Tutto il mondo è paese, Andrea Zavagli

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In uscita il 29/7/2022 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine luglio e inizio agosto 2022 (5,99 euro)

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ANDREA ZAVAGLI

TUTTO IL MONDO È PAESE

ZeroUnoUndici Edizioni


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TUTTO IL MONDO È PAESE Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-562-2 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Luglio 2022


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CAPITOLO 1 – GIOVEDÌ 12 MARZO

Un leggero soffio d’aria nel collo la svegliò. Fin da quando era bambina, non apriva mai subito gli occhi. Cercava di ritardare il più possibile l’impatto con la realtà, per continuare a fantasticare sotto le coperte. Con fastidio si rese conto, però, di non riuscire a ritrovare il tepore del letto; anzi, avvertiva una sensazione di freddo. Non le sembrava di aver bevuto molto la sera prima, eppure sentiva la testa pesante e un sapore dolciastro in bocca. Per cambiare posizione e recuperare un po’ di calore, cercò di spingersi con le gambe, ma i piedi si erano intrecciati nelle lenzuola, e non riuscì nemmeno a girarsi su un fianco, solo a dondolarsi. La serata appena trascorsa doveva essere stata una di quelle che il giorno dopo lei definiva “complicata”. Si rese conto del perché aveva freddo: le lenzuola, umide di sudore, erano tutte intirizzite. Tentò di nuovo di spostarsi, ma non riuscì a muovere nemmeno le braccia. Le sentì bloccate sotto il corpo, e per questo non ce la fece a voltarsi. Non riusciva a ricordare niente di particolare, ma si stava convincendo che la sera prima doveva essere stata davvero “molto complicata”. Troppe cose le sembravano differenti dalle solite mattine, e aprì gli occhi di scatto. Davanti a lei non c’era la finestra dalla quale di solito filtrava la luce del lampione della strada. Tutto era buio, diverso. Un’oscurità profonda, nera ma allo stesso tempo viva, come se nascondesse cose e figure. L’aria era fredda, umida e, sotto il fastidioso fischio che da quando si era svegliata le ronzava nelle orecchie, sentì in modo distinto l’acqua del Rovere che scorreva vicino. Era coricata sul fianco destro, come dormiva di solito, ma non era nel suo letto. Le sembrò di essere sdraiata sopra un telo o forse su un prato, e le mani sembravano legate perché non riusciva spostarle da dietro la schiena.


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Mugolò impaurita, cercando di divincolarsi, e quando iniziò a inveire, una busta di plastica infilata sulla testa soffocò l’imprecazione. Il sacchetto le aderì al volto e, mentre tentava di respirare, le si annebbiò la vista. Ancora per poco, poi fu tutto nero. Per sempre.


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CAPITOLO 2 – THOMAS E FLORIANA

In paese, quando era arrivato, l’avevano preso per un turista diretto a Vallese, sceso per sbaglio quattro fermate in anticipo. Alcuni, lì per lì, l’avevano persino scambiato per un attore, visto che un ragazzone vestito da prete, e arrivato a Palazzetto con la corriera, non era verosimile. Forse un nuovo Don Matteo, si erano detti, perché le caratteristiche per sostituire Terence Hill le aveva tutte. Alto, biondo, occhi azzurrissimi, fisico atletico ma molto più giovane, sì e no ventotto anni. Non solo le donne si girarono al suo arrivo in piazza, ma anche gli uomini lo guardarono con stupore. Toccò al farmacista, che non era del paese, avvicinarlo per chiedergli, con educazione, cosa stesse facendo con quel valigione sul marciapiede, e se avesse bisogno di aiuto. La parlata da cowboy di Trastevere confermò, all’inizio, l’impressione che si fosse davvero sbagliato a scendere dall’autobus. Poi, in uno scambio di reciproci sorrisi imbarazzati, man mano che si rendevano conto dell’equivoco, venne fuori che in realtà era arrivato proprio nel posto giusto. Era il nuovo parroco inviato dalla Curia in sostituzione di Don Armando, scomparso pochi mesi prima per un infarto. Così Thomas – questo era il suo nome – presto divenne Don Tommaso, visto che l’altro sembrava più adatto a una serie televisiva. Nei primi tempi tutti indugiarono diffidenti in attesa di vedere cosa succedeva. Molte donne lo temevano un impostore, e non si fidavano a confidargli i loro segreti in confessionale. Anche gli uomini, quei pochi che bazzicavano la chiesa, lo studiavano e, pur senza sbilanciarsi in nessun giudizio, non nascondevano perplessità. Fu domenica 22 dicembre che gli abitanti di Palazzetto, quelli che frequentavano la messa delle 11:30, si resero conto di due cose: la prima che, pur essendo in pieno inverno – e questo lo sapevano già dal calendario di Frate Indovino – in quella particolare congiunzione il sole, dopo aver fatto capolino dal rosone centrale alle 11:45 andava a illuminare il leggìo, facendone luccicare i bordi dorati.


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La seconda fu che Don Tommaso, non solo era un gran bel ragazzo ma, di recente, aveva assunto una singolare somiglianza con Gesù stesso. Era concentrato sull’omelia prenatalizia che stava per pronunciare, quando si avvicinò a capo chino al leggìo e alzò gli occhi al cielo aprendo le braccia. I raggi del sole lo investirono in pieno, e i fedeli non poterono fare a meno di lasciarsi sfuggire un «Oh!» soffocato a stento. La barbetta appena accennata, che si era fatto crescere, ne aumentava la somiglianza alle immagini sacre; quelle date ai bambini. Non il Gesù sofferente sulla croce, ma quello sorridente della moltiplicazione dei pani e dei pesci; quello che chiamava a sé i fanciulli. Anche Floriana si accorse della somiglianza con l’immagine dei santini che le avevano regalato a catechismo. Era rumena, originaria di Brașov in Transilvania, e la zia alla quale era stata affidata da piccola, la portava a messa nella chiesa nera, la grande cattedrale rimasta annerita da un incendio di qualche secolo prima. Ancora oggi, quando ci ripensava, le tornavano in mente sensazioni contrastanti: di serenità per i canti religiosi e d’inquietudine per l’oscurità delle navate e le strane voci che circolavano sulla chiesa. Si diceva che mentre la costruivano un muratore avesse fatto precipitare dal tetto un ragazzino che lo disturbava, e quella storia l’aveva impaurito molto. Nel coro, poi, era seppellito uno dei primi sacerdoti che aveva guidato quella comunità e, passando, doveva fermarsi a fare una piccola genuflessione davanti alla sua lapide ornata di raccapriccianti teschi di marmo. Per l’appunto, quel religioso si chiamava Tommaso, Padre Tommaso, e lei se lo ricordava bene. Se poi si aggiunge che: a) questo Don Tommaso era proprio un bel ragazzo; b) che Floriana sapeva apprezzare quelle mascoline qualità; c) che in quel periodo era senza lavoro, non è difficile capire come mai alla fine della messa si fosse precipitata in sacrestia offrendosi come perpetua. Erminia, storica domestica di Don Armando, un po’ per l’età e un po’ per il dolore dell’inaspettata scomparsa del suo parroco, aveva voluto cessare il servizio. La sera prima Don Armando stava benissimo, e la mattina dopo Erminia lo aveva trovato morto nel suo letto. Blocco cardiaco, avevano detto. Ma lei non aveva saputo darsi pace; come se avesse dovuto o potuto accorgersi dell’imprevista malattia e porvi rimedio. Fu così che Don Tommaso, fino ad allora costretto a sopperire da solo alle necessità quotidiane, acquisì con Floriana una perpetua adorante. Per le


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rispettive difficoltà con la lingua italiana, facevano un po’ fatica a capirsi ma, alla fine, riuscivano quasi sempre a intendersi. Lui le delegò le incombenze domestiche per le quali era del tutto inadatto. Floriana, dal canto suo, guadagnò un tetto e dignità di fronte al paese. Tutto era andato bene fino a quando non era spuntata quella ragazzina dall’aria sfrontata, che aveva cominciato a farsi vedere in parrocchia un po’ troppo assiduamente. Aveva fama di essere molto spudorata ma, quando ronzava attorno a Don Tommaso, assumeva sempre un’aria troppo candida per essere vera. Floriana aveva intuito di avere una rivale, e si era preoccupata. C’era in ballo il posto di lavoro, e poi ormai sentiva il parroco un po’ come una cosa sua. Non poteva tollerare che altre donne gli girassero intorno. La tensione aumentò quando Floriana la vide venire sempre più spesso in canonica a prendere Don Tommaso e poi andarsene insieme, a passeggiare nei prati dietro la chiesa, ridendo e scherzando. Fu così che quel martedì sera, dopo aver sparecchiato, decise di approfittare della circostanza che la domenica dopo, con la “Festa della birra” e l’arrivo dei turisti festaioli dai paesi vicini, ci sarebbero stati più fedeli alla messa. Questo preoccupava Don Tommaso che, per le proprie difficoltà di pronuncia, in quelle occasioni si tratteneva in sala da pranzo per rileggere e correggere l’omelia. «Don Tòma, oggi è tornata la ragazza?» chiese Floriana, con aria apparentemente distratta. Don Tommaso non rispose subito, assorto com’era sulle sue carte, poi fece un vago mugugno dal tono affermativo. «Strano che quella sempre qui intorno» disse, questa volta con tono astioso, ma ancora non ebbe risposta. «Però non vedo mai la ragazza a messa, o fare confessione e non vedo nemmeno a fare comunione…» continuò Floriana, rincarando la dose. «Non sembra brava ragazza se gira e rigira intorno a uomini…» «Quali uomini?» chiese Don Tommaso che, alla ricerca di una parola che gli sfuggiva, aveva per un attimo alzato la testa. «Tanti uomini di paese. Dicono che ha litigato con amica perché aveva rubato il fidanzato.» «Be’, si pote anche sbagliare, e nostro Signore pirdona in caso di vero pintimento.» «Ma lei non pente. Lei continua» piagnucolò.


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«Non aspetta a noi che dobbiamo giudicare, Floriana. Ora lascia che finisco questo lavoro e ricorda: per nostro Signore siamo tutte pecorine.» A Floriana vennero in mente pecorine molto diverse. Tornò in fretta in cucina per sbollire la rabbia. «E se non ci pensa nostro Signore» si disse inviperita «ci penserò io a togliere di mezzo le pecorine smarrite.»


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CAPITOLO 3 – NIVES COLLINI

Le era già successo, negli ultimi tempi, di fare un bilancio della propria vita e le conclusioni erano sempre le stesse: il destino non era stato per niente generoso con lei. Le premesse l’avevano illusa. A diciassette anni, oltre a essere quasi diplomata all’Istituto Artistico, era la più bella del paese e, quando quel produttore cinematografico si era fermato a Palazzetto, si era invaghito proprio di lei, la bella Nives Collini, già con un nome da star. Tra vestiti nuovi, promesse di matrimonio e di carriera cinematografica, le aveva disegnato un futuro radioso portandola a Milano sulla sua convertibile americana dalla lunghezza imbarazzante e un improbabile colore verde pisello. La partenza fu spettacolare. I paesani – pur facendo finta di niente – si trovarono “occasionalmente” tutti sul percorso che, attraversando il paese, portava verso l’autostrada per Milano e lei, come una regina, salutò quelli che conosceva con la mano guantata, mentre agli altri riservò solo un cenno del capo. Fu solo dopo pochi mesi che, notte tempo, dovette rientrare di soppiatto nella casa della madre che si era ammalata in modo grave dopo la sua partenza. Il motivo di quel ritorno in sordina, però, non era stato quello, e la gente lo sapeva bene. Rimasta incinta, era stata scaricata dal produttore che nel frattempo aveva trovato di meglio – si parlava di un’attrice già famosa che gli portava notorietà – e così, con due sole valigie piene di vestiti e sogni infranti, fu costretta a tornare nell’unica casa che l’avrebbe accolta. Del bambino, quando qualcosa trapelò, si seppe solo che l’aveva perso. Per pudore e rispetto non fu mai chiarito se in modo spontaneo o meno, e non si fecero più domande. Le ci volle del tempo per tornare alla vita normale, ma la morte della madre e l’incarico d’insegnamento all’Istituto d’Arte – lo stesso dove nel frattempo aveva completato gli studi e si era diplomata – l’aiutarono a riacquistare un minimo di dignità agli occhi della comunità paesana. Le donne di Palazzetto, più che altro, perché agli uomini poco interessava se aveva un impiego come insegnante e poteva mantenersi da sola.


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Dapprima continuarono a guardarla con occhi da cascamorto, in attesa di qualche gesto di consenso da parte sua. Poi, non notando alcun segno, a differenza di quelli impietosi che il tempo lasciava su di lei, spostarono gli sguardi su altre prede. In seguito se n’era fatta una ragione di non essere più una reginetta di bellezza e di essere passata da “bella ragazza” a “signora piacente”, poi a “donna matura ben portante”, fino a “si vede che deve essere stata una bella donna”. In qualche modo aveva dovuto sfogare tutte quelle delusioni e, alla fine, fare i conti con il suo fisico: era molto ingrassata e il peso eccessivo le aveva sforzato l’anca. Per questo negli ultimi anni aveva dolori che le impedivano di muoversi normalmente e le crisi potevano risolversi in giornata come in una settimana. Di recente, con preoccupazione, aveva visto aumentare la durata di quelle crisi. Se non aveva impegni precisi, in quei giorni restava a casa dove, nel salotto che dava sul retro, aveva fatto allestire una postazione speciale: una specie di alto sedile da ciclista che la faceva stare con le gambe stese, e una spalliera ergonomica sulla quale si appoggiava con il busto e l’addome. Così non scaricava peso sull’anca e poteva lo stesso scrivere, usare il PC e tutto quanto aveva a portata di mano sul tavolo che aveva avvicinato alla finestra. Da lì, anche nei momenti difficili, poteva rasserenarsi con la vista del giardino. Fuori si muoveva sempre con un bastone, così da potersi sorreggere anche in caso di crisi improvvise e, da poco tempo, aveva cominciato a spostarsi con un triciclo elettrico propostole dal Biagi, il proprietario dell’autofficina nella zona delle fabbriche. Anche se, per la scarsa autonomia non poteva andare molto lontano, in paese si spostava senza bisogno di auto o patenti speciali e fare la spesa da sola. Lo teneva in giardino accanto alla porta finestra del salotto. Così era più comodo salirci per arrivare nello stradello laterale e immettersi subito in strada. Se pioveva, rimaneva a casa; tanto bastava chiedere, e qualcuno che l’aiutava c’era sempre. Anche quel martedì raccontava tutto questo a se stessa come a una vecchia amica, perché negli anni era rimasta sempre più sola, e quando il lavoro al computer la stancava, cercava con quei soliloqui di distrarsi. L’aiutava, in quei momenti, il suo liquore al basilico, specialità che ormai le chiedevano tutti. Aveva realizzato il distillato casalingo da una vecchia ricetta della mamma, ed era piaciuto così tanto che in ogni casa ce n’era sempre qualche bottiglietta. Ultimamente, poi, era riuscita a ridurre la gradazione alcolica fino a renderlo leggero quasi come un Crodino, e il


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nuovo contenitore da 33 cl con tappo a vite, ne aveva consentito una locale diffusione. Il Cordiale Collini, come recitava l’etichetta che si faceva stampare a Castelgrande, fu presto ribattezzato il Cordini e nei negozi di Palazzetto si era cominciato a venderlo quasi come fosse Coca Cola. Al di là degli incassi, che finalmente superavano le spese, il suo successo era una piccola rivalsa nei confronti dei paesani che per anni l’avevano tenuta in un angolo. «Con l’approvazione della delibera da parte dell’assemblea di venerdì prossimo»si disse, sorseggiando il cordiale «il finanziamento comunale sarà destinato alla pubblicazione del mio libro.» Una pubblicazione che, finalmente, le avrebbe consentito di acquisire una posizione stabile e duratura per gli anni a venire. Sollevò il calice per brindare all’ormai prossima fine delle sue tribolazioni.


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CAPITOLO 4 – BENIAMINO INNOCENTI

Se su una grande carta geografica si fossero potute segnare con un puntino tutte le persone che stavano ripensando alla propria vita, probabilmente in quel momento si sarebbe visto un grandissimo formicaio. Nives non era la sola. Accoccolato sopra una pila di sacchi vuoti, sui quali aveva avuto l’accortezza di stendere un telo di plastica per non sporcare troppo l’ultimo vestito rimasto, Beniamino si stava chiedendo se avesse fatto la scelta giusta, e se aver intrapreso quel viaggio aveva avuto senso. Fu un pensiero di pochi istanti, perché non era abituato a essere razionale e analizzare a lungo sé o gli altri. Era un impulsivo, e ricordava bene quando per la prima volta aveva avvertito il suo istinto. Da allora lo aveva sempre seguito. Era aggrappato alla mano ossuta di Suor Rita, e insieme salivano gli ultimi gradini della scala. Il corridoio buio del convento si faceva sempre più lungo, e la luce della Cappella del Rosario, laggiù in fondo, ancora più vivida. Fu mentre si stavano avvicinando che, d’improvviso, la luce sparì e per un attimo rimasero al buio. Lui si fermò di colpo, ma la mano di Suor Rita lo trasse vicino a sé con dolcezza, mentre in fondo a quell’oscurità cominciò a diffondersi una tremolante luce rosata. Quattro grandi ceri facevano danzare le ombre delle monache sui muri della Cappella, mentre Suor Alfonsina, stesa con le mani incrociate sul petto, riposava a occhi chiusi. Lui, però, capì subito che non stava riposando, perché al suo ingresso non gli era andata incontro sorridendo come al solito. La sua Suor Alfonsina. Si sentì solo, e capì che da quel momento la vita non sarebbe stata come prima e che non gli sarebbe stato possibile rimanere in convento ancora a lungo. Avvertì una voce dentro che diceva: “Ora te ne devi andare da qui” e capì che doveva farlo e basta. Senza pensarci troppo. In seguito, dovette riconoscere che quella voce aveva ragione e ammettere che in convento non sarebbe potuto rimanere comunque. Stava diventando un “ometto”, e tra le suore si cominciava ad avvertire un certo imbarazzo. Dapprima vi fu il trasferimento in vari centri di sostegno, poi gli incontri con gli assistenti sociali e il difficile percorso d’inserimento. Intorno si era


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trovato una città che lo spaventava e lo attirava, con quartieri affollati e una gioventù aggressiva. Aveva vissuto sulla sua pelle il difficile confronto tra gli ammonimenti di Suor Alfonsina e le regole del branco. Tuttavia, in qualche maniera ce l’aveva fatta. Era riuscito a rimanere al di qua dalla linea tra bene e male e, anche se non aveva terminato gli studi e non aveva combinato un granché, tra lavoretti, mance, elemosine e qualche assistenza, era riuscito a tirare avanti. Fino all’anno prima quando, in una di quelle sere nelle quali si era sentito particolarmente triste, gli era tornato in mente il pacchetto che teneva sul fondo dello zaino. Glielo aveva dato Suor Rita al momento dell’addio. «Guarda, questo pacchetto l’aveva preparato per te Suor Alfonsina» gli aveva detto premurosa. «È tuo. Credo contenga le ultime cose di tua madre.» Sul pacchetto, annodato con lo spago, c’era proprio scritto: “Per Beniamino” il nome con il quale, visto che era l’unico maschio del convento, l’avevano battezzato. Di cognome gli era stato imposto Innocenti. Gli avevano spiegato che la madre, arrivata molto malata e priva di documenti, era deceduta durante il parto. Dopo tanti anni, nei quali aveva persino pensato di gettarlo via, quella sera si decise ad aprirlo. Come immaginava ci trovò i pochi effetti personali di una donna mai vista e conosciuta: una camicetta a fiori, un paio di scarpe slabbrate e stinte, una collana con una croce, due pettini ferma capelli, e un piccolo quaderno. Non una foto o un disegno: non c’era niente che servisse a dargli almeno un’idea di sua madre. Non sapeva nemmeno se era bionda o bruna. Di certo non si era aspettato di trovare nel pacco un tesoro, ma così era davvero troppo poco. Deluso, aprì svogliatamente il quaderno e si accorse che non era di sua madre, ma di Suor Alfonsina. Con calligrafia un po’ inclinata verso destra ma netta e decisa, la suora aveva tenuto una specie di diario dell’arrivo della ragazza al convento, della malattia inesorabile, del travaglio, della nascita di Beniamino e del decesso nel corso del parto. Tutto nel giro di nemmeno due giorni. “La ragazza suda e vaneggia ma il dottor Mori non riesce a capire come curarla. Dice che gli organi interni sono ormai troppo danneggiati, che il parto sarà un rischio. Ormai non c’è più tempo neanche per portarla in ospedale, le acque si sono rotte e la nascita avverrà tra poco. Le siamo tutte intorno con acqua calda, panni puliti e le nostre preghiere. Che Iddio li aiuti entrambi”.


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La triste cronaca proseguiva fino alla fine: “È un maschio, gracile e bruttino come tutti i bimbi appena nati, ma ha una gran voce. Lei, invece, tace riversa nel letto, stremata dalla fatica e dalla malattia che l’ha consumata. Le ho carezzato la mano ma dopo pochi istanti è diventa subito fredda”. Nelle pagine seguenti aveva appuntato anche le ricerche fatte sulla sconosciuta, per trovare parenti da avvertire o familiari che potessero farsi carico del bambino. Ma non era arrivata a niente, e di quel bambino sfortunato decisero che se ne sarebbe occupato il convento. Suor Alfonsina aveva anche aggiunto qualche riflessione personale. “Tra le sue poche cose non ci sono documenti o lettere che possano far capire chi sia. È strano. Non si arriva a partorire senza aver lasciato una traccia, un uomo, una famiglia… eppure sembra davvero spuntata dal nulla. Nessuno sembra nemmeno ricordarsi di averla vista prima da queste parti. Nel suo sragionare per la febbre ha citato più volte una sorella, ma non come appoggio affettivo. Pareva quasi che ne avesse timore e ne chiedesse il perdono. Forse perché era rimasta incinta? Per il disonore gettato sulla famiglia?”. Beniamino aveva letto con una punta di dolore quella cronaca, e si era fatto l’idea che in effetti la madre fosse stata allontanata non tanto dai genitori, quanto da una sorella che, negli appunti di Suor Alfonsina, veniva nominata a volte come sua gemella. Forse anche loro erano orfane e, a causa della gravidanza, la sorella l’aveva cacciata, ma non c’era modo di capire da dove venisse. Solo in una circostanza, aveva riportato la suora, la donna pareva aver citato un posto chiamato “Castelletto”, ma quell’indicazione, se vera, era troppo vaga e lì intorno non c’erano luoghi con quel nome. Poteva essere perfino il nome di un podere o di una casa di famiglia sperduta nelle campagne, o non esistere affatto ed essere il nomignolo affettuoso dato a una qualsiasi costruzione, addirittura una casa su un albero. Beniamino aveva richiuso il quaderno e, pur portandolo sempre con sé, non lo aveva più riaperto. Le parole di Suor Alfonsina, però, le aveva sempre ben chiare dentro di sé. Alla fine, dopo molte ricerche, notò che solo Palazzetto sul Rovere aveva un nome somigliante a Castelletto, e da lì una donna malata e in procinto di partorire, poteva raggiungere con facilità il convento. Era l’unica meta ragionevole per le sue ricerche, e così intraprese quel lungo viaggio.


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Da strano viandante che era diventato, aveva iniziato a leggere una cosa qua, sfogliare un giornale là, e poneva domande, chiedeva informazioni per poi filtrare tutto attraverso il fidato istinto. Il suo personale “cammino degli Dèi” lo portò a dipingere acquerelli, ad attraversare paesi diversi e ovunque, se avvicinato da qualche curioso, provava a chiedere se conoscevano gemelle in quelle zone. «Sa, è la mia specialità nei ritratti» diceva, ed esibiva un quadretto di fantasia dove aveva rappresentato una coppia di ragazze sedute su un pozzo. Solo una volta un’anziana lavandaia aveva fatto un confuso racconto sul passaggio di due gemelle che venivano da fuori “ma che poi non c’erano state più”. «Che vuol dire che non c’erano state più?» aveva chiesto Beniamino, con il cuore che cominciava a battere veloce. «Oh bella! Che dopo poco, due o tre giorni, non si erano più viste in giro.» «Sì, ma che vuol dire? Potevano essere partite per lavoro…» «Eh, può essere. Mi ricordo di aver sentito dire che stavano cercando casa ma non avevano trovato niente che gli piacesse in zona.» «E come si chiamavano?» aveva domandato Beniamino, cercando di dissimulare il suo interesse. La donna fece spallucce. «Ah, quello non l’ho mai saputo. Non sono mica una curiosa io.» «Sì, ma se dice che erano di zona» insistette «più o meno saprà chi erano.» «Macché» rispose lei, continuando a sbattere i panni sulla pietra della fontana. «Giravano in zona, ma venivano da fuori. È successo tanto tempo fa, e nel giro di pochi giorni. Io poi ero così giovane… Non credo che qualcuno, se anche le ha conosciute, si ricordi di come si chiamavano.» Deluso, Beniamino si rimise in marcia. Aveva creduto di essere arrivato alla fine della ricerca, e invece si trovava ancora al punto di partenza.


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CAPITOLO 5 – CHOU

Mentre Galanti sollevava la serranda, un raggio di sole sbucato all’improvviso dalle nuvole che stazionavano dense fino dall’alba, andò a colpire la vetrata ma, per lo spesso strato di polvere, non riuscì a far filtrare i suoi raggi all’interno del locale. «Permetta, vado avanti io» disse l’agente immobiliare. Fece alcuni passi e, guardandosi intorno aggiunse: «Faccia attenzione, è tutto talmente sudicio…» Era più sporco di quanto si aspettassero, ma si presentava come descritto nell’inserzione dell’agenzia: lungo e stretto. A lei, però, tornava comodo: aveva già delle idee su come sfruttarne ogni centimetro. All’interno, una polvere bianca come d’intonaco scrostato ricopriva ogni cosa e, cercando di non sporcarsi troppo, si spinsero verso il fondo del locale, dove era collocata la vera fortuna: un bagnetto essenziale ma fornito anche di un piccolo bidet. Per visionarlo s’incastrarono nella porta e, tirandosi subito indietro, si scambiarono un sorriso imbarazzato. Galanti fece un nuovo passo avanti e, entrato nel bagno, chiuse un finestrino posto in alto per l’areazione. Sbatté le mani per ripulirsi della polvere, e spiegò: «Insomma, non è grandissimo ma è funzionale e se riesce a rimetterlo a posto, può venir fuori un bel negozietto.» «Io un mio progetto ce l’ho già» affermò lei, con espressione sognante. «Voglio prendere per bene le misure e, se ci sta l’arredamento che ho in mente, devo solo rifare i conti per essere sicura di poter pagare l’affitto.» Nel ritornare verso la porta d’ingresso, videro qualcosa spuntare da dietro un grosso foglio di plastica adagiato per terra. Sembrava la punta di una scarpa da ginnastica, e Galanti fece per sollevare il telo con due dita ma con un balzo e un’imprecazione si tirò indietro. La scarpa c’era davvero, ma un lampo nero in fuga li fece trasalire. Un gatto, forse entrato dal finestrino del bagno aperto, scappò via a zig zag sollevando una nuvoletta di polvere come nei cartoni animati. «Bisognerà dare una bella ripulita» asserì Galanti, un po’ imbarazzato, per darsi un contegno e, mentre lei riprendeva fiato guardandosi attorno


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sconcertata, continuò: «Se non le dispiace, io dovrei correre a Vallese perché tra poco ho un altro appuntamento… Che vita. Sempre di corsa» sorrise, preparandosi a una fuga all’inglese. «Posso lasciarle le chiavi, che tanto ho la doppia copia. Me le renderà poi, quando mi dirà se le tornano i conti.» «Se non è di disturbo, a me andrebbe benissimo» rispose allegramente la ragazza. «Ho con me il metro, così comincio subito a prendere le misure.» «Allora faccia pure con comodo. Ci sentiamo nei prossimi giorni» sorrise e se ne andò, agitando mignolo e pollice nel segno del telefono. Rimasta sola, si sedette sopra una cassa rovesciata e per un attimo non pensò a niente. Voleva assaporare fino in fondo quel momento e le emozioni che stava vivendo. Quello poteva diventare davvero il suo negozio; il suo primo negozio. Prese il cellulare e chiamò Deborah. Aveva bisogno di condividere con qualcuno quegli istanti, e un po’ anche di farle invidia. Il loro era uno strano rapporto, pensò mentre una voce femminile metallica le comunicava che quel numero o era spento o non raggiungibile. Avevano molti lati in comune, ma non potevano definirsi proprio amiche. Nemmeno loro due si definivano tali, visto che pochi mesi prima si erano quasi strangolate, e forse sarebbe successo davvero se non le avessero separate. Anche Deborah, come lei, non era di Palazzetto. Il cognome, Cannavacciuolo, la diceva lunga; così come il suo, Dal Molin. Già questo le aveva subito accomunate: per Deborah un cognome difficile, per lei un nome complicato da gestire. I suoi genitori dicevano di averle messo il nome farfalla, ma era in giapponese e si scriveva Chou, che in italiano si leggeva Ciù. Chou Dal Molin. Le battute in finto veneto – ovviamente solo fuori dal Veneto – si sprecavano: “Ti saria minga fata mal?” o “Allora ti gà la mona infarinada” così come, anche solo alla pronuncia del suo nome, gli originalissimi “Salute!”. Entrambe erano rimaste orfane di padre, da piccole. Deborah era venuta da sola dal Sud. Aveva lasciato il paese a quindici anni, quando la madre si era riaccompagnata a un uomo violento. Lei invece, figlia di madre taiwanese e padre veneto, era stata affidata a degli zii paterni in uno sperduto paesino quando la mamma, vedova da poco, aveva deciso di tornare a Taiwan. A sedici anni, fuggita con degli amici, era arrivata a Vallese. Poi da sola si era trasferita a Palazzetto, dove la vita era meno cara.


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In paese le due nuove ragazze erano state guardate con curiosità e ben accolte ma, come sempre facevano con chi non era nativo, non erano state accettate del tutto. Certo che la parrucchiera faceva loro i capelli, i ragazzi le circondavano all’ora dell’aperitivo e i negozianti accettavano sorridendo i loro soldi, ma per il resto erano “forestiere” ed erano escluse dalla vita del paese. Questo le aveva unite da subito, così come la voglia di rivincita che le vedeva alleate nel progettare una vita diversa. Ripensò a quei giorni esaltanti nei quali avevano diviso una tenda nell’accampamento degli Orientali durante le “Feste Medievali” di fine luglio. Deborah dipingeva le unghie con tutte quelle nuove tecniche moderne, mentre lei aveva messo su un lettino per fare tatuaggi. Gli attrezzi glieli avevano prestati degli amici di Chioggia, e così aveva potuto mettere in evidenza la sua vena artistica e la competenza nella scrittura giapponese. Lì si era rinsaldata l’amicizia ma, ancora non sapeva spiegarselo, improvvisamente il rapporto si era incrinato. Chou ricordò come Deborah era diventata cattiva e dura. Non solo verso gli altri, ma in modo particolare nei loro rapporti. A ripensarci non sapeva spiegarsi perché avesse avuto bisogno di rubarle il ragazzo con cui si era messa da poco. Certo, Deborah era più carina e, in qualche maniera, intrigante con quei suoi modi da gattina e quella voce sexy, specie quando diceva “Ciao, sono Deborah” con la erre arrotondata come l’aveva sentita pronunciare solo a Parma. Questa, però, non poteva essere una giustificazione e quando Chou si era accorta che quella che considerava la sua unica amica le aveva portato via il ragazzo, aveva sofferto molto e avrebbe voluto ucciderla con le sue mani. E in quella rissa al bar Cortesini c’era andata davvero vicino. Ma il tempo spesso lenisce le ferite e adesso tutte e due sembravano aver messo da parte i rancori impegnandosi, ognuna per conto suo ma in qualche modo insieme, a realizzare i propri progetti. Provò a richiamarla, ma ancora il cellulare risultò spento o non raggiungibile. Le venne in mente che quel venerdì mattina c’era l’assemblea dell’associazione, e forse aveva spento il cellulare. Pazienza, si disse. L’importante era aver trovato il negozio per iniziare la sua attività di tatuatrice.


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CAPITOLO 6 – IOLANDA E AUGUSTO

Quel mercoledì sera non riuscì proprio a contenersi e, quando lo vide rientrare per cena con una ridicola sciarpa legata al collo, l’affrontò risentita. «Ma come, tutto l’inverno a fare il galletto a petto nudo e ora, che è quasi primavera, vai in giro con la sciarpa?» «Stai zitta, stai zitta. Non mi far dire niente…» rispose Augusto, ma vedendola ferma in mezzo all’ingresso, capì che non se la sarebbe cavata senza una spiegazione. «Devo aver preso un colpo d’aria, perché ho un torcicollo tremendo. Non riesco nemmeno a girarmi. Per guardare a destra mi devo torcere tutto.» «Brutto periodo» commentò ironicamente Iolanda. «Prima quella caduta in bagno dove ti sei procurato lividi dappertutto che ti hanno fatto gemere per quattro giorni. Poi la botta sul sopracciglio, dopo ancora quel cerotto sul collo» e, dirigendosi verso la cucina, concluse con tono astioso: «Ma pensa. Ora anche il colpo d’aria. Proprio un brutto periodo. Bisognerà che ti riguardi e faccia vita più tranquilla. Non sei più un ragazzo.» Era già più soddisfatta. L’aveva avvertito: non sono scema. Non è che non le vedo le cose, faccio finta di non vederle. Anche lui, rientrato in camera sua, era soddisfatto perché, nonostante tutto, era convinto di essere riuscito a cavarsela con una piccola bugia. Si erano sposati circa venti anni prima, ma dopo pochi mesi si erano resi conto che nel loro matrimonio non c’era amore. Lui, Augusto Pizzetti, cercava una donna adeguata al suo nome e alle sue aspirazioni. Una compagna onesta, una casalinga discreta e attenta alle forme sociali. Una moglie che condividesse le sue ambizioni politiche, ma rimanesse un metro dietro di lui. Lei, Iolanda Borghini, cercava un matrimonio dignitoso che le permettesse di vivere senza ansia, dedicandosi alle arti e alle attività benefiche come si conviene a una signora della media borghesia. Avevano presto compreso che amore non ce n’era mai stato e quando, dopo alcuni tentativi, figli non ne erano venuti, nemmeno avevano preso in considerazione un’eventuale adozione. Come naturale conseguenza erano


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cessati anche i “doveri coniugali” che, nella loro situazione, non risultavano neppure divertenti. In casa divisero le camere senza farne troppa pubblicità, e mantennero un rapporto educato e formale. In pubblico furono attenti a confermare quella serena unione matrimoniale che il paese si attendeva da loro e la domenica, a braccetto, salivano la lunga scala che conduceva alla chiesa, scambiando contenuti sorrisi con gli altri fedeli. Augusto, impegnato in contorti rapporti politici in tutta la regione, non si era mai posto il problema di avere amanti: oltretutto richiedevano tempo e fatica, e ostacolavano la sua ambizione. Iolanda, tutta casa e chiesa, si preoccupava di non essere scambiata per civetta o donna insoddisfatta. All’inizio qualche bel ragazzo o qualche collega del marito lo aveva anche adocchiato, ma erano sempre state cose che gratificavano solo gli occhi. Al massimo, nel tepore del letto, alimentavano qualche pensiero più audace, che subito veniva ricacciato con un leggero senso di colpa. Fino a poco tempo prima. Poi la vita aveva messo in mezzo a loro quella Deborah, piena di vita ed entusiasmo. Lui ne era stato soggiogato sino a fargli tradire tutte le regole che si era imposto per la carriera. Iolanda aveva avvertito aleggiare un pericolo, ma aveva stentato a credere che, dopo tanti anni, l’equilibrio familiare potesse rompersi. Fu mentre stava passando davanti al bar Cortesini che, dal gruppo di ragazzi seduti ai tavolini a farsi una birra, si era levata la voce di quella sfacciata che, un po’ alterata dall’alcol, ma sempre inconfondibile con la sua erre arrotondata, aveva detto: «Per me Marchino Minghetti ce l’ha più grosso del sindaco.» E nell’irreale silenzio che si era improvvisamente creato, aveva aggiunto: «Quello ha un pennellino che non serve davvero a niente.» Mentre beveva un altro sorso dalla bottiglietta, Deborah si era accorta del gelo che era sceso intorno al tavolino, e dagli sguardi allarmati degli amici aveva capito che alle sue spalle, sul marciapiede di fronte, stava passando qualcuno che conosceva il sindaco, magari proprio la moglie. Ormai però la frittata era fatta. C’era stato un breve brusìo e poi, mentre Iolanda – dando a intendere di non avere sentito – continuava a camminare di buon passo, c’era stato uno scoppio di risa. Lei non si era fermata se non dopo aver voltato l’angolo della strada della parrucchiera, dove era diretta, e si era appoggiata al muro per riprendere fiato.


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Lo sapeva benissimo qual era la dotazione di suo marito, ma non ne aveva mai fatto cenno a nessuno, figuriamoci se poteva sentirne parlare in quel modo e in pubblico. Lì per lì non l’aveva nemmeno capito, ma poco dopo si rese conto che, se quella ragazza dal cognome improbabile ne parlava in quel modo, doveva averne avuto esperienza personale, e questo la ferì. Qualcosa le si spezzò dentro. Una vita insieme per poi essere umiliata e messa da parte per una ragazzetta da niente. Non riusciva nemmeno a figurarseli quei due a saltarsi addosso, non certo per amore. Aveva cercato di darsi un contegno e, fatti pochi metri, era entrata nel negozio della Lidia, la parrucchiera. Al suo ingresso tutte le donne presenti si erano girate verso di lei e, quasi in coro, l’avevano salutata con un: «Buongiorno Signora Pizzetti» che, con sgomento, le era sembrato quasi beffardo. Tutto il paese ne era già al corrente?


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CAPITOLO 7 – ERSILIA E ADRIANA

Da sotto la campana di vetro le tre ninfe di metallo dorato, sedute con aria ieratica su uno scomodissimo scoglio, anch’esso di metallo dorato, segnalarono con lievi rintocchi che si era già alle 09:30. Quell’orologio gliel’aveva regalato Pilade ed Ersilia lo teneva esposto in salotto sul ripiano di un lucido mobile della mamma, rigorosamente sopra un centrino. Il “suo” Pilade, che non era mai stato suo. Datore di lavoro, capo, padrone del quale era stata segretaria, invisibile geisha, infermiera, tuttofare ma niente di più. Come al solito, anche se si alzava presto non era mai puntuale o, come le aveva detto una volta Pilade: «Fai sempre come Nardi.» «Cioè?» «Da presto fai tardi.» Ne avevano riso insieme. Si cincischiava a fare colazione, in bagno più che lavarsi procedeva a vere e proprie abluzioni, e alla fine si accorgeva che mezza mattinata se n’era andata. Quel venerdì si alzò prima del solito e, nei suoi limiti, cercò di essere più svelta: c’era l’assemblea. L’associazione non l’interessava più molto, ma quell’assemblea la disorientava. Era stata una chiamata alle armi da parte della Collini, che vedeva minacciata la propria autorità presidenziale e che – le era sembrato di capire – prima di tutto temeva di perdere la sovvenzione a cui teneva tantissimo. L’ala giovane delle consigliere della “Associazione Palazzetto per le Arti”, capeggiata da quella esagitata della Cannavacciuolo, aveva portato avanti un progetto concorrente impostato su molteplici eventi dedicati ai giovani e a temi più di loro interesse. Il libro sulle scoperte artistiche di Nives alla fine si sarebbe risolto in una o due presentazioni pubbliche, con qualche autorità e pochi paesani annoiati, per poi essere subito dimenticato. La proposta di quella ragazzina, invece, sembrava più innovativa e divertente, ma la Collini non voleva mollare a nessun costo tanto che,


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certamente esagerando, una volta era arrivata a dire che sarebbe stata disposta anche a uccidere, pur di non perdere quell’occasione. Anche un’altra consigliera, Adriana Porro, era molto combattuta e poco convinta del progetto di Nives, che avvertiva troppo autoreferenziale. Proprio per parlarne era venuta a trovarla la settimana prima, e le aveva instillato molti dubbi. Di certo senza dire niente di diretto ed esplicito ma, tra le righe, aveva gettato semi per quella che a Erminia, all’inizio, era sembrata una vera e propria insubordinazione. «In fin dei conti» aveva detto Adriana «questi giovani hanno pur diritto di disegnarsi il proprio futuro.» Quella frase, che aveva sentito dire alla D’Urso in televisione, le era piaciuta e andava ripetendola spesso, anche se poi le unghie decorate realizzate da Deborah non le piacevano per niente, e i tatuaggi della sua amica giapponese (o cinese?) le davano una sensazione di sporco. «Si tratta di fare la cosa migliore per Palazzetto» aveva detto «e non mi sembra che il libro di Nives sia poi così importante per il paese. Certo, interesserà qualche professore o esperto d’arte, magari a livello regionale, ma quanti vuoi che siano in tutto, venti? E dopo? Vedrai che, se l’ostensorio è così prezioso e importante come dice Nives, sarà assai difficile tenerlo qui. Secondo me se lo prendono in qualche grande museo, anche solo a Castelgrande, e qui a Palazzetto non si vedrà più.» «E se anche riuscissimo a trattenere in paese quegli oggetti» aveva soggiunto Ersilia «dove li mettiamo? Il Museo delle Genti di Montagna non è adatto sotto nessun punto di vista e, se sono così di valore, bisognerebbe anche pensare a proteggerli per evitare che li rubino. E quelli son soldi e preoccupazioni.» «Giusto» convenne Adriana, che era assicuratrice. «Chi li tira fuori i soldi per le assicurazioni? E per gli antifurti? Questo andrà detto. Alla fine diventerà solo un costo, e sai il sindaco Pizzetti come la pensa sulle spese. Soldi il Comune non ne ha, e allora chi paga: i turisti? E quanti turisti mai potranno venire a Palazzetto per vederli?» «Bisogna riflettere bene su questa decisione» annuì Ersilia, perplessa. «Se vogliamo dirla tutta, le sagre e gli eventi proposti in alternativa non rientrano nello scopo sociale dell’Associazione. Perché non se le organizzano in qualche altra maniera?» «Perché per un giovane trovare chi mette i soldi per questi eventi, senza avere alle spalle la garanzia di qualcuno di esperienza e tradizione, come noi,


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è veramente difficile» osservò Adriana. «Guarda com’è andata a finire con le “Feste Medievali”, dopo tanti anni anche la Pro Loco ha dovuto rinunciarci visto che soldi non ce ne erano più.» «È tutto complicato» concluse Ersilia, sempre più preoccupata dalla gravità della decisione da prendere. Anche adesso, che stava per recarsi alla fatidica assemblea, non era per niente serena: non riusciva ancora a farsi un’idea di quale fosse la decisione migliore. Certo che, al di là di tutti i ragionamenti, votare contro la Nives le sarebbe sembrato un tradimento, e nella sua cultura era una cosa brutta, quasi la peggiore: glielo aveva sempre detto Pilade. Arrivata all’attaccapanni prese di nuovo il cappotto che pensava di riporre con i vestiti invernali; il cielo si stava facendo plumbeo e le previsioni per il fine settimana parlavano di un ritorno di temperature vicine allo zero. Fino ad allora l’inverno non era stato molto freddo, ma sembrava voler peggiorare e non decidersi a finire.


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CAPITOLO 8 – L’ASSEMBLEA

Quel venerdì mattina, Adriana Porro arrivò alla sede dell’Associazione in anticipo, perché voleva capire quali fossero gli umori delle altre componenti del consiglio. Dato per scontato che Nives e Deborah avrebbero capeggiato gli opposti schieramenti, Ersilia Tozzetti la si poteva considerare fedele a Nives, nonostante le perplessità. La Mengozzi, la merciaia, e la Dettori del negozio di alimentari, ugualmente avrebbero votato per la Collini. Ed erano quattro voti. La Cannavacciuolo, oltre al proprio voto, avrebbe di sicuro avuto quello della figlia del commercialista Franchini, Elettra, così come quello di Claudia, la figlia di Marchi, e quello della Naldini. La cinesina, come la chiamavano in sua assenza, aveva dato le dimissioni già da un anno, e quindi le due parti erano in parità. C’era poi il suo voto che, a quel punto, poteva decidere l’approvazione di uno o l’altro progetto. In fin dei conti, della Collini a lei non interessava più di tanto e non si riteneva legata ad alcun vincolo di fedeltà. Come se Nives, poi, avesse mai fatto qualcosa per lei. Inoltre si era davvero convinta di dover sostenere gli interessi della comunità e non di un amico o di un altro e, nonostante tutto, le sembrava che quel progetto un po’ nuovo della Cannavacciuolo avrebbe potuto smuovere l’economia di Palazzetto, che stagnava già da troppo tempo e stava pian piano morendo. Forse puntare su mondi diversi e più giovani avrebbe portato dei miglioramenti. La “Sagra del tortello” faceva solo arrivare pullman pieni di anziani che s’ingozzavano a cinque euro al piatto e poi si stendevano a dormire sui prati. La Pro Loco riprendeva le spese e qualcosa metteva da parte, ma era davvero questo il turismo che serviva? Non certamente per i negozianti che, non riuscendo a trovare nessuno che gli acquistasse la licenza, invecchiavano e si trovavano a chiudere le proprie attività senza che nessuno li sostituisse.


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Quell’economia basata un po’ sui monti vicini e un po’ sui pochi terreni pianeggianti, non dava possibilità ai giovani di potersi creare un reddito per mantenere una famiglia e, ora che si affacciavano due ragazze che sembravano interessate a rimanere in paese per mettere radici, secondo lei andavano aiutate. Alla spicciolata arrivarono tutte le consigliere meno, ovviamente, le due antagoniste che forse ritardavano per fare un’entrata teatrale. Pochi minuti dopo le 10:00 arrivò Nives, tetra in volto. Salutò con un gesto generico le presenti e, senza pronunciare parola, si sedette a capotavola al posto di comando. Le altre si posero in due schieramenti intorno al tavolo, lasciando libero il posto della Dal Molin, mai sostituita, e quello all’altro capotavola dove, secondo il suo costume, si sarebbe scompostamente allungata Deborah. Passò quasi mezz’ora, riempita dal leggero brusìo delle chiacchiere delle consigliere, senza che accadesse niente poi, all’improvviso, la Collini chiuse di scatto l’agenda dove stava scrivendo qualche appunto. A quel rumore le conversazioni s’interruppero, e tutte le consigliere si girarono verso di lei. Scorto il volto corrucciato della presidente, che non prometteva niente di buono, cercarono di stemperare la tensione: «Avrà avuto un impedimento.» «Di certo non l’ha fatto apposta.» «Ma sì. Anche l’altro giorno mi diceva quanto ci teneva.» Solo Elettra azzardò una proposta: «Se non arriva, bisognerà rimandare la riunione a un altro giorno…» ma non riuscì a proseguire, perché Nives la fulminò con un’occhiataccia. Poi, guardando una a una le altre consigliere, la presidente annunciò: «Io, quello che bisognava fare l’ho fatto e ho organizzato questa riunione straordinaria. La richiesta era di mettere in discussione la delibera per la destinazione della sovvenzione, che avevamo già preso» sottolineò con tono aspro. «Chi aveva proposto di cambiare la delibera e doveva illustrare le motivazioni a sostegno dell’eventuale annullamento della precedente» proseguì «oggi non si è presentato, e quindi è chiaro che resta valida la delibera assunta a ottobre.» Fece una breve pausa, poi le guardò con durezza. «A meno che non ci sia qualcuno che voglia prendere la parola a sostegno della richiesta di annullamento.» La Franchini, con occhi imploranti, si guardò intorno per cercare di attirare l’attenzione di qualche altra consigliera che la spalleggiasse, ma al suo: «Forse io potrei…» cominciarono chi a guardarsi le unghie, chi il soffitto,


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chi a essere impegnata da un improvviso accesso di tosse, e la ragazza capì che quella mattina non ce n’era per nessuno. Se voleva ci avrebbe pensato Deborah da sola a sollevare un polverone e cercare di rimettere tutto in discussione, ma era venerdì 13 e lei abbozzò lì. La presidente, soddisfatta di quella resa incondizionata, le salutò di nuovo, riprese borsa e agenda e, camminando con fatica, se ne andò sorreggendosi sulla stampella. Doveva essere nel pieno di una delle sue crisi.


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CAPITOLO 9 – UNA RELAZIONE PARTICOLARE

Forse Augusto fu l’unico, quel sabato mattina, a rallegrarsi della fredda aria montanina che spazzava l’acqua del Rovere, e faceva ripiegare il collo sotto l’ala alle oche e alle anatre appollaiate sul bordo della pescaia . Il cielo coperto non prometteva niente di buono, anche se il pericolo di pioggia sembrava per il momento scongiurato. Con il sole, la sesta edizione della “Festa della Birra” di Palazzetto sul Rovere sarebbe stata tutta un’altra cosa, ma per lui andava bene anche così. L’importante era aver mantenuto in piedi almeno quell’evento. Con quel brusco raffreddamento della temperatura, la sciarpa che era stato costretto a legarsi al collo, pur di stoffa leggera, sarebbe apparsa meno ridicola che non con il caldo primaverile dei giorni precedenti. Peraltro i paesani ascoltavano compunti le giustificazioni dei suoi incidenti – come la storia del colpo d’aria, cui anche Iolanda aveva fatto finta di credere – ma poi si scambiavano sorrisini e, come in quell’occasione, battute tipo: «Questa volta l’avranno fatto in frigorifero.» Augusto credeva di essere stato bravo a nascondere lo tsunami che lo aveva colto incontrando Deborah ma, come spesso succede, in realtà solo la moglie non aveva capito subito come si erano messe le cose. La loro storia, per il resto del paese, era oggetto di continui aggiornamenti, cui contribuivano un po’ tutti. Che fosse stata l’innegabile sensualità di quella ragazza? Che fosse stata quella pronuncia così sexy della erre arrotata che sapeva usare come uno stiletto o, forse di più, quella sapiente esposizione del suo corpo? Quasi seguisse uno schema preciso, non indossava reggiseno sotto le maglie accollate e i seni puntavano a bucare la stoffa leggera. Con gli scolli generosi, invece, offriva ampia visione dei seni rotondi, ma sempre ben costretti in lingerie di pizzo o dai colori sgargianti, impossibili da non notare. E le gambe? Di solito scoperte, fuoriuscivano da pantaloncini fascianti da runner, da minigonne cortissime o, ancora peggio, da short ricavati da vecchi jeans tagliati e sfrangiati appena sotto la curva dei glutei.


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Per lui, una volta arrivata la nomina a sindaco, c’era stata una specie di pausa di riflessione. Come quando, dopo un’erta salita, si arriva finalmente su un altipiano e mentre si riprende fiato, ci si guarda intorno godendosi il panorama del traguardo raggiunto. Ovvio che, dopo anni di assoluta astinenza e forzato disinteresse per il raggiungimento dei suoi obiettivi politici, nel guardarsi intorno non era riuscito a non accorgersi della Cannavacciuolo che, con quegli atteggiamenti maliziosi, non permetteva a nessuno d’ignorarla. Ma una cosa è guardare, altro è trovarsela in tutina da ginnastica in ufficio quasi all’ora di pranzo mentre gli impiegati andavano in pausa. Augusto, disabituato com’era alle schermaglie amorose, poteva anche rimanere forte e superare la tentazione, ma Deborah non era lì per caso e, in seguito, lui se ne rese conto. Dopo qualche chiacchiera, la sirenetta gli aveva presentato un suo personale programma di eventi da organizzare sotto l’egida della “Associazione Palazzetto per le Arti”, manifestazioni che però richiedevano un importante finanziamento che il Comune, interessato a quel genere d’iniziative indirizzate a un pubblico più giovane del consueto, avrebbe potuto concedere con l’appoggio del sindaco. Fiere e Mostre per tatuatori, estetisti, aroma terapisti, cromo terapisti, insomma su tutto ciò che interessava soprattutto i ragazzi e riguardava la cura del corpo e dell’anima. Augusto, però, si stava chiedendo cosa ne avrebbe pensato Nives Collini, la presidente dell’Associazione. Con lei si era incontrato più volte, e in pratica le aveva già confermato che la sovvenzione, nemmeno piccola, sarebbe stata destinata al suo progetto. Non solo dando assicurazioni per la pubblicazione del volume sui ritrovamenti archeologici di San Virigildo a Montebeni, ma anche per lo svolgimento di alcuni eventi pubblicitari di presentazione dell’opera. Non fu in grado, comunque, di dedicare altri pensieri al problema perché Deborah, che sembrava stesse andando via, era tornata indietro e si era seduta accanto a lui su uno spigolo del tavolo. Imbarazzato per quella posizione d’inferiorità che, prima di poterla guardare negli occhi lo costringeva a un inventario di gambe e seni a distanza troppo ravvicinata, si alzò di scatto. Forse troppo di scatto perché oscillò in avanti e si trovò a pochi centimetri da quelle labbra un po’ infantili ma seducenti, e successe quello che non avrebbe voluto che succedesse. Davvero non avrebbe voluto, si chiese qualche giorno dopo? Da buon politico non si rispose mai.


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Come se si trovasse su un piano inclinato, da quel giorno tutto cominciò a correre senza dargli tempo di riflettere. Lei, con inaspettata determinazione, lo gestiva nel percorso amministrativo per la concessione dei fondi ma non solo, gli preparava perfino le bozze dei progetti da appoggiare e far approvare in consiglio. Lui le dava spago per continuare ad avere occasione d’incontrarla, ma non sapeva davvero come risolvere la questione con la Collini. I veri problemi nacquero quando, con quella stessa determinazione, una sera Deborah gli aveva offerto un passaggio con la sua Suzuki rossa e, in una stradina fuori paese, lo aveva davvero sedotto. Da lì era iniziata una serie d’incontri alle ore e nei luoghi più strani ma, quello che per Augusto fu davvero sconvolgente, fu la scoperta di un tipo di relazione a lui prima sconosciuta, che lo atterriva e affascinava allo stesso tempo. Deborah amava i rapporti violenti. Lo picchiava e graffiava e voleva che lui la percuotesse – sul corpo, non sul volto per carità – e le togliesse il fiato stringendole la gola. Ovviamente la titubanza delle prime volte si era trasformata in sfida, ed entrambi si resero conto che, per giungere all’orgasmo, stavano eccedendo in quello che doveva essere un gioco, ma dal quale Augusto riportava spesso segni. Come mercoledì sera, con quel furibondo litigio, l’ultimo, dal quale aveva riportato lividi e sfregi. Dopo che Iolanda lo aveva ripreso con durezza, in famiglia erano tornati ai rapporti formali di sempre, senza più accennare alla sciarpa o altro, ma Augusto sapeva di essere un sorvegliato a vista. In ogni caso, si sentiva ridicolo a girare per giorni con fasce, cerotti e medicamenti. Adesso, con quelle temperature fino a ieri quasi estive, aveva dovuto coprire i graffi perfino con una sciarpa, e fingere l’esistenza di una semi paresi che spesso si dimenticava di mimare. Quel sabato, dunque, il cielo coperto e l’aria improvvisamente novembrina, potevano se non altro rendere meno appariscente il suo abbigliamento e gli consentivano d’indossare quello che negli anni Settanta era chiamato dolce vita, in modo da occultare i segni lasciati dalle unghie di Deborah. Sorrise ripensando all’Augusto giovanissimo che, una fine d’anno di molti anni prima, aveva indossato un dolce vita misto seta sotto lo smoking, al posto della camicia dai bottoni di madreperla. A quei tempi era di moda, e l’aveva vista indossare anche da Alain Delon.


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Per sua fortuna le previsioni annunciavano per domenica la stessa situazione climatica: coperto senza pioggia e freddo pungente. Comunque stessero le cose, nel fare gli onori di casa per la sagra, questa volta sarebbe apparso persino elegante.


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CAPITOLO 10 – LA PERPETUA ERMINIA

Come Dio volle anche Erminia, la vecchia perpetua, gli rese l’anima per andare a raggiungere il parroco Don Armando. Furono le pie donne del paese, sue amiche sin da quando era ragazza, a prendersi cura di riordinare le due stanzette poste dietro al “Museo delle genti della Val di Rovere”, che il Comune gli aveva concesso gratuitamente quando aveva voluto lasciare la canonica. Così, non essendo in vita più alcun parente della veneranda Erminia, dopo essersi divise come ricordo le poche cose, fecero delle scatole da dare alla Misericordia. Dentro i soprammobili rimasti, pochi vestiti logori, le stoviglie scompagnate, fino a vuotare del tutto le stanze. Da sopra l’armadio tirarono giù anche una valigetta di fibra, contenente gli ultimi effetti personali di Don Armando. Due o tre magliette di lana a manica lunga, una camicia a quadretti, l’attrezzatura per farsi la barba con tanto di pennello e vaschetta di metallo per il sapone .C’erano poi alcuni messali e libri sacri, una Bibbia, qualche fotografia di Don Armando in seminario da giovane. Mescolati insieme, un crocifisso di ceramica, un rosario di legno a chicchi grossi e le ultime bollette dell’acqua e della luce pagate. In fondo a tutto, copie della relazione dell’intervento della guardia medica, due o tre libri d’arte, le agende degli ultimi anni del suo lavoro appassionato con appunti e osservazioni, fotografie di oggetti di antiquariato, cartine geografiche dei ritrovamenti e altri fogli sparsi pieni della sua scrittura piccolissima. Ritenuta comunque la valigia cosa sacra, perché appartenuta al parroco, fu deciso di darla a Don Tommaso. In sua assenza la lasciarono nelle mani di Floriana che, nel prenderla in consegna, s’inorgoglì per la responsabilità che le veniva affidata. Dette appena un’occhiata al contenuto, perché le sembrava brutto mettere il naso nelle cose di un morto e, la sera, portò la valigia a Don Tommaso spiegandogli nel suo stento italiano di cosa si trattava.


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Questi, impegnato come al solito a preparare l’omelia per la domenica successiva, non le dette molta attenzione e, distrattamente, le disse di metterla in camera. Ci avrebbe pensato in un secondo tempo. Floriana sapeva che quel suo Don Tòma era proprio distratto e si sarebbe dimenticato anche solo di dargli un’occhiata così, in attesa di giorni migliori, sistemò la valigetta nella scansia della sacrestia, accanto ai paramenti in disuso, e non se ne parlò più.


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CAPITOLO 11 – L’AGENTE LAZZERINI

Non smetteva mai di ringraziare mentalmente il commissario per quell’ordine di servizio che gli permetteva di poter uscire in occasioni non ufficiali in abiti borghesi. Quel tesserino temporaneo di Polizia Investigativa che gli aveva fatto ottenere – in attesa dell’esito degli esami scritti che aveva sostenuto con apparente buon esito – faceva sì che in occasione di sagre, mercati o feste come quella di quel fine settimana, lui si potesse mescolare alla folla senza mettersi troppo in evidenza. Aveva così potuto fermare uno o due furfantelli da mercato, dei borseggiatori, qualche truffatore con il gioco delle tre carte, e allontanare qualche giovanotto un po’ troppo pieno di “spirito”. Oltretutto senza divisa poteva accomodarsi al tavolino di un bar per sorseggiare una Coca Cola senza creare scandalo: un poliziotto in divisa, seduto a bere, avrebbe sollevato un sacco di chiacchiere. La giornata non era delle più favorevoli, con quel vento gelido che spazzava le vie del paese e faceva sbattere i tendoni delle bancarelle. Un freddo improvviso aveva avvolto Palazzetto negli ultimi tre giorni, facendolo ripiombare in pieno inverno. Il sole, poi, si era trincerato dietro nuvole grigiastre che non promettevano niente di buono, ma nemmeno riuscivano a scaricare la pioggia. Pur tenendosi stretto l’impermeabile, del quale aveva anche tirato su il collo, l’agente era infreddolito e si sarebbe ordinato volentieri un bel bombardino fatto da Ezio al bar Centrale, ma la domenica era quasi un obbligo andare al bar Cortesini a mangiare una fritta, la specialità che solo nei giorni di festa veniva preparata. Sfidando le intemperie, si era messo con il suo sacchetto di fritte a un tavolino esterno, da dove poteva controllare le vasche che la domenica mattina si usava fare fino all’ora di pranzo. Chiamavano vasche quell’andare su e giù per la strada principale del paese senza uno scopo preciso. Solo per passare il tempo, vedere e farsi vedere.


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Quella domenica, poi, c’era il seguito della “Festa della Birra” con l’aggiunta di gitanti, turisti, curiosi, appassionati di birra e delle compere al mercato. Di tutto un po’. Tra un gruppetto di sconosciuti vide il parroco che, tirato dal setter che aveva adottato da poco, lo salutò con quel sorriso tutto americano. Passò, imbacuccata nel cappotto, la Tozzetti che nell’andare a messa si muoveva con imbarazzo tra tutti quei forestieri. Gli abitanti del luogo, nelle occasioni delle feste, erano sì contenti dell’afflusso di gitanti, ma alla fine si sentivano un po’ derubati dei loro spazi e dei loro riti domenicali. Quella mescolanza gli confondeva le idee e, a volte, non si riconoscevano nemmeno tra paesani. Motociclisti in tuta affollavano i bar mentre le loro donne, confuse nel mercato, si stiravano le membra intorpidite dal viaggio appena compiuto appollaiate sul codolino della moto. Passò la Collini sul suo triciclo. Con uno scialle di lana grossa tutto attorcigliato addosso, il cappellaccio antipioggia a tesa larga e quella stampella/scopa attaccata alla spalliera del seggiolino, sembrava proprio una caricatura della Befana. Vide passeggiare anche il sindaco che, con un collo alto troppo elegante e fuori luogo per quel tipo di festa, gesticolava ridendo con il notaio Ceruglio. L’anno prima, dopo la chiusura della successione di Pilade Bertozzi e tutto il gran lavoro che aveva richiesto, il notaio si era trasferito di studio a Vallese. Aveva tenuto aperto quello vecchio di Palazzetto, ma ci passava solo due volte a settimana ed era strano che fosse lì in paese di domenica. Non aveva visto per il momento quell’irrequieta della Cannavacciuolo, probabilmente ancora a dormire dopo i verosimili eccessi della sera prima, ma vide invece la sua amica orientale della quale non sapeva nemmeno il nome. Quella ragazza lo colpiva per un certo non so che. Snella, con le gambe diritte, i capelli nerissimi e lucenti; incontrarla gli faceva sempre trattenere un po’ il fiato, quasi avesse paura di far svanire quella visione con un movimento falso. Fatto in ogni caso impossibile, poiché l’agente, oltre ad ammutolire, rimaneva come pietrificato, così che la ragazza aveva tutto il tempo di andarsene senza nemmeno accorgersi della sua presenza. Sul marciapiede opposto vide passare quel ragazzo rumeno che aveva sentito dire fosse un suo ex, ma nemmeno si guardarono e lui ne fu intimamente soddisfatto.


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“Soddisfatto di cosa?” si chiese perplesso. “Magari sta già con qualcun altro e, in ogni caso, non è detto che io gli piaccia”. Era specializzato in questo tipo di dialogo con se stesso. Con anni di esperienza era riuscito a non far trapelare all’esterno nemmeno una sillaba delle articolate conversazioni che spesso svolgeva dentro di sé. Altrimenti lo avrebbero preso per paranoico. Passarono alla spicciolata anche i cosiddetti notabili del paese: Marchi della Cooperativa Agricola, il commercialista Franchini, il geometra Naldini. Con un mezzo sorriso, mentre su una bicicletta dalla pedalata assistita transitava veloce e silenzioso, schivando i passanti oziosamente in strada, lo salutò anche Pelagatti, il mitico barbiere del paese. Di nuovo vide passare la cinesina e, sul marciapiede opposto, anche il ragazzo conteso con l’amica. Avevano finito la vasca e tornavano verso la piazza nello stesso momento, ma sempre ignorandosi. L’aria fredda gli stava mordendo le gambe, e decise di riprendere la “sorveglianza dinamica”, come chiamava la ronda di servizio quando era in divisa e non poteva soffermarsi più di tanto. Si diresse verso la piscina e la piccola zona industriale sulla riva sinistra del Rovere, e laggiù si fermò a guardare sull’altra sponda del fiume i ragazzi in mountain bike inseguirsi sulla pista in terra realizzata proprio per le loro evoluzioni. La bicicletta. La sua passione di quando era bambino. Da anni non ne aveva più, ma ricordò con nostalgia la Saltafoss che il babbo gli aveva comprato usata. In sostanza il suo estremo saluto, poiché dopo poche settimane morì. Quella bicicletta fu per tutta l’infanzia la cosa più preziosa e il ricordo più vivido del genitore. Gli tornò in mente la storia di com’era nata che babbo gli aveva raccontato. Giulio Ceriani, meccanico di motociclette a Busto Arsizio, modificò una bicicletta per suo figlio. Mise ammortizzatori, gomme dentate, cambio a leva tonda, parafanghi da moto, numeri da gara e per il ragazzino fu come avere una moto. Ne costruì una trentina anche per i suoi amici, e da lì si scatenò una moda che durò anni. Saltafoss e la sorella Gambalunga. L’ultimo regalo di suo padre. “Che storia, ragazzi” si disse e, sentendosi gli occhi umidi a quei ricordi, si prese in giro da solo: “Deve essere il vento freddo”.


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CAPITOLO 12 – IL COMMISSARIO MANFREDI

Erano da poco suonate le 09:00 e Massimiliano Manfredi si era appena concesso il primo caffè della giornata, quello che lui chiamava il “caffè della rianimazione”. Ancora non era in grado di uscire per fare colazione al bar, e nemmeno si sentiva in grado, così su due piedi, di scegliere tra le brioche del Cortesini o la pizza del Centrale. Il programma prevedeva, allora, un caffè caldo della sua moka. Quel lunedì mattina il senso di appagamento era doppio perché la temperatura, così com’era improvvisamente scesa, alla stessa velocità era risalita, e lui poteva sfruttare la terrazza a tasca sulla sommità del tetto e godersi quel primo sole. Non gli succedeva da tempo; l’ultima volta era stato dopo la risoluzione dei fatti di sangue che si erano verificati l’anno prima. Gli tornarono in mente, alla rinfusa, immagini e sensazioni vissute quando a Palazzetto si erano susseguiti, a breve distanza l’uno dall’altro, due cruenti omicidi. Era stato uno shock venire a scoprire che i colpevoli della morte di due donne “forestiere”, erano proprio abitanti del paese. Aveva dovuto riconoscere che tornare ai tempi lenti della vita di Palazzetto era stato meno difficile di quello che temeva all’inizio. Ben presto tutto era tornato a scorrere al ritmo del vecchio orologio del campanile, e dei suoi rintocchi un po’ stonati. I fatti luttuosi in poco tempo erano divenuti sbiaditi, quasi irreali. Come se, in quella comunità paesana così priva di passioni, non fossero mai avvenuti. Solo in apparenza, si disse Massimiliano, perché in realtà i fatti erano avvenuti eccome. Lo distrasse da quei pensieri una formica che si stava affannando sul bordo del tavolo e che, per la terza volta, tornava sui suoi passi ripercorrendo a zig zag la strada già fatta. Seguendo quelle frenetiche evoluzioni, si convinse ancor più che le formiche non erano per niente quei mostri di efficienza che ci raccontano. Questa, come le altre che aveva osservato tante volte, si aggirava come una pazza in


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su e giù, sbattendo sempre contro gli stessi ostacoli, evidentemente senza sapere dove andare, dove fosse il formicaio e cosa ci stesse facendo ormai da diversi minuti sul bordo di quel tavolo. Erano queste le cose che gli facevano escludere la creazione del mondo e lo sbandieramento di un suo ordinamento “intelligente”. Al massimo si poteva parlare di una qualche evoluzione, ma anche questo portava solo a una certa forma d’istintività animale, automatismi di comportamento non sempre funzionanti. Come stava dimostrando quella formica, che non riusciva ad allontanarsi dai soliti dieci centimetri quadrati. Ecco il problema che ogni tanto lo angustiava e gli faceva prorompere lo spontaneo: e quindi? Quindi lui ne faceva conseguire che le religioni, con le loro promesse dei vari aldilà, erano solo una costruzione intellettuale e niente avevano a che vedere con la creazione. Erano solo regole per indurre gli uomini a convivere più o meno in pace, riconoscendo però la supremazia di un potere superiore che queste regole poteva fare o disfare a suo piacimento. A volte Manfredi si chiedeva se, stando così le cose, non fosse meglio il politeismo. Se c’è vento forte prego Eolo, se si alza il mare devo avere innervosito Nettuno e gli chiedo perdono. Tutto molto semplice e naturale. Con il monoteismo, invece, gli pareva che l’ingiustizia sempre presente nel mondo fosse una contraddizione. Questo Dio creatore ci vuole tanto bene da farci sgobbare e soffrire tutta la vita per conquistare cosa? Un mondo invisibile – e quindi non verificabile – dove tutto sarà bellissimo? Per non parlare della promessa delle vergini ai mussulmani. Inoltre, perché tutta questa “grazia di Dio” non arrivava subito, ma dopo un lungo percorso in una valle di lacrime? E perché nella corsa al “dopo” non si era tutti uguali ma il destino, spesso, faceva la differenza? E che differenza! Ben diverso era il tuo percorso terreno se morivi dopo pochi mesi o dopo trent’anni, o piuttosto a novanta. A volte ai funerali gli sembrava che gli stessi cattolici non festeggiassero per niente il passaggio del congiunto alla cosiddetta “miglior vita”. Anzi, giù pianti e lamenti che davvero veniva da chiedersi come mai loro, che sembravano i più convinti del paradiso, rimpiangessero così tanto la vita terrena. Se il congiunto era morto, buon per lui, no? Che il politeismo, in grado di mettere a confronto per la supremazia il potere temporale e quello religioso, fosse stato abbandonato poteva anche trovare qualche spiegazione. Capiva anche le persecuzioni degli Imperatori, cui sfuggiva di mano il potere, sui sudditi. Ma il monoteismo chi favoriva di


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preciso? I profeti, perché destinati a essere poi tra i pochi eletti in grado di avere supremazia? Un po’ debole come spiegazione. Il cattolicesimo, la religione dell’Islam, tutte prevedevano una serie di regole poste da un unico Dio e la promessa di premi futuri in un’altra vita. E il Buddha? Osho? Be’, loro li considerava più dei filosofi e quindi non facevano parte di quel quadro. Cosa dire, poi, del protestantesimo, della Chiesa evangelica, della Chiesa ortodossa? Tutte filiazioni di una stessa autorità. Come in politica, appena possibile aprivi un tuo partitino e così avevi la tua fetta di potere? Ma quello lo potevano fare solo i “professionisti”, non certo i semplici fedeli. E i Metodisti, i Luterani, i Mormoni? Vogliamo parlarne? Insomma, se tante erano le visioni religiose, perché ciascuna voleva essere riconosciuta come l’unica vera? Aveva una gran confusione in testa e da un po’ gli si stavano sovrapponendo immagini multicolori di funzioni religiose, stregoni, sacerdoti Inca dal volto dipinto. Rivedeva quel matrimonio ortodosso cui aveva assistito in Grecia con gli ori luccicanti degli ostensori e dei candelabri. Gli anelli del Papa, dei vescovi e dei vari officianti nelle funzioni in Vaticano. Vedeva i fumi d’incenso delle novene seguite da ragazzo; sentiva lo scampanellio dell’elevazione alla messa della domenica e le sfilate danzanti degli Hare Krishna. Campane, campanelli e ancora campanelli. Ma non smetteva più quello scampanellio? Ebbe un soprassalto e, svegliandosi, capì di essersi assopito al tenue calore del primo sole di primavera. Si affrettò a rispondere al cellulare che stava squillando, ascoltò in silenzio poi, con la fronte aggrottata, disse: «Dove? Al pistone? Arrivo subito.»


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CAPITOLO 13 – IL PISTONE

Per arrivare al pistone, l’ultimo tratto bisognava farlo a piedi e la strada, sterrata e con radi ciuffi d’erba, finiva più o meno in una piazzola di cemento sulla quale erano fissate quattro panchine per gli spettatori, quando e se ce n’erano. Dietro c’erano quattro acacie dal fusto esile e la chioma spelacchiata, che sbucavano dal terreno sabbioso per fornire d’estate un’esile ombra allo spiazzo assolato. Da quella specie di radura si poteva avere una vista quasi completa di quello che veniva chiamato il pistone: un circuito molto rudimentale di terra nel quale, quando non si spargevano per i boschi intorno al paese, gli amanti della mountain bike venivano a fare le loro acrobazie. La voglia di primavera e la sospensione delle lezioni per quell’epidemia influenzale che stava mettendo a letto grandi e piccini, quel lunedì mattina aveva fatto scendere in gara un gruppetto di ragazzi con le loro bike. Dopo essersi inseguiti per un po’ sulle montagnole di terra, si erano chiesti cosa ci facesse, ancora prima del loro arrivo, quell’uomo imbacuccato sulla panchina. Doveva essere un ubriaco rimasto lì dalla sera prima, perché di chiasso ne avevano fatto parecchio ma quello non si era mosso, non un gesto, non un movimento. Era rimasto impettito, a testa china. Fu il figlio del geometra Naldini, Paolo, che avvicinatosi per vedere di chi si trattasse, s’impaurì quando dalla figura immobile sotto il cappuccio non ebbe alcuna risposta. Si erano allora radunati tutti intorno alla piazzola e, preso coraggio, avevano alzato appena il cappuccio. Quel tanto che era bastato per capire che in realtà si trattava di una ragazza, ma non una qualsiasi: era Deborah. Quella Deborah un po’ desiderata da tutti ma che adesso, senza alcun segno di vita, creava inquietudine. Come uno sciame di mosche si erano dispersi verso il paese, chi mettendosi in salvo perché uscito di nascosto e chi, come Paolo, a dare l’allarme in famiglia e poi alla polizia.


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Appena arrivato in prossimità della piazzola, l’attenzione di Manfredi fu subito catturata da quella figura che, in mezzo al via vai degli addetti ai lavori, rimaneva seduta in posizione quasi eretta sulla prima panchina, come se stesse seguendo le evoluzioni dei ciclisti. «Buongiorno commissario» gli disse Lazzerini, andandogli incontro. «È Deborah Cannavacciuolo. L’hanno trovata quei ragazzi.» Con un cenno del capo indicò Paolo e Marchino Mengozzi, che stavano a distanza accompagnati dai padri. «Non ci sono segni particolari. Sembra una morte naturale, ma la Respighi ancora non ha finito l’esame» spiegò ancora l’agente. Manfredi, poco abituato ai cadaveri, prima d’iniziare l’ispezione diede un’altra occhiata di sfuggita verso la panchina, e con sollievo vide che almeno questa volta non c’erano spargimenti di sangue. Con Lazzerini fecero un primo sopralluogo ma, tra il cemento che copriva lo spiazzo e le mille confuse impronte delle ruote di bicicletta, nella zona circostante non trovarono alcun indizio. Da giorni non pioveva e il terreno, sabbioso, non presentava impronte di scarpe. Stranamente non trovarono nemmeno tracce del malore improvviso. La ragazza era seduta composta come se fosse arrivata lì, apposta per morire nascosta sotto il cappuccio della felpa. Come gli altri uomini in paese, il commissario aveva notato Deborah. Eccome. Aveva visto quella giovinetta vivace e, di sottecchi, ne aveva apprezzato le forme a volte generosamente esposte, però si era fatto l’idea che sì, fosse un po’ eccessiva, ma in fin dei conti una brava ragazza. Aveva sentito di una zuffa con un’amica orientale, con la quale pareva si fossero litigate il fidanzato: un giovane rumeno, che lavorava nella zona industriale e che Manfredi, per questioni di permesso di soggiorno, aveva conosciuto di sfuggita. Era stato impossibile far passare quel litigio sotto silenzio; nel paese le voci corrono, figuriamoci con quella lite al bar Cortesini. Erano rotolati tavolini e si erano sprecati schiaffi e graffi Negli ultimi tempi pareva che fossero state viste di nuovo insieme o, per quanto ne sapeva lui, che riuscissero almeno a incontrarsi senza far volare insulti e seggiole e, a volte, persino a scambiarsi civilmente qualche parola. Ora una delle due era seduta lì, senza vita. La dottoressa Respighi, guardia medica di turno, era stata chiamata per la constatazione del decesso e, nonostante la sua personale ritrosia per quel genere di attività, era un’incombenza che le era già capitata anche l’anno precedente in occasione dei due decessi.


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Togliendosi i guanti di lattice, la dottoressa gli si avvicinò e, tenendosi in disparte dagli altri, come se cercasse riservatezza, sussurrò: «Mi sa che siete voi a seminare cadaveri in giro quando sono io di turno. Così, tanto per mettermi in difficoltà» poi, senza dargli il tempo di metabolizzare la battuta, aggiunse: «Questa volta non sono proprio in grado di dire niente di preciso. Che è morta è evidente, ma non riesco a indicare l’ora del decesso. Bisognerà aspettare il risultato dell’autopsia.» Li guardò entrambi per alcuni istanti, poi proseguì: «Sembra una morte naturale, un infarto. Forse un blocco respiratorio. Qui sul greto di un fiume non riesco a capire quale sia la causa e quale l’effetto. Tutto sembra nella norma salvo, forse, degli strani segni sui polsi. Sono molto leggeri e non si comprende a quando possano risalire. Anche sul collo ci sono dei segni» aggiunse con tono perplesso. «Per la collocazione non paiono casuali e sembrano quasi un tentativo di strangolamento. In ogni caso non sono profondi, e di certo non sono stati la causa della morte; si sarebbero verificati gonfiori e rottura di capillari che qui mancano del tutto.» «Lo so che lo ha appena detto, ma non può dirci più o meno quando dovrebbe essere successo secondo lei? Stanotte?» chiese Manfredi. La donna alzò le mani in segno di difesa. «Come ripeto, non sono un’anatomopatologa, ma solo una comune guardia medica. Gli indicatori sono discordanti e al momento non sono in grado di dire niente di preciso. La rigidità sembra determinare un decesso avvenuto addirittura più di qualche giorno fa, ma altri rilevatori potrebbero far ritenere che la morte sia avvenuta durante la nottata. Non me la sento di trarre alcuna conclusione e questo lo leggerete anche nella relazione.» Fece una piccola pausa poi, incrociando gli sguardi interrogativi dei due poliziotti, aggiunse: «A mio avviso è morta per un blocco cardiaco e, visto che durante la giornata di ieri pare non sia stata vista qui, devo pensare che il corpo, rimanendo tutta la notte in questo clima umido, si sia mantenuto più fresco del normale. Non è stato come stare in frigorifero, ma la bassa temperatura può aver rallentato molto le modificazioni cadaveriche. Se volete saperne di più, bisognerà che facciate fare esami specialistici in luoghi un po’ più comodi che non la piazzola del pistone.» Tacquero per un poco, pensierosi, poi la Respighi, dopo aver ricordato al commissario che far disporre l’autopsia competeva alla polizia, se ne andò. Manfredi esaminò i dintorni del piazzale e, non vedendo la vettura rossa di Deborah, si chiese come potesse essere arrivata fino al pistone. Di notte? A piedi e al buio? Da sola? A fare che cosa?


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Terminata la ricerca d’indizi, che si rivelò del tutto inutile, il commissario fece scattare foto della zona intorno alle panchine e, insieme a Lazzerini, verificò il contenuto del giubbotto, della felpa e, con un po’ di difficoltà, delle tasche dei jeans. Le solite cose: sigarette, accendino, chiavi, chewingum, portafoglio con pochi euro, carta del supermercato, bancomat, patente. C’era anche il cellulare che, però, risultava non utilizzato dal pomeriggio del giovedì. L’aveva smarrito e ritrovato solo domenica? Un po’ strano per una ragazza come lei, con tutte le sue conoscenze. Un mistero nel mistero. Sigillarono ogni reperto in appositi sacchetti di plastica. «Ha visto che strano?» disse l’agente mentre attendevano il furgone per il trasporto del cadavere all’obitorio. «Aveva dei pezzettini d’erba vicino all’orecchio destro.» Manfredi, che non li aveva notati, chiese con aria perplessa: «Sei sicuro? Dove la trovava qui l’erba, dato che ovunque c’è terra e sabbia?» «Me li ha fatti notare la Respighi, e io comunque li ho messi in una bustina. In un telefilm americano, da quei pezzettini minuscoli, riuscirebbero a dirti anche il prato di provenienza.» «Già. Qui sarà grassa se non verrà persa la bustina» borbottò Manfredi. «Speriamo che la morte descritta dalla Respighi come naturale non si trasformi in una storia più complicata» aggiunse Lazzerini, pensieroso. «Che vuoi dire, un omicidio?» «Be’, veramente stavo pensando solo a una morte più intricata di un infarto in panchina. Che so, un suicidio?» Si ritrovarono a stilare una lista di possibilità che contrastava con la definizione di morte naturale. La vittima era una giovane in buona salute, e sembrava strano che fosse morta d’infarto. Sempre che, invece, non si fosse trattato di overdose che per adesso non poteva essere diagnosticata. Era anche molto strano che, pur con approssimazione, non fosse possibile ipotizzare l’ora del decesso e, quel che era peggio, che la dottoressa fosse stata vaga persino sul giorno. Era accaduto quella notte, o nei giorni precedenti? Deborah aveva una sua auto ma nessun mezzo di locomozione era parcheggiato in zona, nemmeno una bicicletta. Davvero poteva essere arrivata a piedi, di notte, al buio? Per fare cosa? Il luogo era troppo solitario per sedersi a prendere una boccata d’aria. Nessun segno di lotta, impronte sue o di altri, di spasmi o movimenti inconsulti del corpo che l’infarto avrebbe dovuto creare. Deborah sedeva composta.


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In ultimo si erano aggiunti anche quei misteriosi pezzettini d’erba che di sicuro su quello spiazzo non erano stati portati dal vento, assente da giorni. Non sapevano darsi risposte, e in silenzio si diressero verso le auto per tornare al commissariato. Quasi al parcheggio, in cima alla sterrata, incontrarono il sindaco Pizzetti che – con scarpe da runner di un colore vivacissimo e, nonostante la temperatura mite, una sciarpa stretta al collo – si avvicinò trafelato. Giunto alla loro altezza si fermò chiedendo: «Che è successo? Un morto al pistone?» «Una morta. È la Cannavacciuolo.» Il sindaco sbiancò. «Ma allora è vero…» farfugliò «in paese qualcosa girava già. Alcuni dei ragazzi l’avevano riconosciuta.» Poi, con tono nervoso e sottovoce si rivolse al commissario: «Bisogna che di questa storia trapeli il meno possibile. Siamo sulla bocca di tutta la regione con quello che sta accadendo a Palazzetto da un po’ di tempo a questa parte.» Fece una smorfia esasperata. «Ma dico io, proprio durante il mio mandato? Che ho fatto di male per trovarmi così sulla graticola? Mi raccomando, discrezione. Meno voci girano più stiamo tranquilli. Fatemi sempre sapere tutto prima che la stampa ci si avventi alla gola.» Il commissario Manfredi sorrise un tantino in imbarazzo, poi annuì. «Va bene signor sindaco, ma al momento pare solo una morte per infarto» disse, poi, ben conoscendo i complicati appoggi politici e i lunghi maneggi svolti da Pizzetti per diventare sindaco, aggiunse: «Non le toglieranno di certo la poltrona per un infarto.» «Comunque, mi raccomando…» chiuse Pizzetti senza completare la frase e, giratosi di scatto, tornò al parcheggio senza dare nemmeno un’occhiata al pistone e alla sua ospite in panchina.


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CAPITOLO 14 – BOGDANESCU

Antonello, ingobbito sulla bicicletta, pedalava velocissimo. Dei giovani del pistone era tra i più svelti e coraggiosi, come confermavano croste e lividi che gli costellavano gomiti e ginocchia. Arrivato allo sterrato di fronte all’officina, sollevò un gran polverone con una derapata perfetta, e poi saltò giù dalla bicicletta lasciandola cadere a terra con gran fracasso. Andò di corsa sino all’angolo più buio del capannone, dove un uomo in tuta stava infilato con tutto il busto dentro il cofano di un’auto, e attese. Antonello sapeva che, per non farlo innervosire, bisognava che i tempi li stabilisse lui. Dopo qualche rumore metallico di attrezzi che urtavano il motore, l’uomo uscì dal cofano. Accese con voluttà una mezza sigaretta e socchiuse un occhio, infastidito dal fumo, poi chiese: «Che c’è?» «Devo dirti una cosa importante» iniziò Antonello e, dopo una breve pausa, aggiunse un po’ più piano: «Ma non ti piacerà.» «Allora non me la dire» replicò l’uomo, scocciato, rientrando nel cofano. «Purtroppo devo proprio dirtela…» Uscì di nuovo dalla macchina, gli si accucciò davanti e lo guardò con occhi duri. «E allora parla.» Antonello non aveva paura né di quegli occhi duri, né dei capelli quasi rasati o della barba corta ma indisciplinata che gli sporcava la faccia. Sapeva che, al contrario di quell’aspetto ruvido e selvaggio, era buono. Quindi si decise: «Dicono che hanno trovato Deborah morta.» Rimase impietrito. Si rialzò lentamente e chiese: «Chi l’ha detto?» «Ho sentito il padre di Paolo, Naldini, che parlava con il commissario. L’hanno trovata al pistone.» Calò un pesante silenzio e Antonello capì che la sua missione era terminata. Ora era meglio lasciarlo solo e, ripresa la bicicletta, zigzagando se ne tornò in paese. Dopo essere rimasto appoggiato per un po’ alla vettura immerso nei suoi pensieri, l’uomo si asciugò le mani oleose con uno straccio e, preso uno


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scooter, si avviò verso il centro del paese, ma alla piscina girò verso il lungo fiume. Da quel sentiero, sulla sponda sinistra del Rovere, si vedeva bene sull’altra riva pressoché tutto il pistone; sembrava quasi di affacciarsi sulla piazzola e le quattro acacie stente. La piccola folla di poliziotti e addetti ai lavori si era assottigliata, e più indietro si vedeva un telo blu disteso per terra a coprire qualcosa. Fu proprio allora che, mentre con dolore se la immaginava ormai immobile sotto quel telo, sopraggiunsero altre persone e si radunarono intorno allo spiazzo. Arrivò anche una lettiga e il telo nero del furgone dell’obitorio sostituì quello blu della polizia. Completarono le operazioni con rapidità, e in pochi minuti la vettura con il suo triste carico fu pronta per l’ultimo viaggio di Deborah a Castelgrande. Gli sarebbe piaciuto piangere, ma era tanto il dolore che non ci riusciva. Quando le emozioni si facevano forti, aveva imparato a irrigidirsi per proteggersi. Adesso, che si rendeva conto di quanto nonostante tutto Deborah fosse stata importante per lui, doveva ancora una volta difendersi. L’avevano trovata proprio sulle panchine dove pochi mesi prima era cominciata la loro storia. Una storia? Non sapeva nemmeno come chiamarla. Lui si vedeva con Chou, grande amica di Deborah, ma quest’ultima aveva cominciato a ronzargli intorno quasi facendo finta di niente. Lo trafiggeva ogni tanto con le sue occhiate profonde, o lo avvolgeva con quella voce roca e la pronuncia provocante. Fu approfittando di una scappata di Chou a Imola dai suoi amici tatuatori, che una sera Deborah, con due birre nel giubbotto, gli aveva proposto di andarle a bere al pistone. Non ci volle molto, una volta arrivati alle panchine illuminate dalla luna piena, perché si facesse intraprendente, gli si accucciasse sopra e cominciasse a baciarlo. A lui Deborah piaceva, eccome; ma era un po’ spaventato dalla risolutezza che metteva nelle cose che faceva. Anche quella sera aveva preso sempre di più il controllo della situazione, insinuando la sua mano nei pantaloni. Gli aveva aperto la cerniera lampo e, dopo aver portato allo scoperto l’oggetto cercato, con un dolce movimento del bacino lo aveva fatto di nuovo scomparire sotto la sua minigonna e dentro di sé. Deborah aveva esperienza, e lui non aveva mai provato niente di simile. Sensazioni nuove, come quello schiaffo che lo aveva colpito all’improvviso.


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Quando aprì gli occhi di colpo, si ritrovò il volto sorridente della ragazza a pochi centimetri. «Che è successo?» chiese a disagio, poiché sapeva di essere stato schiaffeggiato. «Niente, tesoro. Che ti sembra sia successo?» «Che mi hai dato uno schiaffo, no? Che ho fatto?» «Non lo sai? Stai facendo una cosa brutta.» «Quale cosa brutta?» «Ti stai approfittando di una ragazzina.» Lui avrebbe anche potuto riderci sopra, se non gli fosse arrivato un altro violento ceffone, accompagnato da un: «Maiale!» soffiatogli in faccia con ostilità, e senza più il sorriso dolce di prima. Sconcertato, tentò di bloccarle le braccia ma lei nel frattempo aveva preso a muoversi su di lui sempre più velocemente, e la cosa lo distraeva. Non sapeva neanche quanta forza mettere nella difesa. Non voleva farle del male, ma non voleva nemmeno subirne ancora. Deborah si liberò una mano e lo afferrò al collo, cominciando a stringere. Poi gli sussurrò nell’orecchio: «Porco, non mi dire che non ti piace.» Compieva lenti giri sul suo ventre, tenendolo imprigionato dentro di sé. «Lo sento che ti piace, mi stai riempiendo tutta, ma non è bello fare questo a una ragazzina innocente. Per queste cose brutte bisogna pagare penitenza, soffrire e pentirsi» disse con una risatina strozzata in gola. «Chiedere scusa e promettere di non farlo più.» Gli mancava il fiato mentre lei lo cavalcava con violenza. Non ce la faceva a tenerle ferme le braccia, né ad alzarsi dalla panchina, e stava cominciando ad arrabbiarsi per davvero. Con uno scatto riuscì a inarcare la schiena e farla piegare all’indietro. Mentre Deborah allentava un po’ la presa per tenersi in equilibrio, lui riuscì a darle un potente manrovescio che la fece cadere a terra. Ansimante cercò, prima di tutto, di ricomporsi richiudendo l’oggetto conteso e insoddisfatto nei pantaloni, poi guardò la giovane che, sdraiata a terra a gambe larghe, con la punta della lingua assaporava il sangue che le usciva in un piccolo rivolo dall’angolo della bocca. Gli sorrideva e, nonostante la posa impudica, lui la trovava dolce e bellissima. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

CAPITOLO 1 – GIOVEDÌ 12 MARZO ......................................................... 3 CAPITOLO 2 – THOMAS E FLORIANA ...................................................... 5 CAPITOLO 3 – NIVES COLLINI ................................................................ 9 CAPITOLO 4 – BENIAMINO INNOCENTI ................................................. 12 CAPITOLO 5 – CHOU ............................................................................ 16 CAPITOLO 6 – IOLANDA E AUGUSTO .................................................... 19 CAPITOLO 7 – ERSILIA E ADRIANA ...................................................... 22 CAPITOLO 8 – L’ASSEMBLEA ............................................................... 25 CAPITOLO 9 – UNA RELAZIONE PARTICOLARE ..................................... 28 CAPITOLO 10 – LA PERPETUA ERMINIA ............................................... 32 CAPITOLO 11 – L’AGENTE LAZZERINI ................................................. 34 CAPITOLO 12 – IL COMMISSARIO MANFREDI ....................................... 37 CAPITOLO 13 – IL PISTONE................................................................... 40 CAPITOLO 14 – BOGDANESCU ............................................................. 45 CAPITOLO15 – OLGA STANZANI .......................................................... 48 CAPITOLO 16 – SI APRE UN FASCICOLO ................................................ 51 CAPITOLO 17 – PARTICOLARI SORPRENDENTI ...................................... 56 CAPITOLO 18 – L’AUTOPSIA ................................................................ 60 CAPITOLO 19 – BENIAMINO ARRIVA IN PAESE ..................................... 62 CAPITOLO 20 – LOREM ........................................................................ 65 CAPITOLO 21 – QUATTRO CHIACCHIERE CON OLGA ........................... 69 CAPITOLO 22 – LE SCOPERTE DI MONTEBENI ...................................... 73 CAPITOLO 23 – LA NON-INCHIESTA ...................................................... 75 CAPITOLO 24 – MILLE INTERROGATIVI ................................................ 80 CAPITOLO 25 – LA DOTTORESSA SCUDIERI .......................................... 85 CAPITOLO 26 – LA TIPOGRAFIA PAOLI ................................................. 90 CAPITOLO 27 – UN INCONTRO SUL LUNGO ROVERE ........................... 94 CAPITOLO 28 – L’ALTRO RAMO D’INDAGINE ....................................... 97


CAPITOLO 29 – UN SOPRALLUOGO NECESSARIO ................................ 102 CAPITOLO 30 – AI TAVOLI DELL’HOTEL MODERNO .......................... 106 CAPITOLO 31 –INQUIETUDINI ............................................................ 110 CAPITOLO 32 – UNA STRANA ARRINGA.............................................. 113 CAPITOLO 33 – AGATHA CHRISTIE .................................................... 118 CAPITOLO 34 – TRA DUE FUOCHI ....................................................... 125 CAPITOLO 35 – I RICORDI DI ADRIANA .............................................. 129 CAPITOLO 36 – UN AGGIORNAMENTO SCOMODO ............................... 133 CAPITOLO 37 – È L’ORA DI CHIARIRSI ................................................ 140 CAPITOLO 38 – BUGIE E BOTTONI ...................................................... 142 CAPITOLO 39 – UN INCONTRO AI GIARDINI ........................................ 149 CAPITOLO 40 – UNA DOMENICA AL BAR CENTRALE .......................... 152 CAPITOLO 41 – ANCORA AL PISTONE ................................................. 155 CAPITOLO 42 – SOPRALLUOGO A CASA DI OLGA ............................... 160 CAPITOLO 43 –ALLA RICERCA DELLA PERSONALITÀ......................... 165 CAPITOLO 44 – BENIAMINO HA SODDISFAZIONE ................................ 168 CAPITOLO 45 –MANFREDI E IL TAO .................................................... 172 CAPITOLO 46 – LETTERA A POIROT ................................................... 176 CAPITOLO 47 – SI PARLA ANCHE DI PIZZO.......................................... 182 CAPITOLO 48 – ADI CAPISCE TUTTO .................................................. 190 CAPITOLO 49 – NIVES SI TOGLIE UN PESO .......................................... 193 CAPITOLO 50 – LA FONTE DELLA REGINA ......................................... 199 CAPITOLO 51 – UN PROBLEMA DI SCARPE.......................................... 204 CAPITOLO 52 – LA RESA DEI CONTI.................................................... 210 CAPITOLO 53 – I VIVI SI DANNO PACE ................................................ 219 CAPITOLO 54 – LETTERA DEL QUESTORE .......................................... 222


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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