Un berretto di panno blu, Francesco e Chiara Viotti

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In uscita il (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine PDJJLR H LQL]LR JLXJQR 2020 (5,99 euro)

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FRANCESCO VIOTTI CHIARA VIOTTI

UN BERRETTO DI PANNO BLU

ZeroUnoUndici Edizioni


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UN BERRETTO DI PANNO BLU Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-391-8 Copertina: immagine proposta dall’Autrice Prima edizione Maggio 2020


Mantenendo la promessa... In memoria del mio Eroe Chiara



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PREFAZIONE

Quest'opera è interamente frutto della mente ribelle, geniale e un po' pazza di mio nonno Francesco Viotti, pittore, scultore e scrittore di immenso talento, con il quale ho avuto il piacere e l'onore di condividere i miei primi diciotto anni di vita. Mio nonno era una persona semplice e buona, un eterno ''Peter Pan'', immerso in un mondo fantastico dal quale non usciva mai e del quale solo lui possedeva la chiave d'accesso. Sono fermamente convinta che questo suo particolare carattere sia stato fondamentale per riuscire a farlo vivere per ottantotto anni nonostante i patimenti subiti durante la Seconda Guerra Mondiale. Raramente parlava in famiglia del suo vissuto durante la guerra, se non raccontando i soliti due o tre aneddoti, che, non a caso, erano i meno atroci della sua esperienza di deportato. Solo leggendo il suo libro ho poi trovato risposta al suo perenne silenzio, e ho soprattutto capito che il testo da lui scritto non è un'opera storica sulla guerra, ma il racconto di come un giovane diciannovenne italiano, prossimo alla maturità, ha vissuto sulla propria pelle le atrocità della Seconda Guerra Mondiale. La sua esigenza espressiva era però forte, e sempre lo è stata, per questo ha messo in lettere quello che non riusciva a esprimere a parole, dando vita a quest'opera biografia meravigliosa. Il mio ruolo in questa storia ha avuto inizio quando mi chiese di pubblicare il suo manoscritto, la sua vita, che tanto difficilmente aveva messo su carta usando una matita su fogli di quaderno sparsi. Il mio compito è stato quindi quello di ricopiare parola per parola tutto ciò che lui aveva lasciato e di dargli vita su pagine computerizzate. Nessuna parola, espressione, virgola o frase è stata da me modificata, eliminata o aggiunta ma ho pedissequamente ricopiato l'opera già perfetta così come era. Mi sono quindi rivolta, dopo più di un anno di lavorazione dello stesso, alla casa editrice 0111 edizioni, la quale, credendo nell'opera di mio nonno, mi ha permesso di pubblicarla e di mantenere quella promessa da me fatta anni fa al mio eroe.


6 È stato un lavoro lungo e non privo di difficoltà emotive nel leggere su carta quello che una persona a me tanto vicina e da me tanto amata aveva patito durante gli anni dell'adolescenza. La mia speranza è che quest'opera rimanga e che venga ricordata da chi ha vissuto quelle stesse esperienze, da chi è figlio del dopoguerra e le ha apprese tramite le parole dei propri genitori e da chi, come me, è troppo giovane per conoscere ma ha il dovere di conoscere e di non dimenticare. Ringrazio quindi la casa editrice 0111 edizioni per la fiducia riposta in quest'opera e per avermi permesso di dare vita e far splendere di luce propria l'opera prima di Francesco Viotti. Ringrazio la mia famiglia per avermi sempre sostenuta ed essermi stata accanto in questo percorso. Ringrazio infine mio Nonno per avermi dato l'incarico di portare alla luce la sua storia e renderla immortale, certa del fatto che la fiducia che lui ha riposto in me mi riempirà per sempre di orgoglio e gratitudine. Da ultimo preciso che l'immagine di copertina utilizzata per la stesura del libro ritrae il campo di lavoro di Hedderneihm, ed è stata dipinta dall'autore del manoscritto Francesco Viotti.


7 «Etez vous Italien?». «Oui». «Pourquoi avez vous declarè la guerre à la France?». «Moi? Je n'ai jamais declare la guerre a personne». «Siete italiani?». «Sì». «Perché avete dichiarato guerra alla Francia?». «Io? Io non ho mai dichiarato guerra a nessuno». Con queste due domande, durate in tutto trenta secondi, iniziava e terminava l'interrogatorio alle cinque del pomeriggio del 24 aprile 1945 alla Securitè Militaire di Revigny (Champagne). Non una parola di più. Un anziano alto ufficiale qualsiasi fece le domande. Io, diciannovenne, risposi. In quel momento si chiudeva la breve parentesi di libertà tra due prigionie sotto due bandiere.



PRIMA PARTE

LA BANDIERA DEL TERZO REICH ''ITALIENER VIEL TEMPERAMENT''



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IL FUMO GIALLO

L'INN Agosto 1944. Austria. La bandiera del “Terzo Reich” penzola dall'alto del pennone all'ingresso del lager, scossa ogni tanto dalle deboli raffiche provenienti dalle Alpi Tridentine. In questo mattino limpido di mezza estate tutti gli sguardi dei deportati sono rivolti alle montagne che il convoglio si è lasciato alle spalle. Le bellissime cime sono bianche e tese. Abbiamo passato il Brennero stipati nei carri bestiame. Alla stazioncina del villaggio austriaco i militari della “Wehrmacht” che, due ogni vagone, ci hanno scortato da Verona sin qui, passano le consegne ai commilitoni d'oltralpe. Poi proseguiranno, ognuno per conto suo, verso casa in licenza. *** Il lager, sulle rive sabbiose dell'Inn, è deserto. I pochi edifici in legno, camerate e mensa, sono abbastanza puliti e tranquilli. Non ci sono recinti di filo spinato né altre barriere. Potrei anche andarmene, dato che la sorveglianza è minima. Non so perché non l'ho fatto. Forse per la febbre. Batto i denti e mi butto sul letto. Poi di scatto mi alzo e con l'asciugamano, unico corredo che mia madre riuscì a porgermi attraverso il reticolato al forte Bramapane di La Spezia, scendo alla riva e mi butto nel fiume. La corrente morbida mi posa su un isolotto di sabbia. Disteso al sole contemplo le montagne. Il Mar Ligure, dove ho trascorso le estati dei miei diciannove anni, è molto lontano. La settimana scorsa facevo il bagno in un’insenatura delle “Cinque Terre”, raccoglievo muscoli e granchi.


12 Ora nuoto nelle acque di un fiume che scende rapido incontro al Danubio. A forti bracciate risalgo alla riva e ho una duplice sorpresa. L'asciugamano che avevo lasciato sulla spiaggia è sparito. Ma è scomparsa anche la febbre. Se ne è andata da sola. *** Appaiono invece le prime immagini, nitide come foto appena sviluppate. Rivivo per alcuni minuti la scena dell'otto agosto. Sono passati da allora dieci lunghissimi giorni. Alle nove del mattino sulla piazza del paese si erano già formati due schieramenti. Ero stato uno degli ultimi, se non l'ultimo, ad arrivare sulla piazza, perché la mia casa è all'estremità del paese, dove incominciano gli orti e i vigneti. Il rastrellamento è certamente iniziato dalla riva del mare, barriera insuperabile, ed è proseguito a raggiera per le strade del borgo sino ai confini dell'abitato, tutte le vie di uscita erano bloccate dai tedeschi. Sul lato dove la strada principale entra nella piazza e imbocca la “via del molo”, o finisce sulla spiaggia, si era riversata la gente del paese, in prevalenza donne, trattenuta a stento dal cordone dei militari tedeschi. Sul lato monte, nel tratto che va alla chiesa, c'erano i “rastrellati”, qualche centinaio, incolonnati su due file fino ai piedi della scalinata che, tra gallerie e strapiombi, porta alla stazione ferroviaria. Il sagrato era vuoto, ancora nell'ombra, impregnato di salmastro, ma la cima del campanile ottagonale brillava al sole. In quel momento, come niente fosse, rintoccavano le ore nove. Ci divideva dalla folla l'ampia distesa della piazza tra i portici a levante e le poche barche tirate a secco a ponente. Tra di esse spiccava la “Vulnezia” (antico nome di Vernazza), con la sua poppa quadra e gli ampi fianchi per i quali si era attirata per grossolana ironia lo spregiativo di “casseruola”. Alla “casseruola” era appoggiato, visibilmente soddisfatto per quanto stava accadendo tra la sua gente, il gregario della milizia fascista, in divisa. La folla intanto si faceva sempre più irrequieta e rumorosa.


13 Le donne urlavano i nomi dei loro familiari, al di sopra di un prolungato lacerante lamento. Si udivano continui gli ordini secchi dei tedeschi, simili ai latrati di cani rabbiosi al megafono. Tutta la guarnigione era scesa dai bunker del castello. Anche Siegfried, l'innamorato pazzo della Tilde di Spezia, sempre sorridente, scherzoso e scroccone, si era scatenato improvvisamente contro di noi. A un tratto udii la voce di mia madre. Mia madre era laggiù, davanti a tutte le altre. La vedo ora come in un ingrandimento fotografico. Aveva i capelli al vento. Cercava di forzare la barriera dei tedeschi, ma alcune donne la trattenevano. Due tedeschi le si erano parati contro, con le braccia allargate. Non avevo mai visto mia madre così risoluta e impetuosa. Sentivo il sangue ribollire. Una mano si posò sul mio braccio. Silvio balbettò: «stiamo calmi, sennò finisce male. Ci vanno di mezzo le donne e i ragazzi». Intanto qualche donna aveva cercato di imitare mia madre. Tutte insieme riuscirono poi ad aprirsi un varco e tentarono disperatamente di attraversare la piazza ma vennero respinte con durezza senza riguardi. Un niente poteva provocare un dramma, così seguimmo il suggerimento di Silvio. Ora penso che, se quelle donne disarmate fossero riuscite a rompere la barriera, la guarnigione si sarebbe arresa. Gli uomini avrebbero preso abbracci e schiaffi, subito. Un’ora prima mia madre mi aveva quasi costretto a nascondermi nella soffitta. «Presto! Stai lì e non ti muovere!». «Neanche per sogno» le avevo detto. «In soffitta nascosto non ci sto!» e mi ero precipitato giù per le scale. I tedeschi avevano bussato più volte, battendo sonoramente il batacchio sul portone. C'era con loro il segretario del partito in camicia nera, aveva in mano una lista di nomi. Non mi guardò mai in faccia, eppure ci conoscevamo da molti anni. Teneva gli occhi bassi, sgonfio della sua stupida boria ventennale. Che figura quest'ometto dalle gambe corte che per anni aveva rumoreggiato in camicia nera e gambali!


14 Venni poi buttato, insieme a Luciano e Lazzaro, nel mucchio dei “rastrellati”. Sul muro dell'edificio alle nostre spalle era ancora visibile il manifesto appiccicato tempo fa dai fascisti. Iniziava così: “Sarà fucilato chi...”. Seguivano una buona dozzina di pretesti per premere il grilletto. Uno, più degli altri, mi riguardava da vicino. Ero stato con i “ribelli” sulle montagne. Ma questa è un'altra storia. Mentre i tedeschi, frenetici e ansiosi di sbarazzarsi di noi per tornare ad abbronzarsi sui bastioni, ci spingevano verso la ferrovia, ebbi il tempo per dare un ultimo sguardo in giro. Il mare di solito brulicante, a quest'ora nelle belle giornate estive, di barche e bagnanti, era deserto come per un arcano fenomeno. Le vigne sui pendii tutt'intorno avevano già il colore della vendemmia vicina. Ma noi a trasportare a spalle grossi corbelli di uva matura questa volta non ci saremmo stati, e neppure, più in là, a raccogliere castagne, olive e capperi. Svoltato l'angolo dell'oratorio che dà le spalle alla chiesa e apre la piazzetta prospiciente la stazione ferroviaria, ci accolse improvviso un vocio proveniente dall'alto. La folla che prima era sulla piazza si era spostata tutta assieme lungo il sentiero a venti metri di altezza sull'alto del muraglione sovrastante la linea ferrata. Le voci, che sulla piazza avevano risuonato come gli urli e i lamenti del coro in un anfiteatro greco, qui dileguavano nell'aria. Il suono che più si distingueva era il grido rauco dei gabbiani. Le prime vetture del treno erano già cariche dei deportati di Monte Rosso. Ci imbarcammo, forzati negli scompartimenti e fummo subito inghiottiti nel buio profondo delle gallerie, come nell'obiettivo di una macchina fotografica mostruosa. *** La quiete dopo la tempesta e l'ozio quotidiano fanno di questo luogo assopito sulla riva dell'Inn una specie di limbo per miracolati. Ci sentiamo a disagio e vaghiamo tra i letti dei cameroni come convalescenti nelle corsie, increduli e sospettosi.


15 I pochi custodi, di aspetto uniforme monocolore, fabbricati in serie su stampo, si muovono simili ad automi prossimi all'esaurimento delle pile. Non danno ordini se non tra di loro come il caposala agli infermieri. La vera autorità qui per noi è la catena delle Alpi. “Indietro non si torna”, sembra imporre minacciosa, attorniata da nidi di SS sparsi dovunque. Questo campo era stato organizzato in passato per dare accoglienza ai “volontari” italiani. Uomini e donne, ciascuno munito di un regolare contratto di ingaggio, sostavano qui a scaglioni per proseguire poi in convogli verso i posti di lavoro loro assegnati. Allora in Italia c'erano disoccupazione e miseria. Ovunque apparivano manifesti della propaganda che con lusinghe e promesse spronavano la popolazione ad accogliere “l'invito della Germania”. Sedotti dal miraggio di un guadagno soddisfacente e di un trattamento amichevole molti avevano accettato, mentre altri si erano dati alla macchia. Oggi le cose sono cambiate. Non è più tempo di “volontari”, la manodopera italiana è tutta coatta, costituita dagli ex volontari, dagli ex militari prigionieri e dalla grande massa dei deportati come noi, rastrellati ovunque dai Tedeschi. Tra i civili deportati ci sono anche i ladri perché le carceri italiane sono state svuotate. *** Alcuni giorni dopo il nostro arrivo in Austria, partiamo su una vettura del treno passeggeri per ignota destinazione. Rannicchiato nella rete portabagagli dello scompartimento sovraffollato, cerco di isolarmi dal vocio multi dialettale. Accenti siciliani si intrecciano con altri del Friuli, pugliesi e sardi. Non capisco una parola, io che ne capisco poche del dialetto della mia gente, il genovese stretto. Così, nello scompartimento stipato, mi sento solo e cerco compagnia nei miei pensieri. Tra qualche mese dovrei dare l'esame di diploma all'Istituto Nautico “San Giorgio” di Genova. Non ho pensato a portarmi i libri, assieme all'asciugamano. Quelli non me li avrebbe rubati nessuno, tutti pieni come sono di formule matematiche e astronomiche. Ripasso mentalmente il sistema per identificare un astro isolato in un cielo di nubi. Avrò certamente bisogno di un riferimento nei giorni bui che mi aspettano.


16 *** LAZZARO E LUCIANO Anche qui, su questo treno, la sorveglianza è minima. Alla prossima fermata potrei tentare la fuga. Ma mi risuona nella mente il colpo di pistola sparato all'improvviso quel mattino dell'otto agosto nelle vie di La Spezia. Eravamo un migliaio incolonnati verso il forte “Bramapane”. Per regolare il passo ed evitare il calcio dei fucili permanentemente alle costole, mi ero posto in testa alla fila. Questa tattica sarebbe diventata in seguito una mia abitudine. A un tratto quello sparo. Silvio mi raggiunge, pallidissimo. «Hanno ammazzato Lazzaro» dice, «si era infilato in un portone. Gli hanno sparato mentre correva su per le scale». Poi, col suo balbettio più accentuato del solito: «occhio ragazzi, non facciamo fesserie». Più anziano di me, Silvio era stato ufficiale di marina in zone di guerra sino all’8 settembre. Era tornato a casa e si era dedicato alla pesca di scoglio e alle partite a scopa. Lazzaro, mio coetaneo, aveva terminato quell'anno gli studi con buoni risultati. Aveva una gran voglia di vivere, come tutti noi. E come Luciano, il figlio unico del medico condotto. Ragazzo timido, disarmato, cresciuto nella bambagia, aveva uno o due anni meno di me. L'ho visto l'ultima volta nel campo di concentramento di Carpi in Emilia mentre tentava disperatamente di salire sul camion dove ero io. Ma i tedeschi glielo impedirono. Vedo ancora nei suoi occhi chiari l'ombra di un infausto presagio. *** Il treno procede a singhiozzo, si ferma per lasciare il passo a convogli militari, soldati e cannoni, diretti a non si sa quali fronti. Sappiamo di certo che gli Americani sono sbarcati in Normandia e avanzano in terra di Francia. Ma da quale parte è la Francia? Qualcuno dice che siamo destinati a Francoforte. Ma quale Francoforte, sul Meno o sull'Oder?


17 In cerca di una risposta alle domande che mi assillano, mi faccio strada nelle vetture stipate all'inverosimile di persone e bagagli, agevolato dal fatto che non ho nulla con me e un posto vale l'altro. Gli altri deportati hanno tutti qualcosa, una valigia legata con lo spago, un sacco, una borsa, un pacco, una bisaccia. Io non ho neppure più l'asciugamano che prima tenevo al collo come l'abbraccio caldo di mia madre. Nel vocio generale è difficile capirsi e comunque nessuno sa niente. Così entro in una carrozza stranamente silenziosa e sono subito tentato di battere in ritirata. Gli scompartimenti e il corridoio sono meno affollati ma tutti i viaggiatori hanno la tuta a righe dei carcerati, la testa rapata e le espressioni demenziali. Parlano sottovoce e non guardano in faccia. Mi chiedo da dove diavolo sono usciti. Uno di loro, alto e magro, in piedi davanti al finestrino, mi indica un fiume e mi dice: «questo è il Danubio. Il prossimo è il Meno e siamo arrivati». Dall'accento capisco che è spezzino. Lo ritroverò a Francoforte, nel mio stesso lager, e saprò che ha passato molti anni da un carcere all'altro per furti e rapine. Ha letto molti libri e conosce alla perfezione il codice penale, specie per quanto riguarda i furti con destrezza perpetrati in solitudine. È un tipo di pochissime parole. Mi farà l'onore, seppure raramente, di scambiarne qualcuna con me, e mai con gli altri, per parlare dei romanzi che ha letto e riletto in prigione. Durante la permanenza in Germania ha continuato i suoi furti, soprattutto gastronomici. Ma dopo alcuni giorni indossava anche bei vestiti pesanti e, sul letto, aveva una coperta nuova. Ghiotta l'oca che si cucinò da solo in disparte, e utile il grasso che ne ricavò e conservò in un barattolo. Li fece assaggiare solo a me e a nessun altro. Non ho mai saputo il suo nome, ma la mia fame di deportato mi ha fatto apprezzare le sue virtù di cuoco. I RUSSI DISERTORI Dopo tante manovre il treno approda finalmente alla banchina di una stazione di periferia. Un graduato ci conta sbrigativamente, poi consegna la colonna ad alcuni uomini con bracciale.


18 È un miscuglio di deportati, civili rastrellati ed ex galeotti, che si muove lentamente, in disordine, verso un'altissima ciminiera dal fumo giallo. Improvvisamente tutti ammutoliscono. Sulla nostra sinistra è ferma una colonna in doppia fila. Saranno un centinaio di uomini in cappotto verde scuro lungo sino ai piedi, immobili e silenziosi. A ognuno di essi manca il braccio destro. Si indovina dalla manica penzolante. Sono soldati dell'Armata Rossa e questa è la loro storia come mi è stata raccontata. Disertori in massa si erano arresi, senza combattere, alle truppe tedesche sul fronte orientale. Per volontà del destino questi uomini, durante la ritirata tedesca, caddero nelle mani dell'esercito da cui avevano disertato. Considerati traditori venne loro tagliato il braccio destro e così, monchi, abbandonati nelle mani del nemico. Seppi in seguito che questi uomini vennero poi utilizzati dai tedeschi come fattorini nelle grandi fabbriche. Dopo questo incontro il vocio nelle nostre file stentò a riprendere. Poi proseguiamo, in pochi, su un camion. IL PARCO DEI GIGANTI Il lager che ci ospita in questi giorni è un campo di smistamento, con cameroni, mensa e infermeria. Nessuno di noi sa perché è qui e che cosa l'aspetta. Il pane della razione è di segale, “schwarzbrot”, e non riesco proprio a buttarlo giù. Così stamane cedo la razione in cambio di alcune sigarette, ne accendo una e, deciso, mi allontano dal campo. Non presi una direzione qualsiasi, ma quella che portava a una collina boscosa verso levante. Percorro alcuni chilometri in leggera salita lungo una strada alberata e mi trovo, per la prima e unica volta in vita mia, nella solitudine di un luogo abbandonato dei giganti. Mi avvicino al fontanone. Il getto precipita dalla bocca di un ciclope, ma stranamente non fa alcun rumore. Tutta la foresta di alberi secolari, abitata da innumerevoli piccoli animali, è silenziosa.


19 A fatica mi arrampico su una panchina di pietra alta come un altare pagano, e di lassù, vedo i piedi di un Cristo enorme. I chiodi sui piedi staccati uno dall'altro, non sovrapposti, trapassano la croce robusta. Sono stati di sicuro forgiati apposta, per dare il massimo risalto. Qui il Cristo ha più chiodi che nei crocefissi delle nostre chiese. I miei piedi, sui limiti di un limbo misterioso fuori del tempo, sono ancora liberi, ma mi chiedo quale sarà la “Via Crucis”. Quel Cristo sembra che mi sbarri il passo. Così decido di tornare indietro. IL MENO Il viaggio di ritorno ha per obiettivo la ricerca della ciminiera dal fumo giallo. Lungo il cammino sulla strada maestra incontro poche persone, uomini e donne di mezza età, in decorosi abiti borghesi su sfumature del grigio. Hanno l'aspetto di burocrati che, assolto il compito quotidiano di mettere in croce i poveri cristi, vanno alle loro case di fretta, forse per non perdere gli ultimi notiziari della propaganda e le ultime direttive del partito. Uno di essi a cui chiedo in inglese la strada per Francoforte mi risponde seccato e allibito che Francoforte è molto lontana. Dunque il campo da cui sono scappato deve trovarsi in una zona periferica molto distante dalla grande città ma la città è il mio unico riferimento. Il burocrate, senza aggiungere parola e senza fermarsi, mi indica l'ansa di un fiume che si intravede ad alcuni chilometri di distanza, brillante sotto il sole pomeridiano. Quando arrivo sulla sponda mi accorgo che il “Meno” è torbido e unto, immobile da non capire in quale direzione si muove la corrente, affollato di battelli neri come il carbone che trasportano. L'aria è pregna di un odore pesante. Riposo per qualche minuto nell'ansa dove i battelli rasentano l'argine. È un passare continuo, senza tregua, di carichi di carbone. I rimorchiatori sbuffano nubi di fumo denso che oscura il sole e affoga i meli nani allineati lungo le sponde. I battelli vanno uno dietro l'altro come i vagoni delle teleferiche. Quelli che ridiscendono la corrente provengono da Francoforte, mostrano per intero le loro fiancate perché sono scarichi, gli


20 altri, che risalgono la corrente si muovono lenti, immersi sino al bordo, carichi di carbone. Il nero del carbone mi ha dato i brividi sin da quando, da bambino, me lo trovai nella calza della Befana, era carbone vero e io sapevo di non meritarmelo. Prima c'era stata la minaccia: «Se non stai bravo la Befana ti porterà il carbone!». Mi spaventava anche il carbonaio che d'inverno portava a domicilio la provvista per il riscaldamento. Era tutto nero dalla testa ai piedi, le pupille parevano tizzoni accesi, le dita lunghe artigli di un uccello predatore. Per noi bambini era lui “l'uomo nero”, spauracchio sempre presente nei moniti delle zie. Così sono tentato di voltare le spalle, ma mi do dello scemo, da quel dì che non credo più, se mai vi ho creduto, a queste storie. Ricordo però che mia madre, quando d'inverno il carbone bruciava nella stufa, ogni tanto apriva la finestra: «Facciamo entrare un po' d'aria» diceva. «Il carbone si mangia l'ossigeno e senza l'ossigeno si muore». Guardavo con diffidenza quel divoratore di ossigeno. E ora ero proprio qui, nel regno del carbone. I battelli lo scaricano là dove io sono diretto, e là certamente brucia asfissiando l'aria. Un anziano individuo asmatico che sembra uscito, ma per poco, da un sanatorio, mi dice che i battelli che ridiscendono il Meno vanno a Mainz (Magonza), la città dove il fiume confluisce nel Reno. «Zwanzig kilometer», venti chilometri, dice con voce affaticata. La prospettiva di vedere il Reno mi eccita, ma anche Francoforte mi incuriosisce. Improvvisamente vedo spuntare nei pochi chilometri di lontananza le guglie svettanti dei campanili di Francoforte. La più alta e sottile ancora brilla dorata dagli ultimi raggi del sole. *** Ed eccomi a Francoforte sul Meno. Quando arrivo e già buio e la città è affondata nell'oscuramento. Mi corico sulla panchina in un sobborgo di periferia e mi pongo subito il problema della libertà e della sopravvivenza in un centro altamente popolato ma simile per me a una landa deserta.


21 Del pennacchio di fumo giallo per ora neppure un lontano riflesso, sebbene là dove era sembrava dominare l'intera regione. Mi sveglio quando il quartiere di Bockenheim è già sveglio da un po'. Qui nessuno ha mai visto fumo giallo, nessuno sa dare una risposta all'enigma. Hanno tutti fretta, neppure cercano di capire i miei tentativi di descrivere a gesti un'altissima ciminiera dalla cui bocca sgorga un'enorme nuvola di fumo giallo. È probabile che nessuno prenda sul serio la mia domanda. Così, randagio e affamato, mi aggiro di quartiere in quartiere, tra gente che non bada a me, e spesso ritorno sui miei passi, in queste strade che incominciano a diventarmi familiari. Imparo così, dalle insegne dei negozi, le prime parole di tedesco. “Backerei” vuole dire negozio del pane, “apotheke” è la farmacia ma poco mi importa, “Bierhalle” è la birreria. “Martin Brau” è la marca di birra più diffusa e la mia gola è un cratere. Sulla porta di un ufficio a pianoterra leggo un'insegna che dà i brividi: “Polizei”. Vi passo davanti due o tre volte, avanti e indietro, come fossi di guardia. Poi entro, come un ladro che va a costituirsi. Il grosso gendarme paffuto e rubizzo, divisa blu scuro e berretto imponente, mi ascolta bonario, con rassegnazione, perché è chiaro che non capisce una sola parola di quello che dico. Non si scompone. Prende un modulo prestampato, vi scrive sopra qualcosa, appone con la mano un grosso timbro sonoro che fa tremare la scrivania, mi porge quella specie di lasciapassare e mi fa capire che posso andarmene via, ma di fretta. È chiaro che di me qui in Germania non sanno cosa farsene e comunque non è affare suo. Dunque sono al punto di prima, ma con un foglietto incomprensibile in tasca, e una fame da lupo. “ALLES KAPUTT” Nella notte limpida percorro alcune strade fiancheggiate da grandi palazzi fantasma e raggiungo una piazza deserta, con giardini e panchine. Su una di esse mi corico e mi addormento. Ma vengo svegliato dalle sirene. Mi giro dall'altra parte e continuo a dormire malgrado gli strazianti lamenti. Ed ecco i bombardieri, i colpi


22 della contraerea, le esplosioni. La città è illuminata dai razzi, dai riflettori, dagli incendi. Una donna corre rapidissima attraversando le aiuole. Le corro dietro ed entro in un rifugio blindato già pieno di gente sconvolta. Tra la folla trovo una panchina vuota in un angolo isolato. Mi riaddormento subito, malgrado l'intenso rumore delle voci. Forse è il silenzio a risvegliarmi. Il rifugio è completamente al buio. A tastoni trovo l'interruttore della luce, non c'è anima viva e le porte blindate sono chiuse. Mi vengono i capelli ritti. Se non tornano i bombardieri io di qui non esco vivo. Preso dal panico tempesto le porte con la suola di una scarpa e grido. Quando, dopo un'eternità, ma in realtà pochi minuti, la porta si apre mi trovo di fronte un capannello di tedeschi che al mio apparire si mettono a ridere. Sono euforici perché l'hanno scampata dal bombardamento e divertiti per lo scherzo da crucchi che mi hanno fatto. Sul portone un signore, forse il custode, mi indica la città e dice: «Alles kaputt», tutto distrutto. Lo dice quasi ridendo, amichevolmente. Nell'angolo del portone c'è uno zerbino. Questa volta riesco a dormire sino al mattino inoltrato. È un palazzo signorile. Nessuno dei residenti usciti di buon'ora per andare al lavoro mi ha disturbato. Salvo uno. Piccoletto, con occhiali “pince-nez” e svastica sul doppio petto, borbotta incomprensibili parole e mi costringe a seguirlo. Trotta rapido muovendo le braccia come appendici caricate a molla. Non ho idea dove sia diretto né che intenzioni abbia. Fatico a stargli appresso, la fame mi attanaglia i fianchi. Tutt'a un tratto mi viene un'idea. Gli mostro il foglietto del gendarme. Lui esclama qualcosa che sembra un'imprecazione come “potevi dirlo subito”. Rapido svolto l'angolo e proseguo per i fatti miei. *** Mi trovo nei quartieri centrali di Francoforte. Qui non tutto è “alles kaputt”. La vita quotidiana continua malgrado i bombardamenti massicci.


23 Il pensiero che mi domina è ritrovare la ciminiera dal fumo giallo. Una coppia di giovani francesi mi suggerisce di rivolgermi al “bureau d'engagement” al quale sono diretti. Qui mi dirottano al reparto “italiani” che si trova in un'altra via, a pochi passi. Nell'unica stanza, piena di disordine, l'addetto, in maniche di camicia, mi chiede quando sono arrivato, da dove e se voglio arruolarmi nelle SS. «Avrai indumenti, paga e vitto». Al mio netto rifiuto non sembra contrariato. Intanto scorre un registro, mi dà l'indirizzo di Zeilsheim e mi mette alla porta. «Arrangiati». LA FAME E IL MIRACOLO Zeilsheim è a ovest di Francoforte, in direzione di Mainz, o Magonza, città dove il Meno confluisce nel Reno. Dovrò quindi seguire il fiume nel senso della corrente. Mi metto in moto alla ricerca del fiume che ho perso di vista, ma la fame pressante mi spinge verso un negozio di pane pieno di gente. Entro e rimango immobile. Il pane, come tutti i generi alimentari, è razionato. Per averlo occorre possedere i tagliandi di razionamento che da noi in Italia si chiamano “buoni di prelevamento” e sono preceduti dalle “cedole di prenotazione”. In tempo di guerra avere un pezzo di pane è una cosa complicata. Io non ho né tagliandi né denaro. Ho solo la fame. E la fame deve essere stampigliata sul mio volto a caratteri cubitali, inequivocabile, se un signore in grigio chiaro, alto, occhi azzurri (o celesti?) mi si avvicina discreto e mi chiede: «Nichts etikett?». Per tutta risposta allargo le braccia. Il signore stacca e mi porge alcuni tagliandi e si allontana. Poi torna indietro e mi chiede, strisciando il pollice contro l'indice: «Pfennige?». «Nichts» rispondo. Il Signore mi porge alcuni spiccioli di “reichsmark”. Poi sparisce e non lo rivedrò più. Ma conservo nella mente il suo sguardo limpido. Col filone di pane bianco riprendo il cammino e riempio il mio stomaco sino all'ultima briciola. ***


24 Ora so dove si nasconde la ciminiera dal fumo giallo. Quando ci imbarcammo sul pullman per Zeilsheim mi era apparsa per pochi minuti, mostro malato di itterizia che vomita bile. Per associazione di idee rividi “Genio” il macellaio che in estate lavava le trippe nell'acqua limpida del mare. Proprio in quell'angolo di scogliera dove noi ragazzi andavamo a tuffarci si formava una grande chiazza gialla, dura a dissolversi. Quanti accidenti venivano indirizzati a “Genio”, il venerdì mattina, per quell'abominevole inquinamento! Quando videro la ciminiera dal fumo giallo, i miei compagni rimasero indifferenti, neppure si tapparono il naso davanti a quell'odore mefitico. Quello che per me rappresentava l'odioso simbolo della schiavitù, per loro non era che una ciminiera qualsiasi. Bene, ora che so dove si nasconde, non ho più paura di rivederla. Non riesco però a sottrarmi del tutto al suo ossessivo richiamo. Già mi sta prendendo per mano la curiosità di Francoforte, il gusto dell'avventura, la presunzione. Il fumo giallo può attendere. Mi aggiro per le vie cittadine, scontro gente che va di fretta. Dico: «pardon». Mi rispondono: «bitte!». Guardo le vetrine, semivuote salvo quelle di un negozio di macchine fotografiche. Tutti gli obiettivi sono puntati contro di me. Allungo il passo e volto l'angolo. Parlo da solo. «Se mi fermano?». «Hai il lasciapassare della polizia che già una volta ti è stato utile». «Dove vado a dormire?». «Sulle panchine. Non è poi male, è estate. Quanti diseredati vi dormono!». «E la fame?». «Ma dai! Un santo vi ha già provveduto. Altri provvederanno». Così, strada facendo sono arrivato nella piazza di un quartiere signorile, con giardini e fontane. Siedo su una panchina di legno. «Tenterò di tornare in Italia». «Bravo furbo! Lo sai bene quanto è lontana la frontiera, dovresti attraversare mezza Germania. Il territorio italiano è insidioso, peggio di qui, pieno di tedeschi e fascisti impegnati nei rastrellamenti». «E allora, cosa faccio?».


25 «Cercati un lavoro. Ci sono battelli che salgono e ridiscendono il Reno da Basilea a Rotterdam. Chiedi un imbarco. Cosa sai fare?». «I nodi marinareschi, gassa di amante semplice e doppia, piè di pollo, nodo Margherita. Conosco le regole dei fanali di navigazione. Rosso al rosso, verde al verde. So usare il sestante per fare il punto nave e il tasto del telegrafo per lanciare l'S.O.S. Conosco le costellazioni e so identificare la stella polare». «Tutte cose che sui fiumi non servono a niente, non hai imparato altro a scuola?». «So a memoria alcuni versi dell'Inferno della Divina Commedia». Un grande e profondo sbadiglio mi fa spalancare la bocca da un orecchio all'altro. Mi stiro dalla testa ai piedi, allargo le braccia da un'estremità all'altra, allungo le gambe. «E dunque?». LA FAME E L'ORACOLO «Guten abend!». Questo squillante “buonasera!” interrompe il monologo, mi prende di sorpresa e mi fora il timpano. Seduto vicino a me non c'era nessuno e ora improvvisamente mi trovo al fianco una ragazza. Non l'avevo vista avvicinarsi. Mi colpisce subito il suo aspetto fine e attraente, nell'abito lungo attillato, portato con eleganza naturale sul corpo flessuoso. Accavalla le gambe e butta all'indietro i capelli castani. È il tipo di bella ragazza tedesca come ne ho viste poche nel giro della massa di grassocce che affollano le vie della città. È anche la prima che mi rivolge spontaneamente la parola e si interessa a me. «Parlez-vous Francais?» mi chiede subito. «Comme ci, comme ca» rispondo. «Comment ca va?». «Comme ci, comme ca». Sono emozionato, soprattutto per l'incantesimo della sua apparizione improvvisa in questo angolo tranquillo di una città affollata e sconvolta dalla guerra. È spuntata al mio fianco, mi ha salutato, ora mi invita a parlare. Non è molto giovane, lo intuisco da una certa disinvoltura che le giovanissime non hanno. Il suo modo di fare è tipico delle insegnanti che


26 hanno confidenza con gli allievi e li coltivano anche fuori delle aule scolastiche. Parla “tres bien” il francese che forse è la sua materia d'insegnamento, e ride divertita dalle mie parole di scolaro impacciato. Le sue domande sono un poco insidiose, anche se rivolte con signorile distacco e apparente benevolenza, ma non capisco quale sia la sua curiosità né dove vuole arrivare. Non di certo dove vorrei arrivare io, questo è subito chiaro. Ascolta le mie risposte con attenzione, reagisce severa e il suo sguardo si fa scuro, quando le appaiono troppo deboli o puerili, come se io non avessi ancora capito bene che siamo in guerra. Nel pieno di una guerra totale in cui siamo tutti coinvolti. «Non puoi illuderti di esserne fuori, non puoi pensare che ci sia spazio e privilegi per i vagabondi». Il mio atteggiamento spavaldo la irrita perché è l'espressione di un giramondo che non si nasconde ma se ne sta bene in vista, alla luce del sole, con le mani in tasca e le gambe allungate sul territorio tedesco. Alle sue parole reagisco, faccio l'offeso, pretendo che mi si chieda scusa. «Di cosa dovrei chiederti scusa? Tu sai bene che tutti lavorano o fanno qualcosa» dice. «Sai perché la piazza è deserta? Perché tutti sono al lavoro, anche i ragazzini e gli anziani. Tu sei l'unico che non fa niente, seduto su una panchina sotto gli alberi, con le mani in mano. Cosa aspetti? Non è più il tempo felice delle vacanze d'estate». «Non sono qui per mia volontà» rispondo, «mi hanno strappato di casa mentre mi preparavo agli esami. Ora potrei essere a studiare. Non voglio perdere l'anno». «Quanti esami devi ancora dare?». «Tre. Poi ho finito e posso cercare lavoro. Qui perdo tempo». «Ma se sei qui ci sarà pure una ragione». «Che ragione vuoi che ci sia!» esplodo. «Mi hanno portato qui come schiavo». «Cosa dici! Tu sei un fannullone. Lo hai capito che tutti lavorano e i soldati combattono e muoiono sui fronti? E tu stai qui a sbadigliare!». «Non ho niente da mettere sotto i denti» dico approfittando dell'occasione. «Appunto. Lo sai che ai lavoratori viene distribuito il pasto due volte al giorno? Se tu non hai niente da mangiare vuol dire che non sei schiavo. Non lo saresti comunque». «Lo diventerò appena mi daranno la prima razione. Preferisco saltar pasto».


27 «Finché potrai. Poi cosa pensi di fare per sopravvivere?». «Non lo so». Dopo un breve silenzio mi saluta con un mezzo sorriso di compatimento. «Guten nacht!» si alza e mi volta le spalle per sempre. Nella piazza pulita è rimasto solo il ciuffo di erbaccia che non è riuscita a estirpare. Il suo commiato così improvviso mi ha lasciato una certa delusione. Mi aspettavo da lei qualcos'altro, un invito a cena, un letto a due piazze, non un secco “buonanotte” che significa “peggio per te”. Con questa sentenza si conclude il duetto, recitato in francese dalla virgo tedesca e dallo schiavo italiano, sotto un cielo che si approssima alla notte. Questa notte, chissà, potrebbe calare definitivamente il sipario. Dipende dai bombardieri. A mio parere il copione doveva essere però molto diverso, in questo luogo dove un uomo e una donna dovrebbero parlare di libertà e di amore, ridere o giocare a dama, la professoressa mi ha fatto un sermone sui doveri del deportato. Inquieto mi chiedo chi era e che cosa si aspettava da me. Era necessario che fosse così bella per essere convincente? Mi ha infine convinto? Senza pensarci troppo mi alzo e me ne vado alla svelta, il più lontano possibile, in un quartiere popolare dove la gente bada solo ai fatti suoi. Mi sistemo su una panchina che ha il pregio di essere nascosta da una siepe. *** Il mattino dopo, quando mi sveglio ed esco dalla siepe, ho la sorpresa di vedere proprio davanti a me il capolinea, “haltestelle”, dell'omnibus per Zeilsheim. Qualche viaggiatore è già seduto e legge il giornale. Salgo ma rimango sul predellino posteriore pronto a saltar giù se mi gira. L'autista mette subito in moto. I sobborghi sono già pieni di gente che va al lavoro e di massaie che vanno al mercato, chi a piedi chi in bicicletta. Lunghe file di operai fanno ressa ai cancelli delle fabbriche. È un mondo fuligginoso che non invita a scendere. L'atmosfera è grigia e piena di odori pesanti. L'espressione della gente è severa, di una rassegnazione sconsolante.


28 Quando finalmente appare il primo verde dei dintorni eccomi arrivato a Zeilsheim. Sono dunque nel luogo da cui credevo di essere fuggito. A levante, nella lontananza, vedo il parco dei giganti avvolto nella sua suggestiva magia. Lassù il Cristo mi aveva sbarrato il passo, ma qui nessuno mi aspettava, nessuno si è accorto della mia assenza. Sono tornato ma non so né cosa né chi mi ha spinto a farlo. Divoro la mia razione di pane, nero come quello che giorni fa avevo rifiutato e barattato con le sigarette, poi mi sistemo in uno dei due letti dell'infermeria perché altrove è tutto esaurito. Il mattino dopo mettono tutti in fila, lungo il muro di cinta di questo enorme parcheggio di braccia utili al Terzo Reich. Sono oltre un migliaio, frutto dell'ultima razzia in Italia. Li vedo attraverso i vetri dell'infermeria dove mi sono rifugiato sperando di farla franca. Ma con un secco «raus!» mi caccia fuori. Sta arrivando un omino pallido, in camice bianco, a piccoli passi, accompagnato dall'interprete e dagli esperti di manodopera. Ognuno viene vagliato, apprezzato e assegnato al reparto più adatto alla sua taglia e alle sue attitudini. L'omino pallido è ora di fronte all'ultimo della fila. Mi studia, mi rivolge alcune domande, mi scheda. Età diciannove. Altezza un metro e settanta. Scafo magro. «Che scuola hai fatto?». «Istituto nautico». «Hai mai lavorato?». «Mai». Dopo una breve consultazione con gli esperti che si chiedono cosa diavolo possano farsene di un aspirante marinaio, l'omino mi rivolge questa domanda: «Ti va di imparare l'elettrotecnica?». Alla mia risposta affermativa prende nota, con un sorrisetto, che ho accettato di buon grado la sua proposta. Nei giorni che seguiranno dovrò giudicare quell'individuo un autentico ipocrita o l'interprete un pessimo traduttore. Verrò infatti assegnato al peggiore dei reparti, dove non c'è proprio niente da imparare e non c'è neppure l'ossigeno per respirare.


29 ZIZZANIA Il giorno stesso veniamo trasferiti a Sindlingen, dieci chilometri circa da Zeilsheim, cinque da Francoforte. Siamo in tutto una ventina, qui alloggiati. Tra di noi c'è il ladro della Spezia che sistema subito nello stipetto un assortimento di prodotti alimentari. Tre finestre della camerata danno su “Alesina strasse”. Uscendo, sulla sinistra c'è un minuscolo locale con fornelletto a gas e specchio per la barba. La scala all'aperto, dal terrazzino prospiciente il locale, porta al cortile, dove sono sistemati i gabinetti. Dal cortile salendo un'altra scala si accede alla birreria di “Otto Bauer”. Gli ambienti sono puliti e i nostri umori sono buoni. Qualcuno, ottimista, canticchia motivi allegri della sua terra mentre strizza la biancheria nel trogolo del cortile. Sindlingen, o Sindly, è un paese tranquillo, senza particolari caratteristiche. Il suo nome suona come un campanello ma in realtà è silenzioso. È un paese di anziani, soprattutto donne, tipiche ziette, zitelle e vedove. Tra popolazione e stranieri non esiste alcun rapporto, semplicemente si ignorano gli uni con gli altri. La sera ci infiliamo da “Otto Bauer”. C'è qui una grande stufa piastrellata a vivaci colori, proprio al centro del piccolo locale, dove trovano posto cinque o sei tavolini e un minuscolo banco. Tutto è tenuto dalla signora Bauer molto pulito e in ordine. Alla finestra ci sono persino le tende. La signora Bauer serve ai tavoli solo boccali di “Martin Brau” e nient'altro. Chi tiene la conversazione, e provoca spesso violente discussioni, come tra giocatori di briscola, è un veneto soprannominato “Zizzania”. È sempre il primo a entrare da “Otto”. Ancora sull'uscio fa un gesto che significa “Ein grosse bier”, il solito boccale grande. Poi, appena seduto, dispiega sul tavolo la preziosa “cartina dell'emisfero Nord”, venti centimetri per venti, logora e consunta, che conserva con molta cura nella tasca del giaccone. «Noi siamo qui» incomincia, puntando il dito dove dovrebbe essere la città di Francoforte, «qui c'è l'Armata Rossa e qui gli Americani».. Da questo momento la birreria di “Otto” diventa il quartier generale di Zizzania.


30 Annuncia subito che l'Armata Rossa ha sfondato e indica dove. Poi solleva in alto il boccale. Qualcuno aggiunge: «Gli alleati sono molto più avanti». Zizzania, usando il pollice e l'indice come un compasso, misura e afferma che le distanze sono eguali. La discussione va per le lunghe, tra un boccale e l'altro, come tra tifosi. Chi tiene per una squadra chi per l'altra, in questa partita insolita, in cui le squadre che si affrontano sono tre, americani da un lato e Armata Rossa dall'altro, entrambe all'attacco, e tedeschi al centro in difesa di ambo i lati della rete. Alle volte pare che la partita stia per concludersi. Sarà invece ancora molto lunga, nessuna forza alleata ha sino a ora messo piede in Germania. Zizzania è un operaio volontario, qui da diversi anni. La sa lunga sulle regole della vita quotidiana dei lavoratori stranieri ed è prodigo di suggerimenti e consigli, anche se non richiesti, specie dai coatti. Mette in guardia dai rischi, la galera e la forca per chi ruba o va a donne, specialmente tedesche, campi di punizione e di dura punizione per chi diserta il lavoro o sottrae attrezzi di lavoro in fabbrica, anche un semplice cacciavite. Le sue parole non sono rivolte ai volontari, i quali stanno alle regole e difendono la propria tranquillità e i gruzzoli accumulati col lavoro, ma ai coatti deportati, in particolare a quella decina di ex carcerati comuni, provenienti dalle prigioni italiane, ladri e scassinatori dai ceffi eloquenti, che sono alloggiati con noi a Sindly. Ma nessuno di questi gli dà ascolto. Loro sono professionisti e stanno ben attenti a non farsi beccare. Di solito si trattengono in birreria per poco tempo. La birreria di “Otto” a loro non offre niente. Il tempo passato qui, attorno alla stufa è tempo perso. Si disperdono per la città, per ritrovarsi qui a notte inoltrata, con i loro bottini. Sono perlopiù valigioni e pacchi rubati a casaccio sui treni abbandonati durante le incursioni aeree, senza sapere che cosa contengono. L'apertura dei malloppi, nella camerata, sotto gli occhi dei curiosi, è sempre una sorpresa che a volte provoca scenette spassose e risate, tra imprecazioni e altro. Spesso, durante le serate da “Otto”, viene rievocato l'episodio buffo della valigia piena di indumenti intimi femminili. Il lestofante venne obbligato


31 a indossarli tutti, uno alla volta, di fronte alla platea dei compagni di camerata piegati dal ridere. Scena divertente, tra oscenità e imprecazioni, svago anche per i “volontari”. Zizzania è l'ultimo a uscire dalla birreria, sollecitato dalla signora Bauer. Quando rientra nella camerata io sono già addormentato da un bel po'. Vado a dormire presto perché non ho soldi per pagarmi la birra e nessuno me ne offre. Lo spezzino invece non frequenta la birreria, rientra molto tardi ma non disturba nessuno, neppure quando apre lo stipetto per deporvi le uova. *** Le refurtive dello spezzino non sono granché, ma nel loro piccolo hanno qualcosa di prezioso. Per conservare il grasso ricavato dalla cottura delle oche si è procurato un barattolo di vetro con chiusura stagna, da dove attinge con quotidiana parsimonia la dose da spalmare sulle fette di pane nero abbrustolite. Ogni volta ripone tutto con cura e vigilanza nello stipetto, dove se potesse riporrebbe anche se stesso per rimanere in intimità con le sue cose. Ogni volta che apre l'armadietto fa l'inventario, eppure qui tra noi non ci sono mai stati furti malgrado la presenza dei coabitanti ladri. La nostra comunità è formata da benestanti e disperati, fianco a fianco, ma nessuno ha mai sottratto qualcosa agli altri. I ''volontari'' hanno gli stipetti pieni della roba che si sono portati da casa o hanno ricevuto dai parenti, ciò che non sta nello stipetto sta nei valigioni sotto il letto. Gli ex “galeotti” appena arrivati si sono procurati, con solerzia e destrezza, il necessario e anche il superfluo, i “deportati” come me, oltre agli indumenti ormai logori che indossano, hanno solo una coperta leggera in dotazione e niente altro. Il mio stipetto è quasi vuoto e non sempre lo chiudo. Una volta un volontario mi ha detto: «Se non ti serve dallo a me». Gli ho chiesto un affitto mensile ma non se n'è fatto niente. I “volontari” e gli ex “galeotti” ogni mattina si rifanno il letto. I “deportati” civili non ci pensano neppure. Alla pulizia del locale e dei servizi provvede il gestore della birreria, con stracci acqua e disinfettanti. Col passare dei giorni si sono formati spontaneamente dei gruppi omogenei o affini, per regione o mestiere.


32 Lo spezzino invece è sempre solo. Dopo il rancio della sera sparisce, non si sa dove vada ma si può immaginare. Lui ha scelto la solitudine nella Babilonia, anche nei suoi esercizi notturni, essenziali per conservare e affinare la professione di ladruncolo autonomo sufficiente a se stesso. La sistemazione coatta in cui è venuto a trovarsi gli garba. Vanno bene per lui la giornata scandita dalle ore di lavoro, la distribuzione del pasto nel capannone della mensa dove è solito sedere nel posto più vicino alla porta, la doccia a fine lavoro nel reparto S423, il posto letto che si è scelto vicino all'ingresso nella camerata di Sindly. Così come gli va bene la promiscuità dei galeotti con gli incensurati, questi per lo più indifferenti ed egoisti. Intanto lui si tiene alla larga da tutto, dai frasari volgari, dall'umorismo grossolano, dallo sfottimento reciproco dei furfanti e delle loro combutte. Tra tutta questa gente lo spezzino si muove in punta di piedi, non scontra nessuno e fa attenzione a non essere scontrato. Di una cosa sola è deluso, non avere niente da leggere. Il “colpo grosso” per lui sarebbe svaligiare una libreria, specialmente di romanzi storici. Se avesse avuto la possibilità di studiare sarebbe diventato qualcuno, forse un professore di storia e filosofia. Le rare volte che si lascia andare alla conversazione lo fa solamente con me. Per questo sono in grado di dire di lui, anche se in modo superficiale, le cose che ho detto. A notte inoltrata, in punta di piedi, dopo aver trafficato a lungo nello stipetto per far posto alle nuove provviste, lo spezzino se ne va tranquillo a dormire. ***


33

LA VIA DEI COLORI

LE FAMIGLIE RUSSE Da Sindly per raggiungere Hochst bisogna affrontare a piedi i due chilometri della Farben strasse. La Farben strasse, “via dei colori”, è uno stradone rettilineo tra due schiere di edifici grigio sporco uniforme, accidentato, sconnesso e pieno di buche. Nella brutta stagione, specie con la neve, alle quattro del mattino, nel buio pesto, percorrerlo diventa un'impresa ardua. Solo alcune luci sparse riflesse sulla neve ci fanno da guida. Alcune provengono dalle finestre di misere abitazioni. Attraverso i vetri senza tendine si vedono i mobili, e sui mobili le fotografie di ragazzi in uniforme. Nelle stanzette i letti sono vuoti, perché i ragazzi sono a combattere. Alcune lampadine di poche candele sono sistemate sulle porte d'ingresso della fabbrica, tor 3, tor 6, tor 7. Anche la finestra della palazzina del Lagerfuhrer si illumina, poco prima del nostro arrivo, e mette in risalto l'imponente figura di una persona ritta dietro i vetri. In fondo alla Farben strasse dall'alto di un traliccio, ci saluta tutte le mattine l'insegna a grandi caratteri “ADA-ADA-ADA”. Non ho mai saputo cosa significa, ma mi suona come un segnale di allarme. Più di una volta, percorrendo la Farben strasse, sono scivolato sul ghiaccio e ho bestemmiato suscitando il coro di risate oscene dei russi. Anche loro scivolano, ma di solito lo fanno in gruppo. Di giorno la monotonia della Farber strasse è rotta dalla vivacità pezzente del “russisch familie von lager”, il “lager delle famiglie russe”. La quantità incredibile di indumenti e stracci colorati appesi ad asciugare, sono gli abiti dei numerosissimi bambini e le gonne tipiche delle giovani donne ucraine. Gli anziani e i vecchi sono pochi. Sono rimasti quasi tutti nelle loro isbe nei paesi dell'est. Al centro del campo sorge l'edificio in legno della scuola. L'insegnante è un professore dell'università di Mosca, unico esemplare dei tempi dello Zar. Il suo sguardo emerge paterno rassegnato e triste tra la chioma equina e la barba patriarcale.


34 Una sola volta andai a trovarlo, era seduto alla cattedra nell'aula deserta, immobile come una icona, ed ebbe con me una breve conversazione in francese. Nominò Dante e Leonardo da Vinci. Lo spezzino, che aveva promosso l'incontro, rimase estasiato. *** Ebbene, quel mattino che percorsi per la prima volta la Farben strasse, appena girato l'angolo mi vidi di fronte inaspettatamente l'agognata odiata ciminiera e il suo inestinguibile pennacchio di fumo giallo, simbolo di Hochst e della sua asfissiante atmosfera. Compresi allora come può cambiare il mondo, e anche la nostra vita, svoltando semplicemente l'angolo, in un giorno qualsiasi. Dalla pace piatta, quasi domestica, di Sindly, con la sua birreria e la stufa di porcellana, eravamo passati al girone infernale della I.G.Farben, sommerso dei gas micidiali e dai rumori assordanti. Il passo era stato breve. Incomincia così la vita di tutti giorni. Alle sei entriamo in fabbrica attraverso Tor 3, una delle porte principali. Ci accoglie un grande cartello “Rauchen verboten”, vietato fumare, mentre la ciminiera continua a eruttare il suo fumo pestifero, pari a milioni di sigarette al minuto. Gli operai dei vari reparti incominciano ad affluire. In attesa dell'orario siedono sui banchi dell'atrio, discorrono pigramente, stirano le membra, sbadigliano e fumano. Ogni francese che arriva saluta i presenti a uno a uno e stringe loro la mano. È un rito che si ripete ogni mattino. «Bonjour didon, ca va?». Italiani, russi e Polacchi non fanno convenevoli. Ma quante mani francesi mi sono visto porgere nella terra dei crucchi! MASTER ADAM Alessio l'ucraino è già lì, con la ramazza. Scopa attentamente il pavimento. Ammucchia qui è la gli scarti di limatura, i trucioli di legno, i residui della seta usata per isolare i fili delle dinamo, le cicche. Tutto materiale portato lì dalle suole o dal vento. Alessio sembra un bravo giovane disciplinato. Forse lo hanno messo lì per dare l'esempio. È un tantino ruffiano, nella manica dei capi reparto,


35 gode di libertà che gli altri non hanno, come quella di assentarsi dal lavoro quando ha voglia di birra. Ogni mattino nell'atrio di Tor 3 ci saluta blandamente a uno a uno, «gut maccaroni!», strizzando l'occhio come un complice. Di notte lo si può incontrare in Farber strasse, nei dintorni del campo del “russisch familie von lager”, traballante e sguaiato, in gruppo con i suoi compagni, tutti in preda ai fumi dell'alcol metilico sottratto chissà dove. Quante baruffe in Farber strasse a causa del dannato alcool! *** Il primo giorno. Suona la sirena. Il reparto elettrico A 33 apre le porte. La fiumana entra e si disperde nello stabilimento. Vengo accompagnato all'officina. Le prime scintille del saldatore sprizzano già violente sul viso dell'operaio dotato di ampi occhiali cerchiati di gomma, la ruota smeriglio incomincia a stridere, i trapani e le verrine fischiano acute mordendo le lastre. Un operaio di nazionalità ignota mi dedica cinque minuti per mostrarmi come trapanare dei dischetti metallici. Ce ne sono centinaia. Alla fine del turno io li ho già trapanati tutti, ma forse malamente di premura, perché il giorno dopo mi trasferiscono. *** Il secondo giorno. Suona la sirena. Master Adam mi accoglie sorridente come un vecchio amico. «Hallo Herr Franz!». Mi dà guanti, stivali di gomma e maschera e così conciato mi fa entrare, con una leggera spinta, nel padiglione del gas. È un capannone di vetri ma il sole non può entrare. I raggi del sole sono respinti da una nube di gas emanato da una trentina di lunghe vasche rettangolari, disposte parallele fra loro. Le vasche sono pitturate di rosso e il liquido che vi scorre ha il colore dell'argento. È il mercurio.


36 Le due estremità di ciascuna vasca sono dotate di lastre di rame che tendono, in breve tempo, a ricoprirsi di verde. Il mio lavoro è far tornare, in continuazione, il colore primitivo. Ci sono altri operai addetti allo stesso lavoro. Sono giovani macilenti, quasi inesistenti, non ne ho mai visto uno senza la maschera. Li riconosco da qualche particolare degli stracci che indossano. Finito il turno di lavoro spariscono sino a domani. Uno di loro non l'ho più visto. Portava attorno al collo un fazzoletto giallo. Era quel fazzoletto giallo che io vedevo muoversi a fianco del mercurio da una vasca all'altra in continuazione per tutta la durata del turno. Ho saputo poi da Master Adam che il giovane è ricoverato in infermeria in gravi condizioni. Master Adam è un ometto paffuto con testa di pelle liscia e occhi chiari privi di sopracciglia. È bonario e scherzoso anche quando fa il burbero. Tiene le mani sulle bretelle che sorreggono i calzoni che a loro volta trattengono la grossa pancia sugli arti zoppicanti. Quando sento le gambe mollare, o fingo, mi precipito da Master Adam per una mezza bottiglia di latte. Master Adam imita ridendo forte il mio gesto abituale di posare i pugni chiusi sui fianchi, ma le bretelle si allungano. Nei brevi intervalli che passo nello stanzino adiacente al padiglione del gas chiedo a Master Adam di insegnarmi il tedesco. Incomincia subito. Stende una per una le dita della mano e conta: «Ein, zwei, drei...». Ci siamo fermati al dieci, perché di lì a poco ho sentito pronunciare le stesse parole in modo diverso. Ho capito che Master Adam parla in dialetto. È come insegnare la lingua italiana a uno straniero esprimendosi in genovese, così ho interrotto gli studi. Ho imparato comunque a dire “non capisco” in due lingue, in tedesco “nichts verstehen” e in russo “ni ponimai”, mentre in francese “pas compris” e inglese “do not understand” li sapevo già. Ora posso girare il mondo, dire che non capisco. Tutti mi capiranno. Ma le parole che più ci accompagnano durante il giorno sono “funfzehn minute”, quindici minuti. Le sentiamo al mattino alla sveglia, è il tempo per prepararci ad andare al lavoro. Le sentiamo una volta durante ogni turno di lavoro, è il tempo di intervallo per il sollievo. «Funfzehn minute» mi dice Master Adam, per portare una cassetta di utensili dal reparto al magazzino, e così via.


37 *** Oggi, a fine turno, mi sono attardato qualche minuto per portare a termine il lavoro. Nel reparto non c'è più nessuno e la porta massiccia è già chiusa. Il gas si è fatto più pesante, tutto il capannone è immerso in una nube soffocante. La densa cortina sale lentamente, alimentata da altro gas che le valvole sfogano tra vasca e vasca. Mi tolgo la maschera e cerco avidamente l'ossigeno che non c'è. Sono paralizzato. Mi piego in due a pochi centimetri dal mercurio. Mi rendo conto che non ce la faccio. Master Adam prima di recarsi alla mensa viene a dare un'occhiata al reparto e a regolare certe valvole. Attraverso la nebbia fitta scorge un'ombra che brancola laggiù tra le ultime vasche. Mi riconosce. Non c'è tempo da perdere. «Franz Franz» urla saltellando verso di me con la sua gamba zoppa. Mi raggiunge ansimando, mi afferra sotto le ascelle e mi trascina fuori, appena in tempo. «Sakrament!» sbotta. «Verdammt!», “accidenti”, esclama. Prima che mi riprenda del tutto ci vogliono un bel po' di schiaffoni, colpi sulla schiena, mezza bottiglia di latte e flessioni. Master Adam si afferra a una bottiglia di non so cosa e tracanna, poi, quando mi vede saldo sulle gambe, ridendo mi fa segno di andarmene. «Danken», “grazie”, gli dico scendendo lentamente la scala di mattoni rossi e fermandomi ogni tanto per respirare. Poi, appena fuori, corro diritto alla “cantine” per la “suppe”. *** Il giorno dopo l'incidente che poteva costarmi la vita, Master Adam mi spedisce a raschiare due grossi tubi in alto vicino a un finestrone aperto verso il cielo. Seduto su una trave disposta trasversale ai tubi, con le gambe penzoloni nel vuoto a più di venti metri di altezza dalle vasche, guardo quei fumi di mercurio che scorrono sotto di me. Ma soprattutto guardo il cielo e prendo qualche boccata d'aria. Penso che Master Adam è stato un buon uomo a mandarmi quassù. O forse no. Se mi gira la testa è finita. In quanto ai tubi, se si aspettano di essere disincrostati da me si sbagliano.


38 Che senso ha togliere la ruggine oggi se domani i bombardieri distruggeranno tutto. *** Gli attacchi notturni sono sempre più frequenti e massicci. Ieri notte dalle alture di Sindly abbiamo seguito per ore il bombardamento di Francoforte e cercato di identificare i quartieri colpiti. Il “Frankfurter Oberpostamps Zeitung” dice che Bockenheim, Bornheim e Sachsenhausen, sulle due rive del Meno, sono rasi al suolo. Centinaia di fortezze volanti hanno sorvolato la città e sganciato migliaia di bombe tra scene apocalittiche di riflettori, razzi, vampe, bengala. Francoforte era una delle città più fortunate della Germania, grazie alle regioni che la circondano. Il nord (Wetterau) ne era il granaio. L' ovest (Rheingau) la cantina, con il buon vino del Reno. L' est (Maingau) la foresta dei parchi naturali. Il sud (Gerau) la cucina. Oggi Francoforte è “alles kaputt”. Assorto in questi pensieri non mi accorgo di una densa nube violetta che sta salendo proprio verso di me. «Franz, Franz!». È la voce di Master Adam, che di qui sembra un grosso insetto ferito a una zampa, saltella, zoppica e agita disordinatamente le corte ali nel tentativo di prendere il volo. Rapido, sostenendomi ai pioli di una lunga pertica fissa, scendo e lo raggiungo. Mi dà di gomito contro lo stomaco, ride e mi spinge fuori. «Funfzhen minuten» mi dice. Ma i quindici minuti di giorno in giorno si allungano. Ho perso la cognizione del tempo. Alle volte me ne sto via per più di un'ora. La curiosità mi spinge ad addentrarmi nella fabbrica, a girovagare tra gli edifici, per osservare da vicino gente e cose. La I.G.Farben, fabbrica dei colori, è un mondo a sé, vecchio e dolente, respira a fatica attorno al giallo smorto della sua emblematica ciminiera. Prendo una direzione qualsiasi e mi trovo d'un tratto nella bolgia delle linee ferrate.


39 Pesanti locomotive trascinano lunghi convogli lamentosi sulle ruote arrugginite e sugli assi non lubrificati, sbuffano su se stesse nubi di fumo nero e vapore dalle caldaie. Le teste dei macchinisti, nere di carbone, sporgono incorniciate da piccole aperture. Hanno gli occhi arrossati simili a tizzoni accesi sulla cenere. I convogli sfilano in tutte le direzioni, lenti, ansimanti rasentano i muri, preceduti da un ferroviere a piedi che sventola uno straccio rosso, fischia e controlla gli scambi. Trasportano i loro carichi di carbon fossile, terre rosse e gialle, lingotti di alluminio umidi gocciolanti, pietre fango e mattoni. *** Ho notato qualcosa in lontananza che mi incuriosisce. È uno strano brulicare di formiche. Mi affretto a lunghi passi camminando sulle traversine di un binario morto. È una fornace. Le formiche sul piazzale antistante si sono disposte in lunghe file e hanno iniziato il passamano dei mattoni ancora caldi, dalla fornace ai vagoni. Sono ragazze russe, indossano abiti marrone proprio come il colore delle formiche, sporchi e laceri, lunghi sino a coprire gli zoccoli. Nei “Funfzehn minuten” di intervallo riposano sedute sui binari. Una, giovinetta, ha gli occhi color oro zecchino e il sorriso mite. Mi fa vedere le mani cotte e gonfie. Altre le tengono nascoste nelle capaci maniche. Mi interrogano con lo sguardo. «Chi sei? Cosa vuoi?». Molte ragazze russe lavorano nella sartoria e nelle cucine. Katia invece fa di tutto. Ho sentito diverse volte raccontare di Katia, la ragazza del Volga che lavora come un uomo anche sui pali della luce, ma la sera scopre con lo stesso entusiasmo di una esordiente i viali più solitari e i boschetti meno frequentati in quelle anse del Meno dove sopravvivono, imbrattate di nafta, le ultime anatre. Così almeno, mi hanno raccontato i maligni. Alta e magra, non ha nulla di femminile, non ha seno né altre rotondità. Non porta mai la gonna, neppure la domenica, ma solo pantaloni attillati che non mettono niente in risalto, ha sempre il viso sporco di grasso. I capelli paglierini stanno ricoprendo la rasatura a zero.


40 Katia di bello ha solo gli occhi, obliqui, chiari ma freddi. Non cerca mai lo sguardo degli altri. Cammina sempre svelta, eretta e disinvolta, con le mani affondate nelle tasche e muovendo le spalle al modo del battelliere. Quando, fischiettando “Lili Marleen”, mi passa rapida vicino mi saluta come fa con tutti, amici e sconosciuti, con un secco “hallo kamerad”. Questa è la ragione per cui io, invece, non la saluto. *** Da qualche tempo arrivo in fabbrica molto tardi. Ascolto i rimproveri di Master Adam e assaggio la sua violenta carezza sul collo. Metto i pugni sui fianchi e suscito la sua risata. È diventato un rito quotidiano. Dopo la doccia all' S423 e una puntatina alla cantina della Tor 6 per la ''suppe'' di verze, corro a Sindly e tutti insieme andiamo alla stazione per prendere il treno delle sette per Francoforte. Tutto è cominciato quando venni a sapere per caso che la I.G.Farben paga il salario. Alla cassa un impiegato stupito mi versa tutti i mensili arretrati. È un bel mucchietto di marchi. Ma che farne in un paese dove è tutto razionato e nulla si può comprare senza i ticket, salvo la birra o, a trovarla, una porzione di patate bollite? Così, la sera, andiamo da “Shumann Keller”, a fare il pieno. Il ristorante sulla piazza della stazione di Francoforte è molto grande e sempre affollato. I più sono stranieri dell'“arbeit front”, il fronte del lavoro, ma vi si fermano anche, tra un treno e l'altro, civili e militari tedeschi. Ai piccoli tavoli mangiamo rapidamente l'unico piatto previsto dal menù. Poche patate bollite e una porzione di margarina. E grosse birre naturalmente, quante ne vogliamo. Le patate costano pochi pfennige, ma per averne altre porzioni, ci bisbiglia il cameriere napoletano, ci vorrà molto di più. Così le mance affluiscono sottobanco nelle sue tasche e le patate affondano nel nostro stomaco già colmo di birra. I GAGLIOFFI A trattenerci nel locale non è solo la fame o il gusto di bere birra in compagnia. Alcuni di noi per muoversi aspettano l'allarme aereo che non tarderà ad arrivare prima o poi. Tutti correranno ai rifugi antiaerei mentre


41 loro, i gaglioffi, saliranno sui treni bloccati dall'allarme e abbandonati dai passeggeri in preda al panico. Al loro ritorno negli scompartimenti i viaggiatori non troveranno più i loro bagagli. Solo una volta, per curiosità, ho seguito la banda e anch'io ho preso il mio bottino, un piccolo pacco che spuntava da una borsa aperta. Era una torta dolce di mele. Ma le sorprese amare, in questa sorta di avventura, non mancano. Come quella del furfante che, arrivato distrutto a Sindly e aperta la grossa e pesante valigia, la trovò piena di stecche di balena per busti da donna. Indescrivibile la sua rabbia dopo tanta fatica. Cosa uscì dalla sua bocca è facile immaginarlo, anche per chi non conosce il bergamasco. Intanto lo spezzino solitario, scaltro professionista, se la rideva sotto il caldo piumino d'oca. LO GNOMO Quella della torta di mele fu l'unica volta che partecipai a questo genere di avventura. Ora a Francoforte ci vado da solo, per i fatti miei, e da “Shumann Keller” mi siedo dove mi capita, dove mi pare e con chi voglio. Il cameriere napoletano mi porta un paio di birre e diverse porzioni di patate. Si ferma di profilo, col mento tirato un po' in su la mano allungata in giù, sottobanco. Questa sera mi sta seduto di fronte un deutsch mann piuttosto avanti negli anni. È un tipetto piccolo e asciutto. Sta seduto sul bordo della sedia ma i suoi piedi non toccano terra. Sembra scolpito in un ramo di olivo, chiaro e scuro, con qualche residuo di corteccia argentea. Porta un giubbotto stinto da clown, a quadri. Secondo me è uno dei sette nani, sopravvissuto alle carestie delle guerre. Solo il naso ha conservato l'aspetto naturale dei tempi di Biancaneve. Brindo più volte alla sua salute. Lui risponde sollevando il boccale, strizza l'occhio e fa strane smorfie. Ma soprattutto osserva i movimenti di marchi uscenti dalle mie tasche. Poi, piano piano, come un giocatore di poker, fa spuntare, ma appena appena, un blocco di “lebenshittelkarte”, carte annonarie, fresche di stampa. Sorride con aria interrogativa. Concludo subito l'affare e gli do appuntamento per “Donnerstag”, giovedì, alla stessa ora.


42 *** Inizia così la spirale della borsa nera. La mia riserva di marchi continua ad aumentare, alimentata dei miei compagni di baracca che si passano parola. L'unico a non partecipare è lo spezzino. Lui non si immischia, non ne ha bisogno, si arrangia in altri modi. Poi c'è il problema di come spenderli i marchi. Le sere che ci riuniamo a Sindly, da “Otto Bauer” offro la birra a tutti, mentre le fette di pane bianco e nero abbrustoliscono sulla stufa a legna. Nella piccola sala si scatena il baccano. Tutti alzano al di sopra delle loro teste i boccali schiumosi inneggiando chi agli Americani chi all'Armata Rossa. L'anziana signora Bauer, sempre molto compita e riservata, arriccia il naso e fa cenno di non urlare. Il traffico di “Liebenshittelkarte” è una manna per i miei compagni che possono così finalmente rimpinzarsi di pane e margarina, e io mi trovo in tasca qualche marco in più. Ma purtroppo non durerà molto. Questa sera, quando arrivo all'appuntamento da “Schumann Keller”, il mio fornitore, lo gnomo Adolf, è già seduto al tavolino. Contrattiamo subito. Oggi l'acquisto è più sostanzioso del solito perché i clienti e le loro richieste sono aumentati. Di certo i ticket qualcuno se li rivende. Infilo le carte annonarie all'interno della giubba e mi appresto a contare il denaro, quando d'improvviso suona l'allarme aereo. Si sentono già vicinissimi i colpi della contraerea. È il finimondo. Il locale si svuota rapidamente. Molti boccali di birra restano a metà. Adolf, risucchiato dalla massa o forse dalla paura, è sparito senza prendere i soldi, malgrado le mie ricerche nei giorni successivi, non lo vedrò più. La favola finisce qui. È il “the end” del cortometraggio. Il bombardamento intanto si scatena più martellante del solito. Con i doppifondi della giubba imbottiti di carte e marchi mi avvio verso il rifugio, sorpassato dalla folla isterica che cerca di superarsi. Rimango nell'atrio. Siamo tutti in piedi, pressati gli uni contro gli altri, viso contro viso, respiro contro respiro. In questo rifugio antiaereo della stazione ferroviaria di Francoforte c'è gente di ogni tipo e rango, passeggeri dei treni bloccati dall'allarme, clienti occasionali e abitudinari del ristorante,


43 abitanti del quartiere, ferrovieri, militari di passaggio, signore eleganti, nottambuli e vagabondi. A ogni esplosione fanno eco gli strilli delle donne, laceranti per i timpani. Qualcuna non resiste alla calca e si affloscia, altre devono correre e mettersi in coda davanti ai gabinetti, “abort”, tra spintoni, urti, alterchi, pianti, imprecazioni e altri suoni intrattenibili. Mi chiedo dove è finita la tanto declamata disciplina dei tedeschi. C'è anche chi teme più il rifugio delle bombe. Io sono tra costoro. Durante i bombardamenti di Genova rimanevo sempre sulla porta del rifugio, mentre dall'interno mi giungeva il latino dell' “ora pro nobis” che aumentava di volume con l'avvicinarsi degli aerei, e diminuiva dopo il loro passaggio. Che differenza di stile, in circostanze analoghe! Mi stupisce la presenza, a pochi passi da me, di una persona che ha stile e dignità. È un giovane ufficiale della “kriegsmarine”, la marina da guerra tedesca, in perfetta divisa, bel portamento e aria soddisfatta di chi va in licenza. Accortosi che sono italiano mi chiede ad alta voce, nella mia lingua, di quale città. «Genova» grido, e lui, sorridente e cordiale mi dice che sta venendo proprio da Genova, dove ha la fidanzata. «Cosa?». «La fidanzata. Abita nel quartiere della Foce». «È il mio quartiere» gli dico esaltandomi. «Come si chiama?». «Adele». «Non la conosco. Dove siete diretto?» gli chiedo. «A Kiel. È ancora molto distante». Immagino in quanti rifugi si dovrà riparare prima di arrivare a casa, e se tutti i rifugi sono come questo arriverà con le ossa rotte. Il giovane ufficiale vorrebbe continuare a parlare della seducente Genova, ma io sotto la giubba ho la borsa nera che scotta. Gli auguro buona licenza e me la filo. *** Peccato. Avrei continuato volentieri a parlare della seducente Genova e avrei fatto molte domande. La città è ancora in piedi? I bombardamenti angloamericani come l'hanno ridotta?


44 Si può ancora passeggiare nelle strade ricche di platani che vanno dritte al mare nel quartiere della foce? È ancora aperto il bar - latteria “La buona fede” dove noi studenti delle medie eravamo soliti dividerci il cappuccino? L'albero di veliero ricco di sartie e pennoni nel cortile dell'Istituto Nautico c'è ancora? Certamente il giovane ufficiale di marina avrebbe potuto darmi notizie della mia città e in particolare del mio quartiere dove ha la fidanzata Adele. Ma forse è meglio non sapere niente. *** Il mattino dopo, di buon'ora, me ne torno a Francoforte. Passeggio per le vie del centro curiosando le vetrine quasi vuote, tra la folla eterogenea costituita in prevalenza da stranieri ma anche da frettolose massaie. Incontro visi noti di ex detenuti italiani liberati delle carceri e deportati in Germania. Allora avevano la testa rapata a zero e portavano le tipiche divise carcerarie a strisce. Ora indossano indumenti eleganti, sono stati dal “friseur”, parrucchiere, e passeggiano disinvolti. Una pattuglia di SS ferma proprio me. «Warum nichts arbeit?» “Perché non sei al lavoro?”. «Nacht schicht» “Lavoro di notte”. «Gut». Se ne stanno e io, superato il brivido, proseguo per la mia strada, che non è proprio la mia strada, perché vado casaccio, dove capita, come uno studente che ha marinato la scuola. Con una razione di pane bianco mi metto in coda davanti al cinema. Qui i cinema sono aperti anche al mattino e gli spettatori formano lunghe code sui marciapiedi. Danno “il Rigoletto” con Rossano Brazzi, cantato in italiano e recitato in tedesco. Vicino a me siede una ragazza. A un tratto, in sintonia con l'acuto del tenore, si solleva un pochino ed emette una vibrante prolungata scoreggia. Altre nella sala le fanno eco. È un comportamento tipico degli abitanti di Francoforte, anche per strada, liberare questi suoni di fondo, come pure ruttare sonoramente in pubblico. Mi alzo ed esco dal locale, anche perché “il Rigoletto” l'avevo già visto, e mi è venuta un'idea. ***


45

Vado alla ricerca, ma con scarse speranze, della ragazza tedesca che tempo fa mi fece la predica sui doveri dello schiavo italiano. Qui è l'unica persona che conosco. È una bella ragazza e suggestivo è il luogo dove abita. Mi parlava con riguardo, pur essendo incrollabile nelle sue fissazioni che erano tutto l'opposto delle mie. Forse il suo comportamento era solo apparenza. In certi momenti mi pareva costretta a contrastarmi suo malgrado. Avrei dovuto essere più conciliante, e trattenerla quando mi lasciò con un secco “buona notte” e scomparve in un portone del quartiere. Peccato, l'incontro avrebbe potuto concludersi in maniera diversa se fossi stato più pronto. Ma ora sono preparato. Se la trovo incominciò subito col dirle che ho seguito a puntino il suo suggerimento. Infatti, come può vedere, non sono più il vagabondo che lei aveva garbatamente strigliato. Ora lavoro nella più grande fabbrica di Francoforte, dove non c'è quasi niente da fare ma mi danno la paga. Vorrei anche dirle che di manodopera coatta nelle fabbriche e dintorni ce n'è fin troppa, e di questo lei non deve più preoccuparsi. Scarseggia invece, e lei lo sa bene, nelle alcove familiari. I tedeschi continuano a morire sui fronti e i campi di concentramento dei prigionieri tedeschi, specialmente nell'est, si riempiono sempre più, mentre le loro famiglie si svuotano. La ragazza mi chiederà perché, se sono pagato, mi trovo in vacanza alle dieci del mattino, con in tasca lo scontrino del cinema e una provvista di tabacco. Be’! Sono in permesso. Il tabacco me lo sono procurato e con lo scontrino del cinema, di carta molto sottile, mi arrotolerò una sigaretta. In realtà il tabacco lo raccolgo per strada da quando sono diventato apprendista dei ''ciccaioli'' di quartiere. Sono una categoria, numerosi e attivi, sparsi dovunque. Zizzania dice che un “raccatta cicche” alla fine della giornata ha guadagnato più di lui. Sono anziani muniti di bastone con apposito puntale, infilzano i mozziconi con rapidità e bravura senza chinarsi. Alcuni lo fanno per mestiere, altri sono schiavi del fumo, pensionati, commercianti falliti o professori di università a spasso.


46 La razione insufficiente li costringe a rastrellare le strade, molti sono stranieri che non hanno diritto al tabacco. Malgrado ciò la città è sempre piena di mozziconi di sigari e sigarette, specie nei luoghi più frequentati, a ogni ora del giorno e della notte, come le entrate dei rifugi antiaerei. Qui, quando sentono avvicinarsi un bombardiere buttano via la sigaretta anche intera e corrono dentro, quando è passato escono e ne accendono un'altra. A molti benestanti o funzionari di Stato la provvista non manca. Per i poveracci ci sono le cicche. Molte sono addirittura il residuo di sigarette arrotolate con il tabacco ricuperato da altre cicche. Accompagnato da queste squallide divagazioni sono arrivato nel quartiere che sto cercando. La piazza è un grande unico cratere che ha inghiottito alberi, giardini, panchine fontane e chioschi. I raffinati palazzi sono in parte crollati, anche quello nel cui portone avevo visto scomparire quella sera la ragazza che sto cercando. Potrei raggiungerlo superando enormi cumuli di macerie. Ma per trovare cosa? *** Nel quartier generale della birreria di Sindly, alle nove di sera, Zizzania fa il punto della situazione. «Noi siamo qui» dice puntando il dito sulla cartina dell'emisfero, «più o meno qui ci sono Mainz, Treviri, Coblenza, e qui c'è Metz». Lo spezzino, di passaggio, a sentire questi nomi ha drizzato le orecchie. Poi, rivolto a me, ma lo hanno sentito anche gli altri, si è lasciato sfuggire: «Sono tutte città di Carlo Magno». Zizzania, dopo aver pensato un po', gli ha rivolto uno sguardo di ammirazione, al che lui, imbarazzato è scappato via. Lo spezzino, durante le permanenze nelle carceri della Spezia, dove era ospite abituale, si è fatto una cultura leggendo libri di vario genere, anche di storia. Imparo da lui che in queste regioni, ai tempi di Carlo Magno, avvennero grandi deportazioni di massa. Allora deportati erano i Sassoni, deportatori i Franchi. Ora è tutto l'opposto. Secondo Zizzania sentiremo presto parlare di queste città perché qualcosa si sta muovendo al di là del Reno.


47 LE TRACHEE DI MATTONI In questi giorni ho sentito spesso parlare di Nied, il quartiere di Francoforte più colpito dai bombardamenti. Voglio andare a vedere. Mi arrampico su un tram di poche massaie che tornano a casa con le borse semivuote. C'è anche qualche anziano raggomitolato in un angolo, sono le “bocche” che il regime ha definito “inutili”, ossia da eliminare, come i malati. Il tram arranca sulle rotaie ripristinate alla meglio. All'apparire dei primi spettri di Nied tiro il cordone del campanello e balzo a terra. Tutti gli altri proseguono, forse diretti a quartieri ancora vivibili, se ce ne sono, o pensano che ce ne siano. Lo spettacolo che si presenta ai miei occhi non può essere descritto che sotto forma di cruda metafora. Dalle montagne di macerie emerge una fitta schiera di camini, grondanti fuliggine dalle lesioni, come sangue dalle ferite. Sono testardi testimoni della guerra di distruzione. Sono organi senza mantice e senza tastiera, in complessi disordinati. Sono la rappresentazione schematica di mille trachee di mattoni. Così appare Nie ai miei occhi. Un cimitero sconvolto con i cadaveri in piedi. All'“Halte Stelle” della linea 21 riprendo il tram. I viaggiatori mi sembrano gli stessi di prima, qualcuno in meno. Scorre sotto i miei occhi quella che era stata un tempo la vivace Weimar strasse, graziosa per i suoi viali di meli nani potati a ombrello, dei quali rimane qualche rara testimonianza. *** )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

PREFAZIONE ................................................................................ 5 PRIMA PARTE ............................................................................... 9 LA BANDIERA DEL TERZO REICH ..................................... 9 IL FUMO GIALLO ................................................................. 11 LA VIA DEI COLORI ............................................................. 33 IL NERO DEL CARBONE ..................................................... 64 LA TERRA ROSSA ................................................................. 93 IL BERRETTO DI PANNO BLU.......................................... 132 SECONDA PARTE ..................................................................... 175 LA BANDIERA DEI ''CHASSEURS'' .................................. 175 IL CHEPI ............................................................................... 177



AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Terza edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2020) www.0111edizioni.com

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