Venti d'acciaio, Nunzia Cavallera

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VENTI D’ACCIAIO

1 NUNZIA CAVALLERA
ZeroUnoUndici Edizioni

ZeroUnoUndici Edizioni

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VENTI D’ACCIAIO

Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-9370-585-1 Copertina: Immagine Shutterstock.com Prima edizione Novembre 2022

Dedicato a mio padre.

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Questo libro è ispirato e tratto da taluni fatti realmente accaduti. Tuttavia, i dialoghi e alcuni dei personaggi, dei nomi e degli eventi sono il frutto dell’immaginazione e della libera espressione artistica dell’autore e sono stati creati per esigenze narrative. Pertanto, ogni eventuale similitudine, riferimento o identificazione con fatti o persone, diversi da quelli espressamente individuati nel libro come reali, è puramente casuale e non intenzionale.

5 INDICE Prefazione ..................................................................................... 7 Scirocco ........................................................................................ 9 Maestrale ..................................................................................... 22 Mezzogiorno ............................................................................... 37 Tramontana ................................................................................. 53 Grecale ........................................................................................ 68 Libeccio ...................................................................................... 83 Levante ........................................................................................ 90 Favonio ..................................................................................... 108 Rosa dei venti ............................................................................ 119 Ringraziamenti .......................................................................... 137 Note ........................................................................................... 139

PREFAZIONE

Maggio 1915i

C’era vento sul ponte quella mattina. Troppo vento per essere già maggio, l’estate quell’anno non voleva proprio arrivare. Luigi indossava ancora il suo Borsalino, ma, in ogni caso, non se lo sarebbe levato neanche ad agosto, quando il caldo infernale lo avrebbe costretto a sostituirlo con un modello di cotone, sempre rigorosamente nero. Camminava impettito e fiero della sua statura spropositata per l’epoca, sapeva di essere temuto, rispettato solo per la sua arroganza: se lo meritava. D’altra parte, non era quello il compito di un carabiniere, si chiese tenendo fermo il cappello per non farselo portar via dall’ennesima folata di tramontana. «Cavalera?»

Si girò di soprassalto alla voce potente del suo superiore: «Comandi?»

«Domani vai a piantonare l’arsenale che sembra che debbano partire un po’ di navi, con quello che sta succedendo, guarda se non finisce male eh?»

«Ma no comandante, non penso che entreremo in guerra noi, sono problemi che non ci riguardano.»

«Eh, ho capito, però se succede, qua finisce male.»

Si girò Luigi, convinto di vedere già arrivare all’improvviso una schiera di soldati infuriati con spade sguainate, come aveva sentito raccontare nelle storie da bambino. Accertatosi che non ci fosse nessun assalitore ritornò in questo secolo: «Va bene, che faccio allora, vado con Pantaleone?»

«No», rispose il comandante aspirando forte dal bocchino. «No, Pantaleone lascialo in scuderia che non sta bene, vai a piedi», tuonò categorico e sparì ancor prima del fumo della sua sigaretta.

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Attraversò il ponte, demoralizzato nel lasciare ancora una volta il suo cavallo preferito nelle scuderie. Che cosa era un carabiniere senza il suo cavallo, pensò allacciandosi il paltò e toccandosi il cappello, nell’ansia di non averlo indossato.

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SCIROCCO

Giugno 1930

I passi sui ciottoli bianchi rimbombavano fino a casa. Lo sentiva, era furente.

Pompea guardò disperata la coppa vuota sul tavolo: quanto avrebbe desiderato vederla di nuovo piena di quelle fave belle, verdi e profumate; d’altra parte aveva già male al pancino che, nonostante fosse pieno, borbottava tale e quale a prima, quando era vuoto già da due giorni.

Anche Maria, però, sentiva già il pianto incessante di Pompea: Dio l’aveva maledetta con quella bambina, certo, dopo aver avuto tre figli buoni e lavoratori, eccola là, lei piangeva e basta, anzi piangeva e mangiava, mangiava e piangeva, a sette anni pesava già trentacinque chili, a quanto sarebbe arrivata?

Non poteva correre con tutta l’acqua che portava dalla fontana, e comunque, la scena che avrebbe trovato sarebbe stata sempre la stessa: Pompea attaccata ai capelli della sorella che, sebbene maggiore, non riusciva a farle fronte, per difendersi la prendeva a pizzicotti e la chiudeva nello stanzino.

La scena a casa era desolante.

«Mamma, mamma, il gatto…» piagnucolava e singhiozzava, «il gatto, sai, quello nero, ha mangiato tutte le fave!» «Sì? Davvero!»

Pompea annuì speranzosa.

«Ed è stato anche capace di portare giù dal mobile la coppa piena, pensa, ha spostato anche la sedia per poterlo fare.»

Meno convinta della piega che la conversazione stava assumendo, pensava già alla via di fuga dalla porta di casa ancora aperta, via di corsa fino alla piazza vecchia o forse alla Chiesa Madre, dove

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magari avrebbe trovato un gatto di qualunque colore da immolare alla causa.

Una tosse furibonda al piano di sopra, molto più forte di tutte le altre, fermò a mezz’aria il ceffone sulla fuga della bambina. Maria si accorse a quel punto che aveva ancora in una mano il catino dell’acqua, lo lasciò cadere per correre incontro a sua figlia maggiore che scendeva le scale a due a due urlando: «Papà è morto, papà è morto!»

Qualche ora dopo era già tutto allestito per il rito funebre: drappi viola, fiori dappertutto, donne piangenti vestite di nero, funestate loro stesse da decine di lutti, tanto che non facevano in tempo a levarne uno che ne indossavano già un altro: il nero era molto di moda.

Chiaramente al centro della scena c’era il protagonista principale: l’unico uomo nella stanza, prontamente adibita a camera mortuaria, vestito di tutto punto sul letto, pronto per l’estremo saluto di tutto il paese.

D’altronde era risaputo: Peppe era ormai malato da tempo e quindi aveva già impiegato il figlio più grande a gestire la macelleria del paese, e si era preparato all’evento che, sapevano tutti, purtroppo non avrebbe tardato così tanto.

La gente che andava e veniva era così numerosa che Maria fu costretta a chiudere una porta per far capire che presto, almeno per la notte, avrebbe gradito un po’ di privacy; non poteva chiudere totalmente l’accesso, ma, stanca di quei falsi piagnistei, lo avrebbe fatto molto volentieri.

«Condoglianze, era un brav’uomo.»

“Sì”, pensava Maria, “certo, con tutti i soldi che gli dovevi.”

«Condoglianze, mi dispiace tanto, però l’avevo detto io di non mangiare tutta quella carne, troppa carne tutti i giorni fa male.»

«Magari», rispose quasi ad alta voce Maria.

«Come dice, commare?»

«No, dicevo, magari se ne mangiava meno effettivamente forse non si sarebbe ammalato», rispose bofonchiando e non riuscendo a

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nascondere un sorriso che in quel momento era quanto meno inappropriato.

Come spiegare a quella gente che la carne a casa sua la vedeva solo qualche volta la domenica, da fingere col sugo di pomodoro, perché troppa dura da mangiare altrimenti.

Bisognava fingere, fingere e sorridere, rispondere sempre con un grazie e andare avanti, la guerra era stata dura e ancora più dura la vita che bisognava affrontare giorno dopo giorno, ma la gente questo, faceva finta di non saperlo, o, quanto meno, che non riguardasse loro.

Sollevata dal fatto che l’ultima vedova inconsolabile aveva varcato la soglia per correre in chiesa a raccontare a tutto il paese ciò che già si sapeva da prima che accadesse, ovvero che Peppe il macellaio era morto, Maria si trascinò a chiudere la porta, che le si riaprì di colpo, con una tale violenza che la fece trasalire.

A stento nella penombra riconobbe la figura imponente di Luigi, il carabiniere di Taranto, compagno di guerra di Peppe. Nonostante la sua indomita sicurezza, Luigi trasalì a sua volta, ma riprese immediatamente il suo innato contegno e levandosi il cappello, salutò: «Mi scusi tanto Maria, non volevo spaventarla, pensavo ci fosse ancora gente.»

Tirò fuori la cipolla dal taschino e solo allora si accorse che effettivamente aveva fatto più tardi del previsto.

«Vossia è sempre il benvenuto, prego, accomodatevi», le rispose Maria balbettando, sempre intimorita da quella figura che in tanti anni non aveva mai visto vacillare. Li lasciò soli. Avrebbe giurato anche in punto di morte che, a un certo punto, aveva intravisto scendere perfino una lacrima su quel viso ancora giovane ma già segnato dal tempo.

«E la signora vostra come sta, e i bambini? Come saranno cresciuti!» domandò a bruciapelo Maria facendogli quasi rovesciare il caffè addosso che, stranamente, Pompea aveva preparato con tanta devozione.

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«Bene, bene grazie, tutti bene, solo che io lavoro tanto e Cosima si lamenta sempre che non sono mai a casa con loro e non li seguo nei compiti scolastici.»

Già, pensò Maria, la scuola era un bel futuro per i bambini, se solo avesse potuto mandarci Pompea, almeno a bacchettate forse le avrebbero insegnato qualcos’altro oltre che a mangiare.

«Pompea, grazie tante, il caffè è buonissimo, quando sarò grande se non ci saranno i miei figli, ti prenderai cura tu di me», disse aspirando forte dal bocchino, avvolgendola in una coltre fumosa.

Dal giorno in cui vide il suo comandante farlo, lì sul ponte girevole, prima che scoppiasse la Grande Guerra, quella maledetta guerra che tanti amici e tante certezze aveva portato via, si accendeva una sigaretta dopo l’altra, senza mai smettere di fumare.

«Va bene, signoria, lo farò sicuramente.» E dicendo questo Pompea gli prese la tazzina, la ripose nel vassoio, e quasi si inchinò nel salutarlo.

Maria rimase a bocca aperta, mai si sarebbe immaginata che sua figlia Pompea, la piccola indemoniata Pompea, potesse subire un fascino simile da una persona che a stento conosceva, nonostante non fosse neanche in divisa da carabiniere! Stava quasi per proporgli uno scambio filiale quando Luigi decise che era venuto il momento di levare il disturbo.

Quando andò via, chiuse finalmente la porta, spense la candela che si era quasi consumata, si accasciò sulla sedia e solo in quel momento Maria si rese conto che era rimasta veramente sola.

Luglio 1930

«Buongiorno signora Maria», urlò la fioraia fuori dal cimitero, ancora esultante del guadagno ottenuto dalla morte del marito. «Buongiorno a lei, e buona domenica. Al lavoro anche oggi?» rispose Maria cortese come sempre ma distaccata, sperando che quella domanda aperta non desse adito a racconti di una vita intera. «Eh! Sa, anche se fa questo caldo e non si respira, la brava gente non abbandona i propri morti», e giù la frecciatina malevola verso coloro

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che non vivevano nel cimitero, o quanto meno non ci passavano almeno tre ore al giorno.

Maria tirò fuori dalla borsa gli ultimi spiccioli rimasti della settimana e comprò l’ennesimo fiore al marito, che ormai aveva la cappella dall’aria irrespirabile, pensando che forse di lì a poco avrebbe potuto venderli lei, se solo non fossero stati così deperibili.

«Grazie signora Maria, tenga quest’altro, glielo regalo io a Peppe, era una così brava persona, molto generosa!»

Certo, un altro fiore, grazie, giusto quello che occorreva a una persona che, a quanto pare nella vita aveva dato tanto, e adesso, poteva solo ricevere questo in cambio, pensò affranta Maria, e si incamminò sotto il sole cocente guardando i suoi bei fiori che sembravano già appassirsi solo al pensiero di restare chiusi in quel posto.

Il cimitero era praticamente vuoto e quindi notò immediatamente un uomo fermo davanti alla sua cappella che sembrava stesse aspettando qualcuno. No, non sembrava, stava aspettando qualcuno, stava aspettando esattamente lei.

«Buongiorno, lei è un amico di Peppe?» gli chiese spostandosi per farlo entrare nella cappella.

«No signora, prima lei, si figuri», rispose cortese il misterioso uomo cedendole il passo.

A Maria bastava una rapida occhiata per capire la storia di un qualsiasi individuo, lei era nata il giorno di Natale e si diceva avesse delle predizioni, sia sui fatti che sulle persone, che si avveravano puntualmente. Quest’uomo vestito elegantemente e sicuro di sé indicava rogne, non era amico di suo marito, era amico dei guai. «Sì, conoscevo suo marito, le faccio le mie condoglianze per la sua morte prematura», sottolineò l’ultima parola, quasi urlandola. Aspettò a mani giunte che la vedova proferisse le sue preghiere interminabili e continuò con lo stesso tono: «Signora, se vogliamo uscire da questo luogo le dovrei parlare di qualcosa che riguardava suo marito.»

«Innanzitutto non la conosco e quindi non mi può chiedere di andare fuori con lei, magari mi porta addirittura in un bar?» rispose stizzita

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Maria da quella giornata interminabile, «e comunque se mi deve dire qualcosa, me la dica qui davanti a lui!»

L’uomo misterioso girò i pollici, si grattò la testa; quando si accorse che stava denotando una carenza di coraggio davanti a una donna, sentenziò: «Suo marito mi doveva dei soldi!» e così dicendo chinò la testa e nascose lo sguardo alla vedova.

Maria si dovette reggere all’altarino che aveva alle spalle per non cadere, complice lo stomaco vuoto dalla sera prima e il caldo afoso della giornata estiva. Ma subito si riprese e stava quasi per aggredirlo, quando l’uomo la gelò: «Signora, tanti soldi!»

Le porse una sedia e aspettò che Maria finisse di respirare a fondo. «Quanto?» urlò. «Quanti soldi e perché?»

«Tremila lire, il motivo non lo so, mi hanno detto che beveva.»

«Ma che beveva se neanche mangiava, è morto di un brutto male!» piangendo come una bambina abbandonata.

«Signora a me non interessa, io sono venuto apposta col treno da Taranto e alle due devo ripartire, con i soldi.»

«Ma io non ho una lira, chi me li dà tutti quei soldi, non lavoro, i figli sono piccoli, non ho più niente, la bottega sta chiudendo da quando non c’è più Peppe» continuò disperata.

«I figli non sono tutti piccoli, non tutti, una soluzione c’è.»

Maria capì, ma l’uomo fu più veloce di lei che gli stava saltando al collo e uscì. Le ultime parole che sentì furono: «Non mi sembra che ci siano altre soluzioni per lei.» Maria corse fuori urlando: «Sappia che io non darò mai il mio consenso a farle sposare mia figlia Antonietta, è piccola!»

Neanche si voltò a guardarla e muovendo sprezzantemente l’indice in senso di diniego l’uomo urlò: «Non mi serve grazie, domani vengo a prenderla.»

Agosto 1930

Faceva molto caldo quel giorno a Taranto. Erano da poco passate le due del pomeriggio: in strada non volava una mosca. I bambini erano chiusi in casa a fare il riposino pomeridiano, almeno quelli che non erano andati al mare. Dalle finestre socchiuse per non far entrare

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il sole cocente si vedeva l’asfalto che faceva dei giochi di luce come se fossero dei miraggi nel deserto.

Aveva passato la mattina a preparare il pane per i poveri. Don Angelo l’avrebbe di certo ringraziata. L’avrebbe lasciato a lui che sicuramente sapeva già a quali famiglie donarlo.

Certo non faceva molto piacere uscire con quella calura, ma Annunziata non aveva tempo da perdere. Si incamminò di buona lena e in men che non si dica arrivò all’appuntamento che aveva preso già da qualche giorno.

«Buongiorno, commare. Come va? Accomodati, che stavo giusto sparecchiando», la accolse solerte una signora con un bel grembiule con i fiori. «Ma vuoi mangiare qualcosa?» le chiese premurosa.

«No, ti ringrazio. Ho già mangiato», mentì Annunziata che aveva appena sfiorato un po’ di pane con del pomodoro fresco che le aveva portato Michele. Un goccino d’olio per condirli, sempre della sua masseria, e la giornata continuava.

«Va bene, siediti allora, che facciamo subito subito», continuò la signora preparando un piatto con dell’acqua e dell’olio. Con fare misterioso versò l’olio nel piatto. La goccia d’olio si espanse nell’acqua. E prese pure una brutta forma! Sembrava una figura demoniaca. «Annunziata, lo sai che significa questo, no?» le disse la donna guardandola come se avesse una malattia rara. Annunziata rispose perplessa: «Che ho il malocchio, vero?»

«Sì!», rispose la “maga” quasi contenta che il piatto pieno d’acqua le avesse risposto come si immaginava. «Per forza, Annunziata», sentenziò fiera, «ti stai prendendo quel bel marito, ti hanno fatto sicuramente l’affascinoii. Bello, bello e pure ricco! Quello è figlio dei Maglie, che hanno quella bella masseria in campagna, a Statte mi hanno detto, che bellezza, da lì si godono tutto il panorama fino al mare!»

«E a te chi te le ha dette tutte queste belle cose?» chiese stizzita Annunziata alla quale non piacevano molto le chiacchiere. «Me l’ha detto mio nipote Giovanni, il figlio di mia sorella Luisella» disse la maga pensando che sicuramente lo conosceva. Lei conosceva tutto il quartiere.

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«Va beh, e a lui chi glielo ha detto?» Annunziata aveva perso tutta la pazienza.

«Come chi gliel’ha detto? Che non ti ricordi che Giovanni è amico di scuola del pastore che lavora da Michele alla masseria? Peppino si chiama.» Il bandolo della matassa era ormai sciolto.

«Sì, certo che lo conosco. E so pure che non si fa i fatti suoi», rispose la futura sposa rassegnata.

«Ma perché, doveva rimanere segreto questo matrimonio? Non è che per caso ti fa male la pancia…ho capito tutto!»

«Non ti mettere strane idee in testa!» urlò Annunziata che non ammetteva insinuazioni sul suo fidanzamento. Era pura, e pura sarebbe rimasta fino alla sera delle nozze. Ci sarebbe mancato altro!

«No scusa, non volevo dire questo», continuò la donna spostando lo sguardo che era pieno di vergogna per aver solo pensato che quello potesse essere un matrimonio riparatore. Quando avesse preso il nipote lo avrebbe suonato di botte come una campana. «Allora è sicuramente affascino, sai che la gente è invidiosa.»

Annunziata avrebbe voluto rispondere: “La gente è invidiosa, vero?” ammiccando come solo lei sapeva fare, ma si limitò a dire educatamente: «E quindi per quello mi fa sempre male la pancia?» La donna con grembiule floreale continuò con le sue congetture da maga. Cominciò a elencare i cibi che doveva mangiare per levare l’affascino. Era proprio fissata con il cibo. D’altra parte, anche il suo volto paffuto lo confermava. Le fece l’interrogatorio chiedendole cosa avesse mangiato a pranzo: Annunziata non ne poteva più. Se avesse continuato, quella donna le avrebbe estorto tutto quello che aveva mangiato quella settimana, oddio, molto poco: fagioli col sugo di pomodoro, fagioli in bianco e fagioli… No, anche un pesce che gli aveva pescato fresco fresco il fratello giù al ponte girevole. Annunziata non era pienamente soddisfatta della risposta che faceva più pensare a un’invidia di quella vecchia zitella che sua madre le aveva indicato, piuttosto che a una magia. Comunque, lei era già una brava infermiera; nonostante la sua giovane età aveva già acquisito una notevole esperienza presso un medico molto affermato, che la istruiva come fosse una sua allieva anziché trattarla come una sua lavorante; quindi, pensò di congedarsi

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dalla maga improvvisata e di confidarsi col suo medico, nonostante la timidezza e la discrezione che da sempre la contraddistinguevano. «Senti Annunziata», la ridestò la maga, «me la faresti una iniezione? Ho un mal di schiena…»

Contro le cure mediche gratis, la magia non aveva poteri, perdeva istantaneamente qualsiasi valore.

«Va bene», capì rassegnata l’infermiera. «Vado a prendere a casa la medicina che sicuramente non hai, vero?»

«No, l’ho finita proprio ieri, grazie», rispose timida la maga fingendo di occuparsi ancora del piatto che le aveva fatto vincere una iniezione gratis.

Guarda caso, quando arrivava Annunziata trovava sempre dispense vuote: di pane, di medicine, ma tanti ringraziamenti e preghiere in cambio.

Chiudendo la porta pensò che forse avrebbe potuto sempre sperare nella santità.

Settembre 1930

Michele si incamminò veloce verso la sua masseria. Il tempo stava peggiorando di minuto in minuto, cominciava già a scendere qualche goccia di pioggia. In lontananza, verso il mare, il cielo era nero come non l’aveva mai visto. Allungò il passo per andare ad accudire i suoi animali per la notte.

«Michelino, tutto a posto? Ma sei tutto bagnato! Vieni qui a mangiarti una bella zuppa calda vicino al camino, così ti asciughi e ci racconti che ti ha detto il parroco.» Michele era tornato appena in tempo a casa, stava venendo giù un gran diluvio e per fortuna suo padre premuroso aveva già ricoverato tutti gli animali al sicuro per la notte che si stava preannunciando molto dura.

Mangiò quella zuppa come se non avesse mai mangiato in vita sua: era affamato e stanco, non vedeva l’ora di andare a letto; ma rispose educatamente ai suoi genitori che aspettavano ragguagli riguardo al suo matrimonio che sarebbe avvenuto di lì a poco con la sua Annunziata. «È tutto pronto. Il parroco ha detto che non ci sono problemi.»

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«Benissimo. Quindi quando sarete sposati potrai formare la tua famiglia qui in masseria. Posto ce n’è tanto, lo sai. Prenderete la corte qui a fianco che era del pastore. Gli diamo una bella pulita e torna nuova», sentenziò il padre che voleva sempre che la situazione fosse sotto controllo, da buon capofamiglia. La madre annuiva in silenzio. Anche se non si esprimeva a parole, si capiva che approvava per davvero.

«Buonanotte a tutti. Domani mattina svegliami presto, papà, che devo accompagnare Cosima a fare dei giri in città. Penso che mia sorella voglia un vestito nuovo per il matrimonio», ridacchiò contento Michele. «Vuole essere più bella della sposa!»

“E vestito nuovo sarà. Saremo belli, tutti. Non vedo l’ora di vedere le lacrime di mamma e papà”, pensò Michele mentre si metteva il pigiama, un po’ angustiato dalla pioggia che sembrava aumentare sempre di più. Ma si addormentò subito e cominciò a sognare.

«Michele, Michele svegliati!» Nonostante il padre lo scuotesse da qualche minuto, Michele sembrava in uno stato comatoso.

«Michele!» urlò ancora più forte stavolta, per coprire il frastuono che l’ennesimo tuono aveva provocato.

Michele balzò sul letto, abbagliato da una luce fortissima, ancora incosciente di essere balzato da un sogno fantastico dove lui era una star, come quelle del cinematografo, e intorno c’era tantissima gente che applaudiva e flash di fotografi e rombi di motori di macchine potenti, a una situazione che presagiva solo ed esclusivamente morte e tragedia.

«Papà, papà», urlò mettendo i piedi a terra in una pozza d’acqua, «che succede? Dove vai?»

«Da tua madre Michè, è tutto allagato, vai dagli animali, corri!» E il papà sparì in un altro lampo di luce di un fotografo troppo premuroso.

Michele uscì sotto la pioggia torrenziale, ma si bloccò con la bocca spalancata vedendo le immagini che si profilavano davanti ai suoi occhi: un torrente impetuoso scorreva davanti alla sua masseria, le stalle erano completamente distrutte e a stento nel buio vedeva

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scomparire a uno a uno tutti i loro animali, senza riuscire comunque a muovere un dito. L’unico gesto che fece fu quello di portarsi le mani alle orecchie per tentare di coprire quelle grida di aiuto, di speranza, di morte, che per tutta la vita lo avrebbero accompagnato, ma, non riuscendoci, cominciò a urlare, più forte dei suoi animali, più forte dei tuoni, più forte della pioggia che continuava a cadere incessante.

Non più forte, però, del rumore della masseria alle sue spalle che precipitava, della sua vita che precipitava e dei suoi sogni che si spegnevano e lo svegliavano come schiaffi in pieno volto. Di colpo, il fotografo beffardo smise di fotografare, la folla entusiasta che applaudiva pure smise, sicuramente soddisfatta dello spettacolo vissuto, e sembrava che anche le macchine rombanti fossero ormai lontane, in viaggio verso una meta più ambita. Nel silenzio assordante più della tempesta, nella desolazione fredda più delle sue ossa, nel nero più nero di tutte le sue speranze, Michele capì che da quel momento niente sarebbe stato più lo stesso.

Ottobre 1930

Annunziata entrò nella camera da letto e finalmente rimase sola: la divisa bianca appesa all’armadio di castagno scuro sembrava un faro accecante.

Tirò fuori il telegramma che le avevano appena consegnato: era proprio curiosa di sapere chi era il mittente e soprattutto cosa conteneva. L’aveva nascosto alla madre ansiosa perché aveva paura che fossero brutte notizie: per quale motivo si mandava un telegramma? Per fare le condoglianze. Rabbrividì al pensiero dei suoi cugini in missione a Tripoli. Spostò l’abito bianco da sposa e si sedette sul bordo del letto, pregando sottovoce il crocifisso sulla parete. Finalmente aprì il telegramma che diceva: “Tanti auguri alla futura sposa Annunziata.” Non erano brutte notizie: erano appunto i cugini da Tripoli iii che si erano ricordati del suo matrimonio! Che gliel’avesse forse detto la “maga”? Sicuramente aveva amici e

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parenti anche lì, ridacchiò riprendendo in mano il vestito di Michele per fargli le ultime finiture. Con un ago sospeso a mezz’aria, Annunziata sospirava e pensava che forse sarebbe arrivato il momento di riscattarsi di tutte le opere di generosità finora compiute, anche forse quelle a venire negli anni. La vita, poco misericordiosa, le aveva donato un marito bello, e soprattutto, dote immancabile data la sua bontà innata, Michele era di una dolcezza che sembrava appartenere più al genere femminile che al ruolo prematuro di capofamiglia che gli era stato affibbiato. Per carità, non che Michele non fosse uomo, anzi, nonostante la giovane età si era rimboccato immediatamente le maniche dopo la tragica alluvione che colpì Statte. Chiaramente, purtroppo, con gli armenti tutti morti e la perdita di entrambi i genitori si era dovuto arruolare in Marina, ma lui era contento di servire la patria e di essere utile, e poi quanto gli donava la divisa! Gli era rimasta solo una sorella, Cosima, santa donna anche lei, anche troppo buona, visto che sopportava quel burbero di carabiniere di Luigi. E chi altra avrebbe potuto sposare un uomo simile? Mah! Sembrava pure felice lei! Avevano due bambini meravigliosi, tanti ma tanti soldi, e pensavano pure di averne un terzo! Vai a capire certe donne. Ancora presa dalle fantasie familiari sulla futura cognata, si accorse che si era appena infilata l’ago nel polso, ma come diavolo aveva fatto a non accorgersi del dolore? Corse alla cabina telefonica che aveva per fortuna di fronte casa sua.

«Pronto, ospedale? Posso parlare con il dottor Nitti?» disse trafelata. «Sì, signora, glielo passo.» Per fortuna era di turno.

«Dottore, buongiorno, mi scusi se la disturbo, sono Annunziata» gli disse timida ma risoluta.

«Annunziata carissima, lo sai che puoi chiamarmi quando vuoi, che succede? Non stavi a casa a cucirti l’abito da sposa?» le rispose il dottore controllando la data sul calendario intimorito di essersi dimenticato del giorno fatidico.

«Sì, sì, dottore appunto, e mi sono cucita pure il polso!» rispose ridacchiando.

«Come ti sei cucita il polso, Annunziata?» Non smetteva mai di stupirlo.

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«Sì, mi è entrato un ago nel polso, ma non mi ha fatto male», rispose.

«Annunziata è vero che l’ago è dolce e non fa molto dolore, ma tu sei una roccia, che Dio ti benedica, adesso tienilo sotto controllo, se vedi che ti fa male o sanguina, vieni in ospedale che lo controlliamo», sentenziò il dottore.

«Va bene dottò», già spazientita da quell’inutile inconveniente che le aveva fatto perdere due minuti della sua preziosa vita. «Adesso ho da fare, poi nei prossimi giorni vediamo.»

«Annunziata che cosa mi chiami a fare se poi fai sempre di testa tua? Lo vuoi capire che hanno inventato le medicine per usarle? Le cure vanno fatte, non ci si può trascurare sempre per gli altri; a proposito, come vanno le emorragie? Vedi che dobbiamo fare una visita» continuò il medico un po’ preoccupato per la testardaggine della sua infermiera.

Ma Annunziata era già lontana con i suoi pensieri: l’abito, Michele, la festa, mica potevano aspettare per colpa di uno stupido ago che non si faceva i fatti suoi!

«Dottore, in chiesa, domani, puntuale dottò, va bene?» chiuse la telefonata, quasi pentita di averlo disturbato per una sciocchezza simile.

Inutile dire che quell’ago la accompagnò il giorno dopo orgoglioso all’altare e inoltre la avrebbe accompagnata come un piccolo trofeo di guerra, fino ai racconti ai suoi pronipoti increduli, senza mai spostarsi da lì, sempre in silenzio, per tutta la sua lunghissima vita.

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MAESTRALE

Ottobre 1932

Come al solito, l’iniezione alla vicina di casa dell’ultimo minuto le aveva fatto perdere un sacco di tempo. Guardò trafelata l’orologio a pendolo, dono di nozze del puntuale Luigi, e si accorse che non avrebbe mai trovato posto in prima fila, sulla ringhiera al ponte, per veder sfilare la nave con suo marito a bordo, sempre presente sull’attenti a prua, con la sua bellissima divisa bianca. L’ennesima missione all’estero vedeva Michele ancora una volta imbarcato per tanto tempo; da quando erano sposati erano stati insieme solo tre mesi. I marinai avevano giusto il tempo di donare un pargolo alla patria, e poi via, di missione in missione, sempre dietro mille lacrime d’addio, cento fazzoletti bianchi, e una decina di preghiere di raccomandazione a svariati santi, in primis Santa Rita, verso la quale Annunziata nutriva una profonda devozione. Purtroppo, a poco erano servite le preghiere alla santa l’anno precedente, quando Annunziata dovette spegnere di colpo i suoi sogni di mamma premurosa per colpa dell’ennesima emorragia che non poté trascurare, in quanto era un segnale nefasto del loro bambino che mai sarebbe nato e che mai sarebbe potuto venire al mondo per colpa dell’operazione, che il suo fidato dottore le fece, di asportazione dell’utero, per salvarla da quella morte certa che, di lì a poco, sarebbe altrimenti sopravvenuta.

Michele le disse che mai l’avrebbe lasciata, e non gli importava se non sarebbero mai stati genitori, l’amava e mai niente le avrebbe fatto mancare, un po’ di mesi di sacrificio imbarcato e poi avrebbe chiesto il trasferimento all’arsenale militareiv per starle più vicino. Per fortuna la famiglia lo aveva fatto studiare e quindi dopo pochi mesi era già un valido graduato.

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Purtroppo, la patria invece era poco riconoscente verso i suoi studi, era più utile imbarcato insieme ad altre giovani reclute in quanto non aveva figli e, quindi, poteva rimanere fuori anche per mesi. D’altra parte, anche il comandante conosceva Annunziata e sapeva che poteva stare da sola, se la cavava, era forte.

E in ultimo, per la verità a Michele piaceva quel lavoro: viaggiare, conoscere gente diversa, imparare nuove culture; ogni volta che tornava dall’Africav portava ad Annunziata qualcosa di strano. Una volta le portò dei frutti gialli, strani, dolci e le raccontò che crescevano sugli alberi e si chiamavano banane: fece appena in tempo a fermarla perché Annunziata la stava addentando senza sbucciarla. Ridendo riprese il frutto e lo sbucciò con amore porgendoglielo. Ancora gli veniva da ridere pensando a sua moglie che si fidava ciecamente di lui, ed era curiosa come nessuna donna che aveva conosciuto e che i suoi colleghi poco fedeli frequentavano nelle varie città portuali che giravano.

Michele le era stato sempre fedele invece, da quando l’aveva conosciuta; non gli importava dello scherno degli amici, solo il comandante lo capiva. Infatti, subito dopo l’operazione, un giorno gli mise una mano sulla spalla e gli disse: «È una santa donna, siete fortunati a esservi incontrati, forse non è bellissima o alla moda come tante donne che frequentano gli altri tuoi commilitoni, ma è il meglio che un uomo possa chiedere al suo fianco. In bocca al lupo, Maglie, anche senza figli vi auguro un futuro roseo e sono sicuro che sarà così.» Bastarono queste poche e semplici parole a Michele per rassicurarlo sul fatto che anche se non c’era più suo padre, avrebbe avuto sempre un angelo custode nella sua vita. «Maglie, ti vedo che stai sorridendo», gli bisbigliò il comandante zelante, sempre vigile e oltretutto onnipresente, giusto un secondo prima che la nave passasse sotto il ponte. Chiaramente non la vedeva, ma sapeva che Annunziata era lì, presente anche se non puntuale, immobile più del suo plotone, l’unica donna che avrebbe pianto poi da sola, a casa, caricando la sveglia sul comodino di Michele, puntuale alle cinque del mattino dopo.

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Fu svegliata, invece, bruscamente da colpi insistenti alla porta: pensando di aver dormito troppo guardò con occhi assonnati la sveglia che segnava le quattro e venti: chi diavolo poteva essere a quell’ora con tanta insistenza? Corse ad aprire l’uscio trafelata, stretta nel suo immancabile scialle e quello che vide nel viso di suo cognato Luigi, non le piacque per niente.

Novembre 1932

Il pianto di Mino era straziante, dalla mattina non smetteva un minuto di rivendicare al mondo la sua appartenenza: privato dell’affetto principale della sua vita, sembrava chiedere a chiunque il motivo di quella scelta tanto improvvida quanto ingiusta.

Nella bara che sfilava nella chiesa gremita riposava sua madre, Cosima, che aveva sacrificato la sua vita per donarla a quel bambino che non aveva mai conosciuto.

Il fratello, prontamente richiamato dalla missione in Africa, era impietrito dal dolore in prima fila, di fianco a Luigi, che non aveva ancora mutato la sua espressione da quando aveva bussato alla porta di Annunziata per avvisarla che la gravidanza di Cosima non andava bene e quindi avevano deciso di far nascere prematuramente il bambino, di un mese circa, per cercare di salvare almeno quella vita. Dopo un mese di sofferenza, Cosima smise di combattere e quindi erano stati tutti d’accordo nella decisione di chiamare il nascituro col nome della mamma, e così fu che Cosimo venne alla luce, completamente ignaro dello strano destino che era stato deciso per lui.

Chiaramente Annunziata prese subito la decisione di occuparsi lei di Mino, il suo futuro non poteva essere con un padre vedovo, per giunta carabiniere, né tantomeno in affido a un’altra famiglia, dato che ce n’era già una pronta che aveva bisogno di lui, così come lui aveva bisogno di loro.

Per cui anche quel giorno, nonostante la presenza del padre biologico e dei suoi fratelli maggiori, il bambino era stretto tra le braccia dei suoi nuovi genitori. Luigi era contento di quella scelta: non era mai riuscito a essere padre se non nella disponibilità

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economica. Promise che li avrebbe aiutati, non facendo mancare neanche a Mino l’educazione scolastica che non era stata negata a nessuno in famiglia.

Per le dimostrazioni d’affetto era più complicato: essendo abituato a obbedire prima e a comandare poi, per lui la vita era tutta una enorme caserma. Mino sembrava sapere tutto ciò: fino a quel momento, infatti, non aveva mai pianto. «Amore di papà tuo, che hai stamattina?» gli sussurrò sottovoce Michele, nel silenzio della chiesa, rotto solo da quel pianto disperato. Lo prese nelle sue braccia e Mino smise subito di piangere, lo guardò con i suoi occhioni verdi smeraldo, rubati dal volto della madre e, come al solito, sorrise. Michele nascose al mondo il suo dolore per l’estrema perdita e ringraziò in silenzio Dio di aver donato loro quel pargolo così meraviglioso. Si volse a guardare il cognato, poi la bara con sua sorella e decise di non odiare mai quella scelta così ingiusta di portar via proprio lei. Pregò invece per Luigi, per quel marito senza una moglie, per quell’uomo senza più un briciolo ormai di amore.

A casa di Luigi c’era forse più gente che in chiesa: donne che si avvicendavano a fare caffè, che portavano da mangiare e che cercavano di consolare gli orfani privati della loro amatissima mamma.

Annunziata era efficiente come al solito a fare da padrona di casa, ma contemporaneamente era di guardia, come un falco che avvista da lontano le sue prede. Dalla mattina si era accorta di alcune persone che non aveva mai visto, ben vestite e particolarmente vicine ai due fratellini di Mino. «Michele chi sono quelli?» domandò al marito strappandogli quasi Mino dalle braccia e stringendoselo al petto così forte che il bambino fece un urletto di paura. Michele era troppo buono e quindi ingenuo per capire cosa stesse frullando nella testa della moglie inquieta: «Non lo so, amici di Luigi, forse colleghi, li ho visti parlare fittamente subito dopo le condoglianze.»

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«Sì, ma perché le mogli da quando sono arrivati stanno sempre con i bambini? Ho sentito dei dialetti forestieri» sentenziò lanciando loro degli sguardi burberi che non le appartenevano. «Vabbè è normale, saranno mamme anche loro, i bambini hanno appena perso la mamma e sono spaesati», provò a dire Michele accarezzandosi la barba, come faceva quando non capiva le elucubrazioni mentali di Annunziata. Non era mai stata così sospettosa come dal momento in cui Mino era entrato prepotentemente nelle loro vite. Sembrava sempre pensare che, come lo aveva avuto, poteva anche perderlo, d’altra parte non era suo figlio, non portava il loro cognome e, per la verità, non si fidava di suo cognato e della sua imperscrutabilità. Quando Michele si accorse che ormai l’attenzione di Annunziata era rivolta solo a questi tizi misteriosi e che stava quasi stritolando Mino che ormai quasi non respirava più, le andò accanto e le disse con immenso amore: «Non preoccuparti, nessuno ce lo porterà via.»

Il giorno dopo erano ancora tutti e tre, stretti abbracciati, alla stazione con Luigi a salutare i fratellini Cavalera con le loro piccole valigie che partivano entrambi per destinazioni diverse, con famiglie diverse, senza lacrime anche loro, perché il padre aveva insegnato loro a non piangere mai, a non lamentarsi mai, solo a ubbidire e a vivere dignitosamente e con umiltà. I neogenitori rimasero impietriti, con gli sguardi increduli, con in braccio il loro bambino che del padre non aveva neanche il cognome, in quanto un parente ignorante, nel trambusto della morte di Cosima, lo aveva segnato all’anagrafe con una L di troppo: Cavallera, il marchio a vita della sua non appartenenza, una L di incoraggiamento alla sopravvivenza nonostante le avversità. Luigi si accese la sua sigaretta, si girò a salutarli, si chiuse il paltò e si avviò verso la sua vita, lasciando dietro al suo cappello il prodotto del suo profondo egoismo.

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Dicembre 1932

La tovaglia rossa non le era mai piaciuta. Forse perché le ricordava il sangue che troppe volte aveva già visto nella sua vita nonostante la giovane età. Antonietta fece un piccolo sospiro e guardò l’orologio, dono di nozze della suocera, che glielo aveva regalato per farsi ricordare a vita, minacciandola di non levarselo mai dal polso, camuffando il suo veleno da vipera con un bel sorrisone sornione nonché falso. L’unica nota positiva di quella farsa che si stava imbastendo in una bella riunione familiare natalizia era che avrebbe, dopo due anni, rivisto la madre, dalla quale era stata strappata con violenza da un uomo tanto assente quanto cattivo. Non aveva mai capito in quei due anni cosa combinasse quell’uomo, d’altra parte neanche le interessava. La fortuna aveva voluto che quanto meno non lo avesse accontentato donandogli dei figli. “Forse a volte”, pensò, “Dio si accorge che non è il caso di far nascere bambini in famiglie infelici.”

Continuando ad apparecchiare la tavola toccò un coltello e ripensò alle volte in cui il marito tornava a casa con ferite che erano difficili anche da guarire. Un pensiero le balenò nella mente: e se fosse davvero un malavitoso? E se qualche volta fosse arrivato oltre e avesse commesso un…? No, assolutamente no, la sua rigida educazione non le permetteva nemmeno di pensare a una simile situazione, non poteva condividere il suo letto con un assassino. Probabilmente il marito era un semplice e mero esecutore di ordini di qualche pezzo grosso, troppo stupido per avere un ruolo più importante di quello. D’altra parte, dove sarebbe mai andata se fosse scappata? Della madre non aveva più notizie dal giorno in cui era stata portata a Taranto con la forza; lui non le raccontava niente, le diceva solo che lei era il suo riscatto di un debito del padre morto prematuramente e lei gli credeva perché pensava e sentiva di non essere amata, ma solo sopportata come aiuto casalingo e amante notturna. Mentre i pensieri prendevano una piega torbida, complice il rosso della tovaglia, il coltello appuntito e l’odio verso un marito mai accettato, suonò il campanello di casa.

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Dopo ventinove mesi, quello che vide Antonietta davanti alla porta fu la personificazione di ciò che aveva sempre temuto: una madre ingobbita dalla fatica, scarna nei lineamenti, dal sorriso spento, ma con un amore infinito negli occhi che mai sarebbe mutato.

La vera sorpresa fu la presenza di due occhietti azzurro ghiaccio che spuntavano timidi dietro le vesti di Maria: una bambina di nove anni che sembrava molto più grande, dato il suo peso. Era la sua sorellina Pompea, che chiaramente a stento ricordava la sua sorella maggiore.

Antonietta la abbracciò stretta, lasciandola ammutolita e subito dopo abbracciò la madre scoppiando nel primo pianto liberatorio della sua vita, formalizzando quel pensiero nefasto e augurandosi che suo marito non tornasse mai più in quella casa.

«Mamma come stanno i bambini?» le chiese Antonietta facendola sobbalzare con la sua forchetta.

«I tuoi fratelli sono grandi e stanno bene, non ti preoccupare», rispose sempre pronta Maria mentendo come faceva ormai da due anni, da quando quel destino funesto le aveva portato via il marito.

«Pompea, ma non puoi mangiare tutte quelle cozze, ti fanno male! Quante volte te lo devo dire?» le urlò Maria come al solito guardandola furente come solo lei sapeva fare.

«Mamma non è vero, è la prima volta che me lo dici, io non le ho mai mangiate le cozze, e veramente neanche questo pescetto buonissimo», rispose Pompea sgranando i suoi occhioni azzurri. La suocera di Antonietta era già in procinto di scandalizzarsi, quando Maria tolse tutti dall’imbarazzo inventandosi una malattia della povera creatura ignara, che in realtà era solo una bambina molto affamata in una famiglia molto povera.

«Dai Pompea, andiamo ad aprire i regali che ti ha fatto questa gentile signora», le suggerì Antonietta, lasciando la bambina attonita e perplessa nel lasciare quel ben di Dio sulla tavola per andare a scartare degli oggetti che non avevano lo stesso profumo.

«Va bene, grazie per il bellissimo Natale, ora noi leviamo il disturbo e andiamo a dormire a casa di una mia zia qui vicino», sentenziò

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Maria finendo di sparecchiare la tavola nonostante fosse ospite della figlia e di quell’uomo inutile che gliela aveva rapita e che, nonostante le cortesie e il lusso nel quale la faceva vivere, non aveva mai perdonato.

«Ma sta scherzando signora Maria, così mi offende», le rispose l’uomo mostrando tutta la sua arroganza, «la casa è grande e semmai mi arrangio io, vado a dormire da mamma e voi dormite nel mio letto con Antonietta e la piccola Pompea», continuò celando un dubbio sull’aggettivo piccola.

«Sì mamma», urlò Antonietta gioiosa. «Eravamo già d’accordo su questo», mentì facilmente. «E poi fra qualche minuto è Natale e quindi è il tuo compleanno!»

«Ma che bella sorpresa, brindiamo», sentenziò la suocera non perdendo un’occasione per farsi un goccino.

«E va bene, brindiamo», annuì passiva Maria, contenta di quel Natale inaspettato, di quel regalo di una serata e di una nottata con sua figlia, inconsapevole che invece quel momento sarebbe durato tutta la vita.

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