Storie di altri tempi e altri valori, Pierina D'Aguanno

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PIERINA D’AGUANNO

STORIE DI ALTRI TEMPI E ALTRI VALORI

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ STORIE DI ALTRI TEMPI E ALTRI VALORI Copyright © 2019 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-348-2 Copertina: immagine Shutterstock.com


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NOTA DELL’AUTRICE

Ci sono storie di persone comuni, che hanno al loro interno qualcosa di particolare che le rende degne di essere conosciute; storie i cui protagonisti meriterebbero la stessa ammirazione e lo stesso interesse che di solito si riserva ai personaggi che, a vario titolo, occupano le pagine dei rotocalchi. L’Italia è piena di eroi che impariamo a conoscere fin da piccoli attraverso i testi scolastici, ma esiste un sottobosco di persone sconosciute che, loro malgrado, hanno dovuto assumere il ruolo di eroi nell’affrontare le grandi difficoltà che hanno incontrato nella vita. I protagonisti delle storie che seguono, secondo me, possono essere inseriti a pieno titolo in questo sottobosco.


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INTRODUZIONE

Giuseppina e Antonio nacquero, entrambi, in un piccolo borgo collinare, formato da una manciata di case attorno a un campanile e distese di prati a perdita d’occhio, attraversati dal fiume Liri; un piccolo agglomerato a circa venti

chilometri

dall’Abbazia

di

Montecassino,

tristemente nota per la sua distruzione da parte delle truppe tedesche durante la Seconda guerra mondiale. I due si unirono in matrimonio l’11 settembre del 1950 e prima che le loro vite s’intrecciassero, dovettero superare – anche se per motivazioni diverse – dure prove che li fecero maturare molto prima del dovuto.


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GIUSEPPINA

Era il 17 novembre del 1927 quando Giuseppina venne alla luce. Da adulta, spesso con una buona dose d’ironia e una leggera superstizione, riferendosi alla sua data di nascita diceva: «Nascendo il 17 novembre cosa potevo aspettarmi se non una vita travagliata?» Essendo la prima di cinque fratelli, si assunse sin da subito tutta la responsabilità che il ruolo di sorella maggiore comportava. Era ancora una ragazzina e già accudiva i suoi fratelli – due maschi e due femmine – quando il padre non c’era e la mamma si doveva allontanare da casa, per lavorare nei campi o per andare in montagna a procurarsi la legna per il camino.


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Il papà per un periodo visse in Brasile, dove si era recato in cerca di fortuna, anche se molto probabilmente non la incontrò mai, visto che quando tornò in Italia, portò con sé solo un organetto con il quale tutt’al più poteva allietare la sua famiglia ma non certo sfamarla. I genitori di Giuseppina si erano sposati molto presto: sedici anni lei e diciannove lui, con la differenza che lui l’aveva scelta perché era carina, buona e arrendevole (qualità, quest’ultima, assai importante per la mentalità maschilista dell’epoca) mentre lei aveva seguito i consigli dei propri genitori, che ritenevano il ragazzo un buon partito perché onesto, serio e di famiglia non molto numerosa. A quei tempi si usava sposarsi molto giovani e i ragazzi, prima delle nozze, dovevano incontrarsi sempre in presenza di altri e in giorni stabiliti dalle famiglie; se durante quella breve conoscenza scattavano l’attrazione e l’amore, era senz’altro meglio, ma se non succedeva non c’era da preoccuparsi: “l’amore verrà dopo” dicevano le mamme alle proprie figlie.


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Il sesso era un tabù, soprattutto per le ragazze, così capitava che andassero incontro alla vita matrimoniale senza nemmeno capire in cosa consistesse. C’era certo qualcuna più sveglia e disinvolta, che le informazioni riusciva a carpirle e a metterle in pratica, ma non era questo il caso di Maria, la mamma di Giuseppina, che era talmente ingenua e sprovveduta che la sera del matrimonio, quando i suoi genitori stavano per andare via, lei prese le sue cose per seguirli convinta, forse, che il matrimonio consistesse solo in una giornata di festa. Questo la dice lunga sulla semplicità e l’arretratezza nella quale si viveva in paesi molto piccoli negli anni intorno alla Seconda guerra mondiale. La preoccupazione principale era procurarsi il necessario per sopravvivere, e tutto ciò che non si poteva toccare con mano, non era ritenuto indispensabile. Nonostante la predisposizione verso la razionalità, c’erano però dei sentimenti e dei valori non negoziabili, quali la solidarietà e il rispetto, e una stretta di mano valeva più di cento contratti scritti. Chiaramente anche


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allora c’erano quelli che se ne infischiavano dei buoni principi, ma erano una minoranza. Facendo parte di una famiglia tipo di quegli anni, numerosa

e

con

poche

disponibilità

economiche,

Giuseppina aveva presto imparato a non avanzare pretese e accontentarsi di quello che poteva avere. Il suo contributo in famiglia, per quello che permetteva la sua età, era importante e per questo le fu consentito di frequentare la scuola saltuariamente e solo fino alla terza elementare; d’altronde a quei tempi alle donne si chiedeva solo

essere

buone

mogli,

buone

casalinghe

e,

successivamente, buone mamme, cose per le quali la cultura non era indispensabile. La bambina non se ne crucciò più di tanto, sia perché aveva scoperto che non era portata per lo studio, sia perché si rendeva conto che le sue braccia e le sue energie servivano alla famiglia. La sua ignoranza culturale era, però, compensata da una nobiltà d’animo, che la portò a essere sempre educata, discreta, altruista e capace di capire la psicologia umana come poche persone “istruite” ancora oggi sanno fare.


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La sua adolescenza fu funestata da un evento terribile: la guerra. Non aveva ancora compiuto diciassette anni, infatti, quando la zona in cui viveva fu colpita dalle cannonate del cosiddetto “fuoco amico”, che in base a segnalazioni errate, furono dirette verso le grottericovero in cui si erano rifugiate la famiglia di Giuseppina e quelle di tanti altri suoi compaesani. Per la giovane fu un’esperienza sconvolgente, che lasciò nel suo animo un segno indelebile, ma dalla quale riuscì a trarre una forza che non sapeva di possedere: dovette, infatti, provvedere lei alla sussistenza dell’intera famiglia, in quanto la madre, già fragile di suo e debilitata da gravidanze ravvicinate, era paralizzata dalla paura e incapace di svolgere appieno il suo ruolo. Considerato che il papà era impegnato nei lavori di bonifica dell’Agro Pontino, che i fratelli erano anche loro impauriti, e che le sorelle erano piccoline, Giuseppina capì che doveva superare la paura e darsi da fare per non rischiare di salvarsi dalle cannonate e morire invece per la fame. Per questo ogni giorno, incurante dei pericoli, usciva dai ricoveri e si recava in una sorta di grotta nascosta dalla


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vegetazione, dove la sua famiglia aveva portato una mucca e alcuni alimenti, come farina di mais e legumi, per non farli prendere dai tedeschi che razziavano le case senza lasciare nulla. All’andata la giovane strappava dell’erba fresca per la mucca, e al ritorno portava con sé qualcosa da cucinare sui carboni, nel ricovero. A volte le cannonate arrivavano a pochi centimetri da lei, e solo per un miracolo non la colpirono mai. Spesso, per andare più veloce, si toglieva le scarpe e rientrava con i piedi feriti e doloranti. Con amarezza la giovane scoprì, a guerra finita, che gli ultimi cannoneggiamenti avevano colpito il rifugio della sua mucca, uccidendola, e rendendo così vani i rischi che aveva corso nella speranza di salvarla e di assicurarsi una fonte preziosa di sostentamento. Il sollievo per avere avuto salva la vita, fece passare in secondo ordine il dispiacere per tutto ciò che di materiale aveva perso, ma ripartire da zero era davvero difficile. Per fortuna la casetta nella quale lei e la sua famiglia vivevano era rimasta intatta, insieme ai pochi mobili ma nulla sarebbe stato più come prima: i suoi occhi avevano


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visto corpi di amici e parenti dilaniati, intere famiglie distrutte e parecchie abitazioni rase al suolo. Il campanile, che svettava rassicurante su tutto il paese, non esisteva più e tutt’intorno c’era solo desolazione. L’Abbazia di Montecassino, capolavoro architettonico di grande valore storico – vi fu redatto il primo documento tradotto

in

lingua

volgare,

da

formule

scritte

precedentemente solo in latino – voluto da San Benedetto, secondo la regola “Ora et labora” e orgoglio delle popolazioni circostanti, che prima si ergeva in tutta la sua maestosità, ora era ridotta a un gran cumulo di macerie. Anche chi era stato risparmiato dalla guerra, continuava a subirne le conseguenze, sia fisiche sia psicologiche, e Giuseppina fu una di questi. Una mattina, dopo una notte agitata, si svegliò in preda a brividi di freddo che la scuotevano tutta e con la fronte caldissima. La sua mamma si adoperò subito per far scendere la febbre, con i rimedi naturali che conosceva, ma non ottenendo alcun risultato decise di chiamare il medico del paese, al quale bastò poco per fare la diagnosi: si trattava di malaria, una malattia che ben presto si era


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diffusa tra i sopravvissuti a causa della scarsa igiene in cui erano stati costretti a vivere durante l’evento bellico. Appena arrivato al capezzale dell’ammalata, il dottore somministrò un antipiretico ma disse chiaramente che c’era bisogno del chinino, un farmaco che lo Stato aveva messo a disposizione di chi ne aveva bisogno, proprio per combattere la malaria, ma che nei centri più piccoli non era ancora arrivato. Immediatamente Raffaele, il padre di Giuseppina, si fece prestare un asinello da un vicino di casa e si mise in cammino verso il paese nel quale, secondo le indicazioni del dottore, lo avrebbe trovato e che distava all’incirca trenta chilometri dalla sua abitazione. Dopo aver percorso due terzi del tragitto, Raffaele si rese conto che il povero animale rallentava sempre più il suo passo e capì che era il momento di farlo riposare. Per la sosta scelse una casa sulla strada che aveva anche uno spazio verde tutt’intorno; solo in quel momento si rese conto che di quella sosta aveva bisogno anche lui, perché aveva la schiena a pezzi e i suoi occhi, pieni della polvere


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che l’asino sollevava con gli zoccoli, bruciavano e lacrimavano, impedendogli così di vedere bene. Quando bussò alla porta della casa presso la quale si era fermato, venne ad aprirgli una donna di mezza età che lo guardò con aria interrogativa, non ravvisando in lui nessun conoscente. Mentre Raffaele spiegava il motivo che lo aveva portato fin lì, sopraggiunse il marito della donna che lo invitò a entrare. Quell’uomo dall’aria sofferente, non sembrava affatto un malintenzionato ma una persona che aveva bisogno di aiuto. I due coniugi, sentito il motivo che aveva spinto l’uomo ad affrontare quel viaggio, furono molto gentili: gli dissero che poteva fermarsi quanto voleva per riposare, gli fecero sciacquare il viso e diedero anche una manciata di fieno all’asino. Raffaele approfittò dell’ospitalità di quelle brave persone per poco tempo e, dopo averle ripetutamente ringraziate, si rimise in viaggio perché ogni minuto perso poteva essere fatale per la vita di Giuseppina. Quando finalmente poté avere tra le sue mani la scatola contenente il farmaco, cominciava a fare buio, ma l’idea


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di fare il viaggio di ritorno in piena notte non lo spaventava, gli faceva molta più paura l’idea di non arrivare in tempo per salvare la sua amata figliola. A casa di Giuseppina, intanto, si vivevano ore di angoscia, in quanto la situazione della giovane si aggravava sempre più: la febbre scendeva per un po’ ma poi raggiungeva di nuovo picchi molto elevati; in alcuni momenti delirava e si agitava ma nelle ultime ore era completamente immobile, non rispondeva a nessuno stimolo e il suo respiro si era fatto più flebile, tanto che la madre, ogni tanto, avvicinava il suo viso bagnato di lacrime alla bocca della figlia per percepirlo. L’impressione che avevano parenti e amici, accorsi al suo capezzale, era che la giovane fosse ormai alla fine. Nel paese di Giuseppina vigeva l’usanza che quando moriva una giovane, pura nel corpo ma anche nell’anima, non avendo avuto il tempo di conoscere tutte le brutture della vita, doveva essere vegliata e poi accompagnata alla dimora eterna, da un gruppo di ragazze chiamate “verginelle” che indossavano il candido vestito della prima comunione. Per questa ragione, quando sembrò che


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la giovane fosse vicina alla morte, alcune vicine radunarono un gruppo di ragazze, e dopo aver fatto loro indossare la bianca veste le accompagnarono al capezzale di Giuseppina, dove cominciarono a recitare delle preghiere. La mamma della giovane quando vide entrare le “verginelle” svenne, perché in quel momento realizzò che i suoi timori erano percepiti anche da altri. Le sorelle di Maria, che non l’avevano lasciata sola neanche per un attimo e si prendevano cura dei bambini, cercarono di rianimarla e farle coraggio. Giuseppina, dopo ore d’incoscienza, all’improvviso emise un urlo angosciato, seguito da una frase alla quale nessuno seppe dare un significato: «Oddio, zio Raffaele senza testa!» poi, dopo una breve pausa, riprese a parlare e disse: «Pietro hai incontrato Angelina? Se solo avesse aspettato ancora un po’ prima di uscire dal ricovero, adesso sarebbe ancora viva» dopodiché la giovane ripiombò nel silenzio. Se la prima frase – per coloro che l’avevano sentita – non significava nulla, la seconda li aveva lasciati allibiti,


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perché avevano individuato l’interlocutore di Giuseppina ma sapevano pure che era morto, come morta era Angelina, la sua fidanzata. Qualcuno si fece il segno della croce, ritenendo che Giuseppina avesse già varcato il confine tra la vita terrena e quella ultraterrena. Essendosi fatto molto tardi, le “verginelle” e altre persone andarono a casa a dormire, mentre i parenti più stretti rimasero a vegliare la moribonda. Era quasi mezzanotte quando si sentì lo scalpiccio degli zoccoli di un animale che si dirigeva verso l’abitazione di Giuseppina: era Raffaele che tornava. Maria appena lo vide alzò gli occhi al cielo e si mise in ginocchio: sua figlia era ancora viva e, forse, con il rimedio adatto si sarebbe potuta salvare. Uno zio di Giuseppina si offrì di andare a chiamare il dottore, visto che Raffaele era troppo stanco e provato, ed era giusto che rimanesse accanto alla figlia. Il medico, seppur svegliato nel cuore della notte, si alzò immediatamente e prese la sua valigetta per avviarsi a passo spedito verso la casa della giovane.


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Dopo aver iniettato la dose del farmaco nelle vene di Giuseppina, si sedette con i parenti per verificare eventuali sintomi di allergia o di altre controindicazioni al chinino. Una volta appurato che l’organismo della ragazza reagiva bene, andò via con la promessa che sarebbe ripassato l’indomani per una visita di controllo. Quando le prime luci dell’alba scacciarono le tenebre notturne, Giuseppina cominciò a fare qualche piccolo movimento e a muovere le labbra nel tentativo di parlare. La mamma, che non si era mossa dal suo capezzale per tutta la notte, seduta su una sedia, le umettava le labbra rese secche dalle febbri e l’accarezzava per farle sentire la sua presenza e infonderle un po’ di forza. Appena il sole fu abbastanza alto nel cielo, cominciarono ad arrivare alcune vicine di casa che volevano informarsi sulle condizioni di Giuseppina, e una di loro comunicò una notizia appena appresa che lasciò tutti senza fiato: attraverso i carabinieri si era saputo che un loro compaesano, Raffaele, era rimasto vittima di un incidente ed era morto decapitato. L’uomo, mentre viaggiava su un treno che avrebbe dovuto portarlo a Roma per avere


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notizie del figlio disperso in guerra, aveva sporto la testa fuori del finestrino nel momento in cui sopraggiungeva un altro treno in direzione opposta e lo aveva decapitato. Confrontando gli orari, risultò che la disgrazia doveva essere successa proprio quando Giuseppina l’aveva vista accadere. Un brivido attraversò il corpo di mamma Maria e di quanti sapevano dell’accaduto, perché a quel punto fu chiaro che la giovane, anche se per poco, aveva veramente varcato la soglia consentita a chi cessa di vivere ed è in grado di vedere oltre. A quel punto la fantasia popolare si scatenò, e ognuno diede una sua interpretazione al fenomeno. Qualcuno più creativo vide la cosa come una sorta d’investitura per l’acquisizione di poteri sovrannaturali; qualcun altro un messaggio per chi non credeva nella vita eterna. Giorno dopo giorno Giuseppina cominciò a riprendersi, fino a ritrovare la consueta energia, ma né nell’immediato né in seguito ricordò mai quello che aveva visto nel momento in cui era sospesa tra la vita e la morte, e la cosa rimase avvolta nel mistero.


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Negli anni a venire – come si vedrà in seguito – altre volte la “nera signora” cercò di portarsi via Giuseppina ma ci riuscì solo quando il destino, o chi per lui, aveva stabilito la sua vittoria sulla donna. *** )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO La 0111edizioni organizza la Seconda edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2019) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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