Superfici mobili, Valentina Gemesio

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In uscita il 2 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine gennaio H LQL]LR IHEEUDLR 202 ( 99 euro)

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VALENTINA GEMESIO

SUPERFICI MOBILI

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ SUPERFICI MOBILI Copyright © 2020 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-435-9 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Gennaio 2021


A tutti voi, grazie



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PROLOGO

Finalmente una nuova casa. Swati si guarda intorno, cercando di rendersi conto della situazione, che le sembra ancora un sogno. Guarda sua madre con occhi felici, vorrebbe abbracciarla ma non è nel loro stile. L’atteggiamento di Laxmi è diverso dal suo: la freddezza è dipinta sul volto mentre si guarda intorno e scuote i tubi che percorrono i muri per testarne la robustezza, uno si stacca dal supporto facendo cadere un pezzo d’intonaco, lei grugnisce scuotendo la testa. «Saraswati vai a prendere i tuoi fratelli, invece di stare sempre a non fare niente yaar.» Swati si gira senza spegnere il sorriso, chiama i bambini dal gradino di casa, non la sentono o fanno finta, va loro incontro e appena li raggiunge li stringe tra le braccia. «Non volete venire nella nuova casa? Una casa, finalmente, tutta per noi» se li stringe al petto e gli dà qualche bacio. «Ma è piccola!» dicono in coro, scalciando per liberarsi dalla sua stretta. «No, è perfetta.» Entrano tutti e tre insieme, rimanendo immobili a guardare Laxmi che strofina energicamente una macchia sul pavimento col suo saree rosso e arancione. «Ammi, è piccola» cantilenano di nuovo i fratelli dall’uscio. Lei non alza gli occhi, continua a strofinare. Saraswati abbraccia con un solo sguardo quella stanza larga due metri e lunga tre, le pareti gialline macchiate d’umidità, un fornelletto da campo, dei cartoni appoggiati contro il muro, il lavandino sterile. Il sorriso si allarga ancora. Da un’ora a quella parte, quando per la prima volta avevano messo piede lì dentro, era stato un crescendo di felicità come mai aveva provato prima d’allora. Spinge dentro i fratelli e chiude la porta di ferro col chiavistello. La stanza sprofonda nell’oscurità, i fratelli cominciano a urlare. «Swati apri quella porta, yaar, non si respira qui dentro.» Swati sospira, non vuole innervosirsi con la madre in quel martedì così luminoso, neanche per l’intercalare tipico del linguaggio dei meno istruiti, che di solito la fa andare su tutte le furie. Riapre la porta e osserva il panorama esterno della nuova abitazione, facendo entrare l’aria e la luce di Dharavi. Per la prima volta nella sua vita, Swati pensa che è bello avere un rifugio.


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CAPITOLO 1

Apre gli occhi di scatto, il fischio del diretto per Chennai delle sei e quindici le penetra nelle orecchie. Si guarda intorno spaventata, si mette a sedere e girandosi urta il muro col braccio. Di colpo la felice realtà della nuova situazione le torna in mente. Si è addormentata tranquilla perché sono al sicuro, la Bombay notturna chiusa fuori col chiavistello, l’urlo del treno solo nella sua mente, dopo quei ventiquattro anni in cui era stato la sua sveglia mattutina. La porta si apre, lasciando entrare una luce grigiastra, e compare Laxmi, che sale lentamente il gradino con aria distrutta e un incarto nella mano sinistra. «La colazione» la informa, buttandogliela sul cartone. Nella fievole luce vede i cartoni di fianco a lei vuoti, non se ne preoccupa, i fratelli non sono ancora tornati dal giro di consegna dei giornali. L’età minima per essere ingaggiati sarebbe quattordici anni, ma visto che Shreyank ne ha otto e Riya dieci, ci vanno insieme e la legge non ha niente da dire. Swati scarta il foglio di giornale e addentando il chapati si avvicina alla porta rimasta aperta, per leggere la quarta pagina del The Times of India del giorno precedente. La madre si siede pesantemente a un metro da lei. «Qua dentro fa troppo caldo, yaar.» «Oggi ho l’esame all’università» Swati non ha nessuna intenzione di assecondare le lamentele riguardo l’unica cosa buona che fosse mai capitata alla loro famiglia, anche se sente goccioline scivolarle in mezzo ai seni e l’aria umida mozzarle il respiro. Ed è solo mattina, ed è solo aprile. «Allora fatti bastare quello che stai mangiando, perché soldi non ne ho, yaar.» Swati rallenta la masticazione e riavvolge metà colazione nell’articolo riguardante il nuovo quartiere residenziale che sarà costruito a nord della città. Va verso il lavandino, gira il rubinetto ma l’acqua continua a non uscire, poco male, si laverà a scuola. Indossa i jeans e afferrando lo zainetto bucato sussurra: «A dopo.» Prima di far ricadere la tendina, lancia un ultimo sguardo all’interno della stanza. Seduta lì, contro il muro, Laxmi fissa il vuoto e Swati prova pena. A cosa era dovuta andare incontro la madre per procurarsi quella stanza non lo sapeva, e neanche voleva soffermarsi troppo a chiederselo. Meglio non farsi domande se non si vogliono conoscere risposte che, in una situazione come la loro, non potevano esser altro che funeste.


8 Lo slum l’accoglie con la sua vita già brulicante. Donne accovacciate fuori dalle loro abitazioni strigliano i figli con spazzole insaponate, altre fanno bollire il chai in piccoli choula sui fornelletti in mezzo al vicolo, gli uomini che si affrettano al lavoro evitano agili gli ostacoli. Swati sorride a quella vita, ma questa la ricambia con sguardi indagatori delle donne e maliziosi degli uomini; non le importa, è normale non fidarsi dei nuovi arrivati. Inizia a percorrere i cunicoli a passo svelto, suda, la baraccopoli non fa passare un filo d’aria, solo fogna e angoscia. Viene sputata sulla strada principale, il cuore dalla quale partono le arterie dello slum. È già in movimento, nonostante a quell’ora non sia ancora assordata dal traffico della giornata, poche saracinesche sono già alzate, perlopiù quelle dei rivenditori di generi alimentari. Swati aspetta il bus sotto a una pensilina di cui è rimasto soltanto lo scheletro di ferro, che probabilmente non sono riusciti a scardinare. Lo slum di Dharavi è un eccezionale esempio di economia circolare, tutto quello che si può riciclare viene passato al torchio di una delle diecimila fabbriche della baraccopoli, anche quello che non sarebbe ancora da riciclare, come i vetri della pensilina dell’autobus. Mentre attende, tira fuori il libro dallo zaino, tra occhiate di uomini che vanno o tornano dal lavoro. Con i suoi profondi occhi nocciola, benché stanchi, i lunghi capelli corvini, benché unti, e il corpo ben fatto che s’intravede tra i vestiti, benché sporchi, Swati non passa mai inosservata, con suo disappunto. Si guarda intorno impaziente, spera che l’autobus arrivi prima della sua amica Ankita, è già in ritardo di due giorni sulla consegna del libro e al momento della sua insolita iscrizione il bibliotecario era stato chiaro. Il ritardo sarebbe stato un valido motivo per sbattere fuori quella ragazza di strada, fin dall’inizio ci avevano provato, non sapevano come comportarsi, non si era mai presentato un problema del genere. La tassa d’ingresso era stata fissata proprio per evitare che gente come lei, beghar, poveracci di strada, usassero la biblioteca come riparo. Impossibile che qualcuno arrivasse con le quattrocento rupie d’iscrizione annuale appallottolate in mano, e accumulate in mesi di pranzi saltati e sigarette rubate e rivendute. Ankita non arriva e Swati si siede grata su uno dei sedili in fondo, aprendo il suo romanzo di Tagore, sono solo dieci le pagine che le mancano, ma sono anche quelle che impiega di più a leggere, tornando più volte sulle stesse frasi. Gli scoppi di urla, di risa, di rumori corporei che la circondano, mentre l’autobus procede sobbalzando, non le fanno alzare lo sguardo neanche per un momento. Quel mondo disordinato le fa paura da sempre, il caos aveva cercato di assorbirla dalla nascita ma lei, caparbia, era riuscita a difendersi con la razionale organizzazione delle pagine scritte.


9 Sospira nostalgica girando l’ultima pagina, fuori dal finestrino lo stradone alberato del quartiere universitario. La pace ordinata dei cartelli che vietano i clacson, il sole che gioca tra le foglie degli alberi secolari, creando chiaroscuri sugli ampi marciapiedi, i massicci edifici in pietra sede di ogni speranza dei giovani indiani. Quello per lei era sempre stato il quartiere dell’amore. L’amore per lo studio, certo, ma prima ancora l’unico amore che avesse mai conosciuto, quello di suo padre, che l’unica domenica libera che aveva al mese la portava lì per farla sognare, in grande, come lui mai aveva potuto. I turni della fabbrica non gli lasciavano vita, tutti i giorni a macerare lattine, tutte le notti a dormire sul pavimento umido per fare da guardiano – “ma ho famiglia”, “o così o come te ne troviamo altri mille” – ma quella domenica, quell’unica, si svegliavano silenziosi, solo lui e lei, sgattaiolavano fuori dalla stazione e con due chapati del giorno prima, e Laxmi che gli urlava dietro, passavano tutto il giorno a gironzolare per quel quartiere dei sogni. «Vedi Saraswati, se sarai brava con le tue borse di studio è qui che studierai, e così potrai fare tutto quello che vorrai, yaar.» Non avrebbe mai potuto deluderlo, nonostante gli incubi che a causa sua avevano vissuto, il periodo in cui l’unica consolazione consisteva nel pensare che in fondo era un po’ come vivere in quel verde quartiere visto che l’unico tetto a riparare il loro sonno era il cielo di Mumbai, lo stesso che copriva anche quei luoghi così distanti. Così, tutte le volte che scende dall’autobus, s’inchina di fronte all’albero ai piedi del quale vi è l’altarino della Dea Saraswati, protettrice della cultura e delle arti, sapendo che lui è nascosto lì a vederla camminare fiera verso una lezione, un esame, verso il futuro che voleva per lei. Entra nel grande edificio gremito, e va subito in bagno a darsi una lavata, faccia e mani, quello che riesce prima che una ragazza della quale sente il profumo a distanza, si faccia spazio davanti allo specchio per rinfrescarsi il rossetto. Va verso l’aula e, mentre prende posto, spia i volti sconosciuti. In cinque anni non ha mai stretto amicizia con nessuno, nessun gruppo di studio, nessuna chiacchiera inutile. Ha sempre preferito vivere nei suoi libri, e l’università è l’unico posto in cui può farlo senza che qualcuno le urli dietro. O almeno è quello che si è sempre detta, dal momento che un angolo della sua mente riconosce che la realtà è che nessuno dei suoi compagni ha mai osato avvicinare una come lei: sporca e che ha scritto in faccia il luogo da cui proviene. In ogni caso, lei non avrebbe potuto permettersi neanche un chai con i compagni: il Rotary paga l’istruzione, non la socializzazione.


10 È l’ultimo esame e il naso le pizzica quando il professore dice d’iniziare. Ciononostante non perde un secondo di tempo, e una dopo l’altra risponde dettagliatamente a ogni domanda. Conclude senza intoppi e, a seguito di un lungo sguardo panoramico intorno all’aula, con un sentimento d’addio a serrarle lo stomaco, esce mogia in corridoio, indecisa sul da farsi. Dovrebbe andare al Centro a dare ripetizioni, almeno potrebbe farsi una doccia e scroccare qualcosa da mangiare, ma accantona l’idea quando vede la sua relatrice, i capelli in uno chignon, il tailleur scuro, gli occhiali squadrati e l’andatura altezzosa. «Namaskar, professoressa» saluta, sperando che abbia tempo per darle due dritte sulla tesi. «Namaskar» e prosegue. Abbacchiata, Swati fa per dirigersi verso l’uscita, quando si sente chiamare. «Tu sei Saraswati Naik, giusto?» additandola con l’indice inanellato «mi hai portato il progetto sul metodo montessoriano?» Swati annuisce, avvicinandosi. «Ti avrei chiamato nel pomeriggio per parlarti di una cosa, ma visto che sei qui seguimi in ufficio, ne parleremo subito.» Swati segue la donna a qualche passo di distanza e, una volta arrivate, entra con una spavalderia simulata, per mascherare l’intimorimento provocato dalla scrivania ordinata, il pavimento lindo, i muri candidi che la fanno sentire ancora più lurida e fuori posto. «Ho letto la sintesi che mi hai mandato, è un buon progetto» esordisce la donna, accomodandosi mollemente sulla sedia girevole. «Grazie professoressa, per ora ho fatto solo qualche ricerca» minimizzando le decine di libri che aveva già consultato da un anno a quella parte «ma è un argomento che m’interessa molto. Conosco fin troppo bene la realtà degli asili degli slum e delle altre zone svantaggiate della città, parcheggi dove volano solo botte e noncuranza. Vorrei sviluppare un progetto di riorganizzazione sul modello dei kindergarten, se magari riuscisse a farmi un’autorizzazione per andare a visitarne qualcuno… immagino ce ne siano di privati qui a Mumbai.» La donna sembra più interessata al suo cellulare, che non ha smesso un attimo di guardare, e infatti passa qualche secondo prima di rispondere: «Sì sì, certo, interessante» alza finalmente lo sguardo verso Swati «anche se utopico, ma non è importante, a una tesi non si chiede certo di cambiare il mondo.» Swati aggrotta le sopracciglia, certo non il mondo, solo gli asili. «Ti reputo una brillante studentessa, ancora di più se penso da dove provieni, ed è per questo che vorrei parlarti di un’opportunità.» Swati attende, ancora punta nel vivo del suo idealismo.


11 «Una ONG italiana – sai cos’è una ONG giusto? – offre una borsa di studio a studenti svantaggiati, per un progetto di tesi all’estero. Avresti l’opportunità di scrivere la tua tesi in Italia, e visto che l’argomento mi sembra più che appropriato» la professoressa s’interrompe studiando il volto della ragazza, reso ebete dalla sorpresa «potresti seguire lezioni e fare ricerca all’università di Torino, una delle migliori in questo campo.» Swati rimane con la bocca semiaperta, senza riuscire a emettere alcun suono. Immagini e colori si alternano veloci nella testa. Vorrebbe dire qualcosa ma proprio non ci riesce, e lascia fuoriuscire dalla bocca soltanto qualche vagito. Calde lacrime iniziano a scorrerle sulle guance, un po’ per l’emozione un po’ per l’angoscia provocata dal pensiero che quel sogno è destinato a infrangersi contro il muro grigio del realismo. La professoressa la guarda con aria interrogativa e si agita sulla sedia, poi riprende a parlare per togliersi dall’imbarazzo: «Devi pensare a cosa questo comporterebbe. Ho viaggiato in Europa, non ci ho vissuto ma l’ho girata» dice orgogliosa, dando la schiena a Swati per guardare fuori dalla finestrella un interessante paesaggio di macerie «e credimi, non è tutto roseo come siamo abituati a pensare. Ma soprattutto, e a questo vorrei che facessi bene attenzione, prima di preparare la domanda per la borsa di studio, dobbiamo avere il permesso della tua famiglia. Mi hai capita?» si volta di nuovo verso di lei e poggia le belle mani fresche di manicure sulla scrivania «è indispensabile prima di muoverci in ogni direzione.» Swati annuisce sicura. Tanto valeva assecondare la donna e vedere dove ciò l’avrebbe condotta. In ogni caso la tesi doveva scriverla, in India o Italia che fosse. Riesce finalmente a proferire parola: «Chiederò subito» gli occhi le si velano di nuove lacrime, le ricaccia indietro con un moto di rabbia «la ringrazio per questa opportunità.» La professoressa sorride benevola, rilassandosi di nuovo contro lo schienale della poltrona. «Sei una delle studentesse migliori e meriti un futuro radioso, lontano da qui. Immaginavo che ti sarebbe piaciuto andare via, e appena sono venuta a conoscenza della borsa di studio, ti ho pensata» ribadisce allungandole dei fogli «questi sono da far firmare a tuo padre. Per la borsa di studio dovrai preparare un saggio di quaranta pagine sulla tua tesi, io posso aiutarti, ma è da presentare entro giugno. Hai due mesi e dovrai impegnarti molto, Swati, il saggio dovrà essere un riassunto esaustivo di quello che sarà il tuo elaborato finale, ma prima di tutto serve l’autorizzazione della tua famiglia» si schiarisce la voce e conclude: «so che non sarà semplice, vista la tua età e condizione, ma cerca di far capir loro che questa è una grande opportunità.» «Sì, cercherò di farglielo capire» dice poco convinta «però mio papà è morto.»


12 «Va bene la firma dell’uomo che ne fa le veci. Dovrebbe essere qualcuno dei tuoi zii, suppongo.» «Suppongo anch’io» sussurra. «Bene» si alza «fai le tue ricerche e torna da me quando sei a buon punto.» Anche Swati si alza, con gambe tremanti. Stringe la mano alla donna, che ricambia con una stretta molle, subito ritratta, di quelle che la ragazza odia. Una volta in corridoio si accovaccia contro il muro e scoppia in una risata isterica, nascosta tra le mani callose che le coprono il volto. Il via vai del corridoio non fa caso a lei, che continua su quella scia per qualche minuto finché, sudata e con una dolce stretta a chiuderle lo stomaco, inizia a correre verso l’uscita con un largo sorriso stampato in faccia. Non vuole pensare alla sua situazione, a sua madre che non l’avrebbe fatta partire perché sennò i fratelli chi li avrebbe guardati? Vuole correre, adesso è felice e tanto basta, quanti pochi momenti di quel puro sentimento le erano stati concessi, corre ed è felice, nient’altro è importante. Dopo qualche chilometro si ferma e inizia a camminare, il naso per aria, l’espressione sognante, l’andatura spedita e ondeggiante. È bella, e la città se ne accorge, illumina la carnagione olivastra di una calda sfumatura dorata, smuove i capelli con una brezza insolita per quel mese, accompagna le movenze del corpo sinuoso con vivaci musiche che escono dai baracchini rivenditori di samoze e guarapao, la megalopoli maltrattata intona tutta se stessa a quella figlia ingrata che pensa alla fuga. È ancora immersa in questi pensieri quando allunga il libro e la tessera della biblioteca all’impiegato dietro la scrivania. «In ritardo di due giorni, tessera annullata.» Lei lo guarda tornando lentamente alla realtà. L’uomo ha il naso grosso, la fronte bassa, lo stomaco prominente che spunta da sopra la scrivania. «La prego» giunge le mani di fronte al petto, supplicando «quella tessera è l’unico modo che ho per leggere.» «No» prende delle forbici dal cassetto «le regole sono regole» dice proprio lui che nasconde una bidi accesa tra la tastiera del computer, perché il culo è troppo pesante per andare a fumarsela fuori. «Ma io non posso permettermi la quota d’iscrizione a un’altra biblioteca, ho già pagato le quattrocento rupie per questa…» «Ti ho detto di no» e, con sguardo maligno, l’impiegato alza la tessera e le dà un secco colpo di forbice. Swati sobbalza. Rimane immobile, lei e l’uomo che sogghigna scoprendo i denti marci si fissano. Swati sta pensando cosa razionalmente potrebbe fare per avere almeno un libro e fregare quello stronzo. Non va orgogliosa degli anni passati per strada, ma qualcosa ha imparato. In casi di estrema necessità e comprovata impossibilità, prendi e scappa.


13 Con uno scatto si piega verso la cesta dei riconsegnati alla sua sinistra, afferra a casaccio alcuni libri, tanti quanti ne riesce ad abbracciare, perdendone qualcuno mentre sfreccia di fronte all’impiegato che non è ancora riuscito a raccapezzarsi. Solo successivamente l’uomo si rende conto dei propositi della ragazza e inizia a urlare e chiamare aiuto, mentre cerca di afferrarla da dietro la scrivania con le sue braccine annaspanti. Esce per strada, i libri minacciano di caderle e lei li sorregge da sotto, sente qualcuno correre dietro di lei e girandosi vede che è l’impiegato, finisce addosso a una donna che la insulta, un libro le cade e si ferma a raccoglierlo, non rischia niente viste le condizioni fisiche dell’uomo. Vede un autobus che sta ripartendo dalla fermata, ricomincia a correre più veloce e salta a bordo mentre le porte si chiudono. L’impiegato sbatte la mano contro la carrozzeria per farlo fermare ma l’autista, da buon indiano qual è, fa finta di niente e l’autobus sobbalza in avanti. Swati si accascia contenta su un sedile di metallo. Guarda i superstiti di quella fuga: sette. Se li stringe forte al petto, sorridendo e sfiorandoli con le labbra. Scorre veloce i titoli: “Tess dei d’Uberville, “I love Shopping”, “Proverbi sufi”, Shining, “Cinquanta modi per avere successo”, “Sapore amaro e Sulla strada”. Li accarezza felice, è la prima volta che possiede dei libri, o qualcosa in generale, e che libri! Una bella varietà di narrativa occidentale, quella che apprezza di più, che le permette di vivere in luoghi lontani, storie per lei impensabili. L’autobus si destreggia tra quella giungla di tuc-tuc inselvatichiti, macchine ruggenti e clacson cinguettanti che è Mumbai. Quando ne ha abbastanza di leggere trame, sfogliare e annusare i suoi libri, Swati scende, persa. Cammina un po’ a caso, osservando a lungo i pochi turisti che iniziano a comparire in quella zona della città; la pelle bianca, i capelli leggeri, sembrano tutti bambolotti che vedeva all’asilo delle suore, da guardare ma non toccare. Sta seguendo con gli occhi una giovane in minigonna e gambe lunghe, quando svolta un angolo e si trova di fronte l’oceano. Lui, che altrove fa sentire prepotente la sua presenza, a Mumbai è silenzioso, se ne sta soffocato dal cemento e dai clacson incessanti. Non lo trovi, non ne senti il rumore, non ne senti il respiro. Poi a un certo punto svolti un angolo, sbagli strada, ed eccolo lì, infinito e potente, pronto ad accoglierti per consolarti dalla città impazzita. Con la sua calma ti attende, silente nel concerto di rumori, e finalmente lo sguardo può perdersi all’orizzonte, senza più essere ostacolato da barriere. Quando se lo vede di fronte, Swati si commuove. Lo respira a pieni polmoni e va a sedersi sul muretto a precipizio sull’acqua. Mumbai è bella, ma lei la odia con tutta se stessa. Probabilmente non sarebbe stato così se avesse


14 vissuto in una di quelle case a ridosso dell’oceano, dove tutto è verde e blu, pulito, locali alla moda che costeggiano le strade, locali dove lei avrebbe anche potuto permettersi un caffè, se solo fosse vissuta tra quel verde e blu. La verità è che ha sempre vissuto sul duro di un marciapiede, nel grigio di una stazione, e ora, per quanto grata fosse per la nuova casa, tra i cunicoli senza respiro dello slum, colorati solo dagli abiti delle donne, non dagli alberi, non dall’oceano, a tratti neanche dal cielo. Mumbai dà, Mumbai toglie. A lei ha sicuramente tolto, e gli unici ad averle dato sono stati i ricconi di quel club, quando pescando a sorte dei bambini dalle liste dell’asilo delle suore della carità, è uscito anche il suo nome, godendo così dell’istruzione eccellente delle scuole private internazionali. Due di loro si sono sposate appena finito il liceo, l’hanno comunicato a Swati una sera durante un incontro a una delle annuali feste del Rotary, in cui hanno sfoggiato un perfetto inglese, facendo vedere ai membri che i loro soldi erano stati ben spesi. Ovviamente il presidente aveva intimato alle due di non proferire parola riguardo ai loro imminenti sposalizi, e a Swati di non parlare del cambiamento di liceo. Amit, lui sì che veniva esposto come il fiore all’occhiello dei beneficiari delle borse di studio, certo tutti bravi eh, ma Amit. Il mare le culla i pensieri con il suo moto incessante, anche se sembra quasi fermo, così vicino alla riva della città, melmoso di rifiuti. Cerca fino all’ultimo di non pensare alla sua famiglia, ma poi si costringe a guardare l’ora e scopre che è già pomeriggio inoltrato. Un peso le si posa alla bocca dello stomaco al pensiero di quei volti barricati nelle loro fatiche, di quelle menti limitate da muri crepati; sua madre, eccolo il realismo che prosciuga i sogni. Si avvia tristemente verso la stazione per prendere il treno, la fermata dello slum non dista molto. Il ritorno non ha più le ali ai piedi, ma pesanti macigni che cercano di trattenerla a terra, lontana dalle possibilità che la professoressa, nascosta nel suo tailleur, le ha mostrato. Dal fondo del cunicolo vede i fratelli sul gradino di casa, impegnati in qualche gioco con le mani. Riya le corre incontro appena la vede. «Didi, didi!» urla inerpicandosi. Swati abbandona i libri e se la sbaciucchia, cercando di non far caso alla faccia scura di Laxmi, nascosta nella penombra dell’abitazione. «Siete già tornati?» «Sì, oggi al Centro ci hanno mandato via prima perché la Madame aveva da fare e tu non c’eri.» Swati si sente in colpa. «Dovevi essere qui prima, sai che me ne devo andare, yaar.» «Scusa, l’esame è durato più del previsto.»


15 La madre sbuffa e non risponde, poggia il coltello accanto alle verdure che stava pelando e si alza. «Cosa sono quelli?» indica col mento la pila di libri che Swati ha ordinato in un angolo. «Libri…» lo sguardo di Laxmi è contornato da occhiaie violacee, Swati si pente della risposta e cerca di rimediare: «me li hanno regalati…» «Allora li vendiamo.» «No no, devo riportarli all’università.» «Ma non hai detto che te li hanno regalati?» «Prestati, volevo dire prestati.» Disinteressata, Laxmi prende a spazzolarsi i lunghi capelli, unico oggetto delle sue cure più amorevoli. «Finisci tu con le verdure, poi le metti a bollire e fai il daal.» Prendendo a tagliare le patate, Swati guarda la donna che si passa un velo di rossetto sulle labbra. È ancora bella se guardata in quella luce, la carnagione accesa dalle ombre arancioni del sole morente, le occhiaie mascherate dalla luce fievole proveniente dalla porta. Raccatta coltello e verdure e si muove in direzione della porta, non volendo guardarla per non doversi chiedere il genere di lavoro che la fa uscire al tramonto e passare la notte fuori. «Resta dentro che ti guardano, yaar.» «Ma sento caldo.» «E secondo te io non ne ho? Li hai visti quelli, come ci guardano?» prende la borsa sfondata da un angolo «resta dentro.» Swati obbedisce e il respiro si fa corto. Cerca di fare respiri profondi ma le sembra che Laxmi, con i suoi movimenti pesanti, consumi tutto l’ossigeno. I fratelli fanno irruzione nella stanza, lei li scaccia con un gesto veloce della mano ma loro sono abituati a disubbidire e le si mettono intorno. Chiude gli occhi, poggia la schiena al muro e cerca di respirare. Ripensa alla stazione che l’ha accolta negli ultimi tre anni, lì di ossigeno ce n’era, benevola stazione, sicuramente più del pezzo di marciapiede dove aveva iniziato la sua vita di strada, esposto alle intemperie e all’apertura dei grandi magazzini che non volevano i pezzenti sotto le scarpe dei loro clienti. La pelle s’imperla di gocce di sudore, i muscoli si contraggono, il cuore accelera sempre di più. Vede le ombre dei fratelli tra le palpebre abbassate, sta anche calando la notte, non uscite habibi, restate in casa che il buio è cattivo. Il respiro le si fa sempre più corto. Amit chissà dove, mesi che prova a chiamarlo senza ricevere risposta, ma sa che ancora l’ama, loro erano e loro sempre saranno. Si alza a fatica, con le membra tremanti, vuole sottrarsi agli sguardi ingenui dei fratelli e a quelli incuranti della madre, va a sedersi sul gradino, non le interessano gli occhi scuri che la scrutano sdegnosi, perplessi, indagatori. Il cervello non riceve più ossigeno e i pensieri non riescono a formarsi. Riya la raggiunge e la scuote dal braccio. Si volta, se la


16 prende tra le braccia, la stringe convulsamente a sé, probabilmente le fa male ma la bambina non fiata, sarà una brava donna indiana, non un lamento. Incatena lo sguardo al suo, un appiglio nel nulla. Il respiro inizia a rallentare e la stretta allo stomaco si dissolve, i pensieri rifluiscono. Quel volto innocente, che ancora non conosce l’ingiustizia della sua nascita, e che se tutto va come deve andare – scuole elementari e pulizie nelle case dei ricchi fino al matrimonio – non lo saprà mai. Si chiede se non avrebbe vissuto meglio così, nell’ignoranza. Forse il Rotary non le ha fatto questo grande favore. Non stacca gli occhi dalla sorellina e nel panico un pensiero le balena veloce: sarebbe meglio non fosse mai nata.


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CAPITOLO 2

Fuori le strade sono ancora poco trafficate, e la gente porta a spasso i cani nel giardinetto “riservato agli amici a quattro zampe”, sette piani sotto il suo appartamento. Un’anziana impellicciata prende in braccio, spaventata, il suo barboncino con il cappottino, minacciato da un pastore tedesco al quale era stato sottratto il suo pezzo di sabbia. La ragazza guarda con noncuranza la scena, bevendo l’ultimo sorso di caffè, e si allontana dalla finestra ragionando su come gli esseri umani si sentano in obbligo di rendere importanti le banalità, pur di non cadere nella vuota noia delle loro esistenze. Un po’ troppo per le sette del mattino. Si butta stesa sul divano a mezza luna, con le braccia spalancate, la bocca aperta in un grido muto e le mani che convulse si stringono in due magri pugni. Le piace dipingere al buio e affrettarsi alla finestra al primo spiraglio di luce, le dà l’idea che ci sia ancora speranza per tutto; al suo futuro di pittrice così vago e al tedio che costante l’attanaglia. In fondo c’è sempre una luce che sorge e risorge nonostante la notte, perché non dovrebbe essere così anche per la sua vita? Ma alle sette e mezza, dopo due ore di sigarette e di andirivieni per casa, sporca di tempera, si sente già stanca. Il sorgere della luce l’ha visto, la speranza non l’ha riacquisita e potrebbe anche tornarsene a dormire. Proprio quando sta per accogliere questo pensiero, suona il campanello. Si tira su di scatto. «Ma chi cazz…» borbotta, alzando il ricevitore e sbuffando quando vede l’immagine della donna delle pulizie sullo schermo. «Diana cosa vuoi a quest’ora?» «Buongiorno signorina, sua madre mi ha detto di venire alle otto e mezza, che tanto lei deve andare all’università» tutto d’un fiato, le nuvolette di freddo che le escono dalla bocca testimoniano che i giorni della Merla ancora non sono finiti, gli otto gradi mattutini di aprile fanno rabbrividire Becca, e le tolgono ogni voglia di andare all’università, se mai l’avesse avuta. «Ma sono le sette e mezza.» Sguardo perso, la donna inquadra un orologio da polso. «No, le otto e mezza signorina.»


18 «Va be’, vieni su» e apre. Controlla, l’Iphone segna le sette e mezza. Lo mette davanti al naso della donna appena varca la soglia. «Non capisco, signorina» le fa rivedere l’orologio «oh» borbotta, mettendosi le mani ai lati del viso, come per nascondere il rossore che non sarebbe mai potuto trasparire da sotto i tre strati di fondotinta «sono stata in Romania proprio la scorsa settimana, sa che mio figlio…» Becca fa un vigoroso cenno d’assenso, anche se non sapeva che suo figlio… «Be’, e poi, ho lasciato l’orologio sull’ora della Romania.» «E io cosa faccio adesso?» chiede allargando le braccia «sono costretta ad andarmene dalla mia stessa casa» marciando in camera e tuffandosi dentro il suo armadio multicolore, rigurgitante stoffe. «Visto che hai tutto il tempo, mettimi a posto anche l’armadio!» urla, maledicendo le stagioni intermedie durante le quali non sa mai come vestirsi. Jeans skinny e un maglione stile “trovato nel cassonetto” che aveva pagato cento euro ai saldi precedenti. Passa in bagno e ne esce mezz’ora dopo perfettamente truccata. «Io vado, chiudi bene la porta quando esci. Ah…» si affaccia di nuovo in salotto «e non toccare tele e colori!» «Neanche i pennelli che sono finiti sul tappeto persiano di sua madre?» «No, neanche quelli, se sono lì c’è un motivo.» «Va bene signorina Becca, buona giornata.» Mentre è in ascensore, il telefono le squilla: sua madre. Aspetta che finisca di suonare poi chiama la sua migliore amica. Un mugugno dall’altro capo di Torino. «Oh Lizia, com’è?» nessuna risposta «va be’, ci vediamo all’aperitivo stasera, otto in Sansa» e mette giù, conoscendo l’inutilità di discutere con l’amica a quell’ora della mattina. In strada vede la sua Cinquecento corredata di una multa. Sbuffa. La madre chiama di nuovo, questa volta risponde. «Ciao Ma’» «Ciao amore, come va? Perché non rispondi?» «Male, mi hanno fatto la multa e tu mi mandi Diana all’alba» dice con voce lamentosa, schivando agilmente la seconda domanda e due pedoni. «Ti ho detto di non parcheggiarla sotto casa, e Diana te l’ho mandata presto così saresti stata obbligata ad andare a lezione.» «Oggi iniziava dopo» mente, non ha la più pallida idea degli orari delle sue lezioni. «Puoi andare in biblioteca» saluti indistinti: “lezione fantastica, baci tesoro, a domani”. Becca sbuffa sonoramente. «Ricordati solo che la prossima settimana torna papà e una sera dobbiamo andare a cena dai nonni.» «Ah bene, bello!» esclama con un picco di vivacità sincera nella voce.


19 «Va bene, buona giornata amore. E mandami la multa così te la pago». Quindici minuti dopo, parcheggia di fronte all’università. Rimane a fissare il vuoto, cosa si fa a quell’ora? È pieno di matricole che volenterose si dirigono a lezione. Scende, inizia a bighellonare, si sente persa in quel grigio mattino, sola nello spazio estraneo. Qualcuno la chiama dai tavolini del bar, ma certo, il bar. «Non credo ai miei occhi, Rebecca all’università a quest’ora, Rebecca all’università in generale!» Becca sorride felice al suo salvatore. «C’è stato un misunderstanding» faccia schifata «scusa, non so perché me ne esco con questi inglesismi, che odio.» «Dai che per celebrare ti offro un caffè. Come vanno gli ultimi esami?» «Ho fatto una cazzata a lasciarmi i più difficili per ultimi» si appropria senza tante cerimonie del caffè che il ragazzo aveva ordinato e questo, sorridendo indulgente, ne ordina un altro «ho provato a darli la scorsa sessione ma ho toppato. I professori sono anche delle merde, eh» si lamenta, rollandosi una sigaretta. «Sai che io ti do ripetizioni volentieri.» «Sì, so che ripetizioni vorresti darmi tu.» «Sei ancora fidanzata?» Lei fa lentamente cenno di sì con la testa, guardandolo negli occhi, con la poca luce che traspare dalle iridi azzurre quasi completamente nascoste dalle palpebre pesanti. Il ragazzo sbuffa. «Tanto non è un problema, vero?» «Il fatto che sia fidanzata non è un problema, il problema sei tu che mi stai addosso da cinque anni. Ora vado» dice alzandosi e lasciandolo con uno sguardo abbacchiato. «Ma dai, adesso c’è bioetica» «Bioetica, oddio, noiosa, sacrificabile. E anche fottutamente incomprensibile.» «Rimani qui, l’ho passata bioetica, te la spiego io.» Becca guarda i brufoli rossi in procinto di scoppiare, e prova un brivido di ribrezzo. «No, vado… ma ti prometto che se non riesco a passarli neanche la prossima sessione, ti chiamo» dice prendendo il mento del ragazzo tra le dita e dandogli un bacio sulla guancia. Lui sta per dire qualcosa ma lei scappa via. Mentre trotterella verso la hall, saluta ancora un po’ di persone e, prima di arrivare di fronte all’aula, ha già cambiato idea diverse volte, alcune delle quali tornando sui suoi passi in direzione del bar. Quando finalmente spinge la porta dell’aula, la lezione è già iniziata e molti strabuzzano gli occhi mentre si dirige al posto. Si siede all’ultimo banco e tira fuori l’autobiografia di Simone De Beauvoir, che vuole finire per metterlo accanto alla prima parte già in libreria.


20 Ascolta con un orecchio il professore, mentre con gli occhi vola sulle righe. Dovrebbe concentrarsi, prestare attenzione… ma per cosa? Ciò che aveva studiato per anni, interessandosene a tratti, si era trasformato in un cumulo di seghe mentali. Le era sempre piaciuto filosofeggiare, ma quando si trattava d’incanalare i suoi svarioni nel sistema burocratizzato dell’università, perdeva tutto lo slancio. Continua a leggere fino alla fine della lezione, senza prestare neanche più una delle orecchie al professore. «Ciao Bec, che strano vederti qui» la saluta un ragazzo che a Becca non sembrava d’aver mai visto prima «hai perso tante lezioni, ti passo gli appunti se vuoi» si guarda intorno poi, prendendo coraggio: «possiamo studiare insieme un giorno se ti va.» Becca gli sorride. È brutto. La fronte bassa, la mascella glabra, i muscoli che schizzano fuori dalla maglietta, tutto ciò che più odia. «Sì, magari» risponde con la solita condiscendenza che lei attribuisce alla sua incapacità di ferire. Il sole timido di aprile non scalda ancora abbastanza e i Giardini Reali sono quasi vuoti. Tanto vale respirare un po’ d’aria fresca mentre finisce il suo libro, meglio che stare chiusa in un’aula con persone che rischiano d’infettarla con la loro pedanteria. Si siede contro l’albero e prima di iniziare la lettura risponde ai WhatsApp. Conferme per la serata e un messaggio di Alessandro: “Ti raggiungo per pranzo”. “No, devo finire il libro”. L’emoticon sbuffa. “Ok, ci vediamo stasera allora?”. “No, esco con gli altri”. Tre emoticon che sbuffano. “Ma noi non ci vediamo mai?”. “Te l’ho detto. Dovevo finire un quadro, e stasera voglio vedere i miei amici. Non mi sembra un granché, ho anche bisogno dei miei spazi”. Nervosa mette il cellulare in borsa, nonostante l’abbia sentito vibrare un’ultima volta. Poi si sente in colpa e lo riprende. “Ti amo. Ma prometti che domani ci vediamo”. “Va bene. Ti amo anch’io”. Un sorriso sfugge a quelle labbra stizzose, e con la coscienza a posto, addenta il suo toast e finisce il libro. Salta le ultime due ore di lezione, troppo spossata dalla lettura forsennata, troppo presa dal Cafè de Flor, dalla Sorbona, da tutti quei posti e quei tempi in cui sicuramente la vita era più leggera, non come lei, intrappolata, cosa avrebbe potuto fare se non andare a casa a dipingere, l’unica cosa che ha il potere di sradicarla da quella sua insulsa esistenza?


21 Prima di salire in casa, si ferma alla sua libreria indipendente preferita per comprare la terza parte dell’autobiografia. Non che l’avrebbe letta subito, aveva sempre seguito un rigido schema di variazione della nazionalità e del tema dei libri che leggeva, per non rischiare che un reparto della libreria sia più appesantito di un altro. Quando entra in casa, respira a pieni polmoni l’odore di pulito. Guarda le tele, un senso di apatia le si diffonde per il corpo. Oggi non le va, la creatività non ha proprio voglia d’insinuarsi in lei. Si spoglia e, annoiata, si stende sul divano per schiacciare un pisolino preparatorio alla serata che l’aspetta. *** «Allora, quanta ne vuoi?» chiede il nord-africano, gettando occhiate furtive a destra e a sinistra. «Dammene tre» risponde Becca, aggiustandosi i capelli dietro l’orecchio. Guarda verso la macchina, dove i suoi amici la aspettano ridendo mentre si scolano una bottiglia di Prosecco. Lo spacciatore muove la lingua, e dopo qualche secondo estrae dalla bocca tre palline bianche. Le passa a Becca, che le infila in fondo alla tasca dei pantaloni in similpelle neri, e si pulisce la mano sul cappotto. «Sono duecentocinquanta.» Becca lo paga e si allontana. Si dirige verso la macchina e sale, sbattendo forte la portiera. «Non capisco perché devo sempre andarci io» dice, accendendo il motore. «Be’, ormai conosce te, è meglio così» risponde Lizia, scolandosi quel che rimane del vino. Becca si gira verso Lorenzo, seduto accanto a lei. «Concordo, il gancio è tuo. Fosse ancora in giro il mio, ma l’hanno blindato qualche settimana fa. È già tanto se non mi hanno chiamato in caserma.» «Io è già tanto se riesco a tenere il piano» brontola Lalla, abbandonandosi sul sedile posteriore. Becca apre il cruscotto e tira fuori un anacronistico CD dei Gun’s and Roses, “Appetite for distruction”. «Tieni, stendile qui» dice lanciando dietro di sé la custodia del CD e la cocaina a Lizia. Mette in moto e parte. Costeggia il Valentino. La città si dipana fredda e ancor umida dell’ultima pioggia. Le luci dei lampioni gettano un caldo alone arancione sui ponti intasati dal traffico del giovedì sera, quando all’ora dell’aperitivo tutti si riversano in strada per brindare alla settimana quasi finita, e lavorare l’ultimo giorno in post sbornia. Il Po scorre placido e nero sotto la città in subbuglio, pazientemente in attesa di essere il protagonista di qualche folle avvenimento.


22 Torino scorre accanto a loro, ormai in preda all’euforia della coca, persi in divagazioni uguali a tutte le volte che si trovano in quelle condizioni psicofisiche. «È che non voglio finire come mio padre, dieci ore in un cantiere grigio. Io voglio vivere per l’arte, solo per quella, il lavoro è per me bruttura e dissipazione di bellezza. Non mi sembra dia contributo alcuno all’umanità» straparla, le piace andare contro il senso comune e creare un po’ di fermento intorno a lei. Lorenzo abbocca sempre e ribatte: «Non si vive per contribuire all’umanità ma per contribuire a se stessi e così poi all’umanità tutta, se ognuno s’impegnasse a fare la sua parte» la guarda di sottecchi «ma nel caso particolare di tuo padre, è anzitutto per contribuire alla tua casa, ai tuoi anni fuoricorso e alla tua coca.» Becca gli lancia uno sguardo torvo, sta per ribattere quando il telefono le squilla. Gli altri tirano un sospiro di sollievo, già vaticinando una lunga diatriba. «Ciao Ale» risponde, seccata per l’interruzione. Brusìo indistinto al telefono, tutti guardano fuori dal finestrino, tranne Lizia, che tiene lo sguardo incollato al cellulare. «No, non vengo a dormire da te dopo, ti ho detto che ho bisogno di una serata con i miei amici» un secondo di silenzio e poi riprende: «e neanche puoi andare tu ad aspettarmi a casa, ci vediamo domani. Ciao» attacca e ripone il telefono nel porta bicchiere. «Ovviamente niente menzione alla coca appena lo vedete.» «Ma non si rende conto delle stronzate che gli propini?» chiede Lizia, tirando su col naso. «No, e comunque non gliene propino così tante come pensi tu.» «È vero, solo una o due volte la settimana» concorda Lalla dal sedile posteriore. «Esatto, e neanche tutte le settimane» aggiunge cercando parcheggio «credo comunque che sia necessario, bisogna sempre mantenere la propria individualità anche quando si condivide la vita con un’altra persona. Non sarebbe giusto se sapesse tutto di me. Perderei quell’aura di mistero che continua a mantenere viva la nostra relazione, anche dopo sei anni.» «Non so, Bec» interviene Lorenzo «da qualche tempo a questa parte sei di nuovo più irrequieta, sembra tu stia entrando in un altro di…» virgolette in aria con le dita, girandosi verso gli altri per cercare approvazione «“quei periodi”.» «Ma quali periodi» s’innervosisce, cosa possono capirne loro, ci prova comunque «è che ho trovato un’altra tecnica che sto esplorando e non posso sempre stare a contatto con gli esseri umani, l’arte richiede sacrifici e io sono un’artista, mi sacrifico volentieri» sottolineando il concetto con una brusca sterzata per parcheggiare sul marciapiede. Vede Lorenzo fissarla per


23 qualche istante poi, scuotendo la testa: «Va be’, facciamocene un’altra qua prima di andare.» Dieci minuti dopo, i quattro scendono e si tuffano nel giovedì notte torinese. «Ehi Becca, com’è?» la saluta il tizio con lo Spritz in mano, davanti alla porta del 121, il loro locale preferito per l’aperitivo. «Ciao Fil, tutto bene e tu?» «Bene grazie. E…» sta per chiedere Fil, ma Becca è già sparita. Si muove flessuosa da padrona di casa, scansa camerieri e tavolini, dispensa saluti allegri e sorride ai quattro angoli. È il suo locale. Si capisce da come saluta con calore il proprietario, che subito le riempie il bicchiere del suo vino preferito. Gli indomabili capelli biondi non si fermano un attimo, qualche parola con uno, qualche risata con un altro, senza mai soffermarsi. Le persone la guardano destreggiarsi e si chiedono cosa la renda così magnetica. Non è certo la più bella. I denti sono troppo distanziati, mentre gli inferiori si accavallano leggermente, cosa che rende il suo sorriso bisognoso di un apparecchio. Una pancetta leggermente pronunciata testimonia la fatidica passione per l’alcol e il buon cibo, e la gobbetta accennata del naso stona con le proporzioni del viso minuto. Ma si percepisce qualcosa che le pulsa dentro, una calamita sensuale che attira le persone, uomini e donne, a lei. Imbriglia con la forza del sorriso e la sinuosità delle movenze, spicca per la vivacità della parlantina e l’esplosione della risata. Dopo mezz’ora di saluti e chiacchiere superficiali con i presenti, torna dai suoi amici, che nel frattempo hanno ordinato due bottiglie di vino e un tagliere di salumi, per abitudine quest’ultimo, in serate come quella è destinato a rimanere intatto. «Sei tornata» dice Lizia, guardandola sarcastica «lungo giro di saluti per una antisociale.» «Ma no, dalle cinque in poi io adoro l’umanità. È prima che ho qualche problema con gli esseri viventi.» Gli altri due ridacchiano, ma non Lizia e Becca, che rimangono a fissarsi negli occhi. Cala il silenzio, da qualche tempo tra le due si avverte una strana tensione. Lalla lo rompe, inconsapevole, con voce lamentosa: «Che palle ragazzi, siamo di nuovo qui. E pensare che un mese fa, a quest’ora, eravamo a fare aperitivo a Barcellona.» «Giusto, a Barceloneta e io mi stavo baccagliando quella bionda micidiale» dice Lorenzo con gli occhi sognanti. «Guarda che quella ti sembrava micidiale solo perché avevi già buttato giù una pastiglia con due litri di Sangria» s’intromette Lizia. Tutti ridono, ripensando a un Lorenzo in botta alle nove di sera che si struscia dietro una quarantacinquenne ubriaca che si muove disarticolata al ritmo della musica elettronica.


24 Becca non ha voglia di ridere, la cocaina la rende seria e pensierosa, le membra rigide, osserva i suoi amici e si perde in elucubrazioni sul loro conto. Ne avevano passate insieme. Lorenzo lo conosce dall’asilo, stesse scuole, stessa classe. Solo all’università le loro strade si sono separate, lui scegliendo scienze politiche per inseguire il suo sogno di diventare presidente regionale, Becca scegliendo filosofia per inseguire il suo sogno di rimanere disoccupata a farsi mantenere da suo padre. Lorenzo è stato il classico ragazzo modello conteso da tutte le ragazze della scuola, bello e modaiolo. Ora non più così modello, ma sicuramente ancora bello e modaiolo. Sono amici da sempre, si ubriacano e fumano canne a casa di Becca senza che mai il minimo desiderio sessuale disturbi la loro amicizia. Gli vuole bene, anche se non pretende di intavolare con lui discorsi troppo astratti da farlo smarrire. Lizia, brutta abbreviazione che Becca ha trovato al nome Letizia, è invece un’amica più recente, dell’università. Conosciute alla prima festa della loro lunga carriera universitaria, da allora sono pressoché inseparabili: pranzi, cene, feste e un improbabile gruppo di studio misto giurisprudenza/filosofia che finisce puntualmente in caciara al bar dell’università. Nonostante questo, non la considera come la sua migliore amica: c’è qualcosa che le impedisce di andare oltre i corti capelli castani e il sorriso sarcastico. Soprattutto da un anno a quella parte, soprattutto in presenza di Alessandro. Becca posa lo sguardo su Lalla, una figura sfumata ai margini del loro gruppetto. Studentessa di lettere, Becca l’ha conosciuta per caso a un corso che avevano in comune. Manteneva le distanze come con tutti i suoi compagni, ma un giorno che le servivano degli appunti l’aveva approcciata ed erano uscite insieme dall’università. Malauguratamente Lorenzo stava aspettando Becca ai piedi delle scale, e appena vide quella moretta dal volto pallido, restò folgorato. Da allora Becca è stata obbligata a chiederle di uscire sempre più spesso, e Lalla ha accettato visto che da quando ha trovato il suo ragazzo a letto con un’altra, ha perso non solo lui ma anche tutto il suo giro. Becca prova un’indifferenza notevole nei suoi confronti, dimostrata dal fatto che spesso se la dimentica nei locali e, più di una volta, se n’è andata lasciandola a piedi. Quando si riscuote dalle sue elucubrazioni, si accorge che gli altri stanno ancora ricordando le loro due settimane a Barcellona; i DJ ascoltati, le droghe provate, le scopate avvenute. Becca cerca di nuovo di estraniarsi. Odia i ricordi, sa che quei momenti sono trascorsi e mai più si ripresenteranno le stesse congiunture che hanno reso quegli attimi così memorabili. Questo le comprime la bocca dello stomaco, perché le sembra


25 che si stia lasciando tutto il meglio alle spalle, senza nessuna prospettiva ad allietarle il futuro. «Oh ragazzi, andiamo?» fa finta di chiedere, anche se tutti sanno che è più un ordine. «Sì, facciamo un salto in San Salvario a berne una e poi andiamo a ballare.» «Buona idea, è proprio ora di farsene un’altra.»


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CAPITOLO 3

Swati incrocia le gambe sul pavimento della stanza sempre più buia, quando al Centro la pagheranno dovrà comprare una torcia, non possono andare avanti così. Prova e riprova nella mente il discorso, mentre osserva la madre avvolgere nel saree il corpo sempre più malridotto. Non vuole cercare appoggio, sa che non lo troverebbe. In fondo non sa neanche lei perché vuole parlarne. Forse proprio solo per parlarne. Ha un groppo in gola, le parole le girano lì sulla lingua ma non si decidono a uscire. Poi, d’improvviso, senza più pensare, dice: «L’altro giorno, dopo l’esame, ho incontrato la professoressa che mi seguirà per la tesi.» Nessuna risposta. Swati scruta Laxmi nella speranza di un cenno, non ne riceve e continua: «Mi ha parlato di una grossa, splendida opportunità.» Ancora niente, solo uno sguardo rivolto al pavimento e il pianto disperato della sorella che è stata picchiata dal fratello. Swati immagina che la madre si chiuda in quel mutismo quando non vuole ammettere di non capire cosa dice la figlia nel suo hindi impeccabile, farcito di quei termini così lontani dall’esperienza degradata di Laxmi. «Offrono una borsa di studio… molti soldi» enfatizzando quest’ultima parola magica con un tono più profondo. Solo a quel punto Laxmi alza il volto stanco, guardandola in faccia – atteggiamento che spaventa la figlia più dell’immobilità nella quale solitamente si chiude – e dice: «No Swati, basta eh, io non voglio più sentir parlare di queste borse di studio, yaar, di queste cose. Sei andata al liceo, addirittura all’università, adesso basta, non ci interessano più queste borse di studio.» «Ma ammi, questa è…» «Non è più tempo, Swati» la interrompe dura, senza alzare la voce; anche questo è più spaventoso delle urla «basta rimandare, yaar. Devi trovarti un lavoro, mantenerci. Non ci bastano più i soldi che ti danno al Centro.» «Un lavoro dici, un lavoro… e secondo te per cosa studio? Perché non ho voglia di lavorare?» la voce è un crescendo «secondo te come si fa a trovare un lavoro che ci tiri fuori da ciò a cui la nascita ci ha obbligati, con cui la casta ci ha marchiati? Quelle come me devono avere qualcosa in più, non basta la laurea, e un’esperienza all’estero…» «No» la interrompe, cocciuta, non sta capendo e neanche vuole provarci «devi trovarti un lavoro e aiutarmi, yaar. Vivere qui, badare ai tuoi fratelli.»


27 Swati non vede via d’uscita, sfodera la frase che usa sempre quando desidera ferire la madre: «Papà avrebbe voluto.» Laxmi la guarda intensamente, gli occhi che per un istante perdono la durezza per velarsi di malinconia. «Tuo padre non sapeva vivere, yaar. Hai visto dove ci ha fatti finire, no? Ci sei stata pure tu in mezzo alla strada» pizzica il lembo del saree scuotendo la testa, i lunghi capelli corvini che, in combutta con la notte nascente, le velano il volto «tu fai avanti e indietro da quella tua scuola, ma non sai cosa devo fare io per avere questi metri di tetto per te e i tuoi fratelli, yaar» pinza i capelli sopra la testa, svelando il volto stanco. «Io in strada me ne stavo meglio, eh? Per te e i tuoi fratelli lo faccio. Adesso tocca un po’ anche a te.» Swati sbuffa, odia il vittimismo della madre, si accovaccia e prende a tagliuzzare silenziosamente un pomodoro, il succo che cola dalle mani, al coltello, al pavimento. Pensa a quanto le basterebbe che Laxmi comprendesse anche solo di sfuggita l’importanza di ciò che fa, che non è un passatempo per evitare il lavoro, che non si diverte, che ama lo studio, sì, è ciò che la mantiene in vita, ma è anche ciò che manterrà in vita loro quando gli anni di sacrifici saranno ripagati con qualcosa in più di un impiego statale sottopagato. Fare la maestra in una ricca scuola privata e poi magari chissà, sarà così brava da riuscire a dirigerla quella ricca scuola privata. Rivolge il suo sguardo sognante alle verdure che passano sotto le sue mani abili, lo alza verso i muri crepati, addirittura verso la madre che sta uscendo di casa per andare ai bagni. Spiegare a lei i sogni è difficile. Farle capire che quando si ha una ragione di vita tutto diventa più limpido, e anche i temporali più violenti si trasformano in una rinfrescante pioggerellina d’inizio monsone. Non capirebbe mai. Apre gli occhi di scatto. Non sente rumori alle sue spalle, neanche il flebile respiro dei fratelli, né i pesanti movimenti di Laxmi. Infatti, girandosi, trova la stanza vuota. Strano, non è il giorno di consegna giornali per Riya e Shreyank, e quanto a Laxmi, chiedersi dove sia implicherebbe costruire il solito castello di ipotesi. Si siede a gambe incrociate, la schiena appoggiata al muro. Le piacerebbe parlare con Amit di Laxmi, ragionare insieme su dove si reca la donna tutte le notti. Lui, però, non c’è più, e il suo numero di telefono sembra essere disattivato da tempo. Rimane immersa nei suoi pensieri, ma sempre con le orecchie tese ad ascoltare i rumori provenienti dall’esterno; passi lenti, urla, affanni, e poi, finalmente, tre paia di piedi conosciuti che si affacciano sul gradino.


28 Laxmi apre la tendina e subito Swati li aggredisce: «Dov’eravate?» trascinandosi di fronte a loro. «Li ho trovati alla stazione. Ti ho detto di stare attenta, yaar» il volto stanco, il corpo che subito si accascia sul cartone. «Volevamo giocare con John» dice Riya. Laxmi le tira un improvviso schiaffone da dietro, la mano grande fa finire per terra la bambina che non si lamenta, si accarezza solo la guancia colpita. «Alle sei del mattino non si gioca con nessuno, yaar, non viviamo più in quella stazione, solo i bambini dei beghar escono di notte.» «Ma qui è troppo piccolo.» «Non m’interessa» interviene pacatamente Swati, senza far trasparire la rabbia dalla voce, ne hanno già troppa di violenza intorno «non si esce di casa di notte, non si esce senza chiedere. E adesso mettetevi l’uniforme che dovete andare a scuola.» Senza protestare, il fratello si accovaccia e tira fuori la camicia a quadretti della scuola. «Io ho il turno del pomeriggio questa settimana» dice invece Riya. «Dici sul serio?» «Sul serio.» «Va bene» Swati aiuta il fratello, senza mai voltarsi verso la madre. Gli mette lo zaino sulle spalle e lo spinge fuori con una pacca sul sedere, rimanendo a guardarlo mentre si avvia per il lungo cunicolo. Shreyank sterza, ma solo per far passare un venditore di pentole ambulante, col suo carico tintinnante, la voce cantilenante. Dal gradino di casa Swati continua a controllare che non faccia deviazioni ed entri nell’ingresso già sovraffollato della scuola pubblica. Dopo averlo visto entrare, torna dentro, decisa a recriminare a Laxmi tutte le sue mancanze, nervosa, e senza più voler controllare la voce. Scosta con foga la tendina e la luce illumina il volto della madre distesa. «Co… che cosa ti è successo?» fino a quel momento aveva mantenuto lo sguardo sui fratelli, e adesso per la prima volta osserva la madre. «Niente» risponde la donna, muovendo appena le labbra tumefatte. «Non è vero» Swati vorrebbe accovacciarsi accanto a lei, controllare i lividi, accarezzarglieli, ma non può prendersi questa confidenza e rimane a osservarla dall’alto «è stato Rakesh, vero?» «Non ti preoccupare tu, yaar. Sempre a fare domande.» Swati si china per farle vedere meglio la rabbia che le attraversa il volto, e perché non vuole farsi sentire da Riya, accovacciata sul gradino a mangiare chapati. Vorrebbe scuotere quella donna fino a farle uscire dal corpo l’insensata stupidità che la pervade. «Certo che mi preoccupo, prima o poi quello viene qui e ci ammazza a tutti, non lo capisci? Non lo capisci in che guaio ci metti?»


29 Laxmi si mette a sedere, l’occhio circondato di viola ridotto a una fessura, l’altro che sprizza disprezzo. «E tu non lo capisci in che guaio mi avete messo voi quando siete nati?» si rimette giù, si gira verso il muro «e non pensare più a Rakesh, yaar. Ci protegge, ci ha trovato questo posto, devi solo ringraziarlo. Adesso lasciami dormire.» Swati, senza parole, rimane qualche momento immobile, ascoltando il respiro della madre farsi presto regolare. La osserva pensierosa, adesso che la donna non può vederla, fa vagare lo sguardo sul suo corpo da qualche tempo ammorbidito, e sul volto avvilito. Mai sollevare il coperchio di Laxmi, se lo ripete sempre, goditi la fortuna che ti è capitata e non fare domande. Che bisogno c’è di indagare? Qualche livido, e allora? Come se fosse una cosa insolita tra le donne indiane. La ragazza ammira il bel profilo di Laxmi, le sopracciglia folte, il piccolo naso dritto, le labbra piene. Pensa a ciò cui sarebbe stato destinato quel profilo se solo fosse nato sotto un segno distintivo diverso. Nonostante cercasse di nascondersi la verità, Swati conosce bene la moneta con la quale si ripagano certi favori, e una casa nello slum non è roba da poco, contando che sono più di venti milioni le persone che si contendono quelle sette isole sulle quali sorge Mumbai. Continuando a scrutare la madre, nota agli angoli della bocca tracce di rossetto. Un’idea le si affaccia nella mente e subito si alza, non ne ha proprio voglia. Raccatta il suo zainetto, come se non avesse già abbastanza problemi con i quali fare i conti. Lancia un’occhiata amorevole ai suoi nuovi libri coscienziosamente impilati nell’angolo vicino al cartone sul quale dorme, talvolta la notte allunga una mano per accarezzarli, sentire la loro solida consistenza nel vuoto che col buio l’assale. «Ci vediamo dopo al Centro, babu» dice a Riya, ora stesa immobile a fissare il soffitto. Sta imparando bene. «Ma vieni oggi, eh.» «Lo prometto. Ma solo se tu mi prometti che andrai a scuola.» Riya fa un cenno d’assenso poco convinto. Swati sa che non ci andrà, abbandonata alla mercé di Laxmi che le farà pulire qualche verdura, lavare qualche panno. S’incammina verso l’università, contenta nonostante tutto, il tragitto verso la scuola è una boccata d’aria fresca che può respirare lontana dai problemi. Il progetto della tesi procede a gonfie vele e a lei piace seppellirsi per ore nel fruscìo dei libri della biblioteca. Scopre e si appassiona, sempre più, immagina cosa avrebbe potuto fare in Occidente, le risorse a sua disposizione, le ricerche. Una scossa eccitata le percorre la spina dorsale, meglio non correre troppo, altre sei ragazze sono in lizza per quella stessa


30 borsa di studio; e poi c’è Laxmi: ostacolo principale a ogni possibile realizzazione del suo sogno. È contenta quando vede avvicinarsi Ankita, ha bisogno di fermare la corsa dei pensieri, ha bisogno di essere portata sul solido terreno della banalità dove sa che la sua amica può condurla. «Ciao Anki.» La ragazza, la cui figura bassa e tozza è così in contrasto con quella slanciata di Swati, risponde con un cenno del volto funereo. Swati le si avvicina. «Cosa c’è che non va?» I due grandi occhi lacrimosi che Ankita alza verso Swati sembrano vedere il mondo da molto lontano, dai meandri di una fortezza interiore incastonata in un luogo sicuro. Swati le poggia una mano sulla spalla. «Anki così mi spaventi, dimmi che c’è». Finalmente Ankita parla. «È giunto il momento» lo sguardo interrogativo di Swati la spinge a spiegarsi meglio, sospirando: «ieri mio papà e mio fratello mi hanno detto che devo conoscere un ragazzo… il ragazzo» guarda l’amica di sottecchi. Swati si copre la bocca con la mano, sperando così di nascondere l’espressione d’orrore che non è riuscita a contenere. Ma proprio non riesce a fingere, complice anche la figura tetra dell’amica, che rispecchia i suoi sentimenti. Ankita fa spallucce. «Tanto doveva succedere, prima o poi. Non potevo pensare che un buon liceo mi salvasse da quello che è sempre stato il mio destino.» Swati annuisce pensierosa. Eccola, un’altra miracolata dalle borse di studio Rotary, studentessa mediocre che arrancando – e con l’aiuto di Swati – era riuscita a finire il liceo, per poi riuscire a ottenere un ambitissimo sgabello in un polveroso ufficio pubblico. Le malelingue dei suoi vicini si erano subito scatenate: impossibile, una donna, una vaishia dello slum, ottenere un posto del genere, sedicimila rupie al mese per bere chai gran parte della giornata. Swati aveva attribuito quel colpo di fortuna all’ottimo liceo privato frequentato dall’amica, ma ora quella proposta di matrimonio improvvisa la fa dubitare. «Ti rassegni?» «Cosa posso fare? Prima o poi doveva accadere.» Prima o poi, sempre prima o poi. Salgono sull’autobus che ha appena accostato. «Tu non puoi capire ma per noi è inevitabile.» «Adesso capirò anch’io» dice Swati con un sorrisetto sulle labbra, orgogliosa di quel cambio di condizione. «Non dimentico, ma tutti sanno da dove vieni.»


31 Le era sempre piaciuta la schiettezza dell’amica, anche se in quell’occasione le provoca un’ondata di rancore. Ankita non se ne accorge: «Tutti sanno cosa fa tua madre e che non hai il padre. Non ti preoccupare, nessuno ti si proporrà mai. Sei salva.» «Benissimo allora» dice sarcastica. Non è sicura di volere proprio quello. Certo, neanche un matrimonio combinato e tutto ciò che ne deriva, cura della casa e se proprio ti va bene puoi anche tenerti il lavoro, almeno finché non hai figli. Ma un uomo d’amare, come nei libri, quello sì che l’avrebbe voluto prima o poi. Era bastata una frase a ricordarle che non sono quattro mura a darti lo status di persona rispettabile, quello lo possono rinsaldare solo le generazioni, non toccherà neanche ai suoi fratelli, se va bene al massimo ai figli loro. Quando parte della vita la spendi per strada, ti rimane addosso il marchio di miserabile impresso a fuoco. È difficile scrollarselo di dosso e quelli più determinati a ricordarti da dove provieni, sono proprio gli abitanti della baraccopoli, che si sentono superiori solo perché si trovano un gradino più in alto rispetto a qualcuno che a malapena merita lo status di essere umano. «Capita a tutte, Swati, da quelle con la puzza sotto al naso del nostro liceo, fino alle poveracce dello slum come me. Non vedo cosa ci sia da prendersela tanto» cerca di convincere se stessa «tu piuttosto, fai attenzione a non diventare come tua madre.» La vuole ferire, Swati sa che vuole ribellarsi contro la sua libertà, non dovrebbe abboccare e invece chiede: «Cosa vuoi dire?» «Ne girano di belle sul suo conto…» «Sono pettegolezzi.» «Non credo, visto che per ottenere una casa nello slum servono molti anni, molti soldi e molte conoscenze» ghigna «tua madre non ha né l’uno né l’altro, ma probabilmente ha le conoscenze giuste, quelle sì che le ha.» Swati cerca di trattenere un moto di rabbia. Perché vuole costringerla pure lei a pensare? Perché proprio Ankita, che è sempre stata il suo rifugio sicuro dalla durezza della vita. Avevano condiviso l’infanzia, le corse a perdifiato saltando le buche dei vicoli, le mani impiastricciate dall’henné delle madri, i saree avvolti intorno ai corpicini sporchi, il cricket con i bastoni e con le pietre, anche se erano femmine. Avevano stretto amicizia dal primo giorno di scuola primaria, entrambe relegate ai margini di quella classe di elitarie di South Bombay. Si erano volute davvero bene, di quell’affetto che stringe due anime perse in territorio ostile, ma dalla fine del liceo la loro era diventata un’amicizia di comodo, per soddisfare quei moti dell’anima che spingono le persone a scambiarsi confidenze affrettate. Con gioia di Swati, Ankita si prepara a scendere, preservandola dalla risposta maligna che le avrebbe rivolto con piacere. «Ci vediamo domani allora.»


32 «Mi sa che domani starò a casa con i miei fratelli» mente. Prenderà l’autobus successivo. «Allora a dopodomani. Così ti farò anche sapere com’è andata» e a testa bassa s’avvia verso gli ultimi momenti di libertà che le sono concessi. Una volta all’università, Swati s’immerge nelle sue ricerche, miriadi di nomi e teorie che traspone in una mappa concettuale, finalmente libera dai pensieri assillanti, la madre, lo slum, Amit, Ankita. Via, tutto fuori da quel luogo fresco e quel profumo fragrante di pagine. Per ore non fa che spostare lo sguardo dallo schermo del computer ai fogli, metodica e zelante, quasi ossessiva, è brava in ciò che fa, a dispetto dei pareri contrari di più membri del Consiglio del Rotary a offrire una borsa di studio così sostanziosa a un abitante della strada, quando da sempre erano state destinate ai bambini dello slum. Almeno loro avevano una famiglia rispettabile alle spalle, se non altro. Ma Swati era una bella bambina, e con i suoi occhioni scuri e le precoci capacità di lettura era riuscita a fare breccia nel cuore della moglie dell’ambasciatore canadese, la quale inizialmente la invitava anche a fare merenda in qualche esoso caffè del centro, fin quando la pubertà non aveva colpito il corpo di Swati e la donna aveva trovato un’altra bambina alla quale far mangiare le ciambelle. Neanche sua madre pensava ce l’avrebbe mai fatta, lei che in una scuola non ci aveva mai messo piede e pensava che strani riti magici si svolgessero al suo interno; ma sua figlia non era una maga, lo sapeva bene. Proprio quel bombardamento di scetticismo da più parti le aveva instillato la determinazione necessaria a farla sempre brillare tra le prime della classe, perché se c’era una cosa che aveva imparato in strada, era che se si voleva mangiare bisognava distruggere i pregiudizi della gente, o non si sopravviveva. Lotte per far capire che non era una ladra, una prostituta, una bugiarda, e riuscire a mendicare quelle cinque rupie per una banana. Lotte per eccellere, e riuscire a mendicare un posto nel mondo. Quando gli occhi iniziano a bruciarle per lo sforzo, raduna le sue cose e si avvia verso lo studio della professoressa, dalla quale aveva deciso di passare per farsi valutare la prima parte del lavoro. La donna è dentro, e guarda fuori. La vede e senza cambiare espressione le fa cenno di entrare. «Buongiorno professoressa.» Questa risponde con un cenno, e indica la sedia di fronte a lei. «Mi hai portato l’autorizzazione firmata?» Swati si confonde, si agita sulla sedia. «Sì, ma in realtà ero passata per aggiornarla sugli ultimi progressi.» «Sono sicura che andrà benissimo, sei una studentessa brillante, ma dammi l’autorizzazione che almeno la mando e non devo fare tutto all’ultimo, di fretta.»


33 Con un sospiro, Swati tira fuori dallo zaino il foglio dell’autorizzazione, lo allunga con mano incerta alla donna. Questa controlla la firma. È palesemente falsa, il tratto femminile indeciso sulle linee da seguire, Swati l’aveva ricalcata da un vecchio certificato medico che usava come segnalibro. Ma come spiegare alla professoressa che lo zio che avrebbe dovuto far loro da tutore, fratello del padre, non aveva più voluto vederle dal momento stesso in cui erano bruciati gli ultimi resti del fratello? Che quando, bussando alla sua porta, certo non per chiedere di vivere nel suo bugigattolo di dieci metri quadrati ma almeno un aiuto, un lavoro, non avevano più una sola protezione al mondo, le aveva rinnegate, scuotendo la testa, senza abbassare lo sguardo, dicendo che non doveva loro proprio niente, non facevano più parte della stessa famiglia. Per fortuna la professoressa non è interessata né alla firma né alla miseria, e dopo una rapida occhiata decide di farsela andare bene. «Perfetto, credevo che avremmo avuto problemi per questo, non è semplice per una famiglia come la tua capire l’importanza di cose come questa.» I contatti con la cultura occidentale, che hanno così bene plasmato lo stile della donna, non ne hanno invece scalfito la tipica indelicatezza indiana. La professoressa non perde tempo a formalizzarsi con una come lei, e Swati non può fargliene una colpa. «Ne erano molto contenti invece.» «Buon per te. Ora puoi andare.» «Posso farle vedere dove sono arrivata con le ricerche per la tesi?» «No mi dispiace, non ho tempo. Finisci e poi te lo correggo.» Swati si alza ed esce, delusa. Sapeva che non avrebbe dovuto far troppo affidamento sull’offerta di aiuto della donna, le cose funzionavano così, cattedra tramandata in famiglia, lavoro ben pagato e socialmente riconosciuto, tempo libero, molto. Un’aura d’apatia aleggiava sempre intorno ai professori, difficilmente traspariva un reale interesse per le materie trattate, andato a diluirsi nelle generazioni. Mentre si avvia verso l’uscita, Swati continua a pensare alla professoressa, all’atteggiamento indifferente che traspare da ogni gesto e parola, a quella contrapposizione così marcata con l’idealismo giovane che invece motiva Swati. Sarà forse la giovane età ma lei davvero crede che ciò che fa abbia un senso più grande dell’interesse personale. Una volta fuori, i pensieri si arrestano alla vista di un ben noto volto che la fissa sorridente dal fondo della scalinata. Non vorrebbe, dovrebbe trattenersi, eppure i piedi scendono veloci i gradini, il sorriso le si spande largo sul viso che, maledizione, non ha neanche un filo di trucco. Si arresta a poca distanza dal ragazzo.


34 «Amit, cosa ci fai qui?», cercando di recuperare le forze necessarie a mantenere un certo distacco. «Sono passato al Centro e Riya mi ha detto che ti avrei trovata da queste parti.» S’incamminano, mantenendo le distanze. «Come va a Delhi?» gli chiede lei. «A Delhi bene, ho finito l’università ma ora ho trovato lavoro qui a Mumbai» Swati cerca di trattenere un moto di felicità «per quello sono venuto a trovarti.» «Ma non ti sei mai fatto sentire.» «Avevo… delle cose da fare lì, ma adesso sono qui, Swati» la fa voltare verso di sé, alla fermata dell’autobus «voglio che ricominciamo a vederci, io e te.» Lei scuote la testa mentre salgono sull’autobus. La calca li stringe vicini, troppo per lei che erano cinque anni che sognava quel corpo accanto al suo. Il primo e l’unico, sì, ma in che modo? Quando ripensa alla loro relazione, nei pochi momenti di razionalità, Swati ricorda gli obblighi, il menefreghismo, la violenza degli amplessi che negli anni è riuscito a rubarle. Ma i momenti di lucidità sono troppo rari e lei ha troppo bisogno d’amore, così dice: «È passato tanto tempo ma magari…» Lui la guarda profondamente negli occhi, con quello sguardo un po’ forzato che fa quando vuole dare intensità al momento. «Ci vediamo domani al solito posto, fuori dalla scuola?» Swati annuisce. «Ti scrivo per dirti l’ora. Ciao Swati» e scende, mentre lei tira un sospiro di sollievo. Non è il momento, deve pensare alla tesi, all’Italia. Le comparse di Amit sono sempre funeste. Quell’abatino irriverente ha sempre avuto la capacità di farla deragliare dai suoi seri propositi, quasi facendole giocare le borse di studio e il posto al liceo. Il giorno dopo l’avrebbe visto, niente di che, solo per sapere com’era andata la sua carriera universitaria, solo per fargli sapere che lei stava per partire. Poteva resistergli, doveva, ora che c’era qualcosa di più eccitante di lui da raggiungere. Scende a Grant Road, il quartiere dei bordelli, lo attraversa persa nei suoi pensieri per estraniarsi dal concerto di fischi e commenti a lei indirizzati da ogni angolo delle vie fatiscenti, le donne che la guardano sprezzanti invidiandone bellezza e giovinezza, e chiedendosi chi si crede di essere per non stare sul marciapiede accanto a loro.


35 Un tatuatore seduto sul suo telo disteso sul marciapiede disegna un’ancora sul bicipite di un uomo che fuma una sigaretta: la salvezza, l’unico posto in cui potrà trovarla sarà sul suo braccio. Entra al Centro, nel largo stanzone decorato di orrendi disegni infantili. Sessanta bambini le si affollano intorno alle gambe. «Didi, Didiii» urlano in coro, cercando di raggiungerla a suon di botte sulla faccia dei compagni. Swati cerca di salutarli tutti, salvo poi scrollarseli di dosso quando vede Kokila accostarsi. «Meno male che sei arrivata, yaar, oggi sono indemoniati. Prenditene trenta e cerca di farli stare buoni, gli altri li riporto fuori.» Swati fa una cernita, cercando di capire chi ha bisogni più urgenti, e dopo averli individuati li dispone in cerchio per aiutarli con i rudimenti d’inglese. Guarda dispiaciuta i piccoli che ancora non vanno a scuola, e quelli che non hanno compiti d’inglese per l’indomani attendere in fila indiana di essere guidati verso i loro cartoni abbandonati quella mattina. Niente è cambiato, la notte l’avrebbero di nuovo trascorsa col cielo inquinato sopra la testa, ma almeno hanno ricevuto un pasto, una doccia, per qualche ora hanno potuto abbandonarsi e colorare, giocare, rincorrersi, come dei bambini normali, senza avere la durezza dell’esistenza sulle spalle al posto dello zainetto. Non è molto ma quel lavoretto al Centro dei bambini di strada le procura i soldi necessari per le colazioni di tutta la famiglia, oltre a dare a lei e i fratelli l’opportunità di un pasto caldo e di una doccia gratuita. Per questo sente il cuore sprofondarle nel petto quando, prendendola da parte, Kokila le dice: «Swati, io ho provato a parlare con Nirmal, vedere se si poteva fare un’eccezione, ma non c’è niente da fare, dice che adesso che siete nello slum non potete più venire qui.» «Cosa?» «Questo è un Centro per bambini di strada, Swati… e voi in strada non ci state più.» «Ma non posso neanche venire a insegnare? So che non siamo più in strada, ma ancora non possiamo permetterci niente, i pochi soldi che mia madre prende vanno per l’affitto, questi mi servono per la colazione» la guarda implorante «per favore Kokila.» «Non c’è niente da fare, Swati, l’organizzazione vuole promuovere lo sviluppo dei ragazzi di strada. Prenderemo qualcun altro a insegnare l’inglese» parlava veloce, guardando in basso, sinceramente dispiaciuta. «Almeno lascia che i miei fratelli vengano qui a mangiare un po’ di riso, almeno quello, non lasciarli senza l’unico pasto decente della giornata» supplica a mani giunte. Le dispiace per la torcia che contava di acquistare, quella però non è indispensabile, senza luce non sarebbero morti, senza cibo sì.


36 Si guardano negli occhi per qualche istante, poi Kokila annuisce lentamente. «Va bene, non lo diciamo a nessuno.» Swati prende, riconoscente, le mani della donna tra le sue. «Potete venire qui a mangiare qualcosa, a farvi una doccia se volete, ma soldi non possiamo più dartene, babu.» «Grazie Kokila, grazie. Insegnerò gratis finché non troverete qualcun altro, grazie» l’abbraccia di slancio, la donna ricambia stringendola al corpo morbido, che bello sentire il calore materno di un altro corpo spandersi nel tuo, che bello sarebbe essere figlia di questa donna generosa, che non ha paura a dimostrare, che sa parlare. Si staccano e Kokila si allontana, lanciandole un sorriso benevolo. Arrivano le sette e per tutti è ora di andare. Swati fa aspettare i fratelli e si dirige verso la tanto agognata doccia, che con un getto freddo lava via lo sporco di due giorni. All’acqua fredda si mescolano calde lacrime che scorrono sul viso. Non ha neanche voglia di pensare a tutto ciò per cui piange, lo fa e basta. Quando finisce di lavarsi e piangere, prende dei vestiti puliti dall’armadietto, se li tampona addosso per asciugarsi, poi li indossa. Mette quelli sporchi in un sacchetto, non li può più lavare lì. Poi raccatta zaino e fratelli ed esce per strada, è il momento di maggior affollamento, tutti che corrono via dalla fatica. «Sei andata a scuola oggi?» grida alla sorella per superare il frastuono della strada. «Sì!» urla questa di rimando, guardando fisso di fronte a sé. «Bugiarda.» «Non è vero, sono…» comincia Riya, lasciando la frase in sospeso per staccarsi da Swati, gridando «Ammi, ammiii» e inizia a correre, seguita dal fratello, verso una malfamata strada laterale. Swati li insegue imprecando, fermandosi di scatto alla vista di una donna avvolta in un saree senza corpetto, che fino a qualche istante prima esponeva i seni prosperosi ai passanti, sgusciare all’interno di un sudicio stanzino. I fratellini l’avevano già raggiunto ma Rakesh vi si para di fronte prima che possano entrarvi. «Portateli via, non li voglio tra i piedi» dice appena Swati arriva di corsa. Lei se li nasconde dietro le gambe. «Chiama mia madre.» «Non è qui.» «L’abbiamo vista.» «Non m’importa, yaar, vostra madre sta lavorando. Levatevi dalle palle» e spinge Swati. «Non mi toccare!» Questa volta Rakesh si avvicina.


37 «E va bene, tu fai pure la santarellina, tu che fai battere tua madre per stare a leggere i tuoi bei libri» prendendole il mento tra le dita callose. Lei lo allontana con uno scatto. «Non fare così, tesoro» avvicinandosi sempre di più, il respiro pesante, il corpo pure «è ora che inizi anche tu a pagare per quello che vi do, yaar. Tu saresti un investimento pure migliore di tua madre» le prende la mano «vieni dentro e dimostrami se hai le qualità, yaar.» Con gli occhi colmi di desiderio, inizia a trascinarla dentro, tra gli sghignazzi delle prostitute intorno. I fratelli continuano a brandirla per la kurta. «Via voi» assesta un calcio a pochi centimetri dai piccoli toraci ansimanti. Vengono scaraventati senza tante cerimonie in mezzo alla strada, dove rimangono seduti guardando la sorella scomparire, le piccole labbra tremolanti nello sforzo di trattenere il pianto. A Riya una lacrima scende, va a creare un rigagnolo nel faccino sporco, stringe più forte la mano del fratello. Swati cerca di liberarsi ma la stazza dell’uomo non lo consente, l’ultima cosa che vede sono i due fratellini che corrono verso la strada principale, non sanno cosa potrebbe succedere alla sorella ma sono abituati a fiutare il pericolo, chiedono aiuto, nessuno li considera, provano a trascinare qualcuno, vengono malamente scacciati, due ragazzini sporchi che cercano di attirare uomini nella strada dei bordelli, distruggere i pregiudizi della gente, o non si sopravvive. Si rassegnano, mogi si siedono sul marciapiede opposto ad aspettare la loro didi, che ora ha smesso di dibattersi e accetta rassegnata ciò che sta per accadere. Non c’è niente da fare, non ci si può tirare indietro in nessun caso. Prima o poi. Matrimonio combinato o sesso violento, poco cambia. Swati inizia a pensare ad Amit, alla sua ricerca, ai sette libri impilati nell’angolo, cerca di non guardarsi intorno, le donne sdraiate sui materassi, i gemiti maschili che provengono da dietro le tende, gli occhi famelici degli uomini, quelli indifferenti delle donne. Tutto la sfiora superficialmente mentre Rakesh la lascia cadere sul materasso lurido e le sbottona i jeans puliti con foga mentre Swati, immobile, s’immagina la casa che la ospiterà in Italia. “Se non mi muovo è come se fossi morta, se non penso è come se fossi morta”. Si può mettere in pausa la vita, lo sa, ci aveva già provato quelle volte che Amit la obbligava. Rakesh le crolla addosso come un sacco di riso, lei cerca di non irrigidirsi, più è accogliente e più l’operazione sarà veloce.


38 Attende, forse è già entrato, forse no, probabilmente è riuscita ad anestetizzare anche il corpo oltre alla mente. Sente qualcuno afferrarla dall’alto, per le braccia, cosa sarà mai? «Muoviti, vattene!» La voce famigliare la riscuote. Sua madre la mette in piedi, le alza pantaloni e mutande e vedendo gli occhi della figlia ancora persi le tira uno schiaffetto, intimandole con urgenza: «Devi andartene, yaar, prima che si risvegli!» Rakesh è disteso a faccia in giù sul materasso, un choula abbandonato al suo fianco. «Vieni anche tu» riesce a balbettare Swati, ancora stralunata. «Non posso, devo vedermela qui.» «Non puoi restare qui, ti ammazzerà, vieni!» insiste, cercando di afferrare le mani che Laxmi divincola. «Ti ho detto di no» bisbiglia, trattenendo l’urlo nella voce e scuotendola con violenza. «Ma ti ammazzerà» ripete ancora stordita. «No, gli servo ancora, yaar. Se scappo adesso la tua casa che tanto ti piace non l’avremmo più e il posto alla stazione neanche, e allora mi dici dove andiamo?» «La città è immensa.» «La città è immensa ma i rifiuti non riesce a nasconderli» la spinge fuori «prendi i tuoi fratelli e vai.»


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CAPITOLO 4

Becca apre gli occhi e sente un respiro caldo sulla nuca. Non riconosce il braccio su cui è adagiata la sua testa malandata e spettinata. Non osa girarsi, preferisce rimanere nell’ignoranza. Ma dopo dieci minuti il bisogno di una sigaretta si fa pressante. Inizia a muovere nervosamente i piedi sotto le coperte, tocca uno stinco glabro e scatta in posizione fetale, rabbrividendo. Se per qualche istante si era illusa che al suo fianco ci fosse Alessandro, e che magari aveva cambiato profumo, si ricrede con quel rapido tocco. Non permetterebbe mai al suo ragazzo di andare più volte di lei dall’estetista. Decide che è tempo di uscire dall’ignoranza. Si gira lentamente e subito ricorda la serata precedente. Aperitivo, discoteca, cocaina, di nuovo, Lorenzo e Lalla che litigano, aspettare Lizia fuori dal bagno, due braccia muscolose la cingono da dietro, uno di quei classici profumi maschili che forse è dopobarba le penetra nel naso – ne ha un sentore affievolito anche ora – ti offro da bere, non sai da quanto tempo ti desidero, non ti perdo di vista un attimo quando sei nel mio locale, ti va una pastiglia? Lei certo deve aver detto di sì o non si spiega il pesante cerchio alla testa che l’affligge mentre la vista dà ragione ai ricordi. Enzo, il proprietario del 121. Avrebbe almeno potuto essere furba e farsi portare a casa sua, così ora potrebbe svignarsela e chiudere lì la storia. “Sono una testa di cazzo” si maledice, un po’ per la situazione in cui si è messa e un po’ per la decisione di aver spostato il letto contro il muro per non sentire il vuoto assorbirla da ogni lato, scelta che adesso la costringe ad acrobazie per scavalcare il corpo inerte, cercando di toccarlo il meno possibile. Si sposta in salotto, un disastro. La bottiglia da ottanta euro sottratta alla cantina di suo padre lasciata a metà, da buttare; un bicchiere rovesciato sul tappeto persiano della madre, vestiti sparsi. Si chiede come ha potuto pensare di scoparsi uno che sul pavimento ha lasciato quegli orrendi jeans strappati. Tele esposte sul parquet, ricorda di avergliele mostrate esaltata, e lui guardarle totalmente indifferente. Si sente avvampare per la ridicolaggine di quella scopata. Tradire Ale con soggetti del genere è davvero squallido. Spegne la musica e controlla il telefono. Ale, due chiamate, qualche messaggio. Ributta il cellulare sul divano e si lancia alla ricerca delle sue


40 sigarette, trova il pacchetto, vuoto ma con un rimasuglio di coca, troppo presto, trova una canna nel posacenere e si accende quella. Va alla finestra ed elabora un piano. Intanto per redimersi, far pace con sé stessa. In fondo la serata precedente era stata divertente, se l’era goduta, lui o un altro poco contava, l’importante era continuare a sentire quel brivido. Quello che accompagna il primo contatto delle labbra con un corpo sconosciuto, il primo contatto di mani ignote con la pelle nuda, il primo sguardo di occhi affamati. E poi un piano per liberarsi di quel corpo che la mattina, senza la coltre notturna a mascherare la realtà, inizia a puzzare. Spegne la canna nel posacenere, la testa le gira, va in camera. Inizia a scuotere l’uomo sdraiato, scomposto, tra le lenzuola di cotone rosa cipria. Finalmente reagisce, si stiracchia, apre un poco gli occhi. «Ciao teso…» «Sì sì, ciao» lo interrompe Becca, tirandogli via le coperte «scusa ma te ne devi proprio andare, ho qui tutta la mia famiglia a pranzo.» «Perfetto, ti aiuto, sono un ottimo cuoco.» «No guarda viene già mia madre tra pochissimo, meglio se te ne vai» si guarda intorno «dov’è il preservativo?» «Ma se hai detto che non volevi usarlo, che volevi sentire la pelle del mio c…» «Sì, sì, ok, ho capito» rabbrividendo, maledicendosi, sempre la solita storia. «Se vuoi la puoi risentire adesso» cercando di attirarla a sé. Becca si divincola. «Ma che vuoi? Ti ho detto che devi andartene!» cercando di trascinarlo fuori dal letto per il braccio. Finalmente si alza. «Mi piacerebbe passare del tempo con te» s’infila la maglietta. Lei gli resta di fronte, cercando di mettergli fretta. «Sono fidanzata.» «Io mica sono geloso.» E nemmeno simpatico. «Ma il mio ragazzo sì» vedendolo pronto gli fa strada verso l’uscita. «Almeno lasciami il tuo numero» tentando il tutto per tutto, ormai sulla porta. «No, ma grazie per le pastiglie» e finalmente riesce a chiuderlo fuori, lui e l’ennesima nottata sbagliata. Torna in salotto e con un sospiro si butta sul divano, mentre il telefono inizia a squillare. Alessandro ovviamente. «Bec, dov’eri finita?» eccola, la voce rauca che ama, vuole stare con lui, solo e sempre. «Scusa amorino, scusa. Ieri sera ero troppo ubriaca per riuscire a scriverti, scusa.» «Figurati, avevo immaginato. Cosa fai oggi?» «Vieni subito qui!» urla al ricevitore.


41 «Non volevi finire quel quadro?» «Sì ma vieni comunque, sei la mia migliore ispirazione.» Percepisce la sua indecisione, tra la voglia di passare l’intera giornata con lei e l’orgoglio che calpesta, assentendo sempre a ogni sua richiesta. Lo conosce bene. «Credevo ci saremmo visti stasera.» «Ho bisogno di vederti adesso» voce lamentosa «davvero, ne ho bisogno, bisogno» e non sta scherzando, forse solo un po’ esagerando, l’idea di un’intera giornata sola in un testa a testa con la tela l’avrebbe messa di fronte a tutti i suoi rimorsi. «Va bene, mi cambio e arrivo.» Becca sta già ripulendo la casa dalle tracce del peccato. *** Alessandro guida sorridente, finalmente la sua ragazza gli ha concesso udienza. È sicuro dell’amore di Becca, così com’è sicuro che il motivo per cui stanno ancora insieme è che non esita a concederle i suoi spazi. Una come lei ne ha bisogno, o inizia a dimenarsi come un animale in gabbia. Certo, ha i suoi difetti, lui ha deciso di accettarli. O l’accettazione o la mediocrità, e già si sente mediocre per conto suo. Suona, il campanello gracchia, quello è sempre stato il suo momento preferito. È ancora sospeso, il tempo scorre a velocità regolare, non come quando è con lei, che gli istanti si divorano l’un l’altro. Un’energia abbacinante la pervade e investe quelli intorno. Da sei anni a quella parte, qualunque cosa lei faccia, lo trascina in un mondo nuovo e inesplorato, dove lui non è mai stato. Arriva sul pianerottolo e lei è lì che lo aspetta sulla porta, i jeans slavati sporchi di tempera, una camicia di lino aperta sul reggiseno bianco. Ecco che gli sorride con quel sorriso sghembo che le è tipico, tra le dita una sigaretta, i capelli biondi spettinati. Gli è già venuto duro. Annusa quell’odore puro che le si annida dietro l’orecchio, non contaminato dallo shampoo, tipicamente suo, che le sgorga dall’anima. Non è così sentimentale di solito, ma Becca ha quel suo modo misterioso di tirargli fuori un’arte che lui non possiede. «Anche tu mi sei mancato» dice stringendolo a sé, rispondendo all’affermazione che lui non ha pronunciato ma che gli ha letto negli occhi. È ciò che ha pensato appena l’ha vista, quanto le manca in ogni istante in cui non è con lui, e lei gliel’ha letta con quella sua sensibilità da strega. Si sciolgono dall’abbraccio guardandosi ancora un istante negli occhi, poi Becca lo precede per il corridoio.


42 *** “Lo amo, se mai un dubbio mi attraversa devo ricordarmi di questo momento e di quanto lo amo” pensa standogli a cavalcioni sul divano. Ogni volta che si libera dalle briglie della monogamia si ritrova ad amare Alessandro ancora di più. Per questo non pensa ai tradimenti con particolare contrizione, in fondo lo fa anche per lui, per mantenere vivo quel sentimento altrimenti sfuggente. «Scusa Ale, ma voglio proprio finire questo quadro» dice alzandosi veloce e togliendo la mano di lui dai jeans. In un angolo del salotto ha visto un pacco di Marlboro che avrebbe potuto incastrarla. «Ah, ancora questo?» chiede sporgendosi per vedere meglio una tela sfavillante di colori forti. «Sì, ma voglio alleggerire le tonalità, dargli un tocco tipo…» fa finta di cercare una tela mentre col piede avvicina a lei il pacchetto incriminato. Si piega e con un gesto lo spinge sotto il mobile. «È un po’ troppo psichedelico, anni ‘60, centro sociale» Becca lo guarda di traverso «comunque non è così male, eh» torna più tranquilla verso di lui. Lui sbuffa e l’attira a sé, facendole avvampare i residui dell’ecstasy della notte precedente, il desiderio sessuale che di nuovo pulsa potente. Si baciano a lungo, si spogliano lenti, si penetrano guardandosi negli occhi, si amano tra l’odore della trementina e le tele silenziose. È quello il sesso che a Becca piace, e mentre si gira di schiena si maledice un attimo, uno solo, per le sue scappatelle. Che non sono certo dovute alla carenza di passione, che comunque dopo anni sarebbe normale si facesse sentire, certo, dopo un po’ è sempre la stessa solfa, ma non lo è forse anche con gli altri? Però quelli durano una notte, e per quella notte ci si può sentire liberi, si può essere chiunque. Un po’ come con le droghe. «Devo mettermi a dipingere, davvero questa volta» dice ad Alessandro, appoggiato sul suo seno pochi minuti dopo aver raggiunto l’orgasmo. «Va bene, così io preparo la lezione di domani.» «Ma sentilo, il professorone prepara la lezione, manda avanti il carrozzone.» «Sì sì, tu continua a fare l’artista, che qui c’è gente che lavora sul serio.» «Anche fare l’artista è un lavoro serio. Però adesso non ne ho voglia» lo sbaciucchia, per prendere tempo «è proprio vero che il sesso è un dispendio di energia creativa. Pensaci, perché facciamo sesso? Per procreare.» Alessandro mugugna dubbioso, lei continua: «Intendo, come stimolo primario lo facciamo per procreare, il piacere è una conseguenza, d’altronde la natura doveva trovare un buon motivo per farcelo fare e popolare il pianeta, quindi l’ha reso piacevole.» «Dove vuoi arrivare?»


43 «Voglio dire che quando noi facciamo sesso impieghiamo la nostra energia creativa nell’atto sessuale, e ce ne rimane ben poca per l’attività artistica, che è creazione allo stato puro» alza il volto per guardarlo meglio e gli accarezza il viso «tutta quell’energia la mettiamo in quei pochi secondi d’orgasmo, sprecandola.» «Quindi non dovremmo più scopare?» «Ma figurati» e per sottolineare il concetto glielo prende in mano, adora che da quando non si droga più ce l’ha sempre duro «dico solo che Freud aveva ragione quando diceva che l’astinenza neutralizza le pulsioni sessuali e le trasferisce nella ricerca intellettuale o artistica.» «Allora ascoltiamo Freud e rendiamoci produttivi…» dice stampandole un bacio sulla fronte e sottraendosi alle moine della ragazza. Becca si tira su di scatto, un po’ offesa, si para di fronte al cavalletto e si mette a osservare attentamente il suo quadro psichedelico, accendendosi una sigaretta. «È ora» riscuotendosi dall’immobilismo e afferrando un pennello a caso alla sua destra. Accende la musica, inizia a muovere il pennello sinuosamente a tempo della voce di Leonard Cohen. Sente lo sguardo di Alessandro addosso, adora quando la contempla. Si volta per guardarlo, è bello, i neri capelli ondulati che gli ricadono sugli occhi ombreggiandoli, la bocca carnosa, la barba che gli copre la mascella larga. Cerca di rendere tutti i movimenti perfetti, a favore dei suoi occhi sensibili all’estetica, una delle cose che li accomuna: l’amore per il bello. Allunga il braccio, spreme il tubetto del magenta sulla tavolozza, intinge il pennello, guarda la tela, passa il colore, prende un’altra sigaretta dal tavolino, la tiene un po’ in bocca, riguarda la tela, intinge il pennello nel blu, si accende la sigaretta. Sa che lui non riesce a staccarle gli occhi di dosso. Partono i Baustelle, lo sente che improvvisamente salta giù dal divano e inizia a ballare nudo com’è. Lui, sempre così razionale e pacato, ogni tanto viene mosso da momentanee scosse di follia, come i gatti che da calmi iniziano a fare agguati e correre senza nessun motivo apparente. A Becca piacciono quei momenti e lo guarda ridendo, il pennello a mezz’aria. Alla canzone successiva lo raggiunge, ballano nella casa assolata con la finestra aperta, i volti che si sfiorano, le mani intrecciate, a tratti le lingue s’incontrano, i piedi, i fianchi, le anime in perfetta sincronia. Finita la canzone Alessandro torna sul divano e si veste, è ora di mettersi davvero a lavorare, Becca invece rimane in mezzo al tappeto, vorrebbe ancora ballare, l’euforia della serata precedente è risalita prepotente. Allora balla tutto quello che Spotify le propone, accompagnata dal ticchettio delle dita di Alessandro sui tasti del computer, fa la spola tra il salotto e il balconcino che dà sulla piazza, è ancora nuda ma non le interessa. Guarda le persone di sotto galleggiare come meduse in vestitini svolazzanti, pantaloni leggeri,


44 nella prima giornata clemente di quella primavera altrimenti fredda. Si muovono in ogni direzione, disordinate, lente. Lei li guarda da quella posizione privilegiata, è felice, nel posto giusto, con la persona giusta, a fare le cose giuste, niente potrebbe aumentare la sua felicità che sale in un brivido lungo la colonna vertebrale, esplodendole in una forte luce nel cervello e in un gridolino gutturale che le sfugge dalla gola. Il pensiero della notte precedente non la sfiora, è vissuta, passata, eliminata. Come un battito di ciglia, rinfresca l’occhio, gliene siamo grati in quel momento, ci serve, ma non ce ne rendiamo davvero conto, è un gesto involontario. «Non mi hai detto com’è andata ieri sera» dice Alessandro da dentro, continuando a ticchettare sul computer «ti sei divertita?» «Sì, normale, una serata come altre. Credo di aver visto Lorenzo e Lalla litigare.» «Dovrebbe anche smetterla di stare appresso a quella.» «Glielo dico sempre anch’io» scricchiolio del parquet, le braccia di lui la raggiungono da dietro. «La prossima settimana facciamoci una serata io e te. Mi manca fare festa insieme.» «Non puoi, tra un mese hai gli esami.» «E dai, bevo poco. Tanto non conta se vedono il picco a una sera. Per quanto riguarda il resto, sono pulito da quella notte, non voglio mai più vederla quella merda.» Becca si gira e gli stringe le braccia al collo. «Facciamo che questa serata la rimandiamo a dopo gli esami, così festeggiamo per bene.» «Come vuoi. Ma almeno andiamo a mangiare con gli altri, sono stufo di passare le serate senza di te. Soprattutto adesso che il tempo è bello.» «Guarda che sei tu a fare il recluso, io ti chiedo sempre di venire con noi» esagera. Alessandro inarca le sopracciglia. «Quasi sempre. Comunque va bene, il lavoro non mi lascia un minuto libero in ogni caso. Ho anche saltato la cena del giovedì con i miei amici per andare avanti con ‘sta ricerca.» «Che voglia di ricercare continuamente» entra, ha sentito una persiana muoversi, sicuramente è la vicina che ha l’abitudine di spiarli. «Se ‘sta ricerca va come deve, sarà un bell’aumento di stipendio. Mi servono i soldi.» «Ma cosa te ne frega dei soldi, cosa te ne fai?» dice concitata avviandosi verso i quadri accatastati in un angolo «questo è quello che conta, l’arte, la bellezza, spargere piacere per il mondo» conclude piroettando. «Certo, ma l’arte, la bellezza e il piacere sparso non ti fanno pagare l’affitto.»


45 «Cosa c’entra, quello avrebbero potuto continuare a pagartelo i tuoi» dice con un’alzata di spalle. «Ho quasi trent’anni, non mi va più di farmi pagare le cose dai miei.» Becca sbuffa. «So che non la pensi così ma per la maggior parte delle persone è abbastanza ovvio.» «Senti, sono loro che hanno voluto un figlio e quindi che lo mantengano.» Alessandro tronca il discorso con un gesto spazientito della mano e torna al suo posto a ticchettare. Becca sa bene quanto lo infastidisce con quei discorsi, spesso lo fa apposta. Ma un po’ ci crede davvero, non ha voglia di farsi intaccare dai doveri della realtà, vuole continuare a fluttuare, la bella fronte alta colma solo di colori, a incresparla solo qualche indefinita questione filosofica. Lui un po’ la invidia, sempre così tormentato dalla quotidianità. Lei è invece brezza leggera, che sorvola il mondo fluttuando. A volte, però, le nuvole si addensano in quella testa matta, e soltanto lui è stato testimone degli attacchi sbucati fuori dal nulla, nell’azzurro di un pomeriggio al mare, nel buio di una sala cinematografica. L’inutilità dell’esistenza, lei dice, ma lui sa che in realtà sono le infedeltà di uno, le ambiguità dell’altra, l’assenza di un vero punto di riferimento, tutto per anni interiorizzato sotto strati di risate che mascherano l’affanno e il terrore. C’è stato un lungo periodo d’amore e pomeriggi in casa a guardare la TV, ma da qualche tempo a quella parte la vede di nuovo mutare sotto i suoi occhi. Percepisce l’inquietudine che striscia in ogni suo gesto, e la teme, appeso al laccio della volubilità di quella criniera bionda. Dopo aver ballato a sufficienza, Becca si abbatte felice sul divano. Prende un libro dal pavimento e si mette a leggere rannicchiata sul divano, con la testa appoggiata alla spalla di Alessandro. Tutto tace per mezz’oretta, finché Becca non decide di ordinare del pollo al curry dall’indiano sotto casa. «Dai, sai che non posso più vederlo il cibo indiano.» «E va be’, a me piace.» «Almeno scendi tu a prenderlo» in tono supplichevole «sono trecento metri e a quel povero kashmiro danno a malapena i soldi per spazzare i pavimenti.» «È per questo che gli lasciamo la mancia.» Ale la guarda di sottecchi. «Uff e va bene. Vado e torno» assicura alzandosi di malavoglia. Indossa quello che trova in giro, tra cui la maglia di Alessandro. Gli dà un bacio ed esce. Una volta nella piazza, il dolce tepore la investe. Eccola trasformata in una di quelle meduse che vedeva dal balconcino verso il quale ora si volta nostalgica, sente un calore accogliente chiamarla da quella casa. Inizia anche


46 lei a muoversi morbida, apparentemente senza meta, in quella piazza triangolare che porta le persone a incontrarsi e scansarsi. Entra nel ristorante e aspetta all’entrata che il suo ordine sia pronto. La testa ora le brucia, lo stomaco le pulsa, suda freddo, e quell’odore caldo e speziato non fa che peggiorare la situazione. Mentre è lì in piedi che sposta il peso da una gamba all’altra, si guarda intorno e tutta la materialità dell’universo intorno a lei le esplode in corpo. Sente la pesantezza degli oggetti posati sui ripiani, quella delle sedie, quella degli esseri umani e delle loro suppellettili. Alcune persone sono sedute, altre in piedi; alcune fissano il vuoto, altre perlopiù il cellulare, un uomo fissa lei, voci e scambi di parole, sguardi e battiti di ciglia, muri, porte, tavoli, piatti, la testa le svia, cosa significa tutto questo? Per cosa sono state messe qui queste cianfrusaglie, oggetti e uomini e donne e bambini, dov’è diretta tutta questa materia? Dov’è il traguardo di tutto ciò? Dovrà pur essercene uno, non si possono compiere tutte queste azioni se sono prive di senso, la natura ha sempre un obiettivo per il quale fa muovere i suoi fili. “Perché sto in piedi, perché mi sposto i capelli dietro l’orecchio, perché mi sto dirigendo verso il bancone per ritirare il mio ordine, che cos’è l’ordine, perché mi sto girando e avviando verso la porta?”. Becca la apre, cammina lenta verso la macchina, ha bisogno di spazio, di vuoto, di aria dove far librare lo sguardo. Mette in moto, lasciando il pollo all’indiano e Alessandro in sua attesa.


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CAPITOLO 5

Swati, appoggiandosi allo schienale della sedia scomoda della biblioteca dell’università, sospira mettendo soddisfatta il punto a ciò che le pare essere un ottimo lavoro. Due mesi di dura fatica condensati in quell’attimo di vittoria nel quale si crogiola, perché sa che da quel momento sarebbe iniziato il periodo difficile, un susseguirsi di ore in spasmodica attesa del verdetto finale, senza più le sue ricerche a distrarla. Ritira il quaderno per andare dalla professoressa, è ottimista, ha lavorato bene e magari qualche ragazza batterà in ritirata, famiglia, matrimoni, chissà, tutto sommato le possibilità sono buone. Arrivata davanti all’ufficio della professoressa, questa le fa segno attraverso la porta a vetri di aspettare fuori. Una donna in saree è seduta di fronte a lei dall’altra parte della scrivania. Swati lo trova strano, non è il genere di persona che si vede in un’università, l’abbigliamento tradizionale ormai relegato agli slum o alle cerimonie. O a Laxmi, che Swati non ha mai visto in abiti diversi dai suoi due pezzi di stoffa variopinti. Passati cinque minuti la porta si apre e la donna esce con un bimbetto in braccio, seguita dalla professoressa che fa un rapido cenno di saluto al bambino, guardandolo allontanarsi sul fianco dell’altra donna, col suo solito sguardo affettato. Poi si volta per un istante verso Swati e, senza dire niente, torna dentro lasciando la porta aperta, segno che è arrivato il suo turno. Una volta in ufficio, la professoressa risponde alla muta domanda di Swati: «Mio figlio.» «Davvero? È bellissimo» mente. Non perché non fosse bello ma i bambini l’hanno sempre lasciata indifferente, un’incombenza che prima o poi tocca. Ne nascono talmente tanti dal posto in cui viene. Ha addirittura assistito a qualche parto, non è certo il caso di farne un evento. «Sì, la tata me l’ha portato per salutarlo» inizia a mettere dei fogli nella borsa «oggi pomeriggio parto per Bangalore, presenzierò a una conferenza» con una punta d’orgoglio e una rapida alzata di un angolo delle labbra. «Sono contenta per lei.» «Sono contenta anch’io, vedere altro oltre queste quattro mura per una volta.» Swati fa correre lo sguardo intorno a quelle quattro mura, e pensa che a lei non dispiacerebbe proprio non vedere altro che quello.


48 «Le ho portato il lavoro concluso» allunga il plico per distogliersi da quei pensieri che è meglio non inseguire. Cattedre inarrivabili, sarebbe stato tanto se la sua casta e origine le avessero concesso un posto in una scuola elementare. La professoressa prende i fogli e li mette nella borsa insieme agli altri. «Molto bene, avrò qualcosa da fare in aereo.» Swati aggrotta le sopracciglia. «La scadenza è tra dieci giorni, devo sapere se ci sono delle modifiche da fare.» «Sono sicura che non ce ne saranno, non ti preoccupare, ho detto che lo leggerò in aereo. Ora, se non ti dispiace…» «Mi dispiace. Forse non se ne rende conto, ma io punto molto su quest’opportunità» il tono di voce non si è alzato, solo indurito. Pretende le sia dato ciò che le è dovuto. Lo sguardo della donna è attraversato da una scintilla d’odio, la prima emozione che Swati le vede passare negli occhi. «Qui non sei in strada, farai bene a parlarmi con un altro tono.» «E lei è una professoressa, e farebbe meglio a fare il suo lavoro.» La docente sgrana gli occhi, Swati vede la risposta che le darebbe, se fosse cresciuta anche lei in strada, tremolarle sulla bocca. Ma ci ripensa, dice solo: «Ora vattene, devo prepararmi» e le dà le spalle, rotando sulla sedia girevole. Probabilmente non l’ha reputata all’altezza di una discussione, o semplicemente non ha voglia d’impelagare la sua opaca esistenza in questioni di nessun valore. Swati si alza, non vuole esagerare e d’altronde non ha più niente da dire. Nel corridoio non fa che accrescere il biasimo per quella donna priva di passione, per il suo lavoro ma anche per la sua vita, a giudicare dal distacco col quale si era separata dal figlio. Swati non può che avere un moto di rabbia pensando alla penalizzazione con cui parte rispetto agli altri studenti, il cui saggio è stato magari revisionato e corretto più volte. Come al solito, non può contare che su se stessa, sperando di essere abbastanza. Sale pensierosa sul treno per tornare allo slum e urta contro l’espositore di metallo di una venditrice di elastici e pinzette. La tersa pelle ambrata denota la giovane età della ragazza, che con una mano ferma il dondolio dell’espositore attaccato alla maniglia nel centro del vagone. Il corpo magro, lo sguardo volto al pavimento, un bambino nel braccio sinistro. “Spero non sia suo figlio” pensa distrattamente, aggrappandosi alla maniglia di fianco per contrastare le brusche frenate. Non avendo clienti, la ragazza cerca di far entrare la sua mercanzia in un grosso sacco di plastica, con il bambino che sballottato inizia a piangere. Terminata l’operazione si occupa del bebè in lacrime, guardandolo per la prima volta, con quello sguardo


49 mistico che Swati ha visto solo in quella statuetta all’asilo delle suore che rappresenta la Madonna con Gesù bambino. Il sole illumina le braccia minute che cullano il corpicino morbido, donando alla scena un’aura dorata, scaldando i due volti che si guardano negli occhi. Posa le labbra carnose sul nasino del bambino che, ora ridente, ricambia felice il sorriso. Gli prende la manina e fa finta di mangiarla, lo alza in alto e subito se lo stringe al petto, guarda con occhi colmi d’amore il piccolo volto divertito. È così bella quella scena, il sole rutilante, le pelli fulve, i sorrisi aperti, che Swati si sorprende a sentire un brivido percorrerle braccia e gambe, le lacrime salire agli occhi, la mente offuscarsi. Solo più tardi, in una situazione del tutto diversa, avrebbe capito da dove quell’emozione deriva. Il contatto con l’arte, e quello era il suo primo. Giunta alla fermata, la giovane chioccia copre con la parte superiore del saree il bambino ormai sgravato dalle lacrime, e scende faticosamente col suo carico di lavoro. Anche Swati scende alla fermata successiva, ancora estraniata da quel mondo imperfetto, chiedendosi il motivo di quell’emozione così forte per una scena come se ne vedono tante. Forse le deve arrivare il ciclo. Si ferma a un baracchino e, con le uniche undici rupie che ha in tasca, si compra una sigaretta e dei fiammiferi, ricevendo un’occhiataccia dall’uomo che gliela porge grugnendo in direzione del suo seno. In condizioni eccezionali si concedeva quel piccolo vizio, la prima era stata gentile concessione di un vecchio compagno di sua madre, che un giorno aveva deciso di dileguarsi con tutti i loro averi – vestiti, lo zaino con un quaderno e un libro di scuola di Swati, un pacco di biscotti e addirittura i cartoni sui quali dormivano – ma nella fuga aveva dimenticato il suo pacchetto di bidi. Inizia ad aggirarsi nelle vie dello slum in cerca di un luogo più tranquillo ma non ci riesce. Mumbai è una città in cui non puoi trovare un luogo libero per pensare, piangere o pisciare. Allora si riduce a rannicchiarsi in un angolino, i passanti le lanciano occhiatacce ma fa niente, aspira avida quella boccata d’ossigeno dallo smog della città. La povertà, la vita dura, le persone che soffrono sedici ore al giorno per portare a casa della farina e dei ceci, che non sanno cos’è la vita al di là dei metalli della fabbrica, che neanche ce l’hanno una vita, oltre al sudore. Conosce tutto questo, ci è nata in mezzo, anzi peggio, le lotte per mantenere il posto sul marciapiede dopo che il padre è morto, i fratelli che consegnano giornali da quando hanno sette anni, lei che è stata miracolata o avrebbe già fatto la fine di sua madre. Laxmi, dopo “il fatto”, come lo chiama Swati per cercare di pensarci il meno possibile, ha fatto di tutto per evitare lei e il suo sguardo.


50 Swati, dal canto suo, ha il suo saggio a cui pensare, non vuole farsi distrarre dalle pene di sua madre. Dalla pena per sua madre. Da giorni esce prestissimo la mattina, prima del rientro di Laxmi, e torna tardi il pomeriggio, quando sa che lei è già uscita. Va a prendere i fratelli al Centro, tornando a casa da una strada diversa da quella sulla quale l’avevano incontrata a petto nudo, una strada più lunga; i fratelli si lamentano, ma a lei non importa. Tutto per non dover rivivere quei momenti. Madre. Vuole avere l’immagine della Madonna del treno quando quella parola le viene in mente; le ha mostrato qualcosa che Swati non ha mai visto. Qualcosa che va oltre la miseria, la violenza. Un amore, che lei saprebbe trovare e provare. A Laxmi quell’amore l’hanno strappato via a suon di pugni, sin da piccola, le hanno indurito la corazza che ora nasconde il vuoto. Una vita trascinata tra la polvere del rimorso, della rassegnazione e della violenza. Mentre è lì che medita e osserva numerosi piedi fasciati in sandali lisi, ne vede due che conosce. «Ankita» chiama, tirandole la kurta quando l’amica le passa a una spanna dal naso. La ragazza si blocca mentre Swati si alza buttando il mozzicone di sigaretta dietro di lei. «Swati cosa ci fai qui?» «Sono appena tornata dall’università» iniziano a camminare nella stessa direzione «allora, l’hai visto?» Ankita fa cenno di sì con la testa. «Dai, dimmi qualcosa» sinceramente interessata a sapere chi è toccato in sorte all’amica, sinceramente interessata a distrarsi. «È… un ragazzo simpatico e bello.» «Simpatico e bello, bene. Nient’altro?» L’amica fa spallucce. «Nient’altro. Sono stata fortunata, i miei sono stati buoni.» «Come l’hanno trovato, dove?» «Be’, hai presente il mio lavoro in posta, come tutti si sono stupiti che l’abbia ottenuto?» Ankita si guarda intorno poi le sussurra: «mi raccomando, Swati, lo dico solo a te, eh, devo pur dirlo a qualcuno.» Swati annuisce. «A quanto pare mio padre l’ha ottenuto per me facendo questo patto col capo di quartiere: ricoprire quella posizione fino al ritorno di suo nipote, che adesso è nel Bihar a curare la madre malata.» Swati sgrana gli occhi. Allora avevano tutti avuto ragione. «Ma…» «Non si ottiene un posto del genere senza dar niente in cambio» l’anticipa Ankita, per non sentire le rimostranze dell’amica «neanche tu potrai, fidati.» «Ma io non lo voglio.»


51 «Meglio per te.» Camminano per un po’ in silenzio. «Ma scusa, tu come fai a sapere che è bello e simpatico se non è nemmeno qui?» «L’abbiamo videochiamato. È bellissimo, si farebbe qualsiasi cosa per stare con uno così.» «Anche stare a casa senza lavorare, dedicare tutta la tua vita a lui?» Ankita scoppia in una risata. «Io non vedo l’ora di sposarmi proprio per smettere di lavorare. Svegliati Swati, è quello che vogliono tutte. Il lavoro non è così gratificante come ci facevano credere al liceo.» «Ma tu hai sempre detto di voler essere indipendente, che solo portando a casa soldi come fa l’uomo si può essere considerate quasi uguali. Che avresti preferito essere Sonia Gandhi, uccisa, piuttosto che tua madre viva» le ricorda con trasporto. Le è sempre piaciuto quel discorso dell’amica, uno dei pilastri della loro amicizia, nonostante tutte le differenze. «Era un discorso stupido, di una ragazzina. Io non voglio altro che curarmi della mia famiglia» gli occhi fissi di fronte a sé, il volto immobile. Come un automa. Le hanno inculcato bene le cose in cui credere, e ci hanno messo poco. Si salutano, freddamente, quando Ankita arriva alla porta di casa sua. In realtà non ci hanno messo poco, è tutta la vita che se la lavorano in quella direzione. L’istruzione è riuscita a distoglierla per qualche anno dal destino, far sì che vedesse oltre, che ammirasse quanto l’universo può essere grande. Quante possibilità poteva aprirsi. Ma quei pochi anni non sono riusciti a scalfire i secoli di retaggio culturale che vuole le donne indiane riproduttrici, custodi del nucleo famigliare che le donne stesse hanno imparato ad amare, l’unica cosa che possono amare. Di fronte alla porta di ferro battuto della loro abitazione, la madre di Ankita strofina i panni. Lo sguardo torvo mentre sbircia Swati superarla. La madre di Ankita socchiude gli occhi minacciosa in risposta al saluto di Swati. Non è mai piaciuta ai genitori della ragazza, poco male, neanche loro piacevano a lei. Mentre cammina tranquilla verso casa, qualcuno l’afferra per un polso. È Ganesh, il fratello di Ankita. «Te lo dico, Swati, non mettere strane idee in testa a mia sorella, yaar» sibila. Aveva una cotta per quel ragazzo da bambina, sognava di sposarlo e andare a vivere nello slum con lui e Ankita. «Ma quali idee?» aveva anche provato a baciarlo, intorno ai dodici anni, emulando l’atteggiamento che le donne che la circondavano tenevano con gli uomini per assicurarsi un tetto sopra la testa per qualche giorno.


52 «Quelle che non deve sposarsi, yaar. Tu e le tue scuole dovete stare lontano da mia sorella.» Lui l’aveva anche ribaciata, mettendole una mano sotto la kurta, una dentro i pantaloni, finché Swati non si era staccata sorridente da lui dicendogli: “Ma allora anche tu mi ami, allora ci sposiamo”. «Io non le ho detto proprio niente.» Ganesh le aveva riso in faccia e le aveva dato uno spintone con la forza mal gestita del quindicenne, facendola finire per terra. «Tu non le devi più parlare hai capito? È mia madre che mi ha detto di venire a dirti che tu e lei non dovete più parlare, yaar. Lei non è come te, lei adesso si sposa ed è anche contenta. Non va in giro a farsi scopare come te, non è come te, una casa ce l’ha e una famiglia rispettabile pure. Non come te che fai schifo, yaar.» Mentre Swati lo guardava restando a terra, lui le aveva detto con un sorriso disgustato: “Ti pare che uno come me stia con una pezzente come te? Vai da quella chinaal di tua madre che è meglio”. Nonostante tutte le umiliazioni subite nei pochi anni di vita, quella rivelazione alla sua ingenuità di dodicenne era stata la più cocente per Swati, perché per la prima volta le aveva reso evidente come la sua condizione fosse differente anche da quella di coloro che vivevano in una baraccopoli. Che comunque era gente rispettabile, che si sposava, che metteva al mondo figli che avrebbe amato, che l’unica differenza dai ricchi con le case a South Bombay erano i metri quadri dell’abitazione. Mentre per strada vigeva l’anarchia, nessuna legge sociale a regolare i rapporti tra uomini e donne, madri e figli, padri e figli, padri e madri. Questo la gente rispettabile lo sapeva, e Swati l’aveva capito quel giorno: aveva capito di non essere rispettabile, e che mai da tale sarebbe stata trattata. Dà uno strattone al polso che ancora Ganesh tiene nella sua mano callosa, e se ne va rabbuiata. Allora le cose non erano andate come l’amica le ha riferito, “Nessuna sogna altro che uno come lui”, dovevano esserci state discussioni, ribellioni, o Ganesh non si sarebbe certo preso la briga di minacciarla. Da anni lei e Ankita non erano pienamente sincere l’una con l’altra. Lo sapevano entrambe e facevano finta di niente, sempre sperando che quella complicità che avevano avuto in passato fosse un giorno ritornata. Ma così non era, e allora continuavano a raccontarsi facezie abbellite per rendere la realtà più interessante anche a loro stesse, attraverso quelle chiacchiere saltuarie. Inoltre Swati non aveva molti altri appigli alla società se non quello di Ankita, che finiva per essere l’unico modo per avere ancora una parvenza di contatto con i suoi coetanei. Certo, fino al momento in cui Amit non è apparso in fondo a quella scalinata.


53 Ha un moto di gioia pensando al ragazzo che ha visto due giorni prima e che avrebbe rivisto l’indomani, tra vari rinvii comunicati concisamente via WhatsApp. Entra nell’abitazione, come sempre in penombra. Non hanno ancora ottenuto l’allaccio all’elettricità ma non è davvero indispensabile dopo una vita passata alla luce del sole della strada. Sua madre è seduta a gambe incrociate a pelare patate, non può evitarla. Ma le parole rimangono sospese, nessuna delle due è disposta ad aprire il discorso. «Mi dispiace ammi.» E quella da dove le era uscita? Le dispiace? Per cosa? Per aver parlato forse, non avrebbe mai voluto intavolare quel discorso. «Cos’eri venuta a fare lì?» «I bambini ti hanno vista. Ho cercato di fermarli» a quanto pare la Swati inconscia vuole un chiarimento, vuole smettere di cercare di evitare la madre in quattro metri di casa. «Hanno capito?» «Non credo» però lei sì. Non è neanche il giudizio morale sulla depravazione di quell’occupazione ad averle posato un peso sul cuore. È più che altro il corpo di Laxmi, immaginato tra le mani sudice di quegli uomini, la pena che doveva provare ogni volta che ne vedeva uno avvicinarsi. Swati vorrebbe abbracciarla, farle sentire un contatto d’affetto e non di desiderio, ma per l’ennesima volta deve rendersi conto che il suo corpo è bloccato nelle spinte verso quella donna. Così rimane impalata di fronte a lei, a guardarla mentre continua a pelare le sue verdure, compatendola, anche amandola, nonostante non riesca a comprendere che un gesto d’amore potrebbe sollevare Laxmi da molte tristezze. Il discorso sembra chiuso e Swati non sa come continuarlo. E neanche vuole farlo, non c’è altro da dire, se non ribadire a Laxmi la necessità di allontanarsi da Rakesh, al cui pensiero le corre un brivido di disgusto per la schiena. Ma memore dei contro argomenti che la madre già le aveva elencato decide di parlare d’altro: «Sai, ammi, che Amit è tornato da Delhi?» La madre la guarda di traverso, continuando a pelare le patate. «Ci siamo visti ieri, ci amiamo, come prima.» «Tu non sai cos’è l’amore.» «Certo che lo so, mio padre me l’ha insegnato.» Laxmi fa una risatina. «Quello era solo un buono a nulla, yaar.» Un’onta di rabbia monta in Swati, batte un piede per terra, grida: «Stai zitta, non parlare così di mio padre, lui mi ha amata e così anche Amit. Vuole sposarmi, me l’ha detto.» Laxmi la guarda placida. «Hai rivisto Amit?»


54 «L’ho rivisto e mi ama. Vuole sposarmi, me l’ha detto. Mi ama» se lo ripete come un mantra da quando l’ha visto, anche se i suoi messaggi più teneri non hanno ricevuto risposta. Non che le avesse detto proprio quelle parole quando l’aveva visto due giorni prima, ma lei sapeva che era ciò che intendeva quando l’aveva baciata, poi l’aveva toccata, poi l’aveva portata dietro quello che era stato il loro liceo –“dai che tanto ‘sto posto lo conosciamo così bene” – e lì l’aveva penetrata, velocemente, quasi non se n’era accorta. Ma non era quello l’importante, l’importante era che lui era tornato da lei e non l’avrebbe più fatto scappare. Laxmi si alza e prende un foglio posato sopra la pila dei libri. «Anche se i genitori lo lasciassero sposare con te, come faresti con questo?» «Cos’è questo?» chiede Swati pur sapendolo. La madre a malapena riesce a leggere due parole in hindi, il suo nome e cognome, e quello che sventolava era il foglio con le condizioni per la borsa di studio scritto in inglese, che neanche Swati aveva ancora letto. Non voleva conoscere in ogni dettaglio ciò che poteva rischiare di non ottenere, meglio non sapere. «Sono ignorante ma non stupida, yaar» dice Laxmi sventolando il foglio e alzandosi «e qui c’è scritto 70.000 rupie, vedi, lo vedi? Tu mi avevi parlato di una borsa di studio, ma io pensavo che si trattasse di andare in qualche altra scuola a studiare, non che ti avrebbero dato tutti questi soldi con i quali ci potresti mantenere.» Ecco perché Laxmi aveva deciso di affrontarla, e si era fatta trovare disposta al dialogo. «Ammi tu non capisci cosa vuol dire avere questi soldi» risponde grave, desiderando però strappare il foglio alla madre per capire se davvero le avrebbero dato tutti quei soldi. «Capisco, capisco. Vuol dire avere il cibo per i tuoi fratelli, vuol dire non dover più andare… dove mi hai visto, yaar.» Erano lacrime quelle che le vedeva sospese nello sguardo? Le prende il foglio dalle mani e sgrana gli occhi. Proprio così, settantamila rupie al mese. Rilegge due o tre volte, incredula. Quello è ciò che gli abitanti dello slum guadagnano in sei mesi a sputare sangue in una fabbrica. Quello che Laxmi se va bene guadagna in un anno, forse nemmeno considerando il debito con Rakesh per la casa in cui vivono. Guarda la madre negli occhi, erano anni che non si guardavano così, forse non si erano mai guardate così. «Hai ragione ammi. Io devo andare, per forza.» «Sì Sutina, devi, devi per forza, yaar.» Quanto tempo che non sentiva il suo nomignolo di bambina. Stanno quasi per abbracciarsi, lo vorrebbero, ma rimangono a guardarsi con l’emozione dipinta in volto. Settantamila rupie al mese non capitano a gente come loro. È come vincere alla lotteria.


55 «Il fatto però, ammi, è che io devo andare via per prendere questi soldi. Capisci? Lontano, in Europa.» «E va bene, yaar, prenderai l’aeroplano e poi ci manderai i soldi. Sessantamila rupie al mese.» Swati annuisce estasiata, come fosse già via da quelle mura. Diecimila rupie le sarebbero sicuramente bastate per vivere in Italia, a Mumbai ci riesce con niente. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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INDICE

PROLOGO...................................................................................... 5 CAPITOLO 1 .................................................................................. 7 CAPITOLO 2 ................................................................................ 17 CAPITOLO 3 ................................................................................ 26 CAPITOLO 4 ................................................................................ 39 CAPITOLO 5 ................................................................................ 47 CAPITOLO 6 ................................................................................ 56 CAPITOLO 7 ................................................................................ 63 CAPITOLO 8 ................................................................................ 69 CAPITOLO 9 ................................................................................ 74 CAPITOLO 10 .............................................................................. 82 CAPITOLO 11 .............................................................................. 88 CAPITOLO 12 ............................................................................ 101 CAPITOLO 13 ............................................................................ 110 CAPITOLO 14 ............................................................................ 117 CAPITOLO 15 ............................................................................ 128 CAPITOLO 16 ............................................................................ 144 CAPITOLO 17 ............................................................................ 154 CAPITOLO 18 ............................................................................ 167 CAPITOLO 19 ............................................................................ 178 CAPITOLO 20 ............................................................................ 188 CAPITOLO 21 ............................................................................ 199 CAPITOLO 22 ............................................................................ 209 CAPITOLO 23 ............................................................................ 223 CAPITOLO 24 ............................................................................ 236 CAPITOLO 25 ............................................................................ 246


CAPITOLO 26 ............................................................................ 251 EPILOGO ................................................................................... 257 RINGRAZIAMENTI .................................................................. 261


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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