Trappist Terzo, Michele Scalini

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In uscita il /1/20 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine gennaio H LQL]LR IHEEUDLR 2020 ( ,99 euro)

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MICHELE SCALINI

TRAPPIST TERZO UN NUOVO INIZIO

ZeroUnoUndici Edizioni


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TRAPPIST TERZO Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-363-5 Copertina: immagine Shutterstock.com


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1. TENTARE LA FUGA

Pistola puntata alla tempia. Dito pronto sul grilletto. Colpo in canna. Sguardo fisso nel vuoto. Una gelida goccia di sudore che scendeva dalla tempia. Mente sgombra, in attesa di compiere l’atroce gesto di porre fine alle mie sofferenze. Ero ben consapevole che quella soluzione non era la più idonea per affrontare la situazione che stavo vivendo, ma dopo un’attenta analisi, giunsi alla conclusione che non c’era altra via d’uscita. Come uno scorpione messo in trappola, considera la morte l’unica via di fuga, anche io mi trovavo nella stessa condizione. In quella situazione, ero io lo scorpione. Avevo già considerato ogni possibile soluzione, ma ognuna di loro aveva una bassa probabilità di successo e un’altissima probabilità di fallimento, ovvero la mia morte o la mia cattura, e non sapevo, quale delle due conclusioni, fosse la peggiore. Non era la prima volta che mi trovavo in una situazione simile, in battaglia potevano capitarti situazioni che non avevi considerato o che ti stavano sfuggendo di mano. Ma una situazione come quella non mi era mai capitata Né la mia esperienza militare né la mia conoscenza strategica potevano aiutarmi. Mi asciugai la fronte con la mano, mentre con l’altra stringevo quella dannata pistola. Stavo per accostare il dito al grilletto per sferrare il colpo decisivo.


4 «Fanculo... » dissi sospirando mentre abbassavo la pistola verso il pavimento. «Trova una soluzione invece di arrenderti… trova una soluzione… non arrenderti… trova una soluzione... dannato bastardo». Mi alzai dalla sedia, che avevo preparato per la mia esecuzione, e mi avvicinai alla finestra barricata. Attraverso una fessura, lanciai un’occhiata verso l’esterno per controllare la situazione. Quelle macchine infernali erano ancora là, così come i loro formidabili inventori. Vedevo bene che non avevano intenzione di abbandonare la posizione, anzi, davano l’impressione che ci godessero a tenermi in trappola nella mia baracca. Poche ore prima avevo provato a contattare la seconda colonia che si trovava dall’altra parte di quel dannato pianeta perso nell’immensità del cosmo. Ma purtroppo nessuno aveva risposto alla mia richiesta di soccorso e non avevo modo di sapere se quella gente fosse ancora viva o se aveva subito un attacco simile al nostro. Da esperto militare, dopo pochi minuti, pensai che probabilmente i miei nemici avessero distrutto le nostre comunicazioni. D’altronde lo avrei fatto anche io. Era la prima regola di una buona strategia militare. Prima di attaccare un nemico, assicurarsi di distruggere ogni mezzo di comunicazione, in modo da eliminare ogni possibilità di chiedere soccorso o rinforzi. Dalla tasca laterale dei pantaloni presi il pacchetto di sigarette. Ne tirai fuori una e la portai alla bocca. Una volta accesa, tirai una profonda boccata lasciando cadere leggermente all’indietro la testa, mentre poi lasciai scivolare fuori dalla bocca una densa nuvola di fumo. Tornai a sedere sulla sedia dove sarei dovuto morire. Continuai a fumare quella sigaretta, senza pensare a niente di specifico, nonostante avessi dovuto trovare una soluzione. Sapevo che c’era un modo per uscirne. Dovevo riflettere, pensare a un piano e passare all’azione. Finita la sigaretta, mi alzai dalla sedia e iniziai a camminare avanti e indietro, con le mani incrociate dietro la schiena e lo sguardo rivolto al pavimento. La stanza in cui mi trovavo era immersa nel silenzio più


5 assoluto, interrotto solamente dal rumore dei miei passi e da miei sospiri. «E pensare… che la chiamavano seconda opportunità» bisbigliai a denti stretti. «Inizia una nuova vita su Trappist Terzo... dicevano» continuai a blaterare, mentre mi muovevo per la stanza. «Un pianeta disabitato interamente da esplorare... ovunque tu andrai... sarai il primo a esserci stato… fanculo… ». «Sarà la vostra nuova casa… dannazione… sarà la nostra tomba… avrebbero dovuto dirci». Quei dannati slogan pubblicitari, che erano sparsi ovunque per le strade della mia città, mi tornarono in mente. Erano gli stessi slogan, che mi convinsero a intraprendere un viaggio di ottanta anni attraverso le profondità del cosmo, e lasciarmi indietro tutto quanto. Quegli scienziati, che per anni avevano studiato questo fottuto sistema solare, furono in grado solo di rilevare le caratteristiche fisiche dei pianeti che ruotavano intorno a quella dannata stella. Dicevano che era possibile la vita umana, dicevano che c’era solo vita vegetale e che non avremmo trovato razze aliene con cui condividere questo posto. E si sbagliavano. Si sbagliavano di brutto. Non solo avevamo trovato una razza aliena, che stava ben bene nascosta all’interno di alcune grotte scavate nella roccia, ma ne avevamo trovata una di quelle che non accettava intrusi nel proprio mondo. Una di quelle razze che non accettava l’idea di condividere la propria casa con dei parassiti, perché questo eravamo per loro. Parassiti che infestavano il loro fottuto mondo! Scagliai con rabbia la cicca di sigaretta a terra e con passo nervoso tornai alla finestra. Guardai l’esterno attraverso la solita fessura. Le creature che mi stavano aspettando, si muovevano attraverso le macerie e i relitti della nostra colonia. Osservai con attenzione i loro movimenti, sperando di trovare un punto cieco in cui passare per tentare un’ipotetica e disperata fuga. «Al diavolo... non mi arrenderò... me ne andrò di qui... in un modo o nell’altro». Deciso nell’andare fino in fondo a quella situazione, mi


6 catapultai nell’armeria della base. Presi un fucile d’assalto con le munizioni, che misi all’interno del mio zaino. Mi rifornii anche di caricatori per la mia pistola. «Magari… qualche granata... » dissi guardandomi intorno. Finito con le armi, mi diressi al magazzino dove si trovavano le provviste. Presi alcune razioni di barrette energetiche rimaste lì dal primo sbarco, ma per mia fortuna erano a lunga scadenza, visto che erano state progettate per poter sfamare i coloni fino a quando non avessero raccolto i frutti delle loro coltivazioni, e preparai una borraccia con dell’acqua. Dopo essermi assicurato di aver preso il necessario per sopravvivere là fuori, decisi di tentare la fuga. In un modo o nell’altro, dovevo sopravvivere. Preparato il necessario per affrontare il nemico, mi diressi nuovamente con passo deciso verso la finestra. Osservai l’ambiente che mi si presentava davanti. Una dozzina di macchine da un lato e altrettante sull’altro. Studiai i loro movimenti con estrema attenzione, quando notai che non si incontravano mai. I due gruppi di macchine si muovevano nelle loro zone senza mai lasciarle. Pensai che con una buona dose di fortuna, che stava scarseggiando nelle ultime ore, e con l’aiuto del buio, la mia impresa disperata avrebbe dato il successo sperato. Sollevai lo sguardo verso la stella che illuminava e riscaldava quel dannato mondo. Avevo poco meno di un paio d’ore prima del tramonto. Con calma, continuai a osservare quelle macchine e il percorso che avrei potuto fare una volta uscito. Muovendomi basso tra l’erba alta, infilandomi tra le macerie delle abitazioni e prestando attenzione a dove mettevo i piedi, avrei potuto evitare di essere visto. Ma dovevo essere concentrato e non dovevo avere dubbi su quello che avrei fatto, anche perché, una volta uscito dal mio nascondiglio, non sarei più potuto tornare indietro. «Manca ancora qualcosa» dissi mentre mi trovavo ancora alla finestra. Mi allontanai dal mio punto di osservazione e tornai all’armeria. Quando mi trovai sulla porta, lanciai un’occhiata allo zaino e al fucile che avevo lasciato lì alcuni minuti prima. Mi avvicinai allo scaffale


7 dove si trovava l’equipaggiamento tattico e iniziai a rovistare tra le scatole presenti. «Deve essere qui... da qualche parte... dannazione». Rovistavo con nervosismo, aprendo le varie scatole, osservandone il contenuto, scagliando a terra, dietro alle mie spalle, quelle che non mi servivano. Poco dopo, mi accorsi che dietro di me avevo formato una catasta disordinata di contenitori e scatole, ma non riuscivo a trovare ciò che stavo cercando. Non mi arresi. Sapevo che si trovava lì, da qualche parte. Il problema era che non ricordavo dove lo avessi messo. «Ti ho trovato… figlio di… !» esclamai. Dopo diversi minuti di ricerca, finalmente riuscii a trovare ciò che stavo cercando, nascosto tra altri inutili equipaggiamenti. Il focus. Il mio dannato focus. Aprii il contenitore in cui mi stava aspettando. Presi l’apparecchio e lo indossai. Il mio focus, occhiali a realtà aumentata che mi avrebbero permesso di osservare i movimenti delle macchine e tracciarne gli spostamenti. Quell’aggeggio tecnologico mi avrebbe permesso di avere una migliore visione dell’ambiente che avrei attraversato. In più, mi avrebbe dato la possibilità di osservare la traccia termica del mio nemico per avere maggior sicurezza. Avevo preparato tutto il necessario per tentare la fuga. Armi, munizioni e cibo. Tanto per alimentare anche qualche vizio, aggiunsi all’inventario anche qualche pacchetto di sigarette. In fin dei conti vennero gentilmente offerte dalla compagnia che ci spedì quassù, a morire soli e così lontani da casa. Ma non gliene facevo una colpa. Non ero arrabbiato con loro, né tanto meno lo ero con me stesso. Nessuno poteva sapere cosa avremmo affrontato una volta insediati su questo pianeta. Però avrei potuto dire che inviare cinquanta militari con cinquecento coloni mi sembrava un rapporto piuttosto basso. Ma andava bene così. Eravamo colonizzatori, mica dei conquistatori. Ma, volenti o nolenti, le cose vanno sempre come devono andare e non possiamo, di certo, farcene una colpa. Mentre proseguivo con le mie riflessioni, mi accorsi che era calato il buio. Mi alzai dalla sedia, presi zaino, fucile e mi diressi verso la porta d’uscita. Afferrai la maniglia con la mano destra. Esitai alcuni istanti,


8 poi lanciai un’occhiata dietro di me, come se volessi dire addio al mio rifugio sicuro. Tornai con lo sguardo verso la porta, strinsi con forza quella maniglia e lentamente la girai per aprire la porta. «Avanti soldato... puoi solo morire» dissi mentre mi scaraventai all’esterno e mi lanciai dietro i resti di un rover. Restai nascosto per alcuni istanti, dopo di che sollevai leggermente il capo per osservare l’ambiente circostante. Il buio non permetteva una buona visibilità, eccezion fatta per le luci che emanavano quelle creature, che erano ancora lì. Proseguivano indisturbate le loro attività di ispezione, come se ci fosse qualcosa da ispezionare all’interno del nostro cimitero. In lontananza vidi dei fuochi accesi, erano gli indigeni del posto, i miei nemici. Accesi il focus. Riuscii a vedere la traccia termica delle creature. Mi feci coraggio e abbandonai il mio punto d’osservazione, spostandomi verso i resti di una delle baracche dei coloni. Mi muovevo velocemente, prestando attenzione a dove mettevo i piedi per evitare di far troppo rumore. Sembrava tutto tranquillo, non stavo attirando la loro attenzione. Ma non dovevo perdere la concentrazione. Dovevo restare calmo. Compiere brevi movimenti e controllare i miei nemici. Dovevo prendermi il tempo che mi serviva ed essere sicuro di muovermi. Quello era l’unico modo che avevo per uscirne vivo. Con uno scatto felino mi allontanai da quella baracca dirigendomi verso un’altra, dove trovai alcuni cadaveri ustionati dal fuoco e trafitti dagli artigli di quelle belve. Osservai quei corpi per alcuni istanti. Mi ritornarono alla mente i cadaveri lasciati sui tanti campi di battaglia che avevo vissuto sulla Terra. Ma non potevo lasciarmi distrarre da quella visione e da quei ricordi. Dovevo andare avanti e lasciare la mente sgombra da quei pensieri. “La missione... ricorda la missione” pensai tra me e me. Così, lanciai un’occhiata di fronte a me, aspettai alcuni istanti e ripartii verso un altro riparo. Le creature non si erano ancora accorte di me, nonostante ormai non mi trovavo così lontano da loro. Iniziavo a sentire il rumore dei loro ingranaggi elettronici. Sentivo il rumore dei loro passi. Ma la cosa


9 importante era che loro non sentivano me. Ero in vantaggio e dovevo tenermelo stretto. Nascosto tra l’ebra alta, controllai che fossi nella direzione giusta. Il bosco, il mio spiraglio di salvezza, si trovava proprio di fronte a me. Dovevo solo uscire dalla colonia e scappare tra gli alberi che si trovavano ai suoi piedi. Niente di più semplice, a parte il fatto che sarei passato proprio tra i due gruppi di creature. E sarei passato vicino a loro, molto vicino. Mi muovevo basso tra l’erba quando intravidi un altro riparo, a pochi metri da una di quelle creature, che osservavo con il focus. Erano rivolte verso la parte opposta del mio obiettivo. Legai bene lo zaino intorno alla pancia, per evitare che oscillando facesse troppo rumore. E, quando notai che una di quelle macchine fece un passo avanti, scattai verso il riparo, correndo basso e tenendo lo sguardo su di loro. Raggiunto il riparo, tirai un sospiro di sollievo. Non mi avevano notato. Passai la mano destra sulla fronte che stava grondando di sudore. La tensione era al massimo. Da quel preciso istante non dovevo commettere errori, altrimenti tutto quello che avevo fatto fino a quel momento, non sarebbe servito a niente. Dovevo aspettare che le macchine si fossero allontanate a sufficienza da permettermi di scattare fino al successivo riparo, che si trovava proprio sul confine della colonia. Quello, sarebbe stato l’ultimo riparo che dovevo raggiungere, prima di buttarmi all’interno del bosco, dove sarei riuscito a nascondere le mie tracce e, magari, avrei avuto anche modo di riprendere fiato, prima di raggiungere le colline. Le creature si stavano movendo, sentivo i loro passi che si stavano lentamente allontanando da me. Mantenni lo sguardo fisso verso il mio obiettivo, mentre ascoltavo i rumori dell’ambiente circostante. Dovevo solamente aspettare il momento giusto. Dovevo aspettare che fossero sufficientemente lontane da me, per permettermi lo scatto finale. La tensione saliva, i battiti cardiaci aumentavano. Stava arrivando il momento che tanto aspettavo. Allungai le mani verso due appigli che mi avrebbero aiutato per darmi lo slancio giusto.


10 Ed eccolo il tanto atteso momento di scattare. Mi alzai leggermente e tirai con forza sugli appigli dove tenevo appoggiate le mani. E mi misi a correre, basso e veloce. Ancora venti metri e sarei stato nuovamente al sicuro. Correvo veloce, senza distogliere lo sguardo dal mio obiettivo. Mentre correvo mi aiutavo con le mani per non perdere l’equilibrio. Ero quasi arrivato. Mancavano appena una manciata di metri. Correvo, correvo il più veloce che potevo. Correvo veloce e basso quando arrivò l’imprevisto. Rallentai il passo e tornai lentamente in posizione eretta. Quasi non riuscivo a credere a ciò che si presentò di fronte a miei occhi. «E che cazzo!» pronunciai a denti stretti, lasciando cadere le braccia verso il basso e chinando la testa sulla sinistra. Di fronte a me, si presentarono delle ombre. Rallentai nuovamente il passo fino a fermarmi. Lasciai cadere a terra il fucile e tolsi lo zaino dalle spalle. Allargai le braccia e le sollevai fin sopra la testa, mentre le luci delle creature, che si stavano avvicinando alle mie spalle, illuminavano la scena. Erano gli abitanti di quel pianeta. Mi stavano aspettando. Erano lì, chissà da quanto tempo, nascosti nell’ombra. Quei dannati bastardi avevano previsto le mie mosse e mi avevano teso un tranello. Per quello le loro creature se ne stavano sempre nelle stesse aree senza incrociare i propri percorsi. Avevano creato quella zona che consideravo sicura, per trarmi in inganno. Per prendermi. Era una trappola e io, in preda alla disperazione, ci ero cascato in pieno. «Dannazione» pronunciai a denti stretti abbassando lo sguardo verso il basso. «Ma come ho fatto a non pensarci». In quel preciso istante ero arrabbiato con me stesso. Era la prima volta che mi capitava di sottovalutare il nemico. “Ed è la prima volta che lo


11 fai, in cui capisci che sei spacciato. Capisci che tutti i tuoi sforzi sono stati inutili e che per te, è giunta ormai la fine” pensai. Alzai lo sguardo verso gli esseri che si trovavano di fronte a me. Sentivo che le creature, invece, si erano fermate, alle mie spalle. Non si muovevano. Non mi attaccavano. Anche loro restarono immobili, a godersi lo spettacolo della mia resa. Mi osservavano, con i loro volti privi di espressione e con i loro sguardi vuoti, come volessero studiarmi. Scrollai la testa e dissi loro «Avete vinto... mi arrendo». Rassegnato alla mia sconfitta, abbassai lo sguardo verso il terreno attendendo il colpo di grazia che mi avrebbero inflitto prima o poi. Chiusi gli occhi e aspettai. Pochi istanti dopo sentii i passi di una di quegli essere che si avvicinavano a me. Aprii gli occhi e vidi i suoi stivali. Lentamente alzai il capo. Quell’essere indossava un abito bianco che arrivava poco sopra il ginocchio, con un cappuccio sul capo. Sembrava uno di quegli antichi monaci che un tempo vivevano sulla Terra. Aveva la pelle molto chiara, sembrava tendente al grigio e quegli occhi, più grandi di quelli degli umani, e scuri come la pece. La bocca era una linea sottile, senza labbra, e il naso poco sporgente. Rimase immobile davanti a me. Inchinò il capo sulla sinistra e poi sulla destra, come se stesse studiandomi. «Allora?» chiesi innervosito dal suo atteggiamento «Pensi di uccidermi oppure continui a fissarmi?». L’essere mise la mano dentro a una tasca dell’abito. Tirò fuori un cilindro metallico che teneva chiuso nel suo pugno, poggiando il pollice sull’estremità. Emise dei suoni dalla bocca che non compresi affatto. Sembravano parole, ma con sole vocali, senza consonanti. «Avanti!» gridai «Cosa aspetti?». L’essere mi colpì al collo con quel cilindro metallico. Spinse sull’estremità dove teneva il pollice e poco dopo lo estrasse dalla mia pelle. Mi aveva iniettato qualcosa.


12 Sentii che la testa mi stava girando e che gli occhi, pian piano si stavano chiudendo. Anche il mio corpo stava cedendo, a malapena riuscivo a stare sulle ginocchia. Quella dannata creatura mi aveva drogato. “Che modo ignobile di morire” pensai. Con la poca forza in corpo che mi restava, riuscii a dire «Dann… ato… figl… io… di… putt…». Non terminai mai quella frase.


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2. UNA SECONDA OPPORTUNITÀ

Dopo quasi venti anni di servizio nell’esercito, venni congedato con onore. Fu il presidente in persona a presenziare alla cerimonia di fronte a migliaia di altri soldati. Nell’ambiente ero una sorta di leggenda, un eroe. Avevo l’ammirazione di tutti e ovunque echeggiavano le storie riguardanti le mie missioni, le mie imprese, come fossi un eroe di altri tempi, degni di un poema omerico. Ovviamente, non davo molto peso a quelle storie e non mi ritenevo di certo un eroe. Avevo solo svolto il mio lavoro, permettendo alla nostra nazione di vivere in pace e libera. «Figliolo... scusaci... ma abbiamo finito le medaglie». Furono le parole pronunciate dal presidente mentre, guardandomi negli occhi, mi stringeva la mano per salutarmi. Lo ringraziai come fanno di solito i soldati in quelle situazioni limitandomi a pronunciare un «È stato un onore, signore». Seguì una cerimonia memorabile. Spari di cannone, aerei nei cieli, sfilate di militari in divisa con i loro fucili splendenti in spalla. La miglior cerimonia di congedo che un soldato abbia mai avuto nella storia dell’esercito. Ritirato il congedo dall’ufficiale addetto, mi allontanai di fretta senza dare troppo nell’occhio. Mi aspettava un ricevimento, pieno di gente dai falsi sorrisi e con cibo scadente da ogni parte. Me ne andai senza dire niente a nessuno e mi fermai nel primo bar che incontrai lungo la strada. Mi avvicinai al bancone e ordinai una birra. «Una birra ghiacciata per il comandante!» urlò il barista dopo aver preso la mia ordinazione. Tornò pochi istanti dopo e appoggiò quel boccale di birra


14 sul bancone, di fronte a me. Non sollevai lo sguardo su di lui, ma gli dissi, indicando i gradi militari sulla mia giacca, «Sono maggiore… non comandante». L’uomo scoppiò a ridere e rispose indicandomi con la mano «Beh… amico… dovresti esserlo con tutte quelle medaglie che indossi!». Presi due dollari dalla tasca della giacca e li appoggiai sul bancone. «Non sono tuo amico» e me ne andai senza neanche bere la birra. Il tizio restò a fissarmi sbalordito, mentre me ne andavo. Quando arrivai sull’arco della porta, tornò in se e mi gridò contro «Me la bevo io la tua fottuta birra ghiacciata! Dannato pazzoide!» Uscito da quel locale, mi guardai intorno, guardai la strada che si mostrava dinnanzi ai miei occhi, alle persone che si muovevano ai suoi lati. In quel momento mi resi conto che non ero più un soldato, non ero più un maggiore dell’esercito. Ormai ero un normale civile. Uno dei tanti uomini che tentavano di sopravvivere in un mondo sovraffollato e dall’aria malsana a causa dell’inquinamento atmosferico. Non avevo più missioni da combattere, ordini da seguire, compagni d’armi da salvare o proteggere. Mi aspettava una nuova vita. Alcune settimane dopo il congedo, mi ritrovai seduto nella terrazza del mio appartamento, con lo sguardo perso nell’infinito paesaggio che si presentava di fronte a me. Integrarmi nel mondo civile non era affatto facile. Non riuscivo a trovare un lavoro, non che mi servissero dei soldi, ma avevo tanto di quel tempo libero che non sapevo come impegnarlo. Inoltre, l’idea di dover vivere sempre nello stesso posto, mi stava uccidendo. Non ci ero abituato. Da militare, mi muovevo di continuo, di caserma in caserma. Vivevo sempre ambienti diversi. Ma nel mondo civile tutto quello non c’era più. Mi svegliavo ogni mattina alla stessa ora. Facevo colazione e uscivo in strada per andare a fare la spesa. Mi avventuravo per le vie della città, tra centinaia di persone che mi spingevano e mi urtavano continuamente, con le loro mascherine alla bocca e quello sguardo indifferente verso tutto e tutti. A volte andavo al parco a pochi isolati dal mio appartamento per tentare di sfuggire da tutto quel caos. Ma restavo pochi minuti, poiché anche tutta quella calma mi dava ai nervi.


15 Il mondo civile, quel mondo, non era fatto per me. Così, decisi di rivolgermi a una di quelle agenzie private che si occupavano della sicurezza. L’attesa per il posto non fu lunga, grazie al mio curriculum di guerra, venni assunto pochi giorni dopo la mia richiesta. Intrapresi, quindi, la carriera del contractor. Contractor. Detestavo quel termine. Dal mio punto di vista era solo un modo elegante per chiamare un mercenario. Perché era quello che ero diventato. Usavo armi e uccidevo persone per soldi. Non per dei valori, non per dei principi, come facevo un tempo, ma solo ed esclusivamente per soldi, per l’assurda legge della sopravvivenza di qualcuno, che aveva in mano tanti di quei soldi, da arrivare a pagare quelle agenzie per liberarsi di persone scomode. Dopo meno di un anno, abbandonai quel lavoro e tornai al punto d’inizio. Mi presi un periodo sabbatico nella speranza che mi potesse aiutare a riflettere sulla strada da intraprendere. Tornai quindi a quelle giornate che impiegavo nel vagare per le vie della città, senza meta e senza avere la più pallida idea di cosa ci facevo in quel posto. Camminavo e osservavo le persone che incontravo. Sembravano così felici e talmente indaffarati nello svolgere le proprie vite, che neanche si rendevano conto di vivere in un mondo altamente popolato con livelli di inquinamento troppo alti, che, molto lentamente, li stava uccidendo. Eppure, sembravano non curarsene. Pensavo anche che non si rendevano conto di quante guerre ci fossero intorno alle loro case, magari anche a loro insaputa. Erano quelle guerre che permettevano loro di vivere in pace e liberi. Eppure erano lì, intorno a me, con le loro mascherine davanti la bocca, che conducevano le loro miserabili vite. Fu durante una di quelle passeggiate che mi imbattei per caso in Jack, un vecchio amico dell’accademia militare. Non ci vedevamo da anni e fu lui a riconoscermi. Mi salutò per la strada e mi invitò a prendere qualcosa da bere per ricordare i vecchi tempi, come li chiamava lui. Onestamente ricordavo ben poco dell’accademia, erano passati troppi anni e troppe guerre. Comunque, accettai l’invito, non tanto per passare del tempo con lui, ma, soprattutto, per uscire dalla solita ruotine.


16 Oltretutto la sua insistenza non mi aveva lasciato alternative. Così, decisi di unirmi a lui. Restai con lui in quel locale per un’ora circa e, per tutto il tempo, parlò ininterrottamente dei tempi dell’accademia, dei suoi due matrimoni, dei figli che non riusciva mai a vedere. Parlava così tanto che non mi dava neanche il tempo o l’occasione di dire qualcosa. In diverse occasioni allungai la mano destra verso la cintura, dove un tempo tenevo la pistola, per poi arrendermi all’idea di non potergli piantare una pallottola in fronte, ma solo per il fatto che ormai non portavo più un’arma con me. Così mi limitai a fingere di ascoltare i suoi discorsi e a sorseggiare la birra che aveva ordinato. Quando ormai ero completamente intontito dai fiumi di parole che uscivano dalla sua bocca, mi chiese cosa stessi facendo in quel periodo. Gli risposi che mi ero concesso una pausa, senza dilungarmi troppo nelle giustificazioni, il mio unico pensiero era porre fine a quella tremenda tortura e tornarmene sulla mia strada. «Ehi! Perché non vieni a lavorare da me?» fu la sua proposta a farmi tornare al mondo reale. Forse nei suoi interminabili discorsi, avevo prestato poca attenzione quando parlava del suo lavoro, ma sapevo che lo aveva fatto. Senza darmi tempo di chiedere di cosa si trattasse, si mise, col suo sgradevole modo di fare, a illustrarmi il suo lavoro. Ascoltai con attenzione ciò che mi disse, tanto per capire se poteva fare a caso mio. Insieme a suo fratello, che a sua volta aveva frequentato l’accademia di polizia, avevano deciso di aprire una scuola per l’addestramento delle guardie del corpo. Diceva che la sua, era la migliore della città e che molti personaggi importanti, andavano da lui per scegliere la propria scorta, i propri protettori. La sua offerta di lavoro non mi entusiasmò affatto. Oltretutto non volevo lavorare con un tizio che parlava così tanto. Così lo liquidai dicendogli «Mi dispiace, ma l’idea di addestrare scimmioni con l’agilità di una statua di marmo non mi stuzzica per niente». Pronunciate quelle parole, presi delle banconote dalla tasca, le gettai sul tavolo e me ne andai lasciando quel tizio senza parole.


17 Alcune settimane dopo andai a cena in un bar a pochi isolati da casa mia. Andavo in quel posto di tanto in tanto, quando non avevo voglia di cucinare o di stare in casa. Preparavano una bistecca al barbecue eccezionale e avevano una buona birra. Ero solito sedermi in fondo al bancone, lontano dal chiasso, dove consumavo in pace la mia cena ascoltando le notizie del giorno alla televisione. Quella sera me ne stavo tranquillo a mangiarmi la solita bistecca, mentre seguivo il notiziario alla televisione, quando alcuni tizi piuttosto su di giri entrarono nel locale. Non prestai loro molta attenzione, andai avanti a gustare la mia cena e a sorseggiare la mia birra, quando notai che si misero sedere a pochi metri da me. Non mi disturbò la loro vicinanza, ma il gran baccano che facevano, quello lo trovai decisamente disturbante. Erano solo in quattro ma sembrava che fossero dieci volte di più. Oltretutto si riferivano alla cameriera con toni che non mi andavano a genio. Quella donna neanche rispondeva alle loro provocazioni e continuava il suo lavoro tentando di non farsi trascinare. Ma le si vedeva bene in volto che avevano oltrepassato il limite. Finito di mangiare la bistecca, appoggiai le posate sopra il piatto, incrociate l’una sopra l’altra come facevo di solito. Presi un sorso di birra dalla bottiglia e poi mi voltai verso uno di quei tizi. Incrociai lo sguardo con uno di loro e si accorse che li stavo guardando con disgusto. Appoggiai la bottiglia sul tavolo e tornai con gli occhi verso la televisione. Dopo alcuni istanti, quel tizio si alzò dal suo sgabello e si avvicinò. Prese uno sgabello e si mise a sedere vicino a me, appoggiò il gomito sul bancone e, gonfiando il petto, disse «Hai qualche problema?». «In realtà, ne ho diversi di problemi… ma ce ne sono quattro che vorrei risolvere in fretta…» dissi senza neanche voltarmi e, dopo un sorso di birra, aggiunsi con tono autoritario «Lasciate in pace quella donna». L’uomo avvicinò la testa a me, sorridendo e con tono di sfida disse «Perché? Sennò?». Alzai lo sguardo al cielo sbuffando. «Non mi dire che ti stai arrabbiando» disse con un tono di sfida e scoppiò a ridere. Non esitai. Allungai la mano sulla sua testa, la afferrai e gliela


18 scaraventai con forza sul piano del bancone. Andò a terra privo di sensi. Nel frattempo i suoi amici si erano alzati dai loro sgabelli e si stavano avvicinando. Mi voltai verso di loro e guardandoli fissi negli occhi dissi «Prendete il vostro amico e andatevene». Non sono mai stato un tipo da risse nei bar. Anzi, in realtà avevo sempre evitato quelle situazioni, soprattutto per non finire in cella, arrestato dalla polizia militare. Quando uscivo dal vecchio ruolo di soldato, preferivo tenere un profilo basso, senza dare troppo nell’occhio, e tenermi lontani dai guai. Ma il loro atteggiamento, lo sguardo turbato di quella donna o forse solo il disagio che stavo vivendo in quel periodo, mi scaraventarono, contro la mia volontà, verso quella situazione. «Ti faremo a pezzi… bastardo» minacciò uno di loro. Mi alzai dallo sgabello e mi voltai verso di loro. «Vi avevo avvisato» pronunciai a denti stretti. Uno di loro partì con un gancio destro. Mi abbassai per schivarlo e lo colpii con forza allo stomaco. Nel frattempo uno dei due compari stava per colpirmi con un calcio. Riuscii ad afferrare il suo piede e lo sollevai fino a fargli perdere l’equilibrio. Fu il terzo uomo a colpirmi con un pugno. Passai la mano sulla bocca e vidi che c’era del sangue. «Colpisci duro» gli dissi sorridendo, mentre i suoi amici erano a terra e non sembravano aver intenzione di rialzarsi. Mi avvicinai a quel tizio e lo afferrai per la giacca. Lo scaraventai con forza verso lo sgabello dietro le mie spalle. Andai da lui, lo afferrai per il collo e mi preparai a colpirlo con l’altra mano. In quell’istante spostai lo sguardo verso la televisione. Stavano dando uno di quegli spot pubblicitari che mai avevano attirato la mia attenzione. Riuscii solo a capire uno dei tanti slogan che stavano recitando “Hai bisogno di una nuova opportunità?”. Attirò appieno la mia attenzione. Il tizio che aveva il collo tra le mie mani tentò di liberarsi afferrando le mie braccia. Mi voltai verso di lui, «Smettila» gli dissi, e lo colpii in pieno volto lasciandolo scivolare a terra. Mi avvicinai al televisore e alzai il volume. Stavano dando lo spot pubblicitario del pianeta Trappist Terzo. Dicevano che cercavano potenziali coloni da inviare su quel pianeta. Era una delle tante


19 compagnie private che inviavano coloni attraverso la galassia a organizzare il tutto. Dicevano che era un’offerta per chi volesse iniziare una nuova vita. Parlavano di quel pianeta privo di vita in cui era presente un’atmosfera che poteva accogliere gli umani. Dicevano tante di quelle cose che ne fui attratto. In quell’istante pensai che sarebbe stato ciò che cercavo. Così, pagai la cameriera, lasciandole qualche soldo in più per i danni provocati al locale, e me ne andai a casa con passo deciso. Prima di uscire dal locale, quando mi trovai sull’arco della porta, mi voltai verso la donna, che era rimasta immobile, dietro il bancone, con i soldi ancora in mano. «Dimenticavo… chiama un’ambulanza» le dissi. Appena uscito dalla porta, mi voltai di nuovo verso la donna, che non mi aveva tolto lo sguardo per tutto il tempo, sorridendo le dissi «Ottima bistecca… come sempre». E me ne andai per la mia strada, con quei tizi che si stavano leccando le ferite. Trappist Terzo. Dovevo saperne di più. Arrivato a casa, mi catapultai al computer per cercare informazioni. In poco tempo trovai la pagina della compagnia che organizzava la spedizione di coloni. Era la Space Colonizer, una multinazionale che operava nel settore delle colonie spaziali e molto altro ancora. La missione principale della compagnia era studiare i vari pianeti, scoperti in giro per il cosmo, studiarne le caratteristiche e spedire lassù migliaia di coloni per “espandere la presenza umana nel cosmo”. Parlavano della missione su Trappist. Lo descrivevano come un pianeta con atmosfera adatta alla vita umana. Non c’erano forme di vita animale, ma tanta flora e diversi oceani. Il viaggio sarebbe durato circa ottanta anni, svolto in criosonno su di una astronave completamente automatizzata. Sempre più incuriosito e determinato nell’andare fino in fondo, andai a leggere che tipo di persone cercavano. Avevano bisogno soprattutto di agricoltori, costruttori, ingegneri e, in fondo alla lista, compariva la voce che stavo cercando. Competenze militari. «Allora… possiamo andare su Trappist Terzo» dissi e, senza rifletterci troppo, mi candidai. Compilai il modulo di presentazione con estrema attenzione, allegando il mio curriculum di guerra e lo spedii alla compagnia, che lo avrebbe valutato e, in caso di esito positivo, mi


20 avrebbero fissato un appuntamento per un colloquio con uno degli addetti alla selezione delle persone da dedicare a quella missione. Andai a farmi una doccia e poi andai a dormire. La mattina seguente mi svegliai di buon’ora, come facevo di solito. Andai in cucina a preparare la colazione e lanciai un’occhiata al computer, rimasto acceso dalla sera prima. La compagnia aveva risposto alla mia domanda e mi aveva fissato un appuntamento per un colloquio con l’addetto alla selezione dei coloni. Entro un paio di giorni sarei andato alla compagnia e avrei incontrato quella gente. “Ben fatto” pensai.


21

3. ABILE E “ARRUOLATO”

Quella mattina la luce del sole inondò letteralmente la mia stanza da letto e mi svegliò parecchi minuti prima del suono della sveglia. «Dannazione… le tende» borbottai appena aperti gli occhi, non riuscendo a tenerli aperti per la troppa luce. Mi strofinai gli occhi e guardai l’ora. «Troppo presto» borbottai nuovamente. Dopo qualche minuto di borbottii, decisi di alzarmi dal letto, con l’idea di iniziare a prepararmi per l’appuntamento con la compagnia. Andai a rovistare nel mio armadio, in cerca di un abito decente da indossare. Tra diverse uniformi, che non erano appropriate per l’appuntamento di quel giorno, trovai un vecchio abito scuro ed elegante, ma ormai fuori moda. Non ricordavo quando lo avevo usato l’ultima volta, ma lo presi mormorando «Andrà bene… tanto ho solo questo». Presi l’abito, una camicia bianca e una cravatta. Appoggiai il tutto sul letto e mi recai in bagno. Guardai l’immagine riflessa allo specchio. Trovai un uomo con barba lunga, capelli fuori posto, sguardo assente ancora assonnato. “Ci vuole una doccia… per iniziare” pensai. Così, andai a farmi una doccia, e poi, decisi di radermi la barba e dare una sistemata ai capelli. Dovevo rendermi presentabile. L’immagine diceva tutto di una persona. Mi presentai con quasi un’ora di anticipo agli uffici della compagnia il giorno del colloquio. Fu una donna sulla trentina, dal sorriso invitante e dai modi gentili, ad accogliermi da dietro una scrivania posta al centro


22 dell’atrio. Le spiegai chi fossi e che avevo un colloquio per la missione su Trappist. Lei distolse lo sguardo da me e iniziò a consultare l’agenda del giorno. «Ma certo… maggiore Smith… la stavamo aspettando» disse mantenendo il suo sorriso con cui mi aveva accolto e alzandosi dalla sedia. «Mi segua» pronunciò indicandomi la via da seguire. Mi accompagnò in uno dei salotti di attesa. Restò sulla porta e mi fece segno di entrare. «Si accomodi maggiore Smith. Avviso che lei è qui». Entrai nel salottino borbottando sotto voce «Signor Smith… » e andai a sedermi. Il salottino, illuminato da un’ampia vetrata posta sulla parete opposta alla porta d’ingresso, era completamente deserto. Pareti bianche e divani di color nero. Ero solo nella stanza, nonostante mi aspettassi più gente. Il monitor che si trovava su di un tavolino al centro della stanza, mostrava lo spot pubblicitario che vidi alcune sere prima alla televisione. Restai a osservarlo per tutto il tempo. Non tanto per convincermi che avessi preso la decisione giusta, ma perché più lo guardavo e più mi entusiasmava quell’idea. Pochi minuti dopo, la porta venne aperta dalla donna che mi aveva accolto poco prima. Col suo solito sorriso disse «Maggiore Smith… la stanno aspettando». Mi alzai in piedi e raggiunsi la donna che mi stava aspettando sull’arco della porta. «Signor Smith, sono un civile ormai» le dissi mentre uscivo. La donna sorrise e annuì dicendo «Certo… mi scusi». Mi indicò la strada con la mano e mi accompagnò lungo il corridoio che conduceva agli uffici di quell’area. La donna mi accompagnò lungo un corridoio. Camminava a pochi passi davanti a me, con modo elegante, poggiando un piede davanti all’altro e con passo sicuro. Di tanto in tanta si voltava verso di me, come volesse controllare che fossi ancora lì, e indicava la via con la mano. Dopo alcuni minuti, giungemmo a una porta in fondo a quel corridoio, dalla parte opposta all’ingresso. La donna bussò con delicatezza alla porta e la aprì leggermente. «Il maggior… » disse mentre si sporgeva verso l’interno, «…il signor Smith» concluse voltandosi verso di me e


23 sorridendomi come se volesse scusarsi per avermi nuovamente chiamato maggiore. Poco istanti dopo mi invitò a entrare. All’interno trovai un uomo con gli occhiali, con pochi capelli in testa e un grembiule bianco da dottore, che se ne stava seduto dietro una scrivania e mi osservava mentre entravo nel suo ufficio. Appena entrato, si alzò dalla sua poltrona e mi venne incontro. Mi strinse la mano e si presentò dicendomi «Sono il dottor Jackson». Poi si voltò verso la sedia posizionata di fronte alla sua scrivania e con gentilezza «La prego… signor Smith… si accomodi». Ringraziai quell’uomo e mi misi a sedere dove mi aveva indicato. Lui con molta calma tornò al suo posto, di fronte a me, e si voltò verso il monitor che aveva sulla sua sinistra. Rimase in silenzio per diversi minuti tenendo gli occhi puntati sul monitor. Restai in silenzio in attesa che dicesse qualcosa, limitandomi a osservare le espressioni del volto che faceva mentre leggeva qualcosa su quel monitor. «Maggior… scusi… signor Smith… stavo rileggendo il suo modulo di richiesta… una carriera militare di tutto rispetto» disse senza distogliere lo sguardo dal monitor. «Un vero eroe di guerra… direi un esempio per tutti». Spostò lo sguardo verso di me e aggiunse «La dovremmo ringraziare per aver difeso la nostra società per tutti quegli anni… è grazie a quelli come lei che…» interruppe bruscamente il suo discorso, con aria imbarazzata riprese alcuni secondi dopo «mi scusi, direi che questa cosa gliela abbiano detta fin troppe volte». Accennai a un sorriso, come volessi dire che sì, avevo sentito quella cosa tante di quelle volte che ormai neanche ne comprendevo più il senso. «Ma veniamo a noi ora… la missione su Trappist Terzo. Ho notato subito che ha lasciato incompleto il motivo che la spinge a intraprendere questo viaggio su Trappist Terzo. Potrebbe gentilmente dirmelo». Avrei voluto rispondere, in tutta onestà, a quell’uomo dicendo che non riuscivo a integrarmi con la vita civile, che non mi sentivo adatto a vivere una vita priva di ideali per cui valeva lottare. Ma, alcuni istanti


24 dopo, le parole uscirono dalla mia bocca senza quasi rendermene conto «Esplorare un nuovo mondo… avere una nuova opportunità… ritengo che quello che fate è importante per la vita umana e vorrei dare il mio contributo». L’uomo rimase in silenzio per tutto il tempo, ascoltando quel che stavo dicendo e tenendo gli occhi fissi su di me. Quando conclusi si appoggiò allo schienale della poltrona su cui stava seduto. «Secondo me c’è dell’altro… ma non voglio approfondire… la sua risposta è piuttosto soddisfacente» disse. «Le affideremo la sicurezza della colonia. Sarà tutto in mano sua. Dovrà assicurarsi che tutto proceda per il meglio e che i coloni non corrano rischi inutili. Le affideremo cinquanta uomini. Confidiamo nella sua esperienza». Pronunciate quelle parole si alzò in piedi e mi porse la mano «Lei è l’uomo che stavamo cercando. Benvenuto su Trappist Terzo… Maggiore Smith». Mi alzai in piedi e strinsi la sua mano. Ero emozionato da quella missione, riuscii solamente a dire «Signor Smith… grazie». «Uscendo passi dalla segretaria. Le darà la documentazione da studiare per la missione e il programma di addestramento… e giusto… dovrà fare delle visite mediche, ma non credo che avrà problemi» disse mentre mi accompagnava alla porta. Ringraziai quell’uomo e lasciai il suo ufficio. Mi incamminai lungo il corridoio che mi aveva condotto al suo ufficio, dirigendomi verso l’atrio d’ingresso. Il colloquio fu piuttosto breve, pensai, evidentemente la mia scheda parlava per me ancor meglio di me. Senza neanche accorgermene mi trovai di fronte alla scrivania della segretaria di quella compagnia che mi stava fissando col suo solito sorriso. «Mi hanno detto che avete della documentazione per me… andrò su Trappist Terzo» le dissi sorridendo. La donna aprì un cassetto della sua scrivania e tirò fuori una cartellina con scritto sopra “Trappist Terzo” e il logo della missione, che raffigurava un uomo con le maniche della camicia arrotolate fino sopra il gomito, con alle spalle


25 dei moduli abitativi. Tutto intono al logo era scritto “Trappist Terzo – Space Colonizer”. Con i suoi modi gentili mi porse la cartellina tenendola con le due mani. «Certo, signor Smith. Lo legga con attenzione. All’interno troverà anche le date per le visite mediche e tutto il resto». Presi la cartellina e me ne andai, dopo aver salutato la donna. Lei mi salutò dicendo «Benvenuto nella Space Colonizer… buona giornata». Uscito in strada, mi incamminai verso la fermata dell’autobus. Procedevo con passo calmo, senza andare troppo di fretta, nonostante fossi ansioso di arrivare a casa per vedere cosa riservava per me il futuro che avevo scelto. Ero talmente preso dai miei pensieri che neanche mi accorgevo della gente che camminava intorno a me. Giunto alla fermata dell’autobus, andai a sedermi su di una panca di fianco a una signora anziana. Appoggiai la cartellina sulle gambe, ma non la aprii, ne osservavo solo l’esterno. Alzai lo sguardo e iniziai a osservare il mondo che si muoveva di fronte ai miei occhi e che stavo per lasciare. Un fiume incontrollato di persone andavano per la strada, in ogni direzione, incrociandosi tra loro e mescolandosi formando un’infinita danza di colori. Ognuno di loro andava per la sua strada, tutti si incontravano in quel punto davanti ai miei occhi, senza avere una minima percezione del mondo che scorreva intorno a loro. Alzai lo sguardo in cielo. Quel cielo giallognolo a causa dell’insostenibile inquinamento, che difficilmente permetteva di vedere l’azzurro di un tempo o le nuvole che stavano sopra le nostre teste. Vedendo quello spettacolo di fronte a me, pensai ai venti miliardi di umani che vivevano sul pianeta Terra, che procedevano nel cammino della loro vita, spintonandosi l’uno l’altro e aggrappandosi a ogni appiglio di sopravvivenza. Pensai a quanto fosse divenuto difficile per il pianeta sopportarci tutti e mi resi conto dell’importanza delle colonie umane disperse nel cosmo. Quelle colonie erano l’unica speranza dell’umanità di continuare a esistere.


26 Tra tutta quella gente notai una donna che spingeva una carrozzina. Era una di quelle moderne, dove il bambino restava sigillato all’interno, protetto, da una piccola cupola di vetro, dall’aria malsana che lo circondava. Mi soffermai sullo sguardo felice della donna. Guardandola pensai ai dati della popolazione umana. Eravamo troppi, non servivano nuovi bambini. Dal mio punto di vista, mettere al mondo un bambino era un atto egoistico nei suoi confronti. Il mondo era malato. C’erano guerre ovunque causate dalla povertà e dalla fame. Certo, noi soldati tenevamo lontane quelle guerre dalle grandi metropoli, ma erano sempre là. Nei sobborghi, nelle periferie, la povertà e la criminalità regnavano sovrane. Neanche i poliziotti ci andavano se non erano in gruppo e ben armati. Chi non aveva un titolo di studio e che non poteva permettersi un lavoro “decente”, era destinato a lavorare in quelle immense fabbriche, come robot sotto pagati e con orari inumani. I miei pensieri furono interrotti dall’arrivo dell’autobus, mi alzai dalla panca, mi voltai verso quella signora che sedeva vicino a me, sorridendo le dissi «Ho preso la decisione giusta». Lei mi fissò per alcuni istanti. Lessi sul suo volto l’espressione di chi con capiva ciò che stava accadendo. La salutai con la mano e mi diressi all’autobus senza voltarmi. Entrato finalmente in casa, lasciai la cartellina della compagnia Space Colonizer sul tavolo in salotto. Andai in cucina a prendere una birra e tornai a sedermi sulla poltrona. Accesi una sigaretta e presi un sorso di birra. Aprii la cartellina con delicatezza. Sulla prima pagina veniva descritto il programma dei lavori. Facendo parte della squadra della sicurezza della colonia, il programma prevedeva diverse visite mediche e alcune sedute con lo psicologo della compagnia stessa. Per me era una normale routine quando facevo parte dell’esercito, quindi non mi preoccupava. Questa serie di visite mediche si sarebbero svolte nell’arco di quattro settimane, durante le quali avrei anche conosciuto il resto della squadra.


27 In seguito ci sarebbero state delle simulazioni nelle capsule del criosonno. La guida spiegava chiaramente che queste fasi servivano solo per far conoscere ai coloni i traumi che avrebbero affrontato al risveglio, che sarebbe avvenuto dopo circa ottanta anni di viaggio nel cosmo. La compagnia assicurava che quelle capsule erano sicure e che erano state collaudate per anni. Sei mesi dopo ci sarebbe stata la partenza. Io, la mia squadra e altri cinque cento coloni, saremmo partiti per andare su Trappist Terzo, un pianeta distante quaranta anni luce dalla Terra, dove avremmo iniziato una nuova vita. Una volta raggiunta l’atmosfera del pianeta, la navicella della squadra di sicurezza, sarebbe stata inviata sul pianeta per perlustrare l’area in cui doveva nascere la colonia. Quindi sarei stato uno dei primi a mettere piede su Trappist Terzo. In seguito sarebbero scesi anche gli altri coloni e avremmo dato inizio alla storia. Trascorsi le successive quattro settimane tra medici e psicologi. Come pensavo sin dall’inizio, superai tutti i test senza problemi o difficoltà di alcun tipo. Anzi, alcuni medici si meravigliarono per le mie condizioni fisiche e delle mie tante cicatrici disparse ovunque sul mio corpo, segni indelebili delle tante battaglie combattute per tutto il sistema solare. Finite le visite mediche, incontrai i membri della mia squadra. Conoscevo alcuni di loro. Erano ex militari e un paio di mercenari, scusa, volevo dire contractor, bisognosi di combattere nuove battaglie. C’erano anche ex poliziotti a completare la squadra. Mi chiedevo della loro utilità in un ambiente ostile come quello che avremmo incontrato, ma se davvero non c’erano forme di vita animale su quel pianeta, non pensavo che quella gente avrebbe creato problemi. Comunque, sarebbe stato giusto tenerli d’occhio. I restanti mesi precedenti alla partenza, li passammo in un hangar situato fuori dalla città. Ci fecero fare delle prove di criosonno. Ci facevano dormire per diverse ore per poi risvegliarci. Trovai utile fare quelle simulazioni. Il risveglio dal criosonno, anche se fatto per poche ore o per pochi giorni, provoca senso di nausea, confusione mentale e incapacità di parlare, quelli erano i primi sintomi evidenti, ma che scomparivano nell’arco di poche ore.


28 Il periodo più lungo passato all’interno di una capsula fu di circa sei settimane. Quando mi risvegliarono feci fatica a capire cosa stesse accadendo intorno a me e dove mi trovassi. Ero disorientato, non riuscivo a muovere i muscoli della bocca. Riuscivo a malapena ad alzarmi dal lettino della capsula. Fu in quel momento che compresi il motivo di tutto quello. I medici della compagnia, volevano farci capire quale sarebbe stata la prima difficoltà che avremmo incontrato. Svegliarsi dopo ottanta anni di sonno indotto. Trascorsero in fretta quei sei mesi che neanche me ne accorsi. Così, arrivammo al giorno della partenza. Nel frattempo avevo venduto il mio vecchio appartamento a una famiglia di operai. Gliela diedi a metà del prezzo di mercato. Ma poco importava. Dove stavo andando non servivano soldi. E la cifra ottenuta servì a malapena per pagare quel biglietto di sola andata verso il futuro. Il giorno della partenza mi recai all’hangar dove la navetta mi stava aspettando. L’astronave si trovava in orbita, intorno alla Terra, l’avremmo raggiunta con la stessa navetta che avremmo utilizzato poi per sbarcare sulla nostra nuova casa. Gli ingegneri della compagnia mi accompagnarono alla mia capsula per il criosonno. Prima di entrare per sdraiarmi sul lettino, la fissai per alcuni istanti, «Chiuso lì dentro per ottanta anni…» dissi. Lasciai il mio bagaglio all’addetto della stiva. Tolsi gli stivali e mi sistemai con calma dentro la capsula. Un ingegnere stava controllando l’apparecchiatura del controllo vitale della capsula. Lo osservavo mentre controllava i vari parametri e impostava le modalità di funzionamento. «Si risveglierà tra circa ottanta anni» disse sorridente. «Abbiamo previsto il risveglio almeno due mesi prima dell’arrivo su Trappist. Farete i turisti spaziali per un po’». La compagnia aveva previsto una “crociera” spaziale a bordo dell’astronave di lusso su cui avremmo viaggiato, come omaggio per i coloni. Risvegliati un paio di mesi prima dell’arrivo previsto, avremmo avuto la possibilità di assaporare ciò che restava della nostra civiltà,


29 Â prima di avventurarci sul nuovo pianeta. Ma, mi interessava poco di quel periodo di crociera. A me, interessava solamente arrivare su Trappist Terzo e avere un nuovo motivo per vivere e lottare. Niente di piĂš, niente di meno. ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD


INDICE 1. TENTARE LA FUGA ............................................................... 3 2. UNA SECONDA OPPORTUNITÀ ............................................. 13 3. ABILE E “ARRUOLATO” ...................................................... 21 4. VIAGGIO VERSO TRAPPIST.................................................. 30 5. PREPARATIVI ...................................................................... 39 6. SONO IL PRIMO ................................................................... 47 7. UNA NUOVA CASA .............................................................. 58 8. QUALCOSA NON VA ............................................................ 62 9. NON SIAMO MAI STATI SOLI ................................................ 70 10. RITORNO ALLA COLONIA .................................................. 78 11. PRIGIONIERO .................................................................... 87 12. TANTO DIVERSI, TANTO SIMILI ......................................... 93 13. GLI AMICI RITROVATI ..................................................... 101 14. IL MIO NEMICO ............................................................... 109 15. IL CONSIGLIO DEGLI ANZIANI ......................................... 117


16. IL GIORNO DEI GIORNI .................................................... 126 17. IN GUERRA ..................................................................... 133 18. IL NOSTRO PIANETA ........................................................ 149


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Terza edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2020) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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