Volevo un marito nero

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VALENTINA GERINI

VOLEVO UN MARITO NERO

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Serie BIG‐C Grandi Caratteri, lettura facilitata VOLEVO UN MARITO NERO

Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-616-5 Copertina: Immagine proposta dall’Autore Prima edizione Ottobre 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova


“Trattiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci è sta‐ ta donata dai nostri padri, ma ci è stata prestata dai no‐ stri figli.” antico detto Masai



A mio marito e alla nostra piccola Amy



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CAPITOLO 1 AFRICA Africa. “Questo è il centro del mondo!” pensai non appe‐ na i miei piedi ebbero toccato il suolo dell’aeroporto di Zanzibar. Un caldo soffocante rendeva affannoso il mio respiro, una forte umidità non lasciava scampo al sudore. Dalla pista vedevo palme altissime, una vegetazione rigo‐ gliosa di un verde smeraldo intenso faceva capolino die‐ tro al piccolo edificio adibito ad aeroporto. Il cielo azzurro lasciava spazio a un sole già alto, caldo e splendente, ed erano solo le 07:00 del mattino del primo Dicembre. Fummo indirizzati all’interno dell’aeroporto per compilare i visti e pagare la tassa d’entrata. Un aereo completo di almeno 200 passeggeri era stipato in una piccola stanza, intasando il passaggio tra la sala visti e il ritiro bagagli. Si


8 iniziava letteralmente a morire di caldo! Compilato il mio visto, pagai la tassa e mi recai a ritirare il bagaglio. L’aria condizionata era diventata ormai una necessità per la so‐ pravvivenza, ma sembrava proprio che non ce ne fosse traccia. Alla ricerca del nastro trasportatore m’imbattei in un semplice bancone di legno, dietro il quale gli addetti ai bagagli sventolavano in aria valigie e borse come in un mercato, cercandone il proprietario. Scorsi le mie due pic‐ cole valigie rosse e, previo pagamento di una mancia qua‐ si obbligatoria, riuscii a farmele consegnare. Diretta verso l’uscita fui fermata da due agenti della polizia doganale che, impalati di fronte a me, decisero che sarei potuta passare solo se avessi aperto la valigia per un controllo; era chiusa con un lucchetto, e io non avevo assolutamen‐ te idea di dove fosse finita la chiave! Supplicandoli di la‐ sciarmi passare non ottenni alcun risultato, quindi offrii loro la banconota di taglio più piccolo che avevo a portata di mano, 20 dollari, e si aprirono come un sipario lascian‐ domi passare come una regina. Uscii finalmente da quell’incubo e fui catapultata in un ammasso di gente, per


9 lo più uomini, ragazzini e anziani, che si offrivano di farti da facchini in cambio di due spiccioli. Scorsi il mio opera‐ tore turistico e mi avvicinai al banco per informare del mio arrivo. Ero stata mandata in Tanzania per la stagione in‐ vernale, come assistente turistica quale ero, dopo aver trascorso l’estate precedente in Grecia. Quella che si rive‐ lò essere la mia responsabile, Sarah, dopo avermi gentil‐ mente accolta, mi disse di lasciare i bagagli a un ragazzo locale attaccandoci sopra un’etichetta per riconoscerli, e di dirigermi al bus numero dieci. Mi separai dal mio bagaglio non molto convinta, guar‐ dandolo mentre veniva messo, o meglio lanciato, su di un carretto, e salii sul bus dieci. Anche qua l’aria condizionata non c’era, i sedili erano di dimensioni gnomiche e l’autista sembrava uscito da un cartone animato. Quando il bus fu pieno di quelli che, nei successivi giorni, sarebbero stati i gentili ospiti di cui mi sarei dovuta occu‐ pare al villaggio, partimmo in direzione Nungwi, a nord dell’isola.


10 Le strade erano malmesse e gli ammortizzatori del bus non erano certo in migliori condizioni, quindi il viaggio sembrò più un viaggio in nave che in autobus. Durante il tragitto avrei dovuto ascoltare il piccolo brie‐ fing fatto dall’assistente che avrei sostituito, ricco d’informazioni e nozioni utili sul posto, ma fui rapita dalle immagini che si sovrapponevano fuori dal finestrino. La vegetazione, le case, le capanne, le persone, le mucche. Donne con turbante portavano in testa grandi cesti colmi di ogni bene, bambini con uniformi andavano e uscivano da scuola, carretti erano trainati da mucche con la gobba, palme altissime riempivano i giardini e i boschi ai lati delle strade, banchetti di panini e carni alla brace contornavano le strade, si udivano grida e urla da mercato provenire da ogni lato, potevo sentire i rumori e gli odori di quella di cui sempre avevo sentito parlare, ma mai avrei pensato di vedere: l’Africa. Qua gli odori erano più odori, i colori era‐ no più colori, i rumori erano più rumori. In una specie di trance arrivai al villaggio e appena scesa dal bus m’incantai a osservare la danza di benvenuto che i Masai


11 dell’hotel facevano in onore dei nuovi clienti arrivati, un benvenuto ricco di salti, strilli e canti. Delle figure nere, longilinee e forti erano avvolte in drappi colorati, preva‐ lentemente sul rosso, bracciali di ogni genere, perline e orecchini, mazze e pugnali. I Masai, ne avevo sentito par‐ lare forse una volta fino a quel momento. Bellissimi nel loro essere sé stessi, erano persone meravi‐ gliose, glielo si leggeva negli occhi. Dopo aver atteso che i clienti facessero il check‐in in hotel fui accompagnata nella mia stanza, all’interno della staff house, dove avrei dormito per cinque lunghi mesi…IN AFRICA! Continuavo a ripetermi emozionata che sarei ri‐ masta in Africa per cinque mesi. Eccitata, continuavo a pensare che sarei stata in Africa fino ad aprile. Africa…. Nemmeno il tempo di farmi una doccia e incontrare il primo scarafaggio gigante di quest'avventura, tranquilla‐ mente appollaiato sulla maniglia dell'acqua della doccia, che fui subito chiamata a rapporto dalla responsabile. Do‐ vevo osservare cosa avrei dovuto fare una volta arrivata


12 nel villaggio con gli ospiti: accoglienza, passaggio in spiaggia per verificare la soddisfazione dei clienti, entrata al ristorante con saluto, vendita escursioni. Non ero stan‐ ca, il fuso orario non era massacrante, soltanto due ore in più di differenza rispetto all'Italia, ma il caldo mi stava in‐ debolendo. Mi sentivo letteralmente intontita, il sole sembrava picchiare sulla mia testa con un martello, l'aria era così calda e densa che sembrava uscire da un phon a tutta potenza. Andai in spiaggia dove si trovavano il no‐ stro ufficio operativo, il teatro e il ristorante. Praticamen‐ te il centro vitale dell'hotel si sviluppava in spiaggia. Misi un piede sulla sabbia bianchissima e rimasi sorpresa nel sentire che non bruciava, era semplicemente tiepida. O‐ vunque io fossi stata prima di allora la sabbia scottava a causa del calore del sole, ma questa no. La responsabile mi spiegò che era sabbia di origine corallina e che per questo motivo non bruciava. Vera o no questa spiegazio‐ ne, la sabbia non bruciava affatto. I miei primi giorni trascorsero bene, ero immersa nel lavo‐ ro ed ebbi poco tempo per dedicarmi alla scoperta del


13 nuovo territorio fino al sabato sera, quando era prevista una festa dedicata alla luna piena nel bar in spiaggia vicino al nostro villaggio, unico bar nel giro di 3 km. Il “Full Moon Party” è una festa organizzata ogni mese ed è molto fa‐ mosa in tutta Zanzibar, le persone vengono a ballare e a‐ scoltare musica da ogni parte dell’isola. Il caldo era molto forte anche se erano le dieci di sera, l’unica differenza tra il giorno e la notte era solamente la presenza del sole o della luna nel cielo, perché i gradi e l’umidità non variava‐ no per niente. Io e le mie colleghe di lavoro ci vestimmo con abiti legge‐ ri, una gonna di jeans e una canottiera, e senza scarpe né ciabatte ci incamminammo a piedi nudi verso il bar, cam‐ minando sulla battigia. Arrivate vedemmo che era stata creata un’entrata con delle reti che circondavano, come un campo da tennis, la spiaggia vicino al bar. Pagammo l’entrata 10,000 scellini, l’equivalente di 5 euro, importo che includeva anche due bevute. Alla festa c’erano molte persone: turisti, tantissi‐ mi locali, ragazzini mal vestiti, donne, ragazze truccate a


14 punto per l’occasione e i Masai. Tanti Masai che ballavano con i loro movimenti tipici adattati alla musica moderna. Le casse diffondevano musica reggae a tutto volume, qualche canzone locale e un po’ di hip‐hop. Ballavano tutti e ballammo anche noi, in cerchio, circondate dai Masai e da qualche beach boys, ragazzi del posto che si guada‐ gnano da vivere vendendo escursioni pirata in spiaggia, per questo si definiscono loro stessi “beach boys”. Bal‐ lammo a piedi nudi, sulla sabbia, con il mare come sfondo e una grande luna che sembrava caderci addosso da un momento all’altro. Il cielo di Zanzibar era un cielo differente da quello che avevo sempre visto, non solo perché si trova nell’emisfero opposto rispetto a quello italiano, ma forse perché essendo un’isola poco distante dall’equatore, le stelle e il cielo sembrano più vicini. Questa era la sensazione che avevo ogni volta che guar‐ davo il cielo, di notte. Sembrava di poter realmente tocca‐ re le stelle con un dito, di poterle sfiorare, di poter solleti‐ care la luna. Un’immensa distesa di piccole lampadine lu‐


15 minescenti su di un manto nerissimo, infinito. Non c’erano luci artificiali, né lampioni a rovinare questa visione. Le u‐ niche luci erano quelle dei pochi hotel della zona, e dei pochi bar in spiaggia. Nient’altro. Niente strade illumina‐ te, discoteche con cartelli importanti, negozi e supermer‐ cati con insegne accese giorno e notte. Solo mare e cielo, il blu della notte si confondeva con quello del mare e le stelle illuminavano tutto, sovrane. Guardando il cielo, in quel momento, io mi sentii viva, viva come non mi ero sentita da molto tempo. E decisi che vo‐ levo vivere appieno ogni attimo che questa esperienza mi stava offrendo. Andavo in aeroporto ad accogliere i nuovi ospiti in arrivo e ad accompagnare quelli vecchi alla partenza del loro ae‐ reo quattro volte a settimana, sempre di notte, quando ancora il sole doveva sorgere, e quattro volte a settimana assistevo a un’alba che non ha eguali. Il cielo da scuro si trasformava in un miscuglio di sfumature, fatte col pen‐


16 nello, che dal blu notte passavano per l’arancione e il gial‐ lo tenue, fino a far sorgere il sole, tra le palme, circondato dal verde delle piante. Alle sei e poco più il sole era già al‐ to in cielo, splendente e radioso come ogni giorno. Partivo dal villaggio turistico intorno alle 03:30 a.m. e po‐ tevo respirare la notte africana, durante la quale le perso‐ ne riposano nelle loro capanne fatte di fango e pietre, senza aria condizionata né pale al soffitto, senza zanzarie‐ re, al contatto con la terra, in mezzo alla radura. Attraver‐ savo piccoli paesini adiacenti alla strada principale asfalta‐ ta alla ben e meglio, potevo osservare alcune persone che si svegliavano presto al mattino, ancor prima del sole, per intraprendere un cammino verso un altro paese. Il mezzo pubblico, il “dalla‐dalla", è un furgoncino aperto, una spe‐ cie di carretto con il motore guidato da improbabili autisti, sul quale possono montare indistintamente uomini e ani‐ mali, soprattutto galline, e caricato all’inverosimile di vali‐ gie e borse, sacchi e sacchetti. Dio solo sa come faccia a muoversi! I dalla‐dalla li vedevo in giro per le strade fin dal


17 primo mattino, ma non la notte. La notte chi viaggiava lo faceva a piedi, e il più delle volte scalzo. Mi incantavo a guardare nel buio della notte per scorgere gli occhi bianchissimi di quelle persone che erano già in cammino da ore (o forse non si erano ancora fermate da giorni), occhi languidi che riflettevano la luce dei fari del nostro bus. Qualche animale si faceva sentire durante la notte, so‐ prattutto qualche scimmia, nella foresta subito fuori dal nostro villaggio. La foresta delle scimmie per eccellenza si chiama Jozani Forest e si trova a sud dell'isola, a circa 4 ore di macchina da dove si trovava il nostro hotel. E’ una foresta abbastanza famosa e visitata da molti turisti, ap‐ passionati della natura e di animali. Vendevamo una e‐ scursione che prevedeva un cammino guidato all'interno della foresta, con la possibilità di avvistare e spesso anche accarezzare qualche scimmia con il sedere rosso, una scimmia endemica dell'isola chiamata Colobo rosso. La notte a Zanzibar sembrava essere la vera notte, diversa da quella a cui siamo abituati in Europa. La Notte, con la n


18 maiuscola, senza rumori di auto, moto, fabbriche in fun‐ zione, senza elettricità né locali chiassosi. Solo i rumori della natura, il fruscio delle foglie delle palme che si muo‐ vevano per la leggera brezza calda, i versi di alcuni anima‐ li, i passi delle persone in cammino. Avvicinandoci all'aeroporto le strade si popolavano un po' di più e venivamo fermati puntualmente in un posto di blocco, uno dei tanti posti di blocco sull’isola stabiliti dalla polizia, per un controllo di routine sulla patente dell’autista e i documenti del bus. Gli ospiti erano sempre divertiti, non immaginavano quasi mai che il nostro avviso a non mostrare in bella vista macchine fotografiche e og‐ getti di valore perché non era un buon costume farlo es‐ sendo in un paese musulmano, era in realtà un semplice avviso per evitare di essere derubati anche dagli stessi po‐ liziotti. Fortunatamente non accadde mai niente di strano viag‐ giando di notte per le strade di Zanzibar. Gli autisti, che guidavano tutti in maniera molto imprudente, si rivelava‐ no poi essere come dei bambini, ubbidienti e riverenti. Un


19 mattino, tornando dall’aeroporto con i clienti appena ar‐ rivati, l’autista, soprappensiero, passò sul primo dei tre dossi che sempre incontravamo lungo il nostro percorso a gran velocità. Andava così forte che le borse delle perso‐ ne caddero dai sedili sui quali erano poggiate, e le perso‐ ne saltarono su sé stesse; alcuni, i più alti, sbatterono la testa contro il soffitto dell'autobus. Lo ripresi, lamentan‐ domi in un inglese ben comprensibile e lo minacciai di ri‐ ferire l’accaduto al responsabile dell’agenzia dei bus se non fosse stato d’ora in avanti più attento alla guida. Il suo atteggiamento di reverenza e sottomissione che se‐ guì immediatamente la mia lamentela mi spaventò. E fu allora che mi resi conto che non era stata la prima volta, né lui era l’unico ad avere questo atteggiamento. Era co‐ me se alcuni di loro avessero paura oppure enorme ri‐ spetto degli stranieri, gli stranieri bianchi che loro chia‐ mavano “mzungu”, che in swahili vuol dire bianco. Iniziai a odiare questa cosa e tentavo molto spesso di dissuaderli da questo loro comportamento, cercando di instaurare un rapporto alla pari, anche tra uomo e donna, come sia‐


20 mo abituati noi in Europa. Non fu certo un’ottima idea, perché qualsiasi fosse la persona con la quale provavo a instaurare questo tipo di rapporto paritario, era subito e sempre frainteso come interesse. Non doveva essere faci‐ le per loro, soprattutto per chi viveva senza una istruzio‐ ne, capire che può esistere amicizia e rispetto reciproco tra uomo e donna, di paesi diversi. Uno dei nostri aiutanti, con il quale avevo spesso scherzato e parlato in aeropor‐ to durante l’attesa dell’arrivo del volo, iniziò a tempe‐ starmi di chiamate e messaggi fino a che la notte del 31 dicembre me lo ritrovai alla festa vicino al nostro hotel, che dichiarava implicitamente il suo amore per me. Quella festa fu il mio primo ufficiale ultimo dell’anno lon‐ tana da casa. Andai alla festa vestita con abiti leggeri, scelti senza ben pensare. Avevo disimparato a scegliere i vestiti con cura, a come indossarli e come truccarsi. Faceva troppo caldo e inoltre la semplicità del luogo e delle persone permetteva automaticamente di dimenticarsi certe abitudini. Prima della festa dovemmo partecipare alla cena "di gala" orga‐


21 nizzata per gli ospiti dell'hotel. Una cena a base di pesce e deliziosa cucina italo‐africana, con tavoli apparecchiati di‐ rettamente in riva al mare, qualche candela e fiaccola ac‐ cesa per illuminare e le stelle sopra di noi a guardare. Pri‐ ma di festeggiare quello che veniva chiamato "il capo‐ danno italiano", ovvero il conto alla rovescia per stappare lo spumante e festeggiare la mezzanotte nello stesso momento in cui lo avrebbero fatto in Italia due ore più tardi rispetto a noi, io e Sarah decidemmo di andare alla festa organizzata nel bar vicino al nostro villaggio. Arrivate alla festa prendemmo una coca‐cola. Il caldo in‐ cessante mi aveva fatto passare la voglia di bere alcolici, di qualsiasi tipo. Amante del vino, da buona toscana quale sono, avevo abbandonato l’abitudine di berlo poco dopo essere arrivata a Zanzibar. Non bevevo vino, né birra. La mia collega era musulmana e non beveva alcolici. Questo forse mi aiutava nel mio insolito comportamento. Ci met‐ temmo subito a ballare, come ormai era diventato nostro solito fare ogni volta che c’era una festa. Non ho mai bal‐ lato tanto quanto l’ho fatto a Zanzibar! Con Sarah usci‐


22 vamo un paio di sere a settimana in cerca di feste in spiaggia, nei pochi locali adiacenti il nostro villaggio. Se c’era una festa con un po’ di musica e un po’ di gente, an‐ davamo e ci mettevamo a ballare. Le dicevo sempre che era molto scortese con i ragazzi che puntualmente le chiedevano di ballare. Lei rispondeva categoricamente di no e loro se ne andavano sconfitti. Era un piacere andare alle feste con lei, eravamo quasi inseparabili, ci chiamava‐ no “le due pappagalline” perché dormivamo nella stessa camera, lavoravamo insieme ogni giorno con due posizio‐ ni diverse (lei era il capo e io l’assistente) e passavamo in‐ sieme il resto del tempo in spiaggia o vedendo film, oppu‐ re ridendo come delle pazze anche senza motivo. Andare con lei alle feste era bello anche per il puro piacere di bal‐ lare. Tornavamo dalle feste stanche, sfinite ma contente. La sera del 31 dicembre ballammo un po’ alla festa organiz‐ zata al bar vicino al nostro hotel, ma quando arrivò Mike, il ragazzo che ci aiutava in aeroporto, e si appiccicò a me, decidemmo che era l’ora di andarcene dal locale. Dopo


23 aver festeggiato l’arrivo dell’anno nuovo in spiaggia con tutto lo staff locale della cucina, andammo a dormire, sor‐ ridenti. Un altro anno era appena iniziato ed eravamo in Africa. Ero ancora nella mia adorata Africa… Ogni sera dovevo fare un annuncio in teatro, rivolto a tut‐ ti gli ospiti del villaggio, con il quale ricordavo loro le atti‐ vità del giorno successivo e li informavo di eventuali par‐ tenze, orari e regole aeroportuali. L’annuncio era previsto per le 21:45 circa e avevo quasi un’ora di buco tra la cena e il mio momento sul palco. Alle 20:30 sempre puntuali Sa‐ rah e io andavamo al ristorante del villaggio, dove il no‐ stro adorato chef italiano Michele allestiva un super buffet che ci faceva dimenticare di essere in Africa per tutto il tempo della cena: risotto primavera, gamberetti in salsa rosa, chili con carne, hamburger e patatine, pasta al pesto, pappa al pomodoro, frutta a volontà. Cenavamo rapidamente, ma sempre soddisfatte del menù del gior‐


24 no. Con Michele avevamo creato anche un altro momento sacro della giornata, il momento caffè. Di solito in ufficio, alcune volte invece nelle nostre stanze, attaccavamo alla corrente la nostra moka elettrica, che avevamo ereditato dai precedenti assistenti turistici e ci gustavamo un buon caffè italiano, lontani dai clienti, nascosti da tutti. A cena ricreavamo questo momento, anche se i clienti rimaneva‐ no ovviamente tutti intorno a noi, intenti a consumare a loro volta i loro pasti. C'era un divertentissimo cuoco salta pasta che con il suo sorriso invogliava tutti a provare gli spaghetti o le penne del giorno, il maître della sala si oc‐ cupava di organizzare i tavoli e, se c'era il compleanno di una persona dello staff o di un cliente del quale eravamo venuti per caso a conoscenza, metteva una canzone tipica Keniota intitolata "Jambo bwana" a tutto volume, spe‐ gneva le luci e faceva passare tutto lo staff della cucina per la sala ristorante, formando un trenino, con a capo lui con una torta in mano, diretti al tavolo del festeggiato.


25 "Jambo, Jambo Bwana Habari Gani Mzuri Sana Wageni Wakaribishwa Kenya Yetu Hakuna Matata" "Ciao Ciao Visitatore Come va? Molto bene! Gli stranieri sono benvenuti nel nostro Kenya Nessun problema" Dopo la cena Sarah andava in camera, con il suo passo lento e rilassato e io mi sedevo vicino al teatro, in un luo‐ go dove non arrivava molta luce, per fumare una sigaretta in santa pace. Lì m’incontravo con quelli che erano ormai


26 diventati i miei amici, i Masai, e con loro ogni sera instau‐ ravo una conversazione animata che toccava ogni genere di argomento. I supermercati, le guerre, gli animali, il computer. Come facevamo a comunicare? Beh, non è molto semplice da spiegare, ma certo è che tanta volontà e fantasia aiutavano lo sforzo. La maggior parte di loro conosceva solo pochissime parole in italiano e altrettanto poche in inglese, quindi comunicavamo con gesti e rumori e tanti disegni sulla sabbia. Sarah mi chiedeva sempre come facessi a trascorrere ore a parlare con loro, se si po‐ teva definire parlare il fatto di non parlare la stessa lingua. E ogni volta si meravigliava di quante cose imparavo sul loro mondo e la loro cultura. Arrivavo in camera e le dice‐ vo: «Saraaaaah! Senti cosa mi hanno raccontato stasera i Masai! Dicono che al loro paese hanno una casa fatta così e un cortile fatto cosà…» Effettivamente era difficile, ma riuscivamo a comunicare. Un giorno loro mi chiesero se mio papà avesse un fucile a casa per cacciare gli animali, se avesse delle mucche nel cortile e se la mia casa fosse di paglia. Io spiegai che mio


27 papà non aveva mucche, ma un cane e un gatto, che non avevamo cortile o giardino ma solo un grande terrazzo, che non tenevamo fucili a casa perché la carne e il man‐ giare al nostro paese si comprava nei negozi o nei grandi supermercati. Ricordo ancora, come fosse adesso, il loro stupore quando dissi che mio papà non aveva nessuna mucca: “Oooooooh!”. «Perché comprare la carne quando si può avere una mandria tutta nostra?» chiedeva uno di loro. Allora mi disegnarono sulla sabbia con il loro basto‐ ne com’era fatta la loro casa ad Arusha, vicino al monte Kilimangiaro. La capanna dell’uomo al centro di un cer‐ chio, circondata dalle capanne delle donne e dei figli e, dentro al cerchio nel cortile, le mucche. Più mucche ave‐ vano più erano “ricchi”. Amavo trascorrere tempo con loro, mi aiutava a capire una parte di mondo che avevo sempre ignorato, a entrare in contatto con una cultura diversa dalla mia. Spesso portavo loro delle medicine e cercavo di spiegargli come usarle, portavo loro bagno‐ schiuma e shampoo, T‐shirt che i turisti buttavano nella spazzatura ma che erano sempre buone. A volte portavo


28 il mio computer e facevo vedere loro foto dell'Italia, delle città che avevo visitato, di casa mia e della mia famiglia. Guardavano lo schermo ammaliati dalle figure presenti nelle foto e mi chiedevano di spiegare loro dove si trovas‐ sero questi posti. E poi parlavamo di feste. Anche i Masai adoravano il full moon party tanto che una sera di luna piena, quando ero pronta per andare alla festa, fui chia‐ mata in spiaggia dal capo dei Masai, Charlie, che conti‐ nuava a gridare «Federica ngirongiro… sorpresa!!» che voleva dire, ormai ero esperta, “Federica vieni a vedere una sorpresa!”. Continuava a strattonarmi verso il mare, verso il buio, fino a che decisi di seguirlo incuriosita. Na‐ scosto nell’oscurità c’era Ranjil, un Masai bellissimo con il quale parlavo spesso ogni sera e che più volte mi aveva chiesto a suo modo di diventare sua moglie. Era vestito con abiti europei: jeans di due taglie più grandi, una polo chiara anch’essa enorme, un cappellino e ai piedi aveva tolto le tipiche scarpe Masai, fatte di pneumatico e corda. Capii che si era vestito così per me e quindi, divertita, lo


29 invitai alla festa della luna e gli pagai il biglietto d’entrata. Fu una delle feste più divertenti di tutta la stagione. Sarah e io ballammo come sempre e Ranjil sembrava in‐ timorito dalla confusione. Poi iniziò a sciogliersi e si mise anche lui a ballare. A un certo punto, in mezzo alla folla che era ormai sparsa in tutta la spiaggia, scorgemmo gli altri Masai del villaggio che si unirono alle nostre danze. Ridendo e scherzando stavamo fondendo culture e modi di ballare diversi, senza nemmeno renderci conto della bellezza della situazione in cui ci trovavamo. Era fantasti‐ co ballare in stile anni ’70, facendo quel gesto in cui col naso tappato fai finta di scivolare nel mare e andare sem‐ pre più giù e vedere che un Masai cercava di imitarti. A ogni Masai del villaggio, durante i miei dibattiti serali, a‐ vevo affibbiato un soprannome. C’era Maria che avevo chiamato

così

perché

faceva

perfettamente

l’interpretazione di un personaggio chiamato Maria in uno sketch che gli animatori mettevano spesso in scena nei loro spettacoli. C’era Pettinino che portava sempre inca‐ strato tra i capelli crespi un pettine verde fluorescente.


30 C’era Salto che durante l’esibizione di balli e salti che i Masai facevano ogni settimana sul palco del teatro del vil‐ laggio, era quello che saltava più in alto di tutti. C’era Ombra che non parlava molto e rimaneva sempre in di‐ sparte durante le nostre chiacchierate. Loro adoravano questi soprannomi e me li ripetevano o‐ gni volta che mi vedevano. Il giorno del mio compleanno li trovai tutti al bar del villaggio che mi aspettavano dopo l’annuncio in teatro per consegnarmi dei regalini fatti a mano. Charlie, il capo, come se fosse il presentatore di questo evento, introduceva i Masai, a uno a uno, dicendo il loro soprannome e ognuno di loro mi stringeva la mano, come augurio di buon compleanno. Sarah aveva fatto preparare una torta che, come tradizione, era stata porta‐ ta al nostro tavolo durante la cena, con tanto di canzone e trenino di tutti i cuochi e i camerieri, e avevamo conser‐ vato un pezzo di questa torta per i Masai. Michele si era proprio sbizzarrito: torta al cioccolato ripiena di panna e ricoperta di glassa, a forma di cuore. I Masai gradirono la nostra offerta e mangiarono la torta con le mani, apprez‐


31 zandone il gusto e comunicando questo apprezzamento con gli occhi. Questa era la vera essenza dell’Africa. Amicizia tra popo‐ lazioni differenti. Questa era l’Africa… Parlando con Sarah, una sera decidemmo che non sa‐ remmo partite se non fossimo riuscite a fare un Safari in Tanzania e iniziammo a organizzarlo. Purtroppo non po‐ tevamo andare insieme, poiché non potevamo lasciare l’ufficio incustodito e quindi accettammo l’idea di dover fare questa esperienza separate. L'organizzazione fu la‐ sciata nelle mani di Giuseppino, un italiano che viveva a Zanzibar da moltissimi anni e organizzava Safari di profes‐ sione. Ci prenotò il volo e il campo con la tenda a un prez‐ zo stracciato. Io andai per prima, con un animatore che si unì quasi all’ultimo. Partimmo di buon mattino dall’aeroporto di Zanzibar diretti a Dar Er Salaam, la capitale della Tanzania, con un aereo da circa dieci posti. Allargando le braccia si


32 poteva toccare da una parete all'altra del velivolo e dai finestrini si poteva vedere nitidamente ciò che si trovava sotto di noi: la costa zanzibarina da una parte, le onde del mare nel mezzo e la costa della Tanzania dall’altra. Il volo fu molto breve e arrivati all’aeroporto di Dar Er Salaam scendemmo dal nostro aereo per prenderne uno ancora più piccolo, almeno questa era l’impressione che dava. Eravamo sei passeggeri più il pilota, un inglese distinto di mezza età. L’aereo sembrava instabile, volare con quel mezzo pareva impossibile. Ci sistemammo seduti sui seg‐ giolini, allacciammo le cinture e via, l'aereo cominciò a correre sulla pista più veloce che poteva finché non si li‐ brò in aria. Una volta in cielo, volammo bassi, tra nuvole rosa e uccelli in volo. Arrivammo al parco nazionale di Ruaha in poco più di un’ora e l'atterraggio, per quanto perplessi potessimo essere alla vista della pista sterrata, fu dolce e rapido. Appena scesi dall’aeroplano fui colpita dal silenzio che regnava sovrano in mezzo a montagne e distese di terra rossa. Due elefanti si intravedevano in lon‐ tananza, qualche giraffa camminava lenta. Ǥ ǤǤǤ


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