Tempo lungo, Roberto Vaccari

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ROBERTO VACCARI

TEMPO LUNGO

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ TEMPO LUNGO Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-490-8 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Settembre 2021


A Tito con amicizia



Il tempo è ciò che accade quando non accade nient’altro. Richard Feynman Il tempo è il modo che la Natura ha trovato per non fare succedere tutto insieme. John Wheeler



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1. PROLOGO

Il tempo si congelò. Poi, mentre riprendeva a fluire, si udì un sottile sfrigolio. La risposta giunse una frazione di secondo dopo l’invio del segnale. I sensori confermarono la ricezione e gli apparati di decodificazione iniziarono a lavorare con un fruscio appena udibile. Una luminosità azzurrina parve avvolgere ogni cosa, per il resto la vita riprese a scorrere. Gli scienziati che assistevano all’esperimento restarono a lungo dubbiosi su quanto era appena accaduto. Qualcuno calò l’ipotesi che quello ricevuto fosse solo un segnale spurio dovuto a un disturbo di fondo. Non era possibile, pensarono gli altri: non era mai capitato che il segnale di ritorno fosse tanto chiaro. Qualcuno sospirò, indicò la frequenza di risposta e prese nota della potenza del segnale, tanto debole da potere essere a fatica separato dal rumore ambientale. Ma era reale. «Adesso cosa facciamo?» chiese un collaboratore al direttore dell’esperimento, il quale continuava a fissare i grafici di risposta, l’espressione di stupore dipinta sul volto di chi non aveva davvero creduto, fino a qualche istante prima, alle teorie da lui stesso formulate. In cuor suo non confidava abbastanza


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nella possibilità che le leggi naturali descritte dagli uomini potessero fornire risposte tanto lampanti. Era la prima volta che un segnale, forse intellegibile, giungeva in risposta a un messaggio inviato dall’uomo. Semplice il messaggio, anche la risposta doveva esserlo per forza. Per cominciare a dialogare occorreva comprendersi, e a quel punto la strada era aperta. A quanto sembrava l’entità – chiunque essa fosse – che aveva fatto proprio il messaggio, lo aveva elaborato per

rispedirlo

al

mittente.

Stupefacente.

Una

novità

sconvolgente per l’intera specie. L’inizio di una nuova era.

Il direttore si guardò attorno, incontrando lo sguardo ammirato dei

presenti.

A

quel

punto

un

applauso

scrosciò

spontaneamente al suo indirizzo. La prima volta, dunque, un passo cruciale nella conoscenza della natura. Era la prova che l’umanità non era sola a contemplare l’universo. Il principio antropico era stato sconfitto. Da dove provenisse e a quale distanza si trovasse la fonte di quella risposta era da scoprire. Tuttavia, il fatto che la risposta fosse seguita a una frazione di secondo – per l’esattezza meno di un millesimo di secondo – dopo l’invio del segnale non provava che la fonte fosse vicina. A dire il vero, nell’universo conosciuto non esisteva luogo più distante di quello che


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avevano appena scandagliato quel giorno. Per questo motivo era ancor più misterioso della realtà contingente, ancor più palpabile e misurabile delle pur sconfinate dimensioni del cosmo. L’energia impiegata per inviare il segnale era talmente grande che, per ripetere l’esperimento, avrebbero dovuto attendere che l’ente nazionale preposto concedesse di nuovo l’utilizzo della stessa potenza necessaria. Potevano passare mesi, forse anni. Già il decodificatore stava fornendo i primi dati grezzi. Un collaboratore avvicinò il direttore e gli pose dinnanzi un grafico a colori. «Non è un solo segnale», annunciò sbigottito. «Guardi qui, sono una decina, non ce n’è uno uguale all’altro. Provengono da direzioni e da distanze diverse. Anche i messaggi codificati sono diversi.» «Com’è possibile?» chiese il direttore, incredulo, osservando le curve sovrapposte, mentre si procedeva al filtraggio della dominante del rumore di fondo. «Ci deve essere un errore.» «Non c’è nessun errore, professore», confermò qualcun altro. «Ci hanno risposto in tanti. Laggiù c’è un’intera moltitudine che sta aspettando di mettersi in contatto con noi.» Il direttore sorrise. Poi decise la linea da seguire: richiamò l’attenzione dei presenti e ordinò di non fare parola a chicchessia di quanto avevano vissuto. Ricordò loro che erano tenuti al segreto. Quanto era successo era troppo anche per lui.


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Più tardi, chiuso nel suo ufficio, ancora trattenendo tra le mani il grafico delle risposte multiple, cominciò a realizzare che quanto aveva scoperto aveva bisogno di qualcuno che lo interpretasse. E al mondo c’era un’unica persona in grado di farlo.


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2. LA LEZIONE DEL PROFESSOR OSCAR MOLTKE

Il professore stava parlando da pochi minuti e già rischiava di perdersi nelle digressioni. Con l’immutata passione con cui anni prima, per ragioni rimaste oscure, si era dedicato all’insegnamento dopo avere abbandonato la carriera di ricercatore, stava parlando alla folla di ragazzi che gremiva l’aula. Com’era consuetudine, l’argomento che stava trattando per concludere il corso annuale di filosofia debordava in campi che i colleghi avrebbero trovati inconsueti, ma che per lui erano il pane e la filosofia il companatico. Il pubblico, quasi per intero composto di studenti del suo corso, pendeva dalle sue labbra, ignorando gli alti e bassi della sua dizione e i momenti di silenzio in cui la mente del professore pareva perdersi in profondità a loro sconosciute. L’attenzione era tale che l’aula magna somigliava a una cattedrale gotica, spoglia e rimbombante: ogni rumore estraneo vi riverberava come il rintocco di un lontano campanile immerso in un bucolico panorama. La mimica del professore ricordava quella di un direttore d’orchestra che rincorra una musica non ancora


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scritta, ma che ammalia al pari d’una melodia nota a tutto l’uditorio. Le sue mani si agitavano, il capo si levava e poi si chinava sul leggio, il suo dire rincorreva l’infinito della conoscenza provocando l’immaginazione degli ascoltatori. Era l’ultima lezione che il professor Oscar Moltke avrebbe tenuto quell’anno, dopo un percorso che aveva toccato i temi più svariati della sua personale concezione della storia naturale, partendo dall’aristotelismo, passando per Lucrezio Caro per approdare alla meccanica e alla fisica, arenandosi poi sulle più recenti scoperte di fisica quantistica. Le nozioni richieste per superare un suo esame spaziavano in più campi dello scibile. Chi si era iscritto a filosofia credendo in un facile percorso tra i numi tutelari di Aristotele e Platone si trovava a fare i conti con concetti interconnessi dal filo rosso della sapienza universale.


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3. L’INTRUSO

Nella sala si respirava un’atmosfera sacrale. Il professore riusciva a penetrare così a fondo negli argomenti collegati alla percezione del mistero naturale, da infondere alle sue tesi un interesse quasi religioso che pochi altri nella facoltà riuscivano a imitare. Tutto questo non aveva mai sollevato alcuna invidia nel corpo docente che, anzi, si sentiva quasi protetto dalla vicinanza del genio approdato sulla loro spiaggia da ben altri lidi, suscitando anche nei pigri professori di filosofia il desiderio di svecchiare concezioni vetuste e date per scontate. Mancava forse un quarto d’ora alla conclusione della lezione, quando l’attenzione dei presenti fu disturbata dall’ingresso di un estraneo che aveva spalancato la porta scorrevole con frastuono e malgarbo. L’intruso la lasciò poi sbattere, senza accompagnarla con l’attenzione dovuta. Il frastuono fu giudicato un sacrilegio. Il peggio doveva ancora venire. Il nuovo arrivato non si limitò a rompere la consegna imposta da Moltke ai ritardatari a cui vietava di presentarsi alle sue lezioni, ma iniziò a la fila dei banchi per portarsi, tra cigolii e rumori incontrollabili, proprio nella prima fila, in faccia al


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professore. Chiedendo platealmente di scusarlo, fece alzare una intera fila di studenti e si sedette, braccia conserte, a fissare Moltke da quella posizione privilegiata. Mentre il peregrino spettacolo andava in scena, la platea, distratta dal frastuono, si ravvivò tra mugugni e incitamenti a fare silenzio rivolti all’ultimo che, da par suo, non parve dar peso allo scompiglio portato. Persino

il

professore,

mentre

attaccava

l’argomentare

conclusivo della dissertazione, fu costretto a posare gli occhi sull’uomo che intanto s’era accomodato, placandosi, a due passi. Tanto era vicino al pulpito, che quasi non gli era possibile scorgere il volto dell’oratore. A quel punto la conferenza tentò di riprendere il ritmo sacrale con cui era iniziata.


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4. IL FISICO PENTITO

Il professore Moltke era universalmente considerato uno dei massimi filosofi della scienza, anche se molti dei suoi ammiratori – e persino egli stesso – avrebbero ritenuto tale definizione errata per difetto, non ammettendo che altri sul pianeta gli contendesse la primazia sull’argomento. Collocato sulla mezza età, più vicino ai settanta che ai sessanta, aveva forse già dato il meglio della sua produzione intellettuale, ma la sua forza stava nelle sue idee innovative, se non rivoluzionarie, e nella capacità indiscussa di incantare la gioventù, che si iscriveva al suo corso per il puro piacere di assistere alle sue lezioni e ritagliarsi il privilegio di confrontarsi con lui in un esame. Negli ultimi tempi la crescente partecipazione nei suoi confronti si era andata accentuando, in ragione delle voci che sostenevano che stesse meditando il ritiro non tanto per raggiunti limiti di età, ma per potersi dedicare alla sua nuova opera che, sostenevano i suoi assistenti, sarebbe diventata un compendio sulle riflessioni ricorrenti nelle sue prolusioni. L’idea base della sua fortuna verteva sui raggiunti limiti della fisica e sulle ricadute filosofiche che ne conseguivano. I limiti


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indiscussi della capacità umana di spiegare la realtà erano comprovati dalle cantonate in cui erano incorse le teorie novecentesche e dall’incapacità dei teorici di crearne di nuove che superassero le difficoltà tecnologiche sperimentali. La sua visione pessimista traeva origine dall’esperienza sul campo che non gli aveva lasciato buoni ricordi né motivi per spronare gli studenti a imboccare la strada della fisica sperimentale. Pareva anzi, suscitando talune contrarietà nell’ateneo che contava un’ottima facoltà di fisica, voler incitare gli auditori a detestare i teorici che si erano dimostrati incapaci di superare i limiti imposti dalle teorie classiche. Rispetto ad altri critici, però, Moltke aveva i numeri e i motivi per sostenere le sue tesi: nessuno poteva contestargliene l’autorità.


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5. IL TEMPO BREVE

Se Moltke non fosse sempre stato intento a guardarsi dentro, ispirato come un predicatore davanti a un pubblico esaltato dal verbo di Dio, avrebbe notato che il disturbatore intrufolatosi alla sua lezione era un volto noto. Toppo preso dalle sue considerazioni per avvedersi che l’ultimo arrivato era un suo vecchio compagno di studi, proseguì imperterrito verso la parte conclusiva, e più densa, della lezione. D’altra parte, nessun altro nella sala aveva riconosciuto l’illustre fisico Giorgio Fenny, collaboratore di Moltke nei lontani tempi in cui ambedue lavoravano in importanti istituzioni scientifiche. Per anni erano stati amici fraterni, vicini di casa e collaboratori assidui: capitava spessissimo che il loro nome comparisse abbinato sulle più prestigiose riviste scientifiche internazionali. Ma a un certo punto della loro maturità era successo qualcosa di irreparabile e misterioso che li aveva allontanati per sempre. Da quel giorno non si erano più incontrati, neppure quando capitava che fossero invitati entrambi a conferenze nel corso delle quali avrebbero dovuto prendere la parola. Dalla rottura erano trascorsi più di vent’anni e, ognuno dal proprio campo,


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avevano assistito al successo delle rispettive carriere. Come Moltke primeggiava nella filosofia, Fenny lo faceva nella fisica delle particelle. Fenny aveva proseguito nelle sue ricerche specialistiche dove aveva raggiunto livelli di eccellenza che gli consentivano

di

ottenere

i

finanziamenti

necessari

al

mantenimento dei costosissimi laboratori. Lì conduceva ricerche di frontiera che da tempo avevano perso la speranza di rendersi comprensibili ai profani. Ora che il silenzio aveva di nuovo pervaso la sala, anche Fenny si pose in ascolto del vecchio amico e collaboratore. I suoi occhi curiosi si posarono sul volto ispirato di Moltke che parlava guardando ieraticamente il suo uditorio senza vederlo, come se si trovasse nell’Areopago di Atene davanti a un pubblico di cittadini desiderosi di apprendere le ultime novità dell’Attica. Avviandosi verso le conclusioni, Moltke prese a dissertare sul tempo e sulle sue definizioni. Sulle prime a Fenny non parve di udire nelle sue parole qualcosa di particolarmente innovativo. Chi gli aveva parlato delle più recenti tesi del vecchio amico gli aveva garantito che Moltke non era cambiato. Bastò poco perché Fenny si facesse prendere, come accadeva un tempo, dal flusso inarrestabile dell’enunciazione incantatrice di Moltke.

Ben

presto

Moltke

prese

ad

nell’argomento che Fenny era venuto ad ascoltare.

avventurarsi


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«Sono stati gli esseri umani a inventare il tempo», stava sostenendo, ieraticamente, alzando le mani al cielo, quasi a celebrare una verità alternativa al senso delle sue parole, «e ne sono divenuti schiavi; computano i fatti passati e futuri alla sua luce, persino la loro vita interiore è interamente dipendente dal tempo, a dimostrazione che le creazioni del suo intelletto diventano tanto forti da svincolarsi dal creatore e assumono connotati indipendenti da chi le ha immaginate. Ma cos’è poi questo tempo? Non conosciamo una particella che ne sia la portatrice, né una forza che lo descriva. Possiamo visualizzarlo attraverso una sequela di punti successivi, uno scorrere ticchettante privo di interruzioni, e questo nonostante le leggi sulla relatività generale ce lo descrivano mutabile e capriccioso, dipendente dalla gravità e dalla velocità. Preferiamo definirlo come lo scorrere ininterrotto di un fiume di fatti. La nostra percezione del tempo pare solo il connotare di un presente continuo che si trasforma nel passato, o il tentativo di identificare un futuro che non può essere scoperto, ma che vorremmo prevedere mentre lo stiamo per attuare. In realtà, in fisica ci possiamo permettere di non ricondurre tutto al tempo: come è possibile che una grandezza fisica sfugga alla nostra comprensione? Par proprio che le leggi universali non contemplino il tempo se non per esemplificare l’effetto dei processi fisici collegati all’entropia. O forse sarebbe meglio sostenere che quei processi preferiamo esporli nella cornice


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temporale perché in tal modo ci appaiono più chiari. Potremmo definire tempo ciò che certifica l’esistere, e per la verità la sua origine è tipicamente umana. L’uomo ha imparato a misurare l’universo attraverso la lunghezza di una singola rivoluzione della Terra attorno alla stella che ci consente di vivere. Quindi, abbiamo preso il nostro tempo dalla esperienza, più che dalla teoria, ma fingiamo che esista un tempo assoluto che regoli ogni cosa. Abbiamo poi suddiviso l’anno in sottomultipli fino al secondo, fissandolo come il periodo alla base della nostra esperienza, e ce ne siamo beati per l’accuratezza delle nostre misurazioni e degli strumenti impiegati per arrivare sin lì. Fino al giorno in cui qualcuno ha scoperto che la luce in quel breve segmento, che è appena più breve dell’intervallo che passa da un battito a un altro dei nostri cuori, compie un viaggio quasi pari alla distanza che ci separa dalla Luna. Di colpo ciò che appariva logico, diventa irragionevole, presuntuoso, del tutto arbitrario. Un secondo? Un’ora? Un giorno? Non sono nulla: scansionano le nostre vite, ma non scompongono il tempo universale. Insomma, per noi il tempo è quanto percepiamo con gli strumenti che ci siamo inventati, una molla collegata a una lancetta, ma non è affatto scontato che quanto misuriamo sia veritiero. Mi spiego. Se osserviamo cosa accade in gran parte dei processi fisici, noteremo che, stante la nostra scala temporale, essi avvengono in tempi non percepibili dai nostri sensi, sintonizzati sul tempo umano. La nostra scala temporale


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è arbitraria come lo sono le nostre percezioni. La stessa velocità della luce è qualcosa di alieno alla nostra scala percettiva. I fenomeni subnucleari si svolgono in frazioni di miliardesimi di secondo e le particelle decadono in tempi ancor più brevi. Per descrivere certi fenomeni dobbiamo ricorrere a termini oscuri che descrivono intervalli tanto brevi da risultare indescrivibili. È come se la scala temporale che abbiamo scelto per confrontarci con il mondo sia sbilanciata a nostro favore, ma si diverta a metterci in difficoltà quando dobbiamo misurarci con le scale delle particelle costituenti la materia. Sembra quasi che certi fenomeni, la cui esistenza e misurabilità sono fisicamente provati, seguano un tempo diverso dal nostro, infinitamente più breve. Molto spesso fatichiamo a visualizzare mentalmente quelle scale e ci sentiamo perduti di fronte a grandezze tanto impercettibili e pur tanto importanti nei processi fisici, tanto che nessuno osa metterle in dubbio. Del resto, la genialità dell’uomo è riuscita a definire confini precisi del percepibile, che riteniamo, forse a torto, siano anche i confini dell’esistente, o quanto meno della capacità delle leggi universali di descrivere cosa avviene a scale ancora minori. Quella scala è talmente distante dalla nostra realtà che la più lontana galassia dell’universo dista da noi ordini di grandezza maggiormente figurabili. Come sapete, il più breve intervallo di tempo definibile è il tempo di Planck, che posso riassumere in un semplice assunto: l’unità naturale del tempo e, se ne


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conoscessimo la natura, potremmo definirlo quanto del tempo. È considerato il più breve intervallo di tempo misurabile: 5,391 × 10⁻ ⁴ ⁴ secondi. Il tempo di Planck è il tempo che impiega un fotone a percorrere, alla velocità della luce, la lunghezza di Planck. L’età dell’universo (4,36 × 10¹ circa 8,09 × 10

secondi) è dunque di

unità di Planck. Ci si potrebbe chiedere

come si legano queste misure con la nostra percezione del tempo. Dovremmo chiederci, invece, in che modo la nostra sensazione sia davvero attinente alla natura e alla sua esistenza reale. Anche le altre grandezze fisiche possono essere ridotte ai minimi termini: possiamo parlare appunto di uno spazio o di una lunghezza di Planck che sono rispettivamente le espressioni della lunghezza di Planck e della massa di Planck, e valgono rispettivamente 1,616199 × 10⁻ ³

metri e 5,45549 ×

10⁻ ⁸ kg. Il significato fisico della lunghezza di Planck non è ancora chiaro. Si ritiene comunemente che abbia un significato attinente

alla

gravità

quantistica,

ma

siamo

lontani

dall’avvicinarci anche minimamente a scrutare così a fondo nella struttura fine della materia: ci limitiamo a teorizzare tutto attraverso margini di errore o fraintendimenti. Cosa ci sia al di là non potremo mai saperlo. Potremo spendere miliardi, investire le nostre migliori risorse umane, ma il mondo sottostante resterà inviolato. «Contrariamente a quanto si può leggere su certe riviste divulgative non esiste ancora la prova che le distanze nelle


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strutture dello spaziotempo siano quantizzate in unità di lunghezze di Planck. In alcune teorie la lunghezza di Planck è la scala alla quale la struttura dello spaziotempo è dominata da effetti quantistici che gli conferiscono una struttura a schiuma in cui tutto cessa di esistere. Altre teorie non predicono tali sconquassi, sono più laiche, accettando che ci si possa spingere oltre quei limiti con energie talmente grandi che non siamo in grado di padroneggiare né di dispiegare. Nell’ambito della teoria delle stringhe, la lunghezza di Planck gioca un ruolo fondamentale: è definita come il diametro minimo possibile di una stringa. Il corollario più importante di questo postulato è che qualsiasi entità di lunghezza inferiore alla lunghezza di Planck non possiede significato fisico, insomma non esiste. Max Planck per primo propose di inserire la lunghezza che porta il suo nome in un sistema di unità di misura che chiamò unità naturali. Benché la meccanica quantistica e la relatività generale fossero ignote al tempo in cui Planck propose queste unità di misura, divenne in seguito chiaro che a distanze paragonabili alla lunghezza di Planck la gravità si manifesta con effetti quantistici, la cui spiegazione e comprensione richiedono una teoria sulla gravitazione che non possediamo e forse non possederemo mai. A tutt’oggi non disponiamo di una teoria soddisfacente che descriva la gravità quantistica, anche se nel corso dei vostri studi vi imbatterete in ipotesi sempre più fantasiose sulla natura della gravità come la teoria delle


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stringhe, la supersimmetria, la supergravità, le dimensioni nascoste della teoria di Kaluza-Klein e molte altre. L’associare le unità della scala di Planck a fatti sperimentali non solo darebbe valore epistemologico alle unità suddette, ma lascerebbe intravedere i limiti delle attuali teorie quando sono soggette a condizioni estreme come le dimensioni quantistiche della materia. A quelle dimensioni il tempo e lo spazio ci apparirebbero nella loro essenza, oltre la quale non ci sarebbe consentito andare. «Sembra che la natura si ribelli al nostro modo di vedere il tempo e lo spazio e che voglia impedirci di osservare il fermento che laggiù deve aggirarsi: là nasce il tempo e la materia, e noi non ce ne avvediamo. «Se crediamo che le approssimazioni di Planck siano corrette anche solo lontanamente, dobbiamo concludere che, alle scale previste dalla teoria, le leggi fisiche smettano di esistere, divengano impenetrabili e imprecise. Non attuabili, aleatorie, forse persino opposte al nostro sentire. Qualcuno suppone che a quelle scale lo spazio cessi di essere continuo e si trasformi in una schiuma dove tutto diventa aleatorio, impreciso e intraducibile dalla nostra percezione. Proviamo a immaginare a cosa sarebbe ridotto il tempo a quella dimensione, una sequela di scatti, un rintocco discontinuo. Per noi il tempo sarebbe fermo, perché vedremmo i fenomeni accadere quali sono, e non dalla nostra dimensione distorcente. Inoltre, potremmo


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intravedere, oltre quella coltre spugnosa di cui è costituito lo spazio, ciò che si nasconde ancora più in giù, intere famiglie di particelle che noi non possiamo neppure concepire, o altri universi che esistono fuori dalla nostra portata. «È lì che si nasconde Dio, o siamo noi che non riusciamo a vedere più lontano? Vorrei che vi chiedeste, allora, cosa può fare la filosofia per aiutare a superare questo stallo: di fronte a quel muro infinitesimale la nostra potenza si blocca, perde di consistenza, si elide. Come possiamo aiutare i fisici ad andare oltre?» Il professore si bloccò, e al suo silenzio fece eco il silenzio della sala. Qualche sospiro, poi un brusio generale diede l’impressione che l’uditorio riprendesse coscienza della propria esistenza.


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6. LE RADICI DEL PROFESSORE MOLTKE

La foga che Moltke poneva nel contestare alla fisica il diritto di avere l’ultima parola sugli enti supremi della realtà era un retaggio della sua competenza di teorico delle particelle. Chi lo conosceva da vicino – ed erano veramente in pochi – avrebbe potuto testimoniare che la sua originaria passione per la fisica sopravanzava nel suo intimo la forza stessa delle sue idee filosofiche. In gioventù, quando la fisica teorica e sperimentale riusciva a forgiare quasi una sensazionale scoperta al giorno, Moltke era reputato uno dei più promettenti giovani ricercatori della nazione. Per qualche stagione, le sue idee innovative sembrarono gettare una nuova luce su alcuni concetti assodati ma privi di sbocchi, aprendo nuove vie per la comprensione di fenomeni ancora inspiegabili o che faticavano a rientrare nei canoni della grande teoria del tutto che era appena stata messa a punto dalle migliori menti del Novecento. Originalità e freschezza sposate a un fascino personale ne facevano un unicum in un panorama accademico ancora dominato dai conservatori e da pavidi ripetitori di idee altrui. Poi, proprio sul più bello, al culmine degli apprezzamenti della comunità


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scientifica

per

l’originalità

negli

approcci

e

la

non

convenzionalità delle soluzioni proposte, scomparve dalla ribalta. Accadde proprio nel momento in cui le sue intuizioni sulla gravità quantistica sembravano destinarlo in breve tempo a fare assurgere il suo nome a una fama universale a cui non sarebbe stata estranea la popolarità e la ricchezza. Nessuno capì mai cosa fosse successo, e il suo ritiro fu talmente repentino da chiudere qualsiasi possibilità di ripensamenti. Si suppose che la tensione mentale a cui si sottoponeva senza sosta lo avesse costretto a ripiegare in buon ordine da un mondo competitivo e scarsamente ricettivo, per dare libero sfogo a idee di confine che maturavano con la sua personalità. O magari, scoprendo di non poterlo garantire, a metterlo nei guai era stata la necessità di mantenere a quell’altissimo livello il suo lavoro. Nel fiore degli anni, quando i teorici sembrano dare il meglio di sé, se n’era andato in punta di piedi, lasciando collaboratori e accademici esterrefatti per una scelta di vita del tutto incomprensibile. Nell’unica intervista rilasciata a una testata nazionale aveva dichiarato che non se la sentiva più di scrutare tanto lontano, quando era vicino che bisognava far quadrare i conti della sofferenza umana. Stando alle sue parole, forse falsamente interpretate dall’intervistatore, si era perso ai limiti della comprensione ultima della natura, e preferiva tornare con i piedi per terra dove coltivare la vita vera. Di casa nei laboratori


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americani e russi, aveva abbandonato gli allori del campo, dopo aver militato tra le più accreditate équipe di ricerca al CERN di Ginevra, dove aveva contribuito alla definizione di alcune particelle che non si accordavano alla teoria classica e che gettavano nuova luce sul misterioso mondo dei costituenti primi della materia. Se n’era andato in silenzio, non aveva sbattuto la porta, non aveva accusato nessuno, ma non si era neppure lasciato avvicinare dai colleghi affinché tentassero di farlo recedere dal suo proposito. Si scoprì che se ne era andato per fare altro, preparandosi l’alternativa. Lasciate le quinte dei congressi e delle istituzioni scientifiche dove si era fatto un nome, si era ritirato in una città di provincia dove, a quarant’anni suonati, si era laureato in filosofia con poco sforzo, ma con grande soddisfazione. Il piccolo ateneo che aveva frequentato si era poi sentito onorato di assumerlo nel suo corpo docente. In breve tempo, non si erano ancora spenti gli echi della sua fama nel mondo della fisica, che in pubblicazioni di ben diverso tenore fece capolino il suo nome, facendo risorgere esponenzialmente la sua fama nel campo della filosofia. Era poi accaduto, quasi per sottolineare il suo tocco magico, che, in concomitanza alla sua nuova popolarità, a distanza di cinque anni dal suo ritiro dal campo della fisica, un innovativo esperimento da lui teorizzato aveva dimostrato una sua supposta sequenza di decadimento di una particella. Tuttavia, ormai gli interessi di Moltke andavano


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a Platone e ad Aristotele, anche se era chiaro che la fisica restava sullo sfondo dei suoi pensieri, come un sipario davanti al quale non voleva più mostrarsi. Quella che aveva vissuto era stata l’epoca d’oro della fisica. Non era mai accaduto prima che i grandi scienziati assurgessero all’onore delle cronache mondane, considerati alla stregua delle star del cinema, mentre i loro libri andavano a ruba come i thriller nordici e le televisioni litigavano le loro apparizioni in prima serata. Anche la gente comune priva di preparazione specifica citava il loro nome e fingeva di capire i profondi ragionamenti e le visioni profonde che quei miti portavano in dote all’umanità attonita. Termini oscuri come stringhe o bosoni erano diventati popolari, sebbene banalizzati dai media e fraintesi dai più. Tuttavia, i curiosi che avessero voluto approfondire la materia avrebbero potuto ricorrere a libri specialistici e a studi matematici di prim’ordine. In quel contesto il nome di Oscar Moltke aveva continuato a galleggiare nel mare ribollente della informazione di massa, poco importava se, come gli scrittori del passato, fosse morto o avesse dedicato la vita ad altri interessi. C’erano voluti anni perché la sua popolarità fosse sopraffatta da nuovi volti che probabilmente avevano meno meriti di lui, ma mettevano in gioco più grinta ed erano capaci di piegarsi alla curiosità spicciola dei consumatori di miti. Gli argomenti in ballo sembravano far balenare l’idea che la fisica fosse un baraccone


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fascinatore, colmo di misteri insondabili e di verità nascoste che attraevano l’interesse del pubblico al pari degli alieni o di altri culti pagani. Dagli schermi televisivi, la scienza si andava ritagliando un equivoco spazio tra fenomenologie non sempre sensate, fatte di mitologie e divinità fuggevoli, sottraendosi gradualmente ai suoi fini classici che comprendevano la descrizione del mondo fisico sotto forma di relazioni e di leggi immutabili. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

1. Prologo .................................................................................. 7 2. La lezione del professor Oscar Moltke .............................. 11 3. L’intruso .............................................................................. 13 4. Il fisico pentito .................................................................... 15 5. Il tempo breve ..................................................................... 17 6. Le radici del professore Moltke .......................................... 26 7. Un filosofo contro la fisica ................................................. 31 8. Il tempo lunghissimo........................................................... 37 9. Ripensamenti....................................................................... 40 10. Storia di due amici e di una donna .................................... 44 11. Laura ................................................................................. 48 12. Due nemici allo specchio .................................................. 54 13. Una richiesta di aiuto ........................................................ 58 14. L’antenna .......................................................................... 66 15. Risposte ............................................................................. 72 16. Follia? ............................................................................... 77 17. Il messaggio ...................................................................... 84 18. Fibonacci ........................................................................... 89 19. Risposte ............................................................................. 95 20. Sogni ............................................................................... 101 21. Molti tipi di realtà ........................................................... 105 22. Ipotesi estreme ................................................................ 109 23. La realizzazione dei sogni ............................................... 112


24. Le scale della natura........................................................ 115 25. Guardare verso l’alto....................................................... 120 26. Laura ............................................................................... 123 27. Il tempo lungo dell’amore ............................................... 130


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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