Una soffiata confidenziale, Luigi Maldera

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In uscita il 20/12/2019 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre 2019 e inizio gennaio 2020 (4,99 euro)

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LUIGI MALDERA

UNA SOFFIATA CONFIDENZIALE

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ UNA SOFFIATA CONFIDENZIALE Copyright © 2019 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-357-4 Copertina: immagine Shutterstock.com

Le date, i nomi e i luoghi indicati in questo romanzo sono di pura fantasia. La storia narrata è liberamente tratta ed ispirata da vicende realmente accadute.


UNA SOFFIATA CONFIDENZIALE



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CAPITOLO I

Ebbe tutto inizio un grigio e stanco pomeriggio di fine novembre. Era il ventiquattro novembre 2004, per l’esattezza. Il telefono squillò almeno dieci volte, prima che qualcuno rispondesse con aria seccata: «Sì, Carabinieri di Trani». Dall’altro lato della cornetta, la voce di un uomo, ferma, calma, senza affanno o concitazione: «Buonasera, cerco il maresciallo Donno. «Ah sì? Lei vuole Donno? E chi è lei che lo desidera?». «Be’, io sono un suo amico, me lo passi per favore, devo riferirgli alcune cose piuttosto urgenti, lui sa…. Va bene, va bene, attenda, provo a passare la chiamata, se è libero le risponderà». Altri cinque, sei squilli e poi una voce sonora, pronta: «Pronto?». «Maresciallo?». Il maresciallo Donno, quasi inconsciamente, stava per chiedere chi fosse ma, dal timbro di quella voce, capì chi c’era dall’altro capo del telefono. «Sei Tu! Che vuoi? Sbrigati che ho da fare!». «Maresciallo…». La voce fece una pausa, come se la calma e la fermezza dimostrata nel tono fino a quel momento stesse venendo meno; poi, però, riprese a parlare, tutto d’un fiato. «Per la campagna, a Trani, contrada “Capitolo”, c’è una fiat uno, color verde scuro, che gira con un arsenale a bordo. Cercatela!». «Pronto?! Pronto?! Pronto!» ripeté tre volte, invano, il maresciallo Donno. Fu inutile; l’altro interlocutore interruppe la comunicazione, senza convenevoli di sorta. Il maresciallo guardò l’orologio. Erano le sedici e trenta e, di lì a poco, sarebbe stato buio. Non c’era tempo da perdere. Rimise immediatamente a posto, nel fascicolo dinanzi a lui, le carte che stava consultando per scrivere una relazione di servizio in merito all’arresto


6 di un minore per uno scippo ai danni di un’anziana signora, avvenuto il giorno prima al mercato di Trani. Improvvisamente, però, si ricordò che, nella sala di attesa della caserma, c’erano due signori, presentatisi in caserma per sporgere denuncia, ai quali, circa un’ora prima, aveva detto di attendere. C’era una signora che voleva denunciare il suo ex marito il quale, a suo dire, non passava più il mantenimento ai figli; questa non si trattenne neppure dall’aggiungere che l’avrebbe fatta pagare cara al “bastardo”. E c’era anche un signore, dall’aria rassegnata, consumato già a quarant’anni da un lavoro logorante e mal pagato, al quale non sembrava possibile che al mondo ci fosse qualcuno che aveva rubato la sua scassatissima Y10, immatricolata una quindicina di anni prima. Per lui, la denuncia era una rogna per evitare rogne: vallo a spiegare se ti rubano l’auto, combinano un guaio e non hai fatto la denuncia! Questo pensava il tizio nella sala d’attesa, imprecando a mezza voce ogni volta che guardava l’orologio. Donno, che sembrò improvvisamente ricordarsi di loro, si presentò in sala d’attesa accolto da un “finalmente!” della signora che balzò in piedi picchiettando con l’indice sull’orologio: «Marescià, aspettiamo da un’ora! Ho lasciato i bambini a casa e c’ho pure mia madre all’ospedale ricoverata, tiene il fegato!». Ma lui li guardò con distacco. Sapeva che, in certe situazioni, apparire familiare o essere troppo comprensivo, significava complicare le cose. Con tono freddo e deciso disse: «Mi dispiace, ma dovete tornare domani per le denunce. C’è un’emergenza, devo allontanarmi e siamo a corto di personale. Domani farete tutto con calma». L’uomo, sempre a mezza voce, prima di alzarsi proferì un «Ti pareva!» assieme a un’incomprensibile bestemmia per il tempo perduto dietro una faccenda e un’auto che non valevano quanto un’ora di lavoro sprecato. Una volta alzato, se ne andò, senza obiettare nulla. Ma la donna, lei no, lei proprio non si capacitava: «Come marescià? Dopo un’ora me lo dice? E domani io vengo di nuovo qua e perdo un’altra ora? Io devo lavorare! Quello, mio marito, dei figli non se ne frega niente, se non lavoro io…». Fu interrotta dal maresciallo che si mostrò indifferente a quelle rimostranze e, con un tono che non ammetteva ulteriori repliche, alzando leggermente il tono della voce, ribadì: «Signora, c’è un’emergenza in corso! Oggi non è possibile, se vuole torni domani mattina, altrimenti faccia come meglio crede, si rivolga a


7 un avvocato per la denuncia o vada dalla polizia se li trova meno occupati di noi. Buonasera!». Non aspettò risposte e si allontanò. Tornò negli uffici, chiamò il M.C. Rossi Marco, il M.O. Calia Nicola e ordinò loro di andare con lui e di fare presto, gli avrebbe spiegato tutto una volta che fossero stati in auto. Si diressero al garage della caserma, presero l’auto e aspettarono che il cancello si aprisse. Nell’attesa, Donno lanciò uno sguardo all’ingresso della caserma, proprio lì dove c’era il gabbiotto col militare di piantone: la signora, che non gli aveva replicato, era lì che inveiva con il piantone il quale, di tanto in tanto, impotente, allargava le braccia e si stringeva nelle spalle come a dire alla signora che lui non c’entrava nulla, che non era colpa sua. Al maresciallo, da dentro l’auto con i finestrini chiusi, quella sembrava la scena di un film muto e, anche se non udiva le parole della donna, poteva immaginare cosa stesse dicendo. Poi, il cancello si aprì. Diede ordine ai suoi sottoposti di procedere a sirene spiegate. L’auto attraversò Corso Imbriani e poi si diresse sulla S.P. 238 direzione Corato, per poi procedere, ma a sirene spente, attraverso gli intricati viali e gli stretti tratturi che solcano la contrada “Capitolo”, nell’impervio entroterra dell’agro compreso fra Trani, Andria e Corato.


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CAPITOLO II

Neppure erano passate tre ore e il maresciallo Esposito Donno fu di ritorno in caserma. Partiti in tre, tornavano in quattro; partiti con la sola auto di servizio, tornavano con due autovetture e con la Fiat uno verde che seguiva la volante con la sirena spenta e il lampeggiante blu acceso. In prossimità della caserma, Donno diede ordine, per radio, al militare di piantone, di aprire il cancello e non mancò di specificare che la Fiat Uno che seguiva, era condotta dal M.C. Rossi: doveva entrare pure quella. Lui, invece, era nell’auto di servizio, seduto sul sedile posteriore accanto a un individuo in manette; il M.O. Calia Nicola era al posto di guida e conduceva la volante, senza troppa fretta. Una volta che si richiuse, alle loro spalle, il cancello della caserma, il maresciallo uscì dall’auto e invitò l’individuo in manette a fare lo stesso. Lo prese per un braccio e lo accompagnò all’interno della caserma, ma senza l’uso della forza, non era necessario. Prima di varcare la soglia d’ingresso, arrestandosi di scatto e bloccando, sempre tenendolo per un braccio, l’arrestato, intimò ai suoi sottoposti: «Mi raccomando, prendete tutto quello che abbiamo trovato e portate tutto dentro, nel mio ufficio». Poi, rivolgendosi al piantone: «Non passarmi telefonate. Dobbiamo solo informare il Pubblico Ministero di turno di questo arresto». Il suo ufficio aveva dimensioni molto ridotte e, per di più, presentava una colonna al centro. Era illuminato a giorno da una luce bianca al neon. Su una parete campeggiava un poster ingiallito, di ragguardevoli dimensioni, dove erano raffigurati diversi carabinieri, con divise d’epoca e ormai non più in uso, che si accompagnavano cavallerescamente a donne il cui abbigliamento era confacente e contemporaneo all’epoca cui le varie divise si riferivano; per cui, si partiva dagli anni successivi all’unità d’Italia, per arrivare alla fine degli anni ottanta, gli anni in cui, presumibilmente, qualcuno aveva attaccato quel poster. Sotto ai disegni campeggiava la scritta che è lo slogan della Benemerita: “NEI SECOLI, SEMPER FIDELIS”.


9 Dietro la scrivania del maresciallo, una serie di encomi per operazioni in servizio e una decina di calendari dell’arma, appesi in ordine crescente di anno dal 1994 in poi. La scrivania non era molto grande; reggeva un computer, con un monitor enorme, che occupava da solo quasi tutto lo spazio; la poltrona era in finta pelle nera e vi erano due sedie difronte alla scrivania, sempre in finta pelle nera, con squarci dai quali fuoriusciva la spugna ingiallita che imbottiva il sedile e lo schienale. Poggiato alla colonna, un tavolino, con pile di fascicoli legate da un elastico e, in cima a ogni pila, un foglio bianco con l’annotazione a penna dei vari uffici a cui inviare quei fascicoli. Entrato nel suo ufficio, Donno intimò all’uomo in manette di sedersi, lì su una delle due sedie sgualcite posizionate di fronte alla scrivania. Prima di chiudere la porta, attese l’arrivo dei suoi sottoposti. «Marescià, abbiamo preso tutto questo arsenale, dove lo mettiamo?» domandò Rossi affacciandosi alla porta dell’ufficio. «No, qui no! Non c’è posto. Mettete tutto sul tavolo grande dell’ufficio accanto. Provvederemo a repertare e fotografare tutto, prima di mandare tutto in Procura all’ufficio corpi di reato». Detto, fatto. Subito dopo ordinò a Calia di sedersi al suo posto, dietro la scrivania, e di scrivere, sotto la sua dettatura, il verbale di perquisizione e sequestro. Rossi teneva d’occhio l’arrestato. Donno, mani dietro la schiena e compiendo pochi passi avanti e indietro, compatibilmente con le dimensioni della stanza, chiusa la porta, iniziò: «Ssscccrivi Calia» marcando la “s” e la “c” di “scrivi” quasi a volere volutamente sottolineare la cadenza e l’inflessione, marcatamente di origini partenopee, del suo modo di parlare. «Oggi 24/11/2004 alle ore 19,20 negli uffici del comando stazione carabinieri di Trani. I sottoscritti M.A.s.U.P.S. Donno Esposito, M.C. Rossi Marco, e M.O. Calia Nicola riferiscono quanto segue…. Due punti e a capo! Alle precedenti ore 16,30 su segnalazione di fonte confidenziale anonima….» “Anonima? Che vuol dire anonima? Se è confidenziale, come fa a essere anonima?” pensò Calia mentre scriveva; ma non osò interrompere e proseguì sotto rigida dettatura. «...ci portavamo nelle vie della località rurale “Capitolo” per ricercare un’autovettura Fiat Uno di colore verde, il cui conducente, Colavito Vittorio, in oggetto meglio generalizzato, recava a bordo delle armi detenute illegalmente….Punto e a capo, Calia!


10 Verso le ore 17,00, si incrociava proveniente da una via laterale, l’autovettura Fiat Uno targata BAE27311 con alla guida Colavito Vittorio… Punto, Calia!». «Vado a capo?». «No, prosegui». «Bloccato il veicolo, dopo aver proceduto al controllo documentale, si chiedeva al Colavito se avesse a bordo armi o munizioni invitandolo a consegnare…Mettici un punto». «Alla risposta di Colavito di non avere con sé alcuna arma, dopo averlo avvisato delle proprie facoltà, lo stesso ostentando sicurezza, riferiva che si poteva procedere tranquillamente alla perquisizione, senza la presenza di legale o altre persone... Punto!». «Vado a capo marescià?». «E vai a capo!». Lo disse più per far contento Calia, che per reali esigenze di testo. Poi, sempre con tono autorevole e rimarcando tutte le “sc” o le “st”, da napoletano verace qual era, proseguì: «Durante la perquisizione del veicolo, all’interno della portiera posteriore destra, dopo aver sbloccato manualmente il pannello, si rinveniva avvolta in un panno di colore a…». A questo punto si fermò. Non si ricordava che tinta avesse il panno e ritenne opportuno mandare Rossi, nella stanza accanto, a prendere, di volta in volta, il materiale rinvenuto per darne una descrizione dettagliata. Avuto Rossi col primo pezzo, riprese. «Dunque Calia, leggi l’ultimo rigo; Ok, riprendi da dove avevo lasciato… un panno di cotone a fiori, tenuto da nastro adesivo, una pistola semiautomatica priva di marca e numeri identificativi, sia sul castello sia sulla canna… Adesso fai così, trattino e a capo…una scatola di cartucce marca “Fiocchi”, chiusa con nastro adesivo, contenente n. 50 cartucce cal. 9 mm di cui n. 20 cal 9 corto; n. 16 cal. 9 luger; n. 14 cal. 9 N.A.T.O…” A questo punto si fermò ancora e guardò Calia quasi a voler richiamare la sua attenzione; e, non appena questi lo ebbe guardato, disse: «Apri parentesi!». Disegnando la parentesi nell’aria, col dito. «Inserisci: “munizionamento da guerra”. Fatto? Bene, chiudi la parentesi, trattino e a capo! …Procedendo nelle operazioni di perquisizione veicolare, nello sportello posteriore, lato guida, dopo avere sbloccato manualmente il pannello si rinvenivano: un fucile a due canne ad anima liscia con cani esterni, doppietta, cal. 12, privo di marca


11 con incisi sul castelletto i numeri 132189; presenta le canne accorciate e il numero identificativo abraso. Il tutto si presentava avvolto, singolarmente…». “Come il tutto….singolarmente?” pensò di nuovo Calia e di nuovo non rilevò nulla ad alta voce. «in panni di cotone rosso, stretto da nastro adesivo. La perquisizione veniva estesa al conducente del veicolo, Colavito Vittorio, il quale spontaneamente consegnava il coltellino tascabile ad apertura, con lama metallica non da punta, della lunghezza di circa 6 cm in metallo e manico in plastica nera…Punto!». «A capo marescià?». «Fai come ti pare, bast ca facimm a ‘mbress! Scrivi: veniva effettuata altresì perquisizione domiciliare, alla presenza dello stesso Colavito Vittorio, presso la sua abitazione sita in Corato alla Via Toniolo n. 82, con esito negativo per armi detenute illegalmente, mentre venivano rinvenute nella cassaforte di sicurezza altre armi, due pistole e un fucile legalmente detenute e con atto a parte veniva effettuato un ritiro cautelare che sarà trasmesso alla Questura di Bari. Mentre le armi sottoposte a sequestro sono trattenute in questi uffici per il successivo deposito presso il Tribunale di Trani, l’autovettura viene data, con atto a parte, in custodia alla ditta “Scarnera Palmiro”, sita sulla S,P. 231 al km 80+700. Del che è verbale...Punto. Ora, rileggetegli il verbale, verificate i dati anagrafici e, mi raccomando, non fate come quella volta che prendeste come base un altro verbale e non cambiaste tutti i dati anagrafici e venne fuori un minestrone: il nome di uno e la data di nascita di un altro! Fate attenzione, verificate, rileggete e fate sottossscccrivere!» Marcando ancora le consonanti “sc” nel caso in cui ancora non fosse chiaro che veniva da Napoli. Poi, si allontanò dal suo ufficio. Ci teneva a informare di persona il Pubblico Ministero che era di turno quella sera e che avrebbe provveduto a fare il resto per la convalida dell’arresto. Non fece solo quello. Pensò a fare in modo di far arrivare la notizia di quell’arresto agli organi locali di stampa. Un po’ di pubblicità su certe operazioni fa sempre bene, pensava il maresciallo; che poi la gente pensa che in certi paesi tranquilli un carabiniere si fotte lo stipendio per girarsi i pollici e stare senza far nulla! Dio l’abbia in gloria, ma Donno non era il tipo d’uomo che si poneva dei dubbi. E, quella sera, non ebbe la benché minima considerazione


12 delle giustificazioni fornite, lì per lì, da Colavito; non si preoccupò di vagliare la possibilità che quelle armi, in macchina, non erano di chi sembrava che fossero; neppure di fare verifiche sul fatto che, sin dal primo momento, Colavito, esterrefatto, dichiarò che non era stato lui a riporre quell’arsenale nei pannelli. A Donno non interessava; che lui il suo dovere l’aveva fatto; seguiva la legge pari pari. Aveva trovato un uomo con delle armi detenute illegalmente. Stop. Segue sequestro del materiale e arresto in flagranza di reato. Punto. Che ci pensasse un Giudice, bontà sua, a sentire le lamentele di Colavito e a verificare se quello che diceva era vero, oppure no. Lui il suo l’aveva fatto. Che poi, a volerla dire tutta, quel Colavito lui lo conosceva… sempre in giro per le campagne… incensurato, è vero, ma in odore di guardiania abusiva, anche se mai colto sul fatto. Forse, per tante volte che l’aveva fatta franca, questa volta l’avrebbe pagata per tutte, e con gli interessi. E poi… i fucili anche a casa! Legalmente detenuti, è vero, ma lì a dimostrare una strana e morbosa attrazione per le armi…. Colpevole, si convinse che per lui Colavito doveva essere per forza colpevole! Se poi non lo era davvero, be’, allora, non era un suo problema, né toccava a lui dirlo. Ligio aveva solo assolto ai suoi doveri, la paga se l’era meritata e poteva tornare a casa tranquillo. Era assorto in questo tipo di considerazioni profonde sul garantismo, quando gli venne in mente una circostanza e sobbalzò. “Aspetta un attimo” pensò. “Colavito Vittorio… c’è quella faccenda dell’anno scorso rimasta in sospeso… Tutto torna…”.


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CAPITOLO III

Colavito, nell’ufficio di Donno, era rimasto muto e praticamente immobile, sulla sedia dove l’avevano piazzato, lì per tutto il tempo. Era rimasto sereno e sicuro di sé sino al momento in cui, dalla sua auto, avevano tirato fuori, come per magia, quell’arsenale. E, in effetti, per lui fu un po’ come assistere a un gioco di prestigio, al numero del prestigiatore che dal cilindro, o dalle tasche, o dalle mani, tira fuori di tutto e non si riesce a capire mai come diavolo sia possibile e come cavolo abbia fatto, così proprio sotto gli occhi! Ovviamente, disse subito che quelle armi non erano le sue, che non le aveva mai viste prima. Altrettanto subito, però, capì che non serviva assolutamente a niente e pensò pure che i malviventi, quelli veri, nelle sue condizioni, avrebbero detto tutti la stessa cosa. Capì di essere nella merda e si fece muto. Muto, ma con la testa bombardata da mille contemporanei pensieri e da altrettante domande, talmente tante, da non avere neppure il tempo di ipotizzare le risposte. “Di chi erano quelle armi?” Neanche il tempo di pensare alla risposta e “Come mai erano nella mia auto?” Neanche il tempo di riflettere e “Quando hanno avuto il tempo e in che modo me le hanno messe…?” E così per tutto il viaggio in auto e durante la stesura del verbale. Il flusso delle domande autogenerate si sospese solo per il tempo della perquisizione a casa di Colavito. Lì c’era sua moglie; lì c’era anche sua figlia. È inutile dire che, quando suonò il campanello, e al tranquillo solito «chi è?» risposero «carabinieri!», la moglie si agitò. L’agitazione divenne pena, quando Colavito, in manette, dovette entrare in casa e indicare dove aveva le armi legalmente detenute; e quando dovette assistere mentre gli rivoltavano la casa, mettendo a soqquadro tutto senza troppe cautele o remore: loro frugavano la casa, ma a lei sembrò che le stessero frugando le viscere. Lei, con gli occhi rossi e gonfi, stringeva la loro figlia e lo guardava; non parlava; non parlava, eppure Colavito la sentiva. La sentiva


14 chiedere con gli occhi: “Ma che succede? Che sta succedendo! Non mi dirai che nasce tutto da quello che stavi facendo? Quante volte te l’ho detto…. Quante… Persino ti ho supplicato di lasciar perdere, di non metterti contro nessuno….E ora? Sei contento? E nostra figlia? Guardala! Guardala cazzo! Nemmeno a lei hai pensato?” Colavito quei pensieri li sentiva eccome; solo lui, ma li sentiva distintamente, al punto che tagliavano il flusso inarrestabile dei suoi atroci dubbi. E sentiva quegli occhi, quegli occhi addosso e il pianto di sua figlia, soffocato nell’abbraccio di sua madre. Lui non si curò del disordine e dei danni intorno a sé, nulla in confronto al tumulto che aveva dentro. E rispose. Rispose sperando che la moglie lo sentisse, come l’aveva sentita lui e la guardò fisso, con gli occhi languidi di chi ha perso e vorrebbe spiegare perché ha comunque giocato a un gioco pericoloso: “Amore mio, ho perso, sto perdendo. Mi hanno incastrato e sono nella merda; non so cosa mi succederà. Quello che ho fatto, credimi, non l’ho fatto per me solo. Cercavo, tentavo di fare meglio, di fare bene, di cambiare vita e di far tutto alla luce del sole; per far stare meglio te e nostra figlia. Evidentemente, ho commesso qualche errore. E vuoi sapere qual è il più grave? Pensavo di essere pronto a pagare anche il prezzo dei miei sbagli e invece mi sbagliavo. Pronto lo ero, sì, sulla mia pelle, però, solo su quella. Ma ora, vedo piangere nostra figlia, guardo il tuo viso stravolto e i tuoi occhi e capisco che, a tanto, non ero preparato. Non sono pronto a sopportare che ci andiate di mezzo anche voi. Capisco, capisco davvero se non vorrai perdonarmi, ma scusami, se puoi…” Come la moglie, Colavito comunicò con gli occhi; ma lei non lo sentì. Troppo sconvolta. E poi, tante volte gli aveva ripetuto che a cambiare le cose, a voler cambiare il mondo da un giorno all’altro, ci si rimette sempre e non ne vale mai la pena. Ma lui, be’, lui non l’aveva ascoltata e quelli, quelli erano i risultati…. E, che Dio avesse pietà di loro, quello era solo l’inizio e chissà cosa ancora li aspettava. Dopo quella parentesi a casa sua, Colavito ripiombò nella confusione mentale, fino alla caserma a Trani e nella caserma. Ripresero nella sua testa le domande a raffica, inframezzate, di tanto in tanto, dall’immagine di sua moglie e sua figlia che su di lui avevano lo stesso effetto di una pugnalata in pieno petto, specie se poneva mente a quanto queste stessero soffrendo a causa sua. Ascoltò il maresciallo dettare il verbale, praticamente in apnea: sentiva il suono lontano della voce, ma non ricollegava le parole al loro


15 significato; poi, gli rilessero il verbale: ancora suoni lontani senza un significato sostanziale, tangibile. Era come se la cosa non lo riguardasse, come se si stesse parlando di un altro, tanta era la confusione che regnava nella sua mente. A un trattò ripiombò nella stanza Donno, fregandosi le mani. «Bene, ho avvisato il Pubblico Ministero. Avete riletto il verbale? Che faccio, mi fido? Lo possiamo firmare?». Poi, sottoscritto il verbale, poggiò una mano sulla spalla di Colavito che, sentendosi toccare, solo in quel momento alzò la testa e lo guardò. «Colavito, ti dobbiamo portare in carcere». Alla parola “carcere” quello si sentì scaraventare, con inaudita violenza, nella cruda realtà dalla quale si era estraniato. La merda in cui era, aveva un nome, “carcere”. Non ci era mai stato e mai avrebbe pensato di andarci; eppure, lo portavano proprio lì, aveva capito bene… tra poco sarebbe stato perso. Non resse più. Crollò e, guardando il maresciallo, scoppiò a piangere. Quello, difronte alla scena, ebbe un moto di compassione, gli diede una pacca sulla spalla per rincuorarlo e disse: «Oh! Nun fa accussì! Ora sai che facciamo? Ti nomini un buon avvocato, mi dici il nome, e vedrai che due o tre giorni di tempo e sei fuori, va bene?». Disse quelle parole, ma sapeva che non era così e non sarebbe stato così. No, almeno in quel caso specifico e per quella situazione. I lunghi anni di servizio e l’esperienza accumulata, avevano insegnato al maresciallo che dire durante un arresto: «Stai tranquillo, vieni con noi, che tanto metti un avvocato e tra quarantotto ore sei fuori» evitava ogni tipo di complicazione: i facinorosi si calmavano, i più pessimisti si rasserenavano. Il problema, poi, diventava dell’avvocato: vallo a spiegare, dopo le rassicurazioni del maresciallo, che dovevano farsi mesi, se non addirittura anni, di carcere! «Ma come avvocà il Giudice non mi fa uscire? Il maresciallo che mi ha arrestato, proprio lui, ha detto metti l’avvocato e in due giorni sei fuori!». La colpa era sempre di un Giudice cattivo o di un avvocato incapace, oppure, al limite, di entrambi. Mai del maresciallo. Agli occhi degli arrestati lui appariva sempre buono ed erano convinti che, se fosse dipeso da lui, li avrebbe veramente scarcerati dopo due giorni, dio l’avesse in gloria! Funzionò anche quella volta. Colavito, a quella notizia, in parte si riprese: in fondo, doveva tener duro solo due, massimo tre giorni. E cosa gli sarebbe mai potuto succedere in due o tre giorni? Il maresciallo aveva ragione, non c’era da


16 piangere; dopo tutto, lui era incensurato, senza precedenti… che in Italia non vanno in galera quelli che ammazzano, vuoi vedere che il sistema si doveva accanire proprio con lui, che non aveva ammazzato nessuno? Improbabile. Anzi, impossibile. Sulla scorta di tali riflessioni, Colavito lo guardò e gli fece un cenno col capo come a dire “Ok, senza problemi, posso resistere due o tre giorni in carcere...” «Bene» disse Donno. “A questo sei o sette mesi di fila di custodia cautelare non glieli toglie manco Perry Mason con l’ispirazione e l’aiuto di San Gennaro!” pensò tra sé il maresciallo. “Specie se ci mettiamo quello che è successo un anno fa…” Poi tornò in sé, nella parte del padre buono e comprensivo. «Allora Colavito, chi scriviamo come avvocato, chi dobbiamo avvisare dell’arresto?». Colavito ci pensò su; il problema non se l’era proprio posto sino a quel momento e, non avendo mai avuto problemi con la legge, non aveva rapporti con avvocati. Poi, tirò fuori un nome: «avvocato Luca Malvasi». «E chi è mo chist?» disse il maresciallo guardando Rossi e Calia che, senza proferir parola, risposero alzando le spalle e come a dire: “mai coperto!” «Mah… mai sentito… È di Trani, di Corato, di dov’è? Calia famm o piacer controlla sull’albo avvocati, ambress!». «So che vive a Corato, ma ha lo studio a Trani. Non conosco l’indirizzo» rispose Colavito. «Marescià, sull’albo neppure c’è, però questo che abbiamo noi è vecchio, è aggiornato al 1997; magari si è iscritto dopo e qui non lo possiamo trovare». Allora Donno guardò Colavito come a dire: “Un avvocato come si deve e conosciuto no eh!” «Va bene. Cercate sul sito internet del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trani, lì ci deve essere per forza». «Bingo!». «Avvisatelo della nomina e dell’arresto». Senza indugiare oltre, fece capire a Colavito che era tempo di andare. Lo prese per un braccio, ma senza usare la forza. Uscirono dall’ufficio e poi dalla caserma. Piovigginava. Cadeva quella pioggia, sottile e persistente, tipica del mese di novembre. A Colavito sembrò che il cielo partecipasse alla sua


17 Â personalissima tragedia. Per il maresciallo, invece, quella pioggia era una gran rottura di scatole, visto il programma che aveva organizzato per la serata, una volta smontato dal servizio. In poco tempo, furono entrambi nella volante, sirena spenta e lampeggiante acceso, in viaggio verso la S.P. 130 Trani-Andria dove si trova il carcere di massima sicurezza.


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CAPITOLO IV

«Pronto?». «Sì, pronto, sono io». «Dimmi». «Ho appena avvisato i carabinieri, vedrai che lo prendono. Piazzati fuori dalla caserma, a Trani, e fammi sapere». «Ok, cià». «Cià». La fonte confidenziale, appena chiusa la telefonata con Donno, chiamò un'altra persona per monitorare gli effetti della sua delazione. Già verso le 17,30, a Trani, arrivò un tizio che parcheggiò l’auto poco distante dalla caserma dei carabinieri, vi rimase dentro e da lì sorvegliava l’accesso alla caserma. Non vide uscire nessuno perché, quando era arrivato, il maresciallo Donno era già uscito con Rossi e Calia. Attese poco più di due ore e, alla fine, la sua pazienza venne premiata. Mentre era in auto, gli passarono davanti la volante dei carabinieri e, a seguire, la Fiat uno verde, quella Fiat Uno verde che conosceva benissimo. “Ah! L’hanno beccato!” pensò. Ma non gli fu sufficiente. Restò ancora in attesa. Gli piaceva. Non sapeva se fosse lì per avere la certezza che lo avrebbero portato in carcere o per il piacere sadico di avere l’occasione di guardare, anche da lontano, la faccia di Colavito in quelle tragiche circostanze. Fatto sta, che attese, ancora. A lui nessuno aveva fatto caso, ma si guardò bene dallo scendere dall’auto; poteva essere notato e poi… E poi Colavito lo conosceva bene e avrebbe trovato alquanto strana la sua presenza, proprio lì, a Trani, e proprio in quel frangente. Quando erano arrivate quasi le ore 21,00, vide l’auto dei carabinieri uscire di nuovo, sirena spenta e lampeggiante acceso. E la vide prendere la direzione per Andria, la direzione del carcere. Poi vide uscire la Fiat Uno verde, condotta da un carabiniere, che prese la direzione opposta, verso Corato. «Mo posso andare, va in carcere!” disse a voce alta a se stesso.


19 Poi prese il telefono. «Pronto?». «Ehhh, quanto tempo, e che cazzo!». «Tutto a posto». «Che cosa significa tutto a posto?». «Raggiungimi a Trani che parliamo». «Dove ci vediamo?». «Al Porto». «Il tempo di arrivare, cià». «Cià». Il tizio, dopo la telefonata, mise in moto, si mosse dalla caserma e si diresse verso il porto, ad attendere il delatore. Trani, il suo porto. D’estate, il porto di Trani è sempre in festa. A partire da piazza Quercia si succedono, sullo stesso lato e di fronte al mare, tanti locali di mille colori, mille luci e mille suoni che si confondono nell’aria. Sotto i portici, proprio lì dove un tempo avevano le loro umili dimore i pescatori, si trovano ristoranti e ristorantini con nomi che evocano il mare, il porto e la navigazione. D’estate, la strada del porto su cui affacciano tutti i locali, non è mai deserta, neppure a notte fonda. Centinaia di giovani che passeggiano, bevono, cenano, si corteggiano, s’innamorano e ballano, soprattutto, ballano, al suono della musica dei locali più in voga. Nasce un tripudio: braccia al cielo e voci che cantano all’unisono; le comitive si abbracciano e saltellano in cerchio. Alcuni la chiamano “musica da divertentismo”, ma è qualcosa di più; deve essere qualcosa di più: se ancora a distanza di anni la sentono, alzano le braccia e la cantano a squarciagola, con gli occhi chiusi; è qualcosa di più che semplice e snobbata musica da “divertentismo”. Quando poi parte un brano anni ottanta, uno di quelli che non tramonteranno mai, allora, il ritornello, urlato da tutte quelle voci festanti, ti entra nella testa e ti dà una piacevole aria di festa e di estate senza fine. D’estate, da lì, dal porto, durante la festa di San Nicola, a fine luglio, si assiste allo spettacolo pirotecnico in onore del Santo Patrono: in tre giorni, tre ditte diverse si sfidano a colpi di fuochi d’artificio, lì direttamente sul mare; e sembra che sia l’acqua, o un vulcano sommerso, a eruttare lapilli incandescenti che si aprono e disegnano mille forme di altrettanti colori nel cielo limpido e stellato di fine luglio.


20 Dal porto, si sale, si arriva al castello dove ogni anno, il dieci di agosto, si celebra il matrimonio di Re Manfredi; e i borghi si trasformano, girano comparse in abiti d’epoca, compaiono giullari, sputafuoco, il castello si ricopre di fiaccole e fuochi a cascata… Volendo, si arriva al Tribunale e, di fronte, la cattedrale, unica per splendore e ubicazione: una costruzione imponente a pochi metri dal mare, anzi, che domina il mare… Sobria e di rara bellezza, fiore all’occhiello della città già a molti nota come la perla dell’Adriatico… Quella sera, però, non era estate. Serata di fine novembre, un mercoledì qualunque, giorno di chiusura dei locali. Sul porto non camminava nessuno quella sera; ma, sotto i portici, negli angoli bui, bisbigliavano due uomini… «Allora? Mi hai fatto venire apposta». «È chiaro! Per telefono le dobbiamo dire ‘ste cose?». «Va bene, va bene, dimmi». «Dopo che hai chiamato i carabinieri, sono andato là come mi avevi chiesto, mi sono piazzato lì e ho atteso ore». «Ti hanno visto? Ti ha notato qualcuno?». «No, tranquillo. Prima sono rientrati in caserma e hanno portato la macchina sua pure; sono entrati dentro, sono rimasti lì per oltre un’ora e poi sono usciti; quello lo hanno messo nella volante e se ne sono andati verso Andria». «Verso Andria? Allora è sicuro… lo portano in carcere!». «L’auto, però, la Fiat Uno, ha preso un’altra direzione, verso Corato». «È normale. Quella mo la portano al deposito che sta a Corato sulla ex s.s. 98». «Che dici ci resta in carcere?». «Sicuro! Se poi mettono pure il fatto dell’anno scorso…». «Dici che lo mettono? Si ricorderanno?». «Per forza! Se no glielo ricordiamo noi; almeno la finisce di rompere i coglioni! Vedrai che quando esce, fra un sacco di tempo, gli sarà passata la voglia di cacare il cazzo in giro!». Detto questo, la fonte e il suo fido palo, ripresero le auto e tornarono a casa, tranquilli, dalle loro famiglie. Era ormai ora di cena.


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CAPITOLO V

Per chi non c’è mai stato, e non è cresciuto in certi ambienti, entrare in carcere è un’esperienza piuttosto spiacevole. Anzi no, peggio: è traumatica. Il carcere ti segna, ti solca l’anima, lasciando una traccia indelebile. Colavito non ci era mai stato. Durante il tragitto, nella volante, aveva la nausea; poi, addirittura, conati di vomito al solo pensiero di dove si sarebbe trovato nel giro di pochi minuti. Cercava di farsi forza…che due o tre giorni passano in fretta… Doveva resistere… Poi, pian piano, tutto si sarebbe sistemato. Ma il carcere è brutto. Ed è ancora più brutto se entri di sera, a novembre, e piove. Quella sera, come le altre del resto, tutto il perimetro del carcere di Trani era illuminato a giorno da fasci di luce, proiettati da grossi fari color arancio; oltre a quelli, robusti fasci luminosi di luce bianca partivano dalle torrette di avvistamento, poste lungo il muro di cinta, e si spostavano lentamente lungo tutto il perimetro, centimetro per centimetro. Un fascio di luce bianca investì subito l’auto dei carabinieri; Colavito distolse lo sguardo per non rimanere abbagliato. Fece lo stesso anche il maresciallo Donno. Poco dopo, si aprì, molto lentamente, il primo grande cancello; oltre al rumore del cancello che scorreva, si udiva un suono metallico, a intervalli regolari, che avvisava tutti dell’apertura; per completare, una grande sirena gialla si accendeva e spegneva, anch’essa a intervalli regolari, in perfetta sintonia con suono metallico. Attraversato il cancello principale, subito dopo, un corridoio coperto grande abbastanza da passarci anche con automezzi più grandi della volante dei carabinieri. Sul lato destro di questo corridoio, una porta e una finestra di vetro blindato e, dietro il vetro, si potevano vedere distintamente due guardie penitenziarie, intente a guardare un piccolo TV color, posizionato in alto, vicino allo schermo che proiettava le immagini inviate dalle telecamere di sicurezza, in modo da avere a cuore la sicurezza del carcere, ma senza disdegnare lo svago… Quando si dice unire l’utile al dilettevole!


22 Una delle guardie, una volta arrivata la volante, si alzò e si avvicinò alla finestra: «Saluti marescià!» «Ue’ bello, come stai?». «Tutto a posto marescià, tiriamo avanti». «Stasera abbiamo eseguito un arresto e devo consegnare la persona che ho in macchina». «Come si chiama?». «Colavito Vittorio». E consegnò, contestualmente, un avviso del seguente tenore: «Al Comandante della Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale. Il Sig. Comandante della Polizia Penitenziaria presso la casa circondariale è pregato di ricevere e tenere a disposizione dell’Autorità Giudiziaria competente Colavito Vittorio, nato a Corato in data 11.08. 1963 e ivi residente alla Via Toniolo n. 82, coniugato, tratto in arresto poiché resosi responsabile dei reati di cui agli artt. 1 e 4 L. 110/1975 e art. 143 T.U.L.P.S.». Colavito, nel frattempo, trattenne un ulteriore conato di vomito quando udì distintamente il tonfo greve che lo avvisava della chiusura del grande cancello alle sue spalle. Di lì non poteva più uscire, pensò. E si sentì perso, perso e smarrito. Sapeva tutto quello che lasciava al dì là del grande cancello che si era appena richiuso: la moglie, la figlia, gli amici, la sua casa, la sua vita prima che fosse stravolta, prima di quella sera. Già… Immaginò che gli stessero rubando proprio la vita, la libertà di viverla, come aveva sempre fatto sino a quel momento. Era perduto, smarrito e impaurito allo stesso tempo. Aveva un grosso cancello richiuso dietro di sé e, dieci metri più avanti in quello stesso corridoio, un altro cancello enorme, massiccio e imponente, ancora chiuso. Non potendo andare indietro, intuì che gli sarebbe toccato varcarlo, di lì a poco. “Cosa ci sarà dietro?” si chiese; “L’inferno, il mio inferno!” si rispose. Intanto, la guardia penitenziaria, all’ingresso, aveva preso il telefono e comunicato l’arrivo del maresciallo con il nuovo ospite di quell’indesiderato albergo. Chiuso l’apparecchio disse: «Due minuti marescià, arrivano». A Colavito tremavano le gambe; e pensò che non ce la faceva proprio più, che avrebbe vomitato, lì davanti a tutti. Ora, stava male anche al pensiero di dover lasciare Donno che, per lo meno, aveva fatto il suo dovere senza fargli male. Lui, il maresciallo, era la legge, ma stava per


23 entrare in un posto dove tenevano i fuorilegge… Aveva paura, una dannata, fottuta paura… Dopo alcuni istanti, proruppe nell’aria il suono sgraziato, elettrico, di un campanello, forte al punto che si sarebbe potuto udire da fuori. La guardia penitenziaria spinse un pulsante e tenne lo sguardo fisso all’altro cancello, quello che a Colavito toccava di attraversare. Istintivamente, anche Colavito e il maresciallo si voltarono da quella parte. Iniziò a lampeggiare una luce gialla e una porta, posta all’interno del grande cancello, lentamente, iniziò ad aprirsi con una lentezza estenuante; attimi che a Colavito sembravano ore interminabili. Sbucarono da quella porta altre due guardie penitenziarie, che si affrettarono a entrare nel corridoio perché pioveva. “Dall’altra parte è scoperto” pensò Colavito. Il maresciallo invitò Colavito ad allungare le braccia in avanti, in modo da riprendersi le manette: ora, ne avrebbe indossato un modello nuovo, con un altro design. E in effetti, le guardie che vennero a prenderlo, portavano in mano una specie di corda che Colavito, inizialmente, nemmeno distinse bene. “Non vorranno legarmi? Dio Santo, chissà che succede qua dentro!”. Poi gli furono vicini. Donno si riprese le sue manette, salutò le guardie e salì in auto con lo sguardo rivolto verso il lunotto posteriore, in attesa che si riaprisse il cancello dal quale era entrato. Non si curò di Colavito, neppure uno sguardo. Non era più affar suo. Le guardie fecero segno a Colavito di sporgere le braccia e i polsi in avanti, mentre aprivano un altro paio di manette, apparentemente simili a quelle del maresciallo, ma con una particolarità in più: una corda in acciaio, lunga circa cinquanta centimetri che, da un lato, era saldata alle manette e, dall’altro capo, terminava con una specie di cappio che fungeva da manico. Sistemate le manette, una guardia inserì la mano nel cappio della corda d’acciaio e si avviò nella direzione da dove era venuta, tirando Colavito. Il cancello principale, però, quello da cui era appena uscito in retromarcia il maresciallo Donno, non si era ancora richiuso. Stupidamente, ma obbedendo a un istinto incontrollabile, Colavito si arrestò e volse indietro il capo: voleva dare un’altra occhiata fuori. Intanto, la guardia che li aveva accolti all’ingresso si era risieduta a guardare la TV e, se gli capitava, anche le immagini delle telecamere di sicurezza. Il nuovo ospite non era più affar suo. La guardia che seguiva Colavito, però, non appena lo notò fermarsi e voltarsi gli strinse una spalla:


24 «Oh, be’?». «Volevo solo dare un’ultima occhiata fuori…». «Neee!!! Senti a questo, senti! Uagliò qui non stai al Grand Hotel, vedi se cammini muoviti!». Quello avanti, che teneva la corda, non disse nulla. Tuttavia, non volle essere da meno al suo collega nel far intendere al nuovo arrivato che non si trovava in albergo e che doveva sottostare incondizionatamente a chi, là dentro, comandava. Diede, quindi, uno strattone repentino e violento alla corda. E, a Colavito, nello stesso istante, si accesero tre spie: quella del dolore, perché si sentì quasi staccare le braccia; quella dell’apprendimento, perché, finalmente, capì a cosa servisse quella strana corda di acciaio saldata alle manette; quella della memoria, perché, da quel momento in avanti, avrebbe rammentato che era meglio non farsi strattonare o, al limite, era meglio preparare e piegare le braccia prima dello strattone, che forse gli avrebbe fatto meno male… Passarono dall’altra parte del secondo cancello. C’era un piccolo cortile scoperto, ampio un centinaio di metri quadrati. Pioveva e il cortile era illuminato da fari che proiettavano luce bianca. Al centro, una grossa aiuola con un grande albero di pino e una gabbia in fil di ferro per uccelli che aveva la forma della cattedrale di Trani “Lavoro di qualche detenuto, o regalo di qualche pia associazione” pensò Colavito guardandola, ma era vuota e dentro non vi erano pennuti. Intorno al cortile si affacciavano alcune finestre di alcune celle. Lo si poteva intuire dalle sbarre spesse delle finestre, dalla luce accesa e poi dalle scarpe da tennis, magliette e stracci appesi o poggiati alle sbarre a significare che lì c’erano detenuti. Presto Colavito sarebbe finito lì, proprio in una di quelle celle. Il contatto, ormai imminente, con gli altri detenuti lo terrorizzava. Sbucati nel cortile, con passo lesto per via della pioggia, i tre si diressero a sinistra e, varcata una porta di metallo e vetro, furono di nuovo al coperto. Colavito era attentissimo a capire, o cercare di intuire dove lo stessero portando; cercava di decifrarlo leggendo le targhette, in plastica, dietro le varie stanze: “sala avvocati”, poi “sala colloqui”; notò anche un dispenser per merendine e caffè e pensò subito che quella era una zona più o meno free, dove gli avvocati incontravano i propri clienti in carcere. Poi, proseguendo nello stesso corridoio, arrivò alle ultime due stanze, posizionate appena prima di una grossa cancellata in ferro color beige che, a sua volta, immetteva in un corridoio completamente buio di cui non si riusciva a vedere il fondo. Le


25 targhette vicino alle porte di quelle ultime due stanze recitavano: “ufficio matricola” e “Sala perquisizioni”. A Colavito venne chiesto, dai suoi angeli custodi, di accomodarsi prima nell’ufficio matricola. Una volta entrati, gli tolsero le manette e andarono via: il detenuto non era più un loro problema, altre guardie avrebbero badato a lui da quel momento in poi. Quelli dell’ufficio matricola chiesero a Colavito di declinare le sue generalità e lui lo fece, senza obiettare. Gli chiesero di indicare il suo difensore di fiducia e lui di nuovo ripetette un nome, quel nome: «Avvocato Luca Malvasi». «E chi è, è nuovo? O non è del foro di Trani?» «Vive a Corato, ma ha lo studio a Trani». «Mai sentito… Vabbè segno Luca….Scusa ripeti il cognome?». «Malvasi!». «Mal-va-si, Malvasi! Fatto. Andiamo nell’ufficio di fronte». L’ufficio di fronte. Una stanza spoglia e maleodorante. Una piccola finestra in alto, non raggiungibile, con grate spesse a protezione. Le pareti di due colori: grigio scuro fino a un’altezza di mt 1,60 e bianche per il resto, soffitto compreso. Macchie evidenti di umidità, dappertutto, e intonaci scrostati. A Colavito sembrò di essere piombato negli anni settanta perché, in quella stanza, il tempo sembrava essersi fermato proprio a quegli anni, senza mai andare avanti. Più o meno al centro della stanza, era posizionata una scrivania, con pannelli in metallo grigio nella parte sottostante, per nascondere le gambe, e radica sopra… Insomma, vintage anche quella! Vi era una guardia, seduta su una sedia in legno e metallo, di quelle che si vedono nelle scuole italiane, un lume, un computer vecchissimo. Altre due guardie, in piedi, ai lati della scrivania che osservavano Colavito con sguardo torvo e non proprio amichevole. «Spogliati!» disse la guardia seduta, senza neppure distogliere lo sguardo dal monitor del computer. Colavito esitò un attimo. Non c’era nulla, neppure una sedia per poggiare gli abiti; la finestra era spalancata e faceva freddo; il pavimento era tutto in cemento, sicuramente freddo anche quello! «Ue’ allora?» gli intimò la guardia, fissandolo, questa volta, dopo aver staccato gli occhi dal computer. «Dove poggio i vestiti?». «Qua sulla scrivania, ci vuole poco». Colavito si spogliò e rimase in mutande, canottiera e calzini.


26 «E che ti vergogni? Via tutto Colavì! Via tutto! E non ti preoccupare che qua siamo tutti sposati e a noi ci piacciono le femmine!». E fu nudo, completamente nudo. E si sentì inerme, completamente inerme e indifeso. Nel frattempo, le guardie in piedi frugavano meticolosamente tutti capi del vestiario, uno a uno. La guardia seduta si alzò e, per compassione, buttò una specie di pannolone sudicio per terra, facendo segno a Colavito di metterci sopra i piedi, che era meglio che restare scalzo sul cemento freddo. Subito dopo, gli fece un’ispezione corporale, per fortuna poco invasiva, e gli disse che poteva iniziare a rivestirsi riprendendo quei capi già ispezionati dai suoi colleghi. E quello riprese con avidità mutande e pantaloni, già a sua disposizione. All’improvviso, però, la guardia che stava esaminando le scarpe, con aria di soddisfazione esclamò: «Ah…. E queste che sono Colavì?». Immediatamente, si voltarono anche le altre due guardie. «Fai un po’ vedere…» disse quello che lo aveva appena ispezionato. «Guarda, guarda….Verbalizziamo tutto. Questo si aggiunge al resto! Le scarpe restano sotto sequestro!». «Ma quelle sono le mie! È tutto a posto, che c’entrano?» replicò Colavito. «Certo che son tue e di chi se no? Se è tutto a posto, perché le tenevi nelle scarpe nascoste in quel modo? E perché non l’hai detto ai carabinieri quando ti hanno arrestato? Lo sai che quelli non la prenderanno bene? Noi sequestriamo tutto. Le scarpe e queste restano qua… Poi spiegherai tutto al giudice che ti interrogherà; e mi sa che ne hai da spiegare di cose al magistrato….Ora rivestiti che ti portiamo in cella!». «Ma… Scalzo?». «Noooo, per carità, mi tolgo io gli anfibi e te li do. Va bene? Uagliò questo non è un fottuto hotel! Vedi che cosa tenevi nelle scarpe e te ne vuoi andare con quelle ai piedi? Scalzo devi andare! Quando qualcuno ti verrà a trovare a colloquio te le farai portare le scarpe! Ora possiamo andare, o hai altre stronzate da dire?». La guardia pronunciò quelle parole alzando il tono della voce e fissando Colavito in un modo che non ammetteva repliche o ulteriori osservazioni: sarebbe andato in cella; sarebbe andato subito; e ci sarebbe andato scalzo. Punto. Era tutto per il momento. Senza mettergli le manette, lo presero per le braccia, senza usare la forza, ma solo per spingerlo nella direzione giusta, e lo portarono


27 difronte alla cancellata in ferro beige. Una guardia ispezionò attentamente un mazzo di chiavi enormi che pendevano dalla sua cintura, ne scelse una, la staccò e la inserì nella serratura. La chiave, color bronzo, era enorme e, a Colavito, ricordava quelle usate dai contadini per aprire le porte in legno dei trulli in pietra…. Poi il primo, il secondo, il terzo e il quarto scatto di serratura; a ogni scatto, Colavito ingoiava saliva… Oltrepassata la cancellata, un silenzio irreale. Dalle celle, che si susseguivano una dietro l’altra, solo qualche voce soffusa o l’eco di qualche programma televisivo. Gli odori, nel corridoio erano simili a quelli di una caserma… “Ci siamo” pensò Colavito. “Prima o poi ci fermeremo e dovrò entrare in cella, con altri detenuti…” Provò l’istinto di vomitare, ma si trattenne. Poi, le guardie lo fermarono; lo fermarono di fronte a una cella, alla fine del corridoio. Colavito capì che quella era la sua e quasi svenne. Una, due, tre, quattro, cinque mandate con un’altra chiave simile a quella di prima e gli si spalancò la porta. Era paralizzato, e non riusciva a muoversi. Avrebbe implorato le guardie di restare lì, ancora con lui. Poi, quando queste lo guardarono, come a dire: “Che aspetti? Vuoi l’invito scritto per entrare?” Lui capì ed entrò. Quale sollievo nel vedere che la cella era piccola, fredda, maleodorante ma…. Ma non c’era nessuno! Era, fortuna sua, una cella per una persona singola, un cubicolo, come lo chiamano gli altri detenuti che fanno a gara per averlo. Le guardie lessero sul volto di Colavito il sollievo provato per quella inattesa e insperata sistemazione e si affrettarono a strappargliela dal volto, mettendogli ansia: «Starai qui, per uno o de giorni massimo, fino all’udienza di convalida; poi, se esci, bene; se no, ti trasferiamo in una cella con altri detenuti, così stai in compagnia…». Accompagnarono quelle parole con un sorrisetto ironico, ben sapendo che la paura più grande, per quelli come Colavito che non erano mai stati in carcere, era proprio quella di venire in contatto con gli altri detenuti. Poi, richiusero a chiave la porta e, quando lo ebbero fatto, uno disse all’altro: «Dobbiamo già pensare dove sistemarlo, che questo, prima di sei o sette mesi, per come è combinato, non ce lo togliamo davanti».


28 Ma Colavito non sentì. Si ritrovò solo, in quella cella; solo e disperato. Ebbe un altro violento conato di vomito e, questa volta, non si trattenne e corse a vomitare, tanto nessuno lo avrebbe visto. Quando alzò la testa dal water, per riprendere fiato, notò che accanto al cesso vi era un misero e sporco angolo attrezzato per la cucina…. “Qui trattano la gente peggio che gli animali nelle stalle… Voglio uscire! Voglio uscire! Voglio uscire!” Era disperato. Iniziò a battere i pugni contro il muro e ricominciò a piangere; non voleva, certo, ma proprio non ci riusciva a trattenere le lacrime. Poi, capì che era inutile dare pugni e testate al muro… e si gettò in branda, vestito com’era e senza scarpe. Non aveva il pigiama e gli rimbombavano in testa le parole che fino ad allora gli avevano ripetuto da quando aveva messo piede in quel dannato carcere: “Quello non era un fottuto albergo!” Una volta in branda, spossato, si addormentò, ma si addormentò piangendo.


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CAPITOLO VI

«Pronto?». «Sì, pronto?». «Buonasera, parlo con l’avvocato Malvasi?». «Sì, con chi parlo?». «Buonasera avvocato, Carabinieri di Trani». «Ah… buonasera, che succede?». «Volevamo informarla che questa sera abbiamo proceduto all’arresto in flagranza del Signor Colavito Vittorio, che ha fatto la sua nomina come difensore di fiducia». «Ho capito». L’avvocato Malvasi rispose “ho capito” cercando di assumere il tono di chi, di quelle telefonate, ne riceve una al giorno e sa perfettamente di cosa si tratta e cosa si deve fare, senza che la conversazione si protragga oltre. In realtà, non aveva capito. In realtà, avrebbe voluto dire: “Ok, che devo fare in situazioni come questa? Come ci si comporta?” Non lo fece. Né lo avrebbe fatto mai. Era abituato, anzi, si era proprio allenato, a cercare di non lasciare trasparire mai non una debolezza, che già sarebbe stato troppo, ma anche solo un segno che potesse rivelare una debolezza. Per cui, quando il carabiniere, dall’altro lato della cornetta, riprese: «Allora Ok? Avvocato, ha preso nota?». Lui, pronto, rispose: «Va benissimo, me ne occupo io. Buonasera». «Buonasera». Chiuso il telefono disse a se stesso pure a voce alta: «Buonasera un cazzo! E va benissimo un cazzo! E adesso?». Era preoccupato. E, effettivamente, aveva più di un motivo per esserlo. Quando ricevette quella chiamata, l’avvocato Luca Malvasi aveva venticinque anni; a ventitré anni si era già laureato, col massimo dei voti, bruciando le tappe; aveva fatto due anni di pratica, in ambito civile e presso un noto avvocato di Trani e, solo da pochi mesi, si era iscritto all’albo per esercitare in via autonoma la professione. Al suo attivo, alla data del ventiquattro novembre 2004, aveva: 1) due domande di


30 insinuazione al passivo in seno a una procedura fallimentare, redatte per conto di due amici di infanzia che si fidavano ciecamente di lui e che gli avevano affidato quelle pratiche quando erano falliti gli store della Società Ferretti s.r.l. presso i quali avevano lavorato; 2) una pratica per risarcimento danni derivanti da sinistro stradale, a seguito di un incidente, per fortuna non grave, occorso a suo padre, che pure aveva dovuto convincere a chiedere i danni per rattoppare la vecchia Fiat Tipo Bianca. Lo ricordò sempre con affetto quel sinistro e i suoi primi duecento euro guadagnati: si comprò un giubbino in finta pelle bianca che lo aveva fatto impazzire nei mesi precedenti. L’avvocato Malvasi, in quel periodo, viveva ancora a casa con i suoi; aveva una Fiat punto “Sole”, comprata a rate, da suo padre, ben cinque anni prima… Frequentava, a Bari, la scuola di specializzazione per le professioni legali perché aveva intenzione di fare il Giudice, per l’esattezza, il Pubblico Ministero, meglio se a Milano oppure a Palermo, prima di ritornarsene in Puglia dove sognava un ufficio in un Tribunale con una finestra che dava sul mare. Non l’avrebbe fatto mai quel concorso per magistrato… Ma, a venticinque anni, ancora non lo sapeva; la scuola di specializzazione la frequentava per quello scopo e per prepararsi meglio a un concorso che, prima o poi, avrebbero bandito… Nel frattempo, faceva, o cercava di fare, l’avvocato… meglio non tralasciare nessuna possibilità… A venticinque anni il futuro spesso è ancora incerto e il destino di ognuno non si è ancora svelato completamente. La telefonata di quella sera lo scosse dalla relativa tranquillità in cui viveva e lo pose subito difronte a un dilemma da sciogliere in tempi rapidissimi: doveva accettare il caso? Oppure era meglio contattare un collega più esperto e passare il cliente? Forse, c’era anche un’ipotesi di compromesso che poteva andare bene: quella di farsi coadiuvare nella difesa da un collega penalista più anziano e più esperto di lui, una difesa congiunta, insomma. Ma l’avvocato Malvasi era uno di quelli che hanno poco e vogliono tutto. Non era ricco, tutt’altro, ma voleva diventarlo. Non era in carriera e nemmeno poteva esserlo a venticinque anni e da pochissimo iscritto all’albo, ma voleva fare carriera, come Pubblico Ministero o, al limite, come avvocato. Non era conosciuto e voleva diventare noto. Si era prefisso, ma già dai tempi dell’università, grandi traguardi e voleva raggiungerli.


31 Perciò, col tarlo dell’ambizione nella testa e sotto la pelle, cominciò a riflettere su… Del resto, per lui, lo stato riflessivo, sin da bambino, era il suo stato naturale, quello in cui si sentiva più a suo agio. Esaminò, per prima, la possibilità di cedere il cliente a un altro avvocato; doveva presentarsi da Colavito e dire: «Mi dispiace Vittorio, io mi occupo di diritto civile, ti conviene contattare un collega che si occupa di diritto penale; se vuoi, ti indico io qualcuno fra i più bravi e i più noti…». Ma questa soluzione non gli garbava affatto. Più ci pensava, più storceva il naso… Sarebbe stato come mandare un messaggio alla collettività, alla potenziale clientela; quel caso, di sicuro, avrebbe fatto un po’ di scalpore, magari qualche giornale locale ne avrebbe parlato e lui che cosa faceva? Rifiutando completamente il caso, sarebbe stato come dire a tutti: “Scusate, è troppo difficile, non me la sento, almeno per adesso, ne riparliamo fra quattro o cinque anni”. Non poteva accettarlo, non era il tipo d’uomo. Forse, anche se in anticipo rispetto alle sue previsioni, forse era venuto il tempo di dimostrare sul campo i sessanta/sessantesimi del diploma del liceo Classico e la laurea con lode all’università. Scartò, quindi, la prima ipotesi vagliata. Passò in rassegna le altre due contemporaneamente. Accettare il caso con il patrocinio di un collega più esperto gli dava maggiore sicurezza e tranquillità. Probabilmente, era questa la cosa più saggia e giusta da fare, anche per meglio tutelare Colavito… Già… Però… Colavito… Se questi aveva fatto la sua nomina era perché si fidava di lui, solo di lui, come avrebbe giustificato la presenza di un altro avvocato? «Ciao Vittorio, questo è un collega più esperto che seguirà me e te in questa vicenda, ok?». Oppure: «Ciao Vittorio, il tuo caso è complesso meglio seguirlo in due…». Ecco, forse, la seconda giustificazione ci poteva anche stare… Ma quel pensiero, quella tentazione sottile che, per dirla tutta, gli si era affacciata in mente sin dall’inizio… “E se ci provassi io, io da solo… perché no?” La pratica in ambito civilistico aveva avuto l’effetto di rendergli odioso quel settore del diritto, dove tutto gli sembrava monotono, scontato, così diverso dal mondo che aveva immaginato quando era all’università… Il processo penale, la toga nera, gli interrogatori in aula fatti come si deve, le arringhe, i colpi di scena… quello sì era fare l’avvocato… Ma


32 se voleva fare davvero il penalista, doveva cominciare, prima o poi. Certo, sarebbe stato preferibile e più opportuno cominciare da qualcosa di meno serio, fare “riscaldamento” con un reato bagatellare, uno di quelli dove il cliente rischia al massimo una multa oppure un paio di mesi di arresto e/o reclusione, con pena sospesa. Ma il destino, a Malvasi, aveva detto quello; quello o niente. Oltre all’ambizione, l’avvocato Malvasi aveva almeno un altro difetto: era appassionato di storia e di personaggi storici. Apparentemente un vizio innocuo, ma pericoloso unito alla testa dei vent’anni e a manie di grandezza. Pensava che i grandi personaggi di cui aveva letto, erano diventati quello che erano perché, posti dinanzi a un’occasione, l’avevano colta, accettandone i rischi. E, per diana, lui avrebbe colto la sua occasione! A modo suo, avrebbe gettato i dati e passato il Rubicone, che Giulio Cesare insegna! Sull’onda di queste cervellotiche elucubrazioni mentali, governato più dalla vanagloria che dal buon senso, l’avvocato Malvasi decise di accettare l’incarico da solo e senza altri codifensori; l’indomani si sarebbe recato in carcere da Colavito a sentire cosa aveva da dire. L’aver preso quella decisione, però, non lo liberò dal peso e dalla preoccupazione che sentiva istintivamente per quell’incarico. Tuttavia, finì per assecondare la sua indole e la sua voglia di riscatto, la voglia di contare di più di quello che era ed era stato sino a quel momento. Del resto, Malvasi era tipo che si preoccupava sempre di tutto, senza tirarsi indietro di fronte a niente. Fece lo stesso anche in quella occasione, seppure, quella notte, dormì peggio delle altre trascorse, chiedendosi, tra le altre cose, perché fra gli oltre duemila avvocati iscritti all’Ordine degli Avvocati di Trani, Colavito avesse nominato proprio lui. E Colavito, bontà sua, li aveva dei motivi che lo spinsero a fare quella nomina già la sera dell’arresto dinanzi ai carabinieri di Trani. Colavito, Luca Malvasi, lo aveva visto crescere. Lui, che da sempre aveva fatto il guardiano abusivo in agro di Trani, conosceva da almeno vent’anni la famiglia Malvasi. E conosceva il padre di Luca, Peppino, che aveva dei terreni in quella zona, contrada Capitolo. E quando Peppino si recava lì, prevalentemente di domenica, il figlio Luca, già da quando aveva dieci o undici anni, era con lui, a raccogliere le olive, raccogliere la frutta e potare gli alberi. Riteneva, dunque, che quel Luca fosse un bravo ragazzo, di famiglia a posto e gran lavoratore, visto che, anche negli anni, oltre ad andare a scuola si dava da fare anche in campagna, la domenica e i giorni festivi. Per di più, quando prese la laurea in giurisprudenza, suo padre sparse la voce ai quattro venti e


33 tutta la contrada seppe che il figlio di Peppino Malvasi era diventato avvocato con il massimo dei voti. Tutti, compreso Colavito, a cui quel ragazzo aveva sempre fatto una buona impressione. Per questi motivi, pur non avendo, dopo la laurea e per alcuni anni, più visto Luca Malvasi nei campi, si ricordò di lui nel momento del bisogno e fece la sua nomina; non certo perché avesse testato la sua capacità professionale, ma perché lo credeva una brava persona; preparato, poi, doveva esserlo per forza, visto che si era laureato con il massimo dei voti! E poi, in fondo, meglio lui che un avvocato che non conosceva e non ne conosceva davvero di altri, non avendo mai avuto a che fare con la categoria. Dal punto di vista di Colavito, il suo ragionamento, in realtà completamente sballato, non faceva una grinza!


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CAPITOLO VII

L’indomani mattina presto, l’avvocato Luca Malvasi ebbe la prima sorpresa. Lui non esitò ad alzarsi dal letto al primo squillo della sveglia, come gli accadeva, quasi sempre, quando aveva cose importanti da fare e quando era teso. Si vestì e si pettinò con maggiore cura del solito e indossò l’abito per andare in carcere, come faceva quando si recava in udienza. Non fece la solita colazione, si accontentò di sorseggiare tre dita di latte e caffè. Di certo, non si aspettava che, fuori dal portone di casa sua, ci fosse qualcuno ad aspettarlo. Infatti, appena lo aprì, si ritrovò davanti la moglie di Colavito, la figlia e un altro familiare, un vecchio zio. La moglie e la figlia avevano gli occhi della disperazione e dello smarrimento. Il vecchio zio quelli della diffidenza e del sospetto. Quest’ultimo, che qualche grana con la giustizia l’aveva avuta, era il più calmo di tutti gli altri della famiglia; di avvocati penalisti e amici ne aveva a Corato e a Trani, e quando seppe della nomina di tale Luca Malvasi, non l’aveva presa per niente bene… che, in un caso come quello, ci voleva un penalista serio, vero, di lungo corso, mica un giovincello sconosciuto! Aveva accompagnato le due donne perché voleva rendersi conto di persona in che mani era caduto suo nipote e celava il fine recondito di convincere Colavito e la sua famiglia ad affidarsi a quell’avvocato amico suo che, per lui, aveva sempre fatto i miracoli! L’avvocato Malvasi, a pelle, intuì alcune cose. La signora, approfittando della conoscenza e sapendo dove abitava Luca, non aveva resistito alla tentazione di incontrarlo subito per farsi spiegare meglio la situazione e per capire cosa rischiava suo marito; non solo lui, ma pure la famiglia. Malvasi capì che lei e sua figlia non costituivano un problema; erano entrambe smarrite, disperate e andavano solo rincuorate; le avrebbe gestite facilmente.


35 Il problema era quell’altro. Intuì che era lì appositamente per esaminarlo e, con lui, doveva muoversi con maggiore cautela e circospezione. Perciò, assunse un’aria greve e cercò di darsi un tono, il più professionale che poteva. Tanto per cominciare, salutò tutti con una stretta di mano energica, quasi a voler infondere un’impressione di forza e sicurezza. Poi, attaccò per primo: «Che ci fate qui, sotto casa?». «Luca, ti posso chiamare Luca?» disse la moglie di Colavito. «Certo che sì, nessun problema». «Dimmi la verità! Io da ieri non valgo più come persona, stanotte non ho chiuso occhio, io e ‘sta creatura non facciamo altro che piangere… Cosa rischia Vittorio? Lo fanno uscire dal carcere? Dopo quando tempo?». Non avendo trattato, in precedenza, casi analoghi, l’avvocato Malvasi non ne aveva davvero la più pallida idea. Ma indossò la maschera del penalista navigato. «Signora…» esordì, poggiandole una mano sulla spalla come a darle forza, coraggio. «Vede, la situazione è complicata e va seguita come si deve. Io sono stato avvertito ieri sera e stamattina, a quest’ora, sono già operativo per Vittorio. Sto andando proprio in carcere a parlare con lui, sentire cosa mi dice, per valutare meglio la situazione, i pro e i contro; poi, all’udienza di convalida, che si terrà domani o dopodomani, parlerò con il Giudice e vediamo cosa decide; quello che sta da fare, si farà! Io Vittorio lo conosco di persona, so che è una brava persona e farò di tutto per aiutarlo». Disse tutto e non disse niente. Di certo, non aveva risposto e non si era sbilanciato rispetto alle domande poste dalla signora Colavito. Ma quello che aveva detto, lo aveva detto con un tono, una sicurezza, che avevano ispirato fiducia, almeno nella moglie e nella figlia di Colavito. Il vecchio zio, invece, era rimasto in silenzio; lo aveva ascoltato ma non era stato in grado di trarre elementi per dire se fosse o non fosse l’avvocato giusto: era costretto ad attendere i primi risultati. Dette quelle parole, l’avvocato Malvasi fece intendere che era meglio andare in carcere e che ogni minuto perso lì era sottratto al colloquio con Colavito e che tanto poi li avrebbe richiamati e avrebbe riferito loro dell’esito di quell’incontro. In macchina, da solo, non si preoccupò più di nascondere i segni della tensione e del nervosismo, segni che, dinanzi agli altri, aveva imparato


36 a tener dentro e a non lasciar trasparire mai. Ma l’esofagite da reflusso gli ricordava spesso che non era affatto salutare buttare sempre tutto giù, in fondo allo stomaco, senza farlo uscire… Dopo circa quindici minuti, fu a Trani, al carcere. Lasciò la sua auto in una zona remota del parcheggio antistante il carcere, piuttosto lontano dall’ingresso, perché non andava troppo fiero della sua Fiat Punto Sole, specie in posti dove erano parcheggiate autovetture molto più lussuose… E in effetti, non era il solo avvocato, quel giorno, a fare visita a un cliente detenuto. C’erano anche altri avvocati, almeno tre o quattro, che facevano visita ai propri assistiti. Uno di loro suonò al citofono del cancello piccolo posto accanto all’ingresso principale del carcere. In attesa di risposta, quegli altri avvocati, i penalisti veri, parlavano e scherzavano tra loro; davano l’idea di conoscersi benissimo tra loro e di aver affrontato scontri e battaglie legali, insieme o uno contro l’altro, come ti capita spesso, se decidi di fare l’avvocato. Nessuno di loro sembrò curarsi di Malvasi che li osservava in silenzio e, osservandoli, pensava: “Chissà quante volte sono entrati qua dentro… ecco perché appaiono così leggeri e sicuri. Però, anche per loro ci deve essere stata una prima volta… e magari non avevano venticinque anni, ma erano molto più grandi… Be’, ora tocca a me…” Con questi pensieri, si fece coraggio. Quando il cancelletto si aprì, entrarono tutti. Malvasi per ultimo. Non sapeva di preciso cosa fare e pensò che fosse meglio osservare i movimenti dei suoi colleghi, dei penalisti, quelli veri. Era una lezione che non aveva appreso a scuola o all’università; semplicemente, suo padre glielo aveva detto e ripetuto negli anni: “Se devi fare una cosa nuova che non sai fare, osserva chi la fa e fai come fa lui. L’importante è che non ti fermi, che agisci”. In altre parole, doveva rubare il mestiere a quegli altri. E se l’era ricordato in quel momento quell’insegnamento. Oltrepassato il cancello, si ritrovarono tutti in quello stesso corridoio coperto che, la sera prima, aveva attraversato Colavito. Tutti andarono verso la finestra e la porta di vetro blindato sul lato destro, dove c’erano le due guardie penitenziarie di turno; giunti lì davanti, tutti tirarono fuori il tesserino da avvocati rilasciato dal consiglio dell’ordine di appartenenza. Malvasi fece lo stesso. Le guardie li conoscevano tutti quegli avvocati penalisti e, per ciascuno di loro, avevano una battuta o un affettuoso saluto; per tutti, certo, fuorché per uno, mai visto prima.



In uscita il 20/12/2019 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine dicembre 2019 e inizio gennaio 2020 (4,99 euro)

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37 “Ue’ avvoca’ tutto a posto?” oppure: “Avvocato Girone, sempre di prima mattina, giusto?” o anche: “Avvocato carissimo, questo è l’anno nostro, che cosa le avevo detto io? Forza Roma!!” Malvasi non poté fare a meno di notare che a ogni suo collega che lo aveva preceduto era stato riservato un cordiale e simpatico benvenuto. «Buongiorno. Desidera?». Questa fu invece la fredda accoglienza riservata a lui. «Buongiorno». Non disse nulla e mostrò il tesserino come avevano fatto gli altri. «Ah… lei è del foro di Trani… Pensavo venisse da fuori…». «No, sono di qui». La guardia annotò su un grosso registro i dati anagrafici di Malvasi e l’orario d’ingresso. Poi, da un cassettino, tirò fuori un cartellino con una spilla per appenderlo alla giacca, su cui era scritto “Pass Avvocati”. Luca Malvasi lo prese e si diresse nella stessa direzione verso cui si erano diretti gli altri, affrettando il passo per non perderli. Superato un altro cancelletto elettrico, furono tutti nel cortile, lo stesso cortile per il quale era passato Colavito. Attraversarono il cortile, ancora un cancello, e si ritrovarono all’interno del carcere. Lì, altre guardie. Stessa cordialità con gli altri avvocati, stesso distacco con Malvasi. Perquisirono tutti; ognuno lasciò cellulare e oggetti metallici; dopo il metal detector, proseguirono verso la sala colloqui. L’avvocato Malvasi non staccava, nemmeno per un attimo, gli occhi dai suoi colleghi. Notò che tutti entrarono in una stanza, dove su un tavolo vi erano dei moduli di carta che tutti presero, compreso lui ovviamente. Non gli fu difficile capire la procedura: ogni avvocato compilava quel modulo indicando il nome o i nomi dei detenuti con i quali intendevano conferire; poi, il modulo veniva consegnato alla guardia lì presente e questa, telefonicamente, avvertiva i colleghi che si trovavano nei rispettivi reparti, di avvisare il detenuto interessato e di portarlo giù per il colloquio con il difensore. Malvasi, però, non aveva la penna. Non sapendo cosa si poteva o non poteva portare in carcere, aveva deciso di non portare proprio nulla. La chiese in prestito a un collega e risolse il problema; consegnò anche lui il suo modulo alla guardia con il nome di Colavito e aspettò. Mentre era in attesa, per la prima volta, gli toccò di assistere a una triste e penosa sfilata. Gli passavano davanti i detenuti chiamati a colloquio dai suoi colleghi, scortati da una o due guardie, e vestiti quasi tutti con una tuta felpata e scarpe da ginnastica. A mano a mano che arrivavano, venivano smistati in piccole salette con le porte di vetro, dove


38 entravano con i rispettivi avvocati; le guardie chiudevano la porta ma rimanevano fuori, in osservazione, con lo sguardo puntato nella stanza, in modo da controllare che non vi fossero scambi di oggetti tra detenuto e difensore. Dopo una mezz’ora buona di attesa, toccò a lui, a Malvasi. Il suo detenuto era arrivato. Colavito venne accompagnato da una guardia e quello che Malvasi vide subito non fu bello, non fu per niente bello… )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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