuto. Forse avrebbe ingannato ancora, forse lo avrebbero fatto in due, ovunque un assassino era utile ed una giocatrice d’azzardo avrebbe potuto continuare a fare fortuna. Tutto era perfetto nell’imperfezione assoluta di due vite gettate al vento eppure caparbie nella voglia di continuare ad esserci, di rincorrere spasmodiche la felicità senza forse averne alcun diritto, lasciandosi dietro scie di sangue e di dolore. Le campane della chiesa batterono le otto della sera e Venanzio si avvicinò, guardandola senza vederla a causa del velo e della luce fioca che proveniva dalla grande nave illuminata. Le sfiorò la mano guantata. Non volle rinunciare a farle sorriso ed infilò il viso sotto il velo per rubarle un bacio celere dalle labbra tese. Intravide i suoi occhi tremolanti. - Non avere mai paura quando sei accanto a me – le ordinò con un sussurro. In quel momento guardò oltre la spalla della giovane. Si raffreddò


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come se l’inizio dell’estate fosse divenuto improvvisamente inverno profondo. Sbiancò e lei se ne accorse. - Non ti voltare, assolutamente. Cammina piano e raggiungi la cabina. Qualsiasi cosa accada non ti fermare, non rispondere, non guardare dietro di te – le disse perentorio, i denti serrati, la mascella rigida sotto la pelle incolta, non aveva avuto tempo per radersi ed il suo aspetto era ancora meno raccomandabile. Gli occhi di fuoco si accesero, le sopraciglia s’immobilizzarono e quando Eufrasia obbedì senza discutere, scorse lo sbocciare imprevisto di un suo sorriso sottile rivolto a qualcuno che non era lei. - Siamo di fretta, duca Rues? – disse il conte e la Vedova ebbe la stessa impressione di Venanzio, l’inverno era tornato in riva al mare bretone. Non si voltò come aveva detto lui e lentamente salì sulla passerella, osservata dai marinai che assunsero un’aria contrita al suo passaggio. - Fretta? Mai! La fretta è cattiva consigliera - ribattè il falso nobile, andando incontro a Xavier, accompagnato da Lisette e Nora che scesero dalla carrozza blasonata. Diede loro un’occhiata volutamente indifferente e continuò ad assumere quella sua aria scanzonata e tranquilla. Gli occhi verdi del conte gli erano addosso, fermi, privi d’espressione, non era possibile definire il suo stato d’animo, sembrava di pietra e per questo poco decifrabile. - Piuttosto voi… rischiate di giungere in ritardo agli Stati Generali… gli fece notare ilare. Alcuni servitori presero dei bagagli dal convoglio dell’amico e li appoggiarono sonoramente sul pavé umido. Aveva ricominciato a piovere. - Irrilevanti… - fu la risposta secca che lo mise in confusione. Abile trovò se stesso e continuò a sorridere. - Non direi… la sorte della Francia… - temporeggiò ed i servitori iniziarono a portare i bauli sulla nave. Venanzio li osservò e non seppe per un attimo cosa fare. - Non crucciatevi… sarà un onore ed un dovere assegnare la mia cabina alla vostra mesta ospite, duca… io e la mia fidanzata ci sistemeremo in alloggi egualmente comodi – lo tranquillizzò leggendo chiaramente i suoi timori. - Non vi capisco, amico mio… - sorrise, ma era già spento e la sensazione di non avere scampo lo azzannò senza che si potesse difendere. Lo aveva giurato a se stesso ed anche ad Eufrasia, era disposto a tutto per mantenere le promesse fatte, anche uccidere e fissò Xavier, la pistola al


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fianco nascosta dalla stoffa preziosa dell’abito grigio che indossava. Poi ragionò, valutò e ponderò ogni cosa. Non lo avrebbe ucciso e lasciò che anche Nora e Lisette, preoccupate e frettolose, raggiungessero la passerella. - Amico mio… - sottolineò l’altro con un sorriso divertito e fece per superarlo. Venanzio gli si parò davanti. - Perché questo cambio di programma? – chiese, abbandonando l’affabilità e sfidandolo tacitamente, scoprendo in un attimo la propria vera natura. Il conte lo squadrò e non raccolse la sua provocazione. - Dimenticare che sono il capitano della ‘Belle’, voi stesso avete disposto perché io… - gli rispose affettato. - Rispondete alla mia domanda – fu duro, la promessa fatta ad Eufrasia a martellargli la testa. - Non siete nella posizione giusta per dettare dei patti, Stolfo… siete nelle mie mani da quando avete deciso di venire a svegliarmi ed ora ne subirete tutte le conseguenze – non tardò a scoprirsi anche il conte. Le loro parole restavano sospese su verità non dette. - Non sapete chi sono, conte… ciò che conoscete di me è ciò che io vi ho permesso di vedere, non sfidatemi e non mettetevi nei guai, non voglio farvi del male – non cedette e Xavier sorrise capzioso quanto lui. - So esattamente chi siete… duca Rues ed il consiglio che vi do è quello di non peggiorare le cose, piuttosto aiutatemi a porre fine a questo gioco di cui siete vittima anche voi – lo stilettò ed un bagliore ferino riuscì a turbare il bandito. - Non salite su quella nave, Xavier… non reggereste il colpo – volle dargli anche lui un consiglio. - Posso reggere qualsiasi colpo, Stolfo ed ora… scansatevi e sorridete mentre saliamo, così che la vostra cara amica possa restare tranquilla. Vi invito sul ponte, quando la nave sarà al largo ed avremo modo di metterci d’accordo – fu secco e Venanzio lasciò che passasse. Sulla passerella lo vide fermarsi ed osservare gli uomini dell’equipaggio mettersi sull’attenti. Si voltò verso di lui, incitandolo a seguirlo. Tentennò per un attimo. Il conte des Fleuves lo aveva gabbato, ogni sforzo per evitare ciò che stava accadendo era stato vano ed ora Eufrasia era sulla stessa nave di suo padre, con suo padre, in uno spazio ristretto e senza vie di fuga. Non era questo ciò che le aveva promesso, non era lo scontro frontale che le aveva garantito, non era ciò che avevano sognato insieme, avvolti dalla


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passione, scaldati dalle fiamme, poche ore prima. Temette di perderla. Camminò piano verso la passerella e la sentì ritirarsi con uno schianto coperto dal parlottare degli uomini dell’equipaggio pronti a salpare. Il capitano diede gli ordini, dispose per la sistemazione delle vele, il tempo non era ottimale con quella pioggerellina incessante, anche se il vento non era sostenuto e l’ancora risalì scrosciante con un sobbalzo che rese libero il veliero di uscire lentamente dal porto nel buio pesto di quella notte. Stolfo se ne stava appoggiato a prua e pensava, macinava, il cuore in subbuglio ed una sorta di rassegnazione a renderlo cupo. Xavier lo aveva giocato e gli era insopportabile. Non tollerava che un piano andasse a vuoto, non era avvezzo al fallimento da quando aveva deciso di risorgere e l’idea che la sua donna ora lo stesse disprezzando lo atterriva, tanto da non avere il coraggio di raggiungerla ed avvertirla. Sapeva che lei sapeva. Eufrasia era sempre attenta, come suo padre, raramente le sfuggiva qualcosa, proprio come suo padre e… quei due insieme eppure divisi, lo avevano gabbato, lui… Venanzio Sauvage, il bandito senza pietà, colui che uccideva come bere un bicchiere d’acqua… era stato beffato dall’intera famiglia des Fleuves… senza possibilità di ritorno. O forse una possibilità c’era, forse… “… e se sarà necessario ucciderò oppure scenderò a qualsiasi compromesso…” le aveva detto poche ore prima. Lo aveva detto, qualsiasi compromesso… La pioggia sottile s’incastrava nei capelli screziati di sale e argentea lo rendeva ancora più mesto, curvo sul poggiamani con il mare sotto di lui in un sussurro invitante. Passarono così alcune ore, senza che Venanzio si muovesse, vinto da riflessioni profonde, piegato da una sorte che non era stato capace di governare sino in fondo. Poi la nave si fermò, l’ancora scese sonoramente nell’acqua in un tuffo. Volse lo sguardo al ponte, sul quale il conte osservava l’orizzonte nero, illuminato dalle lanterne oscillanti, baciato come lui dalla pioggia sottile ed insinuante. Xavier lo vide e lo osservò a distanza. Venanzio di mise dritto. Fece alcuni passi verso il ponte, dritto raggiunse l’amico. - Lisette? – ebbe un vero e proprio colpo al cuore e retrocesse sino alla finestra che dava sul mare, gli occhi sbarrati ed il panico a scuoterla. Erano appena salpati e non aveva assistito all’incontro del duca con il conte, aveva pensato solo che le autorità fossero giunte per un controllo quando le aveva ordinato di raggiungere la cabina del capitano. Non


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era stata attenta come suo solito, ancora illanguidita dalla stretta caldissima che l’aveva sconvolta poche ore addietro. Non era stata attenta… e si morse il labbro inferiore. - Viaggeremo insieme… - le disse la serva di un tempo e lei non sorrise, piuttosto si adombrò. - Così ha voluto Xavier… ed io ne sono felice, non ho mai… - insistette in una recita obbligata che le riusciva perfettamente. - Chi? – sbottò alle strette e la serva lo vedeva benissimo il suo enorme disagio. - Il conte des Fleuves… colui che avete incontrato qualche giorno da – fu puerile ed Eufrasia la detestò per questo. In quel momento avrebbe detestato chiunque e detestò anche Venanzio che… le aveva detto di fidarsi, che sarebbe stata al sicuro ed invece… - E’… qui con te? – verificò. Suo padre lo conosceva bene, se con la figlia era sempre stato autoritario, pretendendo la massima attenzione, non osava immaginare come poteva essere con una futura moglie. Lei annuì dolcemente evidenziando l’innamoramento che la scuoteva. Eufrasia riuscì a sorridere, ne venne fuori una smorfia ridicola. - Che cosa insolita… mi era sembrato ansioso di partecipare agli Stati Generali… - blaterò in cerca di un tempo ancora una volta scaduto. - Ha detto che ci sono cose più importanti della sorte di un’intera Nazione… ed ha voluto regalarmi un viaggio che io non ho mai fatto. E’ un uomo dolce e comprensivo, ha cercato di starmi distante… ma non ci è riuscito ed io lo amo anche per questo e presto, molto presto, sarò sua moglie e saprò renderlo felice. Sapete? Era a conoscenza del mio brutto passato… ma non gliene mai importato nulla. Io gli sono grata della vita che mi sta offrendo, come sono grata a voi per avermi strappato dal fango della mia esistenza in quella locanda… – parlava, parlava, parlava, la assordava, la confondeva, le impediva di pensare, di valutare, di tentare il tutto per tutto… come le aveva detto di fare il conte che la conosceva bene. Lisette si sentiva importante, anche perché era capace di fare ciò che le era stato chiesto, era giovane ma la vita le aveva insegnato molte cose e l’astuzia era una di quelle. - Un viaggio di piacere è una cosa importante? – la interruppe sospettosa. - No… non di piacere, ha detto. Una questione di vita o di morte lo attende in non so quale terra da lui conosciuta – la mise in crisi e gli occhi azzurri si fecero per un attimo feroci. Eufrasia colse quell’espressione e comprese, perspicace come il padre, che qualcosa era storto, che era in


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arrivo ben altro che… un viaggio di piacere. La nave si fermò, udì l’ancora scendere in un tuffo e il sangue le si gelò nelle vene. Fece per uscire, Lisette glielo impedì. - Non fatelo – le ordinò, lo sguardo ferreo, insolito in lei. Eufrasia sorrise scettica, cosa pensava di poter fare quella pulce a lei… Eufrasia des Fleuves? - E’ un ordine del capitano – precisò e l’altra non reagì, la sensazione di non avere scampo fu assoluta. Pensò Venanzio che certamente era là fuori con suo padre che aveva capito tutto. Pensò alla sua sorte e tremò all’idea di una vendetta del genitore. Fu sul punto di ribellarsi all’imposizione di Lisette. Non lo fece. Era finita ed un’angoscia senza limiti la piegò e la costrinse a sedersi sul piccolo letto. La serva la fissava decisa, forte del fatto che fuori dalla porta erano stati messi due marinai a controllare che la Vedova non uscisse per nessun motivo. Stolfo si appaiò al conte che continuava a fissare il buio, lasciando che la pioggia lo inzuppasse. Non gliene importava nulla di nulla e il bandito lo vide nitidamente nei suoi occhi fermi. Aveva abbandonato gli impegni dopo essere rinato, dopo essere riemerso dal baratro in cui la morte di Eufrasia lo aveva gettato. Adesso ogni cosa importante era un’inezia, il tempo passava, gli Stati Generali si avvicinavano e lui non aveva alcuna intenzione di parteciparvi, era su quella nave ed aveva messo nel sacco coloro che lo avevano ingannato. Aveva voluto con sé l’unica cosa piacevole che aveva trovato nella vita, Lisette. Stolfo considerò ovvio che la piccola lo sostenesse nel suo piano di distruzione che non aveva ancora capito. Il duca era pronto a tutto, stoico e dritto stava al fianco del nobile e con lui scrutò il niente che li osservava bieco e minaccioso. Alla loro destra occhieggiava Saint-Malo, ma era distante, irraggiungibile, un miraggio di libertà nella notte. Sorrise sarcastico e Xavier se ne accorse, guardandolo contro la lanterna immobile, non c’era un alito di vento. - Vi ascolto – disse Stolfo senza rabbia, rassegnato e persino divertito dal colpo del destino. - No, duca… non ci siamo capiti… sono io che voglio ascoltare voi e sono certo che avete un sacco di cose da dirmi. Sono curioso, lo ammetto… - fu ironico, l’aria di chi aveva il coltello dalla parte del manico. L’altro annuì e poi scosse il capo, per nulla intimorito, non conosceva la


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paura, era sempre stato così e in quell’occasione non volle fare eccezione. - Non vi permetterò di giocare, Xavier… andate al sodo ed io vedrò di darvi le spiegazioni che cercate, ammesso che ne stiate cercando… - non chinò il capo per farsi bastonare, non cedette, si sarebbe difeso, a tutti i costi ed avrebbe difeso anche lei, chiusa nella cabina del capitano. Il conte sogghignò per la durezza dell’amico ed appoggiò le mani sullo steccato del ponte. - Dove pensavate di andare? – iniziò. - Lontano… – fu conciso. - Eppure dicono di voi che non siete uno stolto, che sapete valutare i rischi, questo vi ha permesso di sopravvivere in questi anni… ma volevate andare lontano… così, allo sbaraglio… - lo schernì e gli fece intendere di conoscere la sua vera identità. - Anche di voi si dicono tante cose, conte… e conoscendovi ho compreso la vostra perspicacia dalla quale ho ritenuto opportuno allontanarmi – ribattè, sembrava più un discorso d’affari che un chiarimento. - State mentendo, come sempre… non mi temete affatto, voi non temete nessuno. State difendendo lei che vi ha convinto a farlo e magari vi ha abbindolato come sa fare con chiunque… meno che con me – e lo fissò seccamente, la luce della lanterna a giocare con il verde degli occhi stretti. - Conoscete madame Bois? – si fece sciocco, prese tempo, lo stesso scaduto di Eufrasia. - Non siate ridicolo, duca… e ditemi come stanno le cose. A volte la verità può salvare la vita, è solo una questione d’onestà…ammesso che siate disposto a convertirvi a questo concetto insopportabile per un uomo come voi – lo imbeccò senza distogliere l’attenzione da lui e senza che lui la distogliesse a sua volta. - Dove volete arrivare? – continuò a temporeggiare un po’ vile, era una questione di sopravvivenza. - Ditemi chi è veramente madame Bois… e saprò essere riconoscente a chi mi ha aiutato – fu chiaro, troppo. Stolfo rifletté veloce, come suo solito. Xavier era ferreo nel portamento e nei modi, ma non scorgeva in lui l’ira, non coglieva la rabbia, sembrava un animale in attesa, ma non un animale feroce… qualcosa di simile ad un uomo. Pensò, continuò a farlo ed il bagliore ferino del proprio sguardo oscillava.


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- E’ una trappola… solo questo – farfugliò alle strette e pensò a lei. Il nobile sorrise. - Voglio sposarla – fu inatteso, fuori luogo. Il conte s’irrigidì senza realizzare le intenzioni del bandito. - Non potete – sbottò. - Voi siete il capitano… potete farlo in alto mare, dove ci troviamo. Voglio sposare madame Bois, adesso – non mollò. - Non potete farlo, i vostri nomi sono fasulli… - gli fece notare e Stolfo colse la palla al balzo ed ebbe un’espressione sottile. - Voglio sposarla e voi lo potete fare – e fu intrinseco l’invito a svelare lui chi credeva che fossero. Xavier colse l’astuzia dell’uomo e sospirò esasperato. - Siete furbo… molto… - concluse e fece per andarsene ma Stolfo lo fermò. - Adesso… - gli impose fremente. L’altro lo scrutò ed infine annuì astioso. - Vi attendo nella mia cabina… - e lo guardò ancora. - Una cosa, duca… portate con voi i documenti delle vostre proprietà ed anche quelle di madame Bois. Questo è il prezzo che vi chiedo per fare di lei vostra moglie – disse. Venanzio sobbalzò. Certo, era un uomo d’affari… non si meravigliò più di tanto che pensasse anche a quelli in un momento in cui la sua vita stava svoltando in maniera pericolosa. Non lo contraddisse e veloce raggiunse la cabina del capitano ove Lisette era ancora con Eufrasia e due marinai all’esterno controllavano. Lo lasciarono passare, come da ordini precisi, come se tutto fosse stato previsto. Stolfo se ne rese conto e lo irritò sembrare la pedina di un gioco a lui sconosciuto. Poco importava, doveva sposare Eufrasia perché come moglie avrebbe potuto difenderla. Non avrebbe avuto il vestito bianco che le aveva promesso… ma sarebbe stata sua, come aveva promesso. Xavier se ne stava in piedi nella cabina che aveva scelto a fissare il mare che quieto sembrava attendere che tutto si compisse. Con lui vi era Nora, chiamata d’urgenza per presenziare ad un matrimonio. La donna non ci mise molto a comprendere che doveva trattarsi di quello del suo migliore amico e si chiedeva come avrebbe fatto visto che era a conoscenza del fatto che Stolfo fosse un falso nobile. Sarebbe stata la testimone dello sposo e non si ribellò a quell’imposizione. Scorgeva nel nobile una tristezza mista a gioia che lo rendeva paradossale, rigido ep-


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pure languido. Effettivamente quell’uomo aveva il suo fascino e comprese Lisette e la passione per lui, nonostante l’enorme differenza d’età. Presto la porta si aprì, concorde con la fretta di Stolfo che aveva certamente obbligato la Vedova ad entrare lì dentro. Con loro vi era Lisette, la testimone della sposa. Eufrasia, celata più del solito dalla veletta e vestita di nero come sempre, s’impuntò, ma la mano ferrea di Stolfo la costrinse a passare oltre lo stipite e sistemarsi davanti alla scrivania sgombra, dietro alla quale vide il padre di spalle. Tremò e strinse i denti nel desiderio impossibile di fuggire, di gettarsi anche in mare se non fosse stato che lei non sapeva nuotare. Entrambi furono davanti al tavolo con al fianco le testimoni che ci capivano sino ad un certo punto. Xavier attese, non voleva voltarsi, non voleva vedere la figlia, anche se era nascosta da un irrispettoso lutto. Sua figlia… ne percepì il respiro, a scatti come era sempre stato. Sua figlia… che aveva creduto morta, che aveva pianto e per la quale aveva rischiato di morire. Sua figlia… crudele come una bestia immonda che gli aveva imposto un dolore senza eguali per poi scoprire che ogni lacrima era stata versata per nulla. Sua figlia… che aveva frequentato squallidi locali e contrabbandato armi per la rivoluzione, dimentica del titolo che portava, cancellando se stessa per dare il passo ad una popolana misera e mendace. Sua figlia… che aveva gabbato tutti, anche l’uomo che aveva al fianco. Quell’uomo… un delinquente che aveva giocato a fare il nobile, imbrogliando i nobili veri, annoiati e stolti, ma non lui. Lo aveva lasciato fare, lo aveva trovato simpatico, aveva colto nei suoi modi e nelle sue azioni la fermezza di un uomo, la virilità e la decisione. Quell’uomo che adesso avrebbe preso sua figlia, l’ultimo che un genitore avrebbe voluto. Quell’uomo e sua figlia… due reietti per scelta, due truffatori, forse due assassini… e l’idea che Eufrasia avesse anche le mani macchiate di sangue lo irritò e lo spaventò. Ma era viva. Era viva. Aveva pregato Dio perché un giorno la potesse sapere viva in una follia che ora non era più tale. E Dio lo aveva esaudito… ed ogni promessa doveva essere mantenuta, anche se il discernimento per quella scoperta si mischiava con una gioia che a stento avrebbe trattenuto. Sua figlia era viva… Si voltò lento, inesorabile e lei lo osservò dalla veletta senza riuscire a non stringere le labbra rabbiosa, dando ogni responsabilità di quel disastro imminente a Stolfo. Stava per divenire sua moglie, avrebbe dovuto sentirsi felice, invece aveva paura. Guardò il genitore alto, possente, bellissimo certo… e deglutì pensando all’astio che le avrebbe riservato


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quando la sua identità, forse per lui solo un dubbio ora, si sarebbe svelata ed in quella nave, piccola, senza sbocchi, sarebbe stata una trappola mortale. Rabbrividì, ancora l’estate sembrava essersene andata. Lo vide apprestarsi alla scrivania che li separava, fragile scudo per lei. - La vostra fretta di sposare questa donna è quasi divertente… - disse il conte a Stolfo che non sorrise, nel timore che avesse in serbo qualche scherzo balzano. - Ed è la prima volta che vengo insignito di quest’obbligo… raramente sulle navi di diporto vi sono donne… ma sia, facciamo il mio dovere di buon capitano, no? – concluse ironico, sprezzante, volutamente indifferente a lei che si accorse di non essere il centro della sua attenzione, la sfida in atto era con Venanzio. Passarono alcuni interminabili minuti e il capitano prese fiato. - Dunque… siete qui per pendere in moglie questa donna… Venanzio Sauvage? – lo stoccò e l’altro non reagì, aveva capito che Xavier lo aveva identificato ed aveva voluto che li sposasse con i loro veri nomi perché la cerimonia potesse essere valida. A reagire fu Eufrasia che si mosse, ma la mano del bandito le strinse un braccio e le impose di restare ferma. - Si – non tergiversò. Xavier ebbe un sorriso storto e superiore. Nora deglutì. Venanzio Sauvage? Per Lisette quel nome non significò molto, non conosceva le vicissitudini di Saint-Malo. - E voi… volete prendere come vostro marito quest’uomo… - finalmente posò gli occhi su di lei che celata aveva la bocca semichiusa, la salivazione a zero. Cosa attendeva? Cosa aspettava a pronunciare anche il suo nome? Deglutì a vuoto. Xavier si portò leggermente in avanti per esserle più vicino. - … Eufrasia des Fleuves… contessina di Saint-Malo – scandì lentamente ogni sillaba, mise enfasi anche nelle pause, la scavò con una tale calma da farle male. Fu sottile come un ago nell’entrarle dentro con la voce profonda che non aveva mai dimenticato. Nonostante il velo nero, lo poteva vedere bene e cogliere la sua delusione, la stessa del giorno in cui le aveva concesso di sposare Aldo. Si sentì triste e poi in pericolo e tacque. Venanzio la fissava, non temeva il suo rifiuto, no… ma non sapeva cosa aspettarsi da lei. Le stringeva il braccio per poterla fermare in qualsiasi momento. Con la mano libera Eufrasia si avvicinò al velo che le nascondeva il viso e, ormai vinta, lo alzò per mostrarsi davanti allo sguardo fermo del geni-


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tore che riuscì ad essere freddo, che frenò se stesso. Si fissarono ed il nero degli occhi della ragazza entrò nel lago verde di quello del conte. Si guardarono così a lungo che il tempo parve ancora una volta dilatarsi, rallentare, fermarsi per non ripartire più. Si parlarono in silenzio, i presenti ne furono convinti e Nora non celò una commozione del tutto fuori luogo, mentre Lisette la riprese con un’espressione lungi da quella di una ragazzina. Non c’era proprio niente di commovente in ciò che stava accadendo, il conte aveva scoperto un crudele inganno… qual’era il lato sentimentale della cosa? Venanzio osservò il profilo teso di Eufrasia e poi colse in lei un vago sorriso. La ragazza alzò il sopraciglio, certa di irritare il padre che non raccolse la sfida. - Si – pronunciò secca quanto il bandito poco prima e le due donne testimoni tentarono un applauso che morì senza neppure nascere. I due non smisero di fissarsi e Stolfo estrasse un anello dalla tasca. Ma Eufrasia non sembrava interessata al matrimonio, a lui, alla situazione… era davanti a suo padre e stava attendendo che una cascata di furore la travolgesse. - Tuo marito ti sta offrendo il suo dono di nozze – la svegliò il conte e lei non si rivolse a Venanzio. Con un cenno del capo le ordinò di adempiere ai doveri della cerimonia e solo allora si accorse del gioiello che il duca le stava infilando al dito. Era l’anello di famiglia, quello che era stato di sua madre, e trasalì con un nodo in gola a serrarle il respiro. Guardò Venanzio e poi il padre, riguardò Venanzio e scosse il capo indietreggiando di un passo. - Che gioco state giocando? – chiese al conte che aveva concluso il proprio dovere ed era sul punto di uscire dalla stanza. Glielo impedì e si parò davanti alla porta. - Che gioco state giocando? Quale inganno avete in serbo per me? – gli soffiò in faccia. Intervenne Venanzio e porse un plico di documenti a Xavier che li prese in consegna. - Il tuo sposo sta iniziando a restituire la refurtiva… a quanto vedo – sorrise freddamente e si riferiva all’anello, rubato insieme ad altre fortune il giorno del suo assassinio. Venanzio sorrise di sottecchi, certe cose continuavano a farlo sentire potente. - Occupati di tuo marito… non credi che sia il caso visto che questa è la tua prima notte di nozze? – la fece arrossire ma non demorse, mentre il bandito le avvolgeva le spalle fissando il conte con durezza. Eufrasia si


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scostò e lo lasciò passare. Alzò il viso scosso e pallidissimo e fissò uno dopo l’altro i presenti. Non capiva. Tutto sembrava perfetto, ma non poteva esserlo. Sentì le gambe mancare e il duca la sostenne repentino. Si avvicinò al suo orecchio e le diede un bacio sulla guancia di ghiaccio. - E’ finita, Eufrasia… - sussurrò. Lei appoggiò le mani guantate sul suo petto ove scintillava la splendida spilla di rubino. Non capiva. Era sconvolta e lasciò che i sensi l’abbandonassero, vile espediente per assentarsi, sciocco modo per non dover pensare… misero sistema per non soccombere. Era il 5 maggio 1789, quando il conte ed alcuni suoi marinai tornarono a bordo della scialuppa della ‘Belle’. Era una splendida giornata di sole, il tempo ideale per salpare. Xavier raggiunse il ponte ed osservò Saint-Malo, come se le stesse dicendo addio. Non si erano aspettati il suo ritorno, tutti avevano pensato che avesse raggiunto Versailles per partecipare all’assemblea degli Stati Generali. Quando Eufrasia, che non si era più mossa dalla cuccetta del capitano presa dallo sconforto e dalla paura, seppe del suo ritorno tornò in agitazione e aggrottò il viso per non sorridere più, neppure quando il marito giunse per vedere come stesse. Erano stati soli nelle notti oscillanti a bordo della ‘Belle’ ed era stata male, i nervi avevano ceduto e la sensazione di sconfitta l’aveva gettata nell’inquietudine rabbiosa di un animale in gabbia. Fu Lisette ad avvertire il duca che il conte era tornato e lui affidò Eufrasia alle sue cure per raggiungerlo. Lo vide sul ponte, mentre l’ancora risaliva ed un lieve vento perfetto gonfiava le vele. Facendo gli scalini due alla volta gli fu accanto. Erano in partenza. - Salutate la Francia… duca Rues… che non rivedrete mai più – disse oscuro. - Dove pensate di portarci? – fu secco. - Dove andremo… piuttosto – lo corresse sorridendo rilassato. Con un gesto del capo gli indicò delle casse accanto all’entrata delle stive. - Tre casse, duca… una per voi, una per me ed una per vostra moglie, la dote se vogliamo – ironizzò ed era così sereno da sembrare pazzo, visto l’accaduto che non era da poco. - Avete venduto le proprietà – intuì ed il conte ne fu soddisfatto. - Mi piacete duca… è sempre stato così. Non sarete chi dite d’essere, ma il cervello non vi è mai mancato… - rise. Era felice.


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- Un affarista a tutti gli effetti, vedo. Avete venduto tre proprietà in pochi giorni… - lo lusingò e si sentì anche lui tranquillo. - Un po’ sottocosto, lo ammetto… ma vista la situazione, meglio perdere la mano piuttosto che il braccio – precisò attento e si guardarono. - Non siete d’accordo… duca Stolfo Rues di… - lo prese ancora in giro, usando il suo nome fasullo e Venanzio fece spallucce. - Sapete chi sono – lo riprese divertito, senza astio. - Posso dimenticarlo e sarà meglio che lo dimentichiate anche voi… non sono bene accetti gli assassini in America… meglio presentarsi come ricchi nobili pronti a partecipare alla grandezza di un Paese che sta nascendo, non trovate? – lo interessò. - La fortuna del duca e quella di madame Zoraide… certamente vi permetteranno di non gravare su di me e sulla mia sposa – si fece insinuante confermando l’intenzione di accettare anche la nuova identità della figlia. Stolfo lo osservò e dovette affrontare ancora la sua strana pacatezza tronfia e soddisfatta. - Perché? – lo interrogò. - Sono solito mantenere le mie promesse, un po’ come voi… che avete mantenuto quella fatta a mia figlia… - lo incuriosì. - Quali promesse? – si fece cucciolo confuso. - Quelle fatte a Dio, duca… - lo stoccò. Certo, sapere che la figlia tanto compianta era viva… doveva avergli fatto sul serio credere all’esistenza assoluta del Signore che lo aveva esaudito, che gliel’aveva riportata. - Solo un cosa… non ho regolarizzato il vostro matrimonio… - lo deluse e Stolfo cercò una soluzione mentale. - Ma… - e si avvicinò a lui con aria complice. Il duca rimase fermo. - … mia figlia avrà il matrimonio più sfarzoso di tutta l’America, quello che il suo titolo esige, ricordatelo – fu perentorio colmandolo di una gioia che non trattenne e sfociò in un sorriso aperto. Avrebbe mantenuto anche l’ultima promessa rimasta in sospeso, l’avrebbe portata all’altare vestita di bianco, le avrebbe dato tutto ciò che una donna come lei avrebbe dovuto avere. Ripensò al momento in cui aveva avuto la possibilità di uccidere Xavier e chi lo accompagnava, non sarebbe stato un problema per lui, ma si era bloccato ed aveva deciso di arrendersi. Lo aveva fatto per la donna che amava, ci sarebbe stata la possibilità che lui morisse o che fosse destinato alla ghigliottina, ma lei… sarebbe stata salva perché suo padre l’avrebbe perdonata. Le cose erano andate meglio del previsto


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e ringraziò Dio per la prima volta, certo che fosse stato Lui a fermare la sua mano insanguinata. - Dovete volerle molto bene… anche se lei crede il contrario – si lasciò sfuggire, toccato dall’affetto che nonostante tutto univa quei due. Avevano combattuto sino a farsi davvero male, si erano ingannati e seviziati a vicenda, ma… se ci si pensava bene, Eufrasia aveva scelto la morte apparente pur di non infangare il prestigio del genitore e Xavier stava scegliendo l’inganno pur di non perderla un’altra volta. Lui tutto quell’affetto non l’aveva mai ricevuto, figlio di nessuno com’era, nato in una notte fatta di alcool e dolore. No, lui tutto questo non lo aveva neppure sognato e l’amore per Eufrasia era qualcosa di nuovo che lo allettava e lo colmava d’orgoglio e soddisfazione. - E’ mia figlia, Stolfo… è sangue del mio sangue, come posso non amarla? E’ una bastarda, lo so… lo ha dimostrato e lo dimostrerà sempre con la guerra che ancora sta portando avanti contro di me… ma è mia figlia. Forse il problema sta nel fatto che mi somiglia, che siamo così simili da scontrarci continuamente, forse non la so capire, forse lei non capisce me, forse… - rispose senza fretta, colto da un languore tenero che venne interrotto dallo sguardo altrove di Stolfo. Xavier si voltò e vide proprio lei che lo guardava. Non era vestita di nero, non portava il lutto del suo cuore, un abito di seta estivo e svolazzante verde smeraldo la rendeva bellissima agli occhi del marito e familiare a quelli del padre. Accanto a lei Lisette e poco distante Nora. Era lontana dai ringhi del passato, liberata dalla sofferenza che aveva colmato un’intera esistenza. - Una bastarda… - sottolineò ed alzò volutamente quel sopraciglio odioso. - Indomabile e insopportabile… se vogliamo – le rispose e meravigliarono tutti con quella conversazione graffiante. - Mentre voi… siete retto ed onesto, conte di Rennes e… disertore degli Stati Generali, fidanzato con una bambina e disposto a celare un assassino agli occhi del mondo – lo inveì, ma non c’era livore nel tono, come non ce ne fu nella reazione del conte. - Ci somigliamo, l’ho appena detto… - la interruppe. - Voi non avete mai ucciso – si mise a nudo. Xavier ebbe un fremito, poi ricordò Dio. - Questo lo pensi tu – la zittì. Stava cercando lo scontro di un tempo, mentre lui non lo voleva più. Dio, Dio, Dio lo aveva esaudito e le promesse erano promesse.


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- Ditemi perché… - si fece improvvisamente umile, fragile, i nervi a cedere. Xavier la raggiunse, scendendo i gradini che li separavano e le fu davanti. - Diciamo che… ti sei riscattata, va bene? – fu oscuro e lo fu anche per Stolfo che non si mosse, consapevole che quell’incontro era importante. - L’uomo che hai scelto non mi pare un allocco… - sorrise ironico ed Eufrasia sbuffò esasperata. Da quando il padre era così… pungente? - E’ un assassino… - non cedette nel gioco al ribasso in cui era una maestra. - Ah! Solo su commissione… mai senza motivo – intervenne l’interessato che l’abbracciò e guardò Xavier amichevole per spezzare la tensione che continuava ad esserci tra loro. Riuscirono a ridere, ma fu per forza. Poi Eufrasia riparò tra le braccia del marito che l’avvolse in una consolazione che sapeva inutile, poche ore e la perfezione degli eventi l’avrebbero convinta che era davvero tutto finito. - Conte, conte… vostra figlia è fragile come il fine cristallo delle coppe per champagne… – la prese in giro e l’amico sogghignò. - Certo… avrete modo di constatarlo quanto mia figlia è fragile, duca – lo schernì ed Eufrasia gli riservò uno sguardaccio imbronciato. Nonostante la presenza del conte sulla nave e l’apparente intenzione di Stolfo di dormire altrove, in piena notte raggiunse Eufrasia, entrando di soppiatto nella sua cuccetta. La nave ondeggiava piacevole e il rumore del mare era una musica piacevole che lei stava ad ascoltare seduta sul letto ed appoggiata alla parete di legno. Quando lo vide entrare, sorrise. - Non capisco questi segreti… siete mio marito – lo accusò di averla lasciata sola. - Brutte notizie, Eufrasia… - si mise accanto a lei, la brezza esterna ad entrare dalla piccola finestra aperta. Lei lo scrutò. - Non siamo sposati… - la sorprese. - Ma che accidenti.. – - Tuo padre non ha regolarizzato la nostra unione, come avrebbe potuto? Venanzio è un ricercato ed Eufrasia è morta… come previsto – sorrise e si accese un sigaro, flettendo una gamba. - Lo sapevate? –


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- Certo… e anche lui lo sapeva – fu ovvio. Un pugno sulla spalla lo fece trasalire e la guardò in cagnesco. - Ma cosa siete voi due? Due complici o cosa? – lo redarguì offesa. - Due amici… forse, non lo so… un grande uomo tuo padre… - Piantatela! – si alzò. - Vuole un matrimonio sfarzoso per te e non posso biasimarlo, tu non sei una qualunque – l’avvolse alle spalle e cercò impunemente di slacciarle la camicia da notte nera, vestigia del suo splendido guardaroba da vedova. - Ha disposto tutto alla perfezione insomma… - si lamentò e si voltò verso di lui, indaffarato con i lacci che erano troppi per i suoi gusti. - Un fisiocratico su tutti i fronti, Eufrasia… difficile imbrogliarlo, difficile precederlo… - rispose valutando i nodi stretti. Lei fede per allontanarlo e lui la fissò fermo. - Vogliamo parlare di tuo padre e della sua furbizia o… - e lo strappo fu sonoro, la spogliò in un lampo arrestandole il fiato. L’abito stracciato cadde al suolo e Stolfo la osservò senza nessun rispetto. Anche la promessa di strapparle di dosso il lutto fu mantenuta. - Meravigliosa… - asserì e le impedì di coprirsi il seno. - Odio il nero… te l’ho mai detto? – le sussurrò ad un centimetro dalla bocca e gli occhi a scintillare di una nuova passione. Eufrasia avrebbe voluto contraddirlo, continuare a discutete, ma i giochi erano fatti, gli altarini potevano essere scoperti anche il giorno dopo, i particolari dettagliati domani. - No - sorrise eccitata dalla mano invadente dell’uomo che le percorse il fianco sino al seno turgido e ansimante. - Bene… adesso lo sai… - concluse e la baciò come sapeva fare lui, un po’ volgare eppure invitante, profondo ed ardito, insaziabile nel rubarle il respiro come un vampiro ruba il sangue. La mordicchiò e la distese sul piccolo letto con l’aria fresca della notte a sfiorarli dolcemente. - Non credo che sia una cosa giusta, considerando… - si ribellò flebile. - Non considerare niente, non pensare, non parlare… per carità, Eufrasia! Taci… è la cosa migliore che puoi fare in questo momento… - la riprese ironico e le stuzzicò il lobo dell’orecchio, dandole un brivido. - Non posso dirvi neppure che vi amo, niente? – lo bloccò. - Bah… questo sì – approvò allegro e si gettò su di lei. Scese piano, come non era mai accaduto. - Che… fate? – balbettò incredula ed un po’ scandalizzata.


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- Cose nuove, Eufrasia… nuove cose verso il Nuovo Mondo - ridacchiò e la trascinò in altre sensazioni, in nuove strade, in novelle tempeste che le fecero perdere il lume della ragione e tagliarono l’ultimo filo di razionalità che era riuscita a mantenere. Il tempo era corso velocissimo dopo essersi dilatato ed ora, tutto andava forte, anche la loro passione che incalzò, scalciò, ruggì ed infine volò in un lancio meraviglioso che rasentò l’oceano che li attendeva. Non lo fermò, la fiducia totale ed estrema che riponeva in lui non le permise di mettere nulla in discussione. Lo lasciò percorrere il suo corpo in lungo ed in largo ed accettò i suoi inviti a fare la stessa cosa senza chiedersi se era lecito. Si conobbero in profondità, studiarono le proprie reazioni, si divertirono a provocarsi e poi a ritirarsi e si amarono sempre di più, più della prima volta, più della seconda. Fu una notte intensa come ogni volta che erano soli, fu un pensiero unico ad unirli in una corsa sfrenata verso la felicità che adesso sapevano di poter conquistare. Avrebbero pagato, lo sapevano, per i loro delitti ed erano disposti a farlo, ma sarebbero stati felici. Esausti si lasciarono andare sul minuscolo letto ed ascoltarono il concerto del mare notturno, lo sventolare delle grandi vele, il parlottare distante dei marinai di turno. - Siete un bastardo… - concluse Eufrasia dopo un po’, memore delle loro conversazioni. - …o un eroe, avevo detto anche questo - le rispose e si guardarono seri. Poi ridacchiarono come due sciocchi.


EPILOGO Luglio 1789 La Francia era in rivolta. La fine di giugno aveva portato cruente manifestazioni nella Capitale con l’epilogo tragico dell’assalto alla fabbrica di carte da parati di Reveillon. Si diceva che i morti fossero stati centinaia. Le prime truppe straniere erano giunte in sordina a Parigi, ma la gente non poté fare a meno di notarle. I più attenti sentivano odore di rivoluzione ed alcuni predicevano persino la data in cui sarebbe iniziata. L’assemblea degli Stati Generali era stata sottilmente boicottata, ma aveva resistito, autoproclamandosi Assemblea Nazionale ed il 23 luglio 1789 i deputati concordi dei tre ceti avevano fatto il loro giuramento nella sala provvisoria della pallacorda: non si sarebbero sciolti sino alla definizione di una costituzione per lo Stato francese, anzi per la Nazione. Le attività dei deputati erano frenetiche ed il re pareva imbambolato, travolto dall’impetuoso vento delle nuove correnti. Tuttavia, lo scontento del popolo non aveva cessato di serpeggiare neppure con la riunione tanto agognata. La terribile carestia di un intero anno si faceva sentire adesso, nonostante parecchie navi facessero la spola con i paesi produttori per l’importazione del grano. Il 14 luglio 1789 fu presa la Bastiglia, il re nel suo diario scrisse ‘rien’ (niente) e la Francia conobbe la Rivoluzione.

FINE



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