Split Banana Killer, Stefano Milighetti

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STEFANO MILIGHETTI

SPLIT BANANA KILLER

ZeroUnoUndici Edizioni


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SPLIT BANANA KILLER Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-537-0 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Marzo 2022


A Laura, per il Regalo del 24 novembre. Al gruppo FB Anima Oscura, che mi ha dato il “La”. A Maurizio Boschetti, fratellanza. A Monica Cabras, per la faccenda di quei libri.



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INCUBO

Manca l’aria, sento il peso dell’asfissia che mi sfonda il petto. Il terrore imbottito, funi d’acciaio m’immobilizzano. Poi l’oscurità, matassa impenetrabile, distorta dal suono affannato dei miei respiri convulsi. Sempre più rapidi, come la raffica singhiozzante di una mitragliatrice asmatica. Provo a muovere la testa, a guardarmi intorno, ma sono immobile, rigido come un blocco di pietra senza vita. Avverto, lontano, l’odore di terra bagnata. Percepisco uno spiffero d’aria, sottile e immateriale, ma non riesco a respirare. Per me solo esalazioni venefiche di legno putrido. Buio, sempre e solo buio. Tiranno inesorabile che non ammette opposizione di luce. Prigioniero del mio corpo, del terrore, dell’orrore tra tutti gli orrori, prigioniero… Questo è il mio incubo di sempre. Il delirio che da anni mi tormenta. Sognato migliaia di volte ogni notte, da quando ne ho memoria, in una lunga ripetizione dell’eterno uguale. La prima volta avevo sei anni e ricordo che schizzai via dal letto, vittima di una crisi isterica che rischiò di mandarmi in pappa il cervello. Mia madre impiegò alcune ore per calmarmi, quando il sole aveva cominciato a fare capolino dalle colline dietro casa. Quel giorno non andai a scuola, neppure i due successivi, tanto ero spaventato. Le prime notti furono le peggiori, perché credevo che quell’assenza onirica di luce e movimento fosse invece la realtà della mia esistenza. Che per un beffardo gioco del destino fossi imprigionato per l’eternità. Poi, giorno dopo giorno, divenne chiaro che era solo un brutto sogno e che, anche se mi svegliavo con il cuore prossimo alla distruzione, non correvo alcun pericolo; ero al sicuro nella mia camera, con i miei genitori che dormivano nella stanza accanto, pronti a correre in mio aiuto e proteggermi da qualunque minaccia mi avesse aggredito.


6 Servì quasi un anno, alla fine il sonno non fu più fonte di terrore e iniziai a considerare il sogno come una parte inquietante ma naturale di me. Due mesi ancora e non ci feci più caso: sapevo quello che mi aspettava, e che sarebbe finito al momento del risveglio, seppur brusco. Rimaneva la paura ma scemava quasi subito, dissipandosi come una manciata di sabbia che scivolava via dalle mie dita di bambino. E quando aprivo gli occhi ansimando, con un urlo che premeva contro la gola, cercando la via d’uscita per il mondo, mi ripetevo che non era altro che un sogno. Un sogno, soltanto un sogno… Una fitta lacerante al petto e al fianco. Un tanfo nauseabondo di sangue ed escrementi mi avvelena bocca e narici, provocandomi conati; poi il buio, nero impenetrabile. Manca l’aria, sento il peso dell’asfissia che mi sfonda il petto. Il terrore imbottito, funi d’acciaio m’immobilizzano. Poi l’oscurità, matassa impenetrabile, distorta dal suono affannato dei miei respiri convulsi. Sempre più rapidi, come la raffica singhiozzante di una mitragliatrice asmatica. Provo a muovere la testa, a guardarmi intorno, ma sono immobile, rigido come un blocco di pietra senza vita. Avverto, lontano, l’odore di terra bagnata. Percepisco uno spiffero d’aria, sottile e immateriale, ma non riesco a respirare. Per me solo esalazioni venefiche di legno putrido. Buio, sempre e solo buio. Tiranno inesorabile che non ammette opposizione di luce. Prigioniero del mio corpo, del terrore, dell’orrore tra tutti gli orrori. Avverto la consistenza del sogno, di tutti i suoi risvolti più terrificanti. Cerco di aprire gli occhi, di emergere dall’incubo e svegliarmi accanto a mia moglie, che ogni mattina accoglie il mio risveglio con un sorriso caldo e pieno di dolcezza e comprensione. Comincio a tremare perché per la prima volta accade qualcosa di nuovo e imprevisto. Impiego attimi infiniti per capire di cosa si tratta: l’inconfondibile tamburellare della pioggia su una superficie di legno. È un suono lontano, come se arrivasse da una dimensione aliena, distante anni luce dalla mia prigionia, che tuttavia percepisco distintamente. Provo a muovermi, ma un dolore acuminato al petto m’inchioda in una rigidità innaturale, e anche questo è qualcosa di nuovo che mi riempie di terrore, perché è una sofferenza che non ha niente a che fare con la fluida incorporeità dei sogni.


7 Trascorre un lasso di tempo indefinibile, istanti o forse anni racchiusi un grappolo di respiri, poi esplode un altro suono. Devastante, vicino. Letale. Un boato che avvolge il mio mondo oscuro. Lo riconosco subito, senza la confortante illusione di potermi sbagliare: terra gettata sopra a un coperchio di legno. Terra a pochi centimetri dal mio viso. Un altro boato, un altro ancora, poi inizia ad attutirsi, sempre più lontano. L’odore di terra bagnata mi ubriaca e mi stordisce. Flebile, etereo, il lamento di una donna mi graffia il viso come una scudisciata di spine. Una donna disperata, distrutta dal dolore e poi ancora terra, tantissima terra sopra di me. Sopra la mia prigione di legno imbottito. Spalanco gli occhi, consapevole di quello che sta succedendo, rincuorato dalla mia intuizione: non è altro che l’evoluzione dell’incubo. La progressione inevitabile maturata nell’arco di tutti questi anni. È il sogno di sempre, più raccapricciante, terribile, ma accanto a me, nel mondo reale, c’è mia moglie, rifugio misericordioso capace di tenere lontane tutte quelle paure che hanno marchiato la mia vita. M’impongo di restare calmo, di controllare la belva che sta montando dentro di me, pronta a divorarmi in un solo grosso boccone di panico, perché questo è il momento di tornare alla luce. Mi sforzo. Uso tutta la tenacia di cui dispongo per far breccia nel velo di sonno che stringe il mio corpo. Mi sforzo… Mi sforzo. Non riesco a svegliarmi e sopra di me, il suono ovattato di una montagna di terra che continua a seppellirmi.


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VERNICE

Il silenzio era ovunque in quella casa maledetta. Spettrale e irreale, era diventato una presenza fisica che aveva saturato ogni stanza. Così pesante che, come un velo impalpabile, riusciva ad affievolire persino i pensieri. Giacomo aveva cominciato a imbiancare l’appartamento alle 08:22, dopo un’interminabile ora passata con la responsabile delle Belle Arti, Laura Segni, per decidere le tonalità di colore di ogni singola stanza. La ragione di questa intromissione era semplice: dato che erano ancora ben visibili gli affreschi che erano stati dipinti circa trecento anni prima, questi non solo dovevano essere preservanti, ma i colori delle pareti dovevano essere quasi identici a quelli originali. Dopo aver ottenuto il via libera, Giacomo si era messo subito al lavoro. All’inizio aveva preventivato d’impiegare un’intera settimana ma, avendo un disperato bisogno di soldi, si era riproposto di sbrigare tutta la faccenda al massimo in tre giorni, lavorando anche la notte se necessario. Per le 11:30 era riuscito a finire la prima stanza: un grande salone con il soffitto a travi e un focolare che occupava quasi per intero la parete di fondo. Aveva scelto un rosa pallido, aggiungendo poi eleganti decorazioni floreali attorno alle finestre e alle due porte che si aprivano su una camera da letto, e l’altra su quello che sarebbe diventato uno studio. Soddisfatto del risultato, giudicò la stanza un autentico capolavoro. Prese il cellulare e, cercando un’inquadratura soddisfacente, scattò alcune fotografie: con la giusta pubblicità, quella casa avrebbe portato nuovi clienti e lui avrebbe finalmente riottenuto quella sicurezza economica che sua moglie e sua figlia si meritavano. Avevano attraversato un periodo difficile, fatto di ristrettezze e rinunce: il dannato Covid aveva azzerato il suo lavoro troppo a lungo, e fin troppo presto i risparmi messi da parte con sacrificio si erano prosciugati, costringendolo a mendicare aiuto un po’ ovunque. Quello era stato il momento peggiore e più umiliante della sua vita, e


9 quando le cose avevano cominciato pian piano a tornare alla normalità, aveva giurato a se stesso che non avrebbe mai più permesso che Ilenia, la moglie, fosse costretta a rivolgersi alla Caritas per avere qualcosa da mangiare. Dopo una breve sosta per fumare una sigaretta, iniziò la camera padronale. Mentre tinteggiava, lasciò vagare la mente verso pensieri e ricordi felici, ben lontani dal difficile periodo che non solo la sua famiglia ma il mondo intero stava attraversando. Le vacanze al mare, le cene con gli amici, sua moglie, il giorno in cui aveva portato la figlia al parco e avevano trascorso due ore sull’altalena, ridendo come matti perché il sedile era troppo piccolo per lui. Era da poco passata l’una, Giacomo stava dipingendo una raffinata decorazione dorata a una decina di centimetri dal soffitto, quando si accorse che c’era qualcosa che non andava. Qualcosa di così sbagliato che gli aveva provocato un freddo formicolio lungo tutta la schiena. Scattò subito, rischiando di volare giù dalla scala. In passato era già stato colto da una simile sensazione di puro raccapriccio, a causa di un grosso ragno nero che gli camminava tranquillo e beato lungo i pantaloni. Ecco, Giacomo non si era accorto dell’animale, ma il suo inconscio gli aveva lanciato un disperato SOS. Sicuro che un ragno gli fosse saltato addosso, Giacomo balzò giù dalla scala e, una volta a terra, cominciò spogliarsi, lanciando gli indumenti il più lontano possibile. Rimasto in mutande, attese qualche minuto con trepidazione che l’animale zampettasse fuori dal groviglio di vestiti, in cerca di un angolo più tranquillo e riparato. Aspettò, ma nessun ragno si fece vivo. “Forse è intrappolato lì sotto”, gli fece notare, pragmatica, la sua mente. «Cazzo!» mormorò a denti stretti, consapevole di non poter lavorare in mutande. Facendosi coraggio, prese il manico di una scopa e, con cautela, sollevò il maglione. Lo controllò con la meticolosità di un chirurgo che sbircia dentro a una ferita aperta, e quando valutò che non ci fosse nessun ospite indesiderato, lo afferrò. Con tutta la titubanza del caso, ovviamente, pronto a lanciarlo di nuovo via se qualcosa si fosse mosso. Dopo un profondo sospiro ispezionò la tuta: anche questa si rivelò priva di qualunque aracnide nero e peloso.


10 «Ma vaffanculo!» disse rivolto a se stesso, dandosi del coglione per aver perso tempo in un modo così stupido. «Grande e grosso e te la fai sotto per un ragnetto!» scosse la testa, atteggiandosi a sbruffone, anche se la verità era ben diversa: aveva il terrore dei ragni, e ogni volta che ne vedeva uno più grande di un puntino sul muro, si trasformava in un bambino fifone, incapace di superare la sua paura. Si rivestì, cercando di non darsi dell’idiota più del necessario. Quando stava per salire di nuovo sulla scala, fu colpito per la seconda volta da una frustata di gelo, e se prima aveva reagito in modo inconsulto, buttandosi giù da più di due metri d’altezza, questa volta s’immobilizzò. La pelle di tutto il corpo si accapponò, i peli si drizzarono e una patina di sudore freddo gli inumidì la fronte. Lo stomaco si contrasse, rilasciando acido che gli avvelenò la bocca. Disorientato, si rese conto di essere stato toccato dal terrore nella sua forma primitiva, quella capace di far perdere la ragione a un uomo o addirittura di ucciderlo. Niente nel suo passato era paragonabile a quello che stava provando in quel momento. La paura era poca cosa di fronte al sentimento gelido e acuminato che si era impossessato del suo corpo e della sua mente. Spinto dal fuoco paterno che bruciava dentro di lui, pregò che la sua bambina non vivesse mai niente di simile, perché ora che i suoi sensi avevano preso il sopravvento sull’estraniazione generata dalla meccanica ripetitività del lavoro, capì che lì, in quella casa, c’era qualcosa di sbagliato. Invisibile ma reale e presente, e che lo stava guardando. Quell’ultima constatazione ebbe la capacità di scuoterlo dall’immobilità che lo aveva imprigionato. Si voltò di scatto e le ossa del collo scricchiolarono, come un cardine rimasto fermo per anni. Ignorando del tutto la cosa, si lanciò in una corsa convulsa verso l’ingresso. Attraversò la sala con pochi lunghi balzi, e quasi si schiantò contro il portone, su quella porta che si apriva sul mondo esterno. Sulla salvezza. Si avventò sulla maniglia, strattonando e imprecando come mai prima di allora: il terrore lo aveva trasformato in un animale impaurito, deciso a sopravvivere a ogni costo. Armeggiò per qualche minuto, usando tutta la forza di cui fu capace, senza però riuscire nel suo intento. Si fermò un attimo, riprese fiato, quindi tentò un’ultima volta, strattonando a più non posso finché le vene non cominciarono a gonfiarsi e a diventare visibili sotto la pelle tesa del


11 collo. All’improvviso le sue mani persero la presa e si ritrovò a precipitare all’indietro, finendo su alcuni secchi vuoti e diversi barattoli di vernice. Il dolore alla schiena fu acuto, bianco e serpeggiante come una scarica elettrica, tuttavia questo fu un effetto marginale, di nessuna importanza se paragonato alla totale assenza di suoni che aveva accompagnato la caduta, come se il silenzio fosse diventato una spugna in grado di assorbire ogni suono. Mentre si rimetteva in piedi, con la schiena dolente, Giacomo scoprì di essere vittima di un fenomeno inquietante: non riusciva più a sentire il suo respiro. Persino i pensieri erano ovattati, come se non fossero più dentro di lui, ma bisbigliati da una voce fuori dalla finestra. Socchiuse gli occhi, si passò la lingua sulle labbra secche, consapevole di essere, per quanto possibile, prigioniero in una gabbia di silenzio. Riuscì a sorridere: che diavolo di giornata stava vivendo. Se qualcuno gli avesse raccontato una storia simile, sarebbe scoppiato a ridere. Be’, ciò che stava succedendo non era molto divertente, ma non aveva intenzione di arrendersi, così, leggermente stordito per la caduta, tornò alla porta. La guardò a lungo, provando una rabbia crescente: quell’insulso pezzo di legno stavo ostacolando la sua fuga e questo era… «Cazzo» disse a denti stretti. Sul davanzale della finestra del salone c’era il suo smartphone. Sarebbe bastato un messaggio a Diego, suo fratello, e in un quarto d’ora sarebbe arrivato in suo aiuto. Dimenticando la porta, si avventò sul cellulare. Cerò il numero di Diego, ma prima di avviare la chiamata, si chiese come avrebbe parlato con lui se riusciva a stento ad avvertire i suoi stessi pensieri. Meglio usare WhatsApp. Aprì la chat con Diego e scrisse rapidamente di raggiungerlo. Aggiunse l’indirizzo e inviò il messaggio, che però non giunse mai al destinatario: lì dentro, in quella casa dalle mura spesse, in pieno centro storico, non c’era copertura. Si spostò in un’altra stanza, senza però ottenere nessun risultato. Cercò di aprire la finestra, ma scoprì che anche questa, proprio come la porta, era bloccata. La rabbia che covava dentro finalmente esplose come l’eruzione di un vulcano. Senza pensarci, urlando come un selvaggio, scaraventò il cellulare, inutile pezzo di plastica e metallo, contro la parete. E quello che accadde trasformò la sua furia in cenere gelata: il telefono invece di andare in mille pezzi, scomparve semplicemente all’interno del muro, dando origine a una serie di onde concentriche, in tutto e per tutto


12 identiche a quelle che si possono formare gettando una pietra nell’acqua. Spalancò la bocca, certo di essere vittima di una qualche allucinazione, ma nel momento in cui le onde si placarono, dal punto in cui era scomparso lo smartphone cominciò a colare un flusso abbondante di vernice. Scese dritto lungo la parete, superò l’insignificante gradino del battiscopa e arrivò al pavimento. La parte professionale che viveva in lui gli fece notare che quello era un autentico disastro: se non avesse pulito alla svelta le mattonelle di cotto, si sarebbero imbevute di colore, restando macchiate per sempre. Se gli fosse stato addebitato il costo della sostituzione dell’intero pavimento, sarebbe stato un grosso problema. Mosse un passo, spinto dall’idea di pulire la chiazza che si stava allargando a vista d’occhio, ma si fermò: la vernice colava via da altri cinque punti nella stanza. Con lo sguardo percorse l’intera camera che aveva già tinteggiato nel corso della mattinata, e vide che anche lì la pittura stava venendo giù come l’acqua di una fontana. E proprio come acqua, la pozza si allargava sempre di più: qualche attimo ancora e avrebbe ricoperto l’intero pavimento. Doveva agire in fretta, fare qualcosa perché non voleva in nessun modo entrare in contatto con il colore: un’intuizione per la quale non avrebbe mai potuto dare una spiegazione, gli suggerì che farsi toccare da quella roba liquida non era una buona idea. Dato che il camino aveva una base rialzata, pensò di salire lì ma lasciò perdere: dalla cappa, di un pacato rosso sbiadito, stava colando vernice. «Merda!» disse, pensando di raggiungere la scala nell’altra stanza, tuttavia, per farlo avrebbe dovuto calpestare la chiazza che ormai copriva quasi del tutto il pavimento. Si guardò intorno e ancora una volta lo stupore, mischiato alla paura, gli fece spalancare la bocca: i barattoli di metallo che contenevano i coloranti erano stati inghiottiti per metà dal lago di pittura. «Porca troia!» Agendo d’istinto salì sul coperchio di plastica di un secchio di tempera, partendo dal presupposto che, essendo di plastica, avrebbe sicuramente galleggiato. Il fatto che ci fosse sopra un uomo di quasi ottanta chili gli sembrò una minuzia del tutto irrilevante. Passarono due minuti precisi, durante i quali Giacomo guardò la vernice avvicinarsi sempre di più, poi anche il coperchio fu circondato. Lo sentì ondeggiare sotto di sé, tremare, andare leggermente alla deriva, spinto


13 dalla corrente di colore che stava ancora alimentando la pozza. Trattenne il fiato, in attesa di piombare giù. Fu quando pensò di essere al sicuro che ci fu il cedimento, e Giacomo si ritrovò in un attimo immerso fino alla vita. Pensando alla sabbie mobili, decise di non muoversi: temeva che anche il movimento più insignificante lo avrebbe fatto sprofondare, anche se il dilemma di come uscire da quella situazione si stava infittendo sempre di più. Si guardò attorno, in cerca di un appiglio, senza però trovare niente di utile: a parte i suoi attrezzi, la casa era vuota. Deglutì paura, valutando se raggiungere la porta e tentare ancora una volta di uscire. Un problema che però non ebbe modo di risolvere: la pozza s’increspò e onde di vernice gli sbatterono addosso, sporcandolo e facendolo scivolare sempre più in basso. Cominciò a piangere, terrorizzato, certo della fine prossima, pregando un Dio in cui non aveva mai credo di risparmiarlo, di farlo tornare a casa da sua moglie, sano e salvo. «No!» tuonò una voce maligna, cavernosa, che rimbombò dappertutto, facendogli provare un dolore pungete alle orecchie, assuefatte ormai al vuoto pneumatico senza suoni di quel posto. «Tu sei mio!» Giacomo strabuzzò gli occhi e urlò tutto il suo terrore quando si sentì afferrare per la caviglia da qualcosa di gelido. La presa era solida, simile a quella di una morsa meccanica. Quando le ossa cominciarono a rompersi, avvertì uno strattone possente, inumano, e fu trascinato giù. Provò a urlare di dolore, di paura, di annientamento, ma la vernice gli riempì la bocca, e mentre s’inabissava verso un basso infinito, pregò che la fine arrivasse veloce e indolore, perché sapeva che ciò che lo aveva afferrato era malvagio e voleva solo lui. Chiuse gli occhi e aspettò di morire. Qualche minuto dopo, il coperchio di plastica riemerse, lento e silenzioso, in un pavimento coperto da una densa patina di vernice rosa pallido, colore sbiadito di un male vecchio di millenni.


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LA SCELTA DI MARTA

In quella nuvolosa mattina di marzo, solo il ticchettio dell’orologio era rimasto a farle compagnia. Suo marito Federico la guardava dall’altra parte del tavolo, gli occhi velati e spenti. Se non fosse stato per il manico che gli spuntava dall’orecchio, chiunque avrebbe pensato che stesse dormendo a occhi aperti. Suo figlio Luca era disteso a terra, con lo zainetto di tela azzurra ancora sulle spalle. La testa aperta in due come un melone maturo e succoso. Di “succo” dalla testa del ragazzino ne era uscito in abbondanza. Marta non faceva che spostare lo sguardo dal marito al figlio, incredula di aver commesso un tale casino. Aveva deciso di sistemare il bastardo, ma non aveva mai pensato di uccidere anche Luca, tutt’altro! Voleva fuggire con il bambino, e adesso invece era morto. «Merda…» bisbigliò a denti stretti, accendendosi una sigaretta. Fissò il cacciavite: a quell’ora Federico doveva già essere fuori casa. Lavorava per l’amministrazione comunale, ed era stato grazie a quel lavoro che sette anni prima si erano potuti sposare. Fresco di laurea, Federico aveva svolto per un paio d’anni lavori mal pagati e al massimo del precariato. Era poi riuscito a vincere un concorso pubblico, e da allora lavorava nell’Ufficio Anagrafe. Dopo cinque mesi dalla firma del contratto, si erano sposati. Avrebbero potuto farlo anche prima, ma Federico aveva trovato inaccettabile l’idea di non poter contribuire al bilancio della famiglia. «Amore possiamo sposarci lo stesso» aveva detto Marta in tono dolce, una sera mentre erano a letto. «Con il mio lavoro possiamo permetterci tranquillamente di pagare un affitto.» «Ancora no» aveva risposto lui, abbassando gli occhi. «Lo sai che prima devo trovare lavoro.» Poi finalmente era stato assunto, e nonostante Marta fosse stata messa in guardia su di lui da alcune persone care, erano convolati a nozze.


15 «Otto anni di corna» disse Marta al cadavere del marito, rinvigorendo l’odio che le avvelenava l’anima. Spense il mozzicone e, cercando di riprendere il controllo della situazione, decise di provare ad attenersi al piano che aveva preparato nel corso di lunghe notti insonni. Andò quindi al telefono e compose il numero del Municipio. Dopo tre squilli rispose Serena Bonci, la centralinista, una delle tante amanti di Federico. Al suono della sua voce, Marta fu costretta a un impressionante atto di solido autocontrollo per non urlarle contro. «Pronto, centralino comunale» disse Serena. «Ciao Serena, sono Marta Melli, moglie di Federico.» «Buongiorno Marta» salutò in tono cordiale l’altra. «Se stai cercando tuo marito, ancora non è arrivato.» «No, ho chiamato proprio per questo: potresti avvisare Angelo che per qualche giorno Federico non verrà al lavoro? Si è alzato con la febbre alta. Credo che ieri abbia preso un colpo di freddo mentre sistemava il gazebo in giardino» una balla che poteva reggere. «Mi spiace» disse Serena. «Auguragli una pronta guarigione.» «Ti ringrazio» Marta trattenne un epiteto colorito. «Se ce la faccio, in mattinata spedisco il certificato. In caso contrario, per domani mattina sarà pronto… può andare bene?» «Non ci sono problemi, Marta, fai con comodo. Appena arriva, avvertirò Angelo.» «Grazie Serena, buona giornata.» «Altrettanto, saluta Federico!» Marta non rispose e mise giù, non voleva proseguire la telefonata con Serena, ragazzina di ventitré anni che si era fatta sbattere da Federico nonostante fosse a un passo dall’altare. Chiuse gli occhi, respirando a fondo. L’idea di tonare in cucina, dal cadavere del suo bambino, l’angosciava. Aveva commesso un errore imperdonabile, degno di un mostro, ma una parte di lei, quella offesa e umiliata, continuava a gridare che non poteva permettere che questo influisse sui suoi piani. Non era possibile rimediare, e doveva impedire che tutto crollasse come un castello di carte. Si accese un’altra sigaretta. Guardò la cucina, un vero macello: il sangue di Luca era arrivato fino al soffitto. Avrebbe dovuto pulire e dare una mano di vernice. Per garantirsi


16 qualche giorno di vantaggio, nessuno doveva sospettare che in quella casa erano morte due persone. Sospirò. Aveva studiato tutto nei minimi dettagli per mesi e mesi, eppure era bastato un ritardo di pochi minuti per gettare sabbia nel suo perfetto meccanismo e mandare tutto in malora. «Dannazione» sussurrò, fissando il cadavere di Luca. La sera prima aveva portato a Federico un tortino di crema pasticcera e cioccolato, sua grande passione. Aveva aggiunto un ingrediente segreto: due pasticche di un potente tranquillante che qualche anno addietro Federico aveva usato per sua madre, quando la donna aveva cominciato a uscire di testa. Tempo dieci minuti e si era addormentato sul divano. Marta doveva lavorare quella notte, e lui non doveva accorgersi di niente. Era uscita dal retro, dove c’era il giardino. All’inizio aveva pensato di seppellirlo tra le rose e i tulipani, ma era arrivata alla conclusione che quello era un posto fin troppo ovvio, dove la polizia avrebbe subito cercato una volta che fosse venuto alla luce l’omicidio. Aveva quindi scelto la soluzione numero due. Quando avevano acquistato la casa, quello che più li aveva colpiti era stato un bosco che, dopo il muretto che delimitava la proprietà, si arrampicava su una collina per alcuni chilometri, fino a una vecchia segheria abbandonata. Marta avrebbe sotterrato il marito in quella foresta che aveva tanto amato. Nei primi anni di matrimonio infatti, la domenica andavano spesso a pranzare tra gli alberi, apprezzandone il silenzio e la tranquillità. Marta era certa che il concepimento di Luca fosse avvenuto proprio lì, dopo un pomeriggio d’amore consumato all’aria aperta. La notte prima della resa dei conti, Marta si era incamminata nel boschetto, portando con sé un sacco di tela grezza dove aveva sistemato un piccone, una pala e dei guanti da lavoro. Nell’altra mano reggeva una grossa torcia alla quale aveva applicato un filtro improvvisato che funzionava benissimo: la luce era fievole ma più che sufficiente per evitare brutte cadute. Aveva camminato in linea retta per quindici minuti, sentendo avanzare una stanchezza che, nella sua meticolosa costruzione, non aveva previsto. Il sacco con gli attrezzi e il percorso in salita si erano rivelati


17 un’accoppiata micidiale per i suoi muscoli poco abituati all’attività fisica. Per mantenere la linea, Marta si concedeva qualche saltuaria passeggiata nel fine settimana, ma niente di troppo eccessivo. Preferiva di gran lunga stare attenta a tavola piuttosto che farsi il mazzo in palestra. In quel momento si pentì di quella scelta: se avesse “mosso un po’ più il culo”, come a volte diceva Federico, avrebbe impiegato meno tempo per arrivare al luogo di sepoltura, senza rischiare di rimetterci il cuore. Aveva scelto con accuratezza il punto esatto sei settimane prima: un sabato pomeriggio, quando Federico era uscito per una partita di calcetto con i colleghi, si era arrampicata su per il bosco e dopo un’ora abbondante di ricerche, aveva optato per un angolo di nuda terra tra alcuni alberi imponenti. Arrivata a destinazione, senza concedersi il lusso di una pausa, cominciò a scavare. Impiegò quasi due ore per dar forma a una buca profonda un metro e mezzo, larga circa due, arrivando al limite delle sue forze. Facendo appello alla poca energia che le restava, s’issò fuori dalla fossa e contemplò il frutto di quel difficile lavoro: era stata brava, non c’erano dubbi. Si accese finalmente una sigaretta. Il mozzicone spento lo mise poi in tasca. Aveva visto fin troppi film dove dei criminali inetti si tradivano per un capello o una cicca lasciati sul luogo del delitto. Nel massimo dello scrupolo, e per non correre rischi inutili, mentre scavava aveva indossato una cuffia da bagno. Come un robot era tornata sui suoi passi: l’una era passata da un pezzo e per qualche secondo ebbe il terrore di non farcela, ma un passo alla volta era riuscita a tornare in quel piccolo angolo di mondo che ancora chiamava casa. Con gli occhi pesanti e gonfi di sonno, aveva infilato i vestiti in lavatrice e poi si era fatta una doccia. Dopo essersi accertata di essere assolutamente pulita, si era messa a letto. Si era alzata alla sei, mezz’ora prima del solito. Era scesa da basso e aveva preparato la colazione: caffè, tè, biscotti, cornetti alla marmellata e crema, succo di frutta. Voleva che Federico consumasse un pasto decente prima di finire all’inferno. «Amore!» lo aveva chiamato in tono cantilenante, affacciandosi in


18 camera «la colazione è pronta, sono quasi le sette!» Federico era sceso da letto ed era andato in bagno. Alle sette e un quarto era comodamente seduto a bere una tazza di tè. «Una colazione degna di un re» aveva detto lui soddisfatto, spendendo un bacio a sua moglie che, sorridendo, aveva fatto finta di prendere con la mano. «Ti amo» aveva risposto Marta, pensando compiaciuta che ormai mancavano solo pochi minuti al Grande Momento. Alle 07:35 erano tutti pronti per uscire. Luca per primo: il pullman passava davanti casa alle 07:42 in punto. Marta aveva annotato l’orario per dodici settimane di fila. La donna si era avvicinata a Federico, guardandolo negli occhi e lo aveva baciato intensamente, nel modo che a lui era sempre piaciuto, succhiando e mordendo le labbra. «Ferma, Marta» Federico si era allontanato con un sospiro. «Se continui così, non andrò al lavoro.» «Sarebbe fantastico» gli aveva sussurrato all’orecchio con voce carica di quello che doveva sembrare desiderio viscerale ed esplosivo. «Amore non posso» era stata la risposta, mogia, di lui «sai che con le nuove leggi quelli che fanno troppe assenze rischiano il posto… se mi licenziassero?» Sempre le solite scuse per uscire di casa e attaccarsi alle cosce di un’altra. «Hai ragione, Rico» aveva detto Marta, scimmiottando il nomignolo che usavano i suoi amici del calcetto. «Sarebbe una vera tragedia. La nostra piccola tragedia di famiglia.» E come se niente fosse, gli aveva conficcato il cacciavite in testa. Aveva centrato l’orecchio, e l’acciaio dell’arnese aveva sfondato membrane e ossa, devastando il cervello di Federico. L’uomo si era spento, senza accorgersi di morire. Si era afflosciato e Marta, prontamente, aveva guidato la caduta sulla sedia. Una fine accettabile per un gran bastardo. «Hai finito di scoparti tutte le donne di questo pianeta, tesoro… e di usare i miei soldi per comprare quei dannati completini sexy alle tue troie!» Un epitaffio di fuoco per la sua dolce metà. Marta aveva trovato divertente tutta quella volgarità gratuita, tanto che da mettersi a ridere. Una sana, profonda, genuina risata.


19 Una risata di liberazione. «Mamma?» Una voce tremula e per niente divertita era giunta dalle sue spalle. «Luca!» aveva sussurrato Marta intontita, quasi con imbarazzo, mentre si avvicinava al figlio, senza sapere come comportarsi, senza sapere cosa fare: il bambino non doveva essere lì. Il bambino l’aveva guardata ingenuamente, chiedendo con innocenza: «Mamma? Papà? Cosa? Hai fatto male a papà?» «Luca io… io non volevo…» Ma che cosa stava dicendo? Certo che voleva, erano mesi che meditava di uccidere suo marito. “Non volevo?”. Ipocrita! «Luca, io… io non so cosa dire.» Finalmente la verità. La maledetta verità. Niente di meglio della cara, vecchia verità. Luca aveva cercato di fissarla, ma i suoi occhi erano fatalmente attirati dal manico che sporgeva dalla testa del padre. «Cattiva!» aveva strillato il bambino. «Sei un mostro!» altro urlo isterico, ferendo Marta come nessun’arma avrebbe potuto fare. Colpendola nella carne viva, nel cuore pulsante dei suoi sentimenti materni. Marta aveva provato un dolore sordo, simile a un ringhio. Si era resa conto di essere sul punto di piangere e quel delirio di sofferenza le aveva fatto notare, in modo perfido, quanto Luca assomigliasse a Federico. Forse anche lui, da grande, avrebbe fatto soffrire una brava ragazza proprio come aveva fatto il padre. Un brutto pensiero, ancora più triste della scudisciata che Luca le aveva appena dato. Marta lo aveva guardato. Il ragazzino, che avrebbe compiuto sette anni a luglio, con le lacrime che gli increspavano gli occhi, si era voltato di scatto, dirigendosi verso l’uscita. Marta, che in ogni situazione aveva sempre cercato di non lasciarsi sopraffare dall’impulsività, questa volta aveva agito senza riflettere: aveva afferrato l’enorme bollitore per il tè che Federico aveva comprato su Amazon un anno prima. Era un cimelio russo di metà secolo che pesava più di tre chili. Prendendo inconsapevolmente la mira, aveva colpito Luca in mezzo alla testa. Un denso fiotto di sangue aveva


20 imbrattato i mobili e il soffitto. Il bambino era caduto a terra, immobile. Marta aveva ucciso anche suo figlio con un colpo solo. Due tiri, due goal: un’autentica campionessa. E ora eccola lì, intenta a fissare quei corpi senza vita, con una sigaretta tra le labbra, incerta sul da farsi. Si versò un sorso di succo alla pesca. Erano le 07:53. Un lungo tiro dalla sigaretta, una nuvola azzurrognola si librò sopra di lei. «Cazzo» disse in un sussurro. Bevve un altro sorso di succo per poi spegnere dentro il bicchiere la sigaretta fumata a metà. Doveva decidere cosa fare e doveva farlo subito: entro quaranta minuti avrebbero chiamato da scuola per l’assenza di Luca. Marta maledisse la scuola moderna, sempre a ficcare il naso nelle questioni private degli studenti. Quando andava lei alle elementari, nessuno chiamava a casa per sapere se i genitori erano al corrente dell’assenza del figlio. Impiccioni impudenti! Per un attimo provò il desiderio perverso di correre a scuola e ficcare un cacciavite nella testa del direttore e di tutti gli insegnanti. Un sorriso diabolico le squassò il viso, ma si costrinse ad abbandonare quei voli pindarici di morte e sterminio: aveva grossi problemi da risolvere che richiedevano tutta la sua concentrazione. La sua presenza. Il problema dell’assenza da scuola era marginale. Rimaneva il grosso interrogativo di come gestire l’omicidio del figlio. Seppellirlo insieme a Federico? La fossa era abbastanza grande da contenere entrambi i corpi. Sì, questa poteva essere la Soluzione, quella con la S maiuscola! Una balla raccontata al responsabile scolastico e poi una bella gita di famiglia nel bosco. Sì, avrebbe fatto proprio così. Si avviò verso il garage, ma si bloccò: voleva portare Luca lontano da quella città, lontano da Federico, e di punto in bianco le veniva la brillante idea di seppellirli insieme. C’era un solo modo per definire quella trovata: stupida. In quel modo avrebbe unito padre e figlio per l’eternità, e questo era inammissibile. Anche se morto, Federico non meritava di stare con Luca. Magari con il figlio avuto da qualcun’altra, ma non con il suo bambino. Imprecò, mentre accendeva un’altra sigaretta. Non lo poteva fare, era inammissibile! Avvicinandosi al regno dell’impossibile, Marta si disse che doveva comunque portare Luca con


21 sé. Ma come diavolo poteva portare in Sudafrica un bambino morto? Se solo Luca non fosse rientrato in casa, se solo fosse salito sul pullman della scuola. Se solo non lo avesse… Se, se, se, se: tutti quei se non servivano a niente, anzi, riuscivano solo a confonderla e a farle perdere tempo che non aveva. Sospirò, chiuse gli occhi e si passò una mano tra i capelli. Era una situazione difficile da gestire, soprattutto perché… lo sguardo le cadde su un grumo di marmellata sul pavimento. Doveva essere caduto dal cornetto che Federico aveva mangiato prima di morire. Fissò quel mucchietto insignificante di marmellata arancione e la soluzione si presentò in modo spontaneo, come se fosse stata sempre lì, in attesa del suo sguardo. Adesso sapeva cosa doveva fare. Si accese un’altra sigaretta, mentre nella vecchia rubrica cercava il numero della scuola. Chiamò. «Buongiorno» rispose una voce femminile in un tono che rivelava grande sonnolenza. «Scuola elementare Giacomo Leopardi, in cosa posso esserle utile?» Sonno e formalità: un’accoppiata indigesta di primo mattino. «Buongiorno» replicò Marta, cercando di ricordare il nome della segretaria. «Sono la mamma di Luca Melli, prima A.» «Buongiorno signora Melli, cosa posso fare per lei?» chiese la donna che già doveva conoscere la risposta: erano poche le ragioni perché la madre di un alunno la chiamasse alle otto del mattino. «Volevo informarla che Luca sarà assente da scuola per alcuni giorni» Marta non scese in particolari: se l’altra non avesse fatto domande precise non avrebbe ottenuto risposte precise. «Motivi di salute?» chiese lei, che probabilmente stava riempiendo un apposito modulo per gli insegnanti: la sentì chiaramente mentre muoveva le dita su una tastiera. «No» rispose Marta improvvisando. «Questo sabato i miei genitori festeggiano trent’anni di matrimonio e ci hanno invitato a Bologna per tutta la settimana.» «Capisco» rispose la segretaria con palese, falsa cordialità. «Avvertirò gli insegnanti e il preside.»


22 «La ringrazio, arrivederci.» «Arrivederci» e rimise la cornetta al suo posto. Marta fissò l’apparecchio adesso muto. C’era un’altra telefonata in programma, ma avrebbe provveduto intorno all’una: ogni cosa al momento giusto. Guardò l’orologio: erano le 08:12. Senza indugiare oltre, andò in garage e si mise gli stessi guanti che aveva usato la notte precedente. Prima fase: i corpi. Prese due sacchi neri per l’immondizia: uno per la testa di Federico, l’altro per quella di Luca. Non perse tempo a estrarre il cacciavite dall’orecchio del marito, si limitò a pulirne il manico e a ricoprirlo con uno spesso strato di nastro adesivo. Trovò due trapunte nell’armadio e, tornata da basso, le distese sul pavimento una sopra l’altra. Facendo appello a tutta la sua forza da dentista affermata, afferrò il cadavere di Federico per le ascelle e l’adagiò sulle coperte. Guidata da un istinto indecifrabile, unì le caviglie dell’uomo con due giri di nastro. Le mani? No, le mani andavano bene lungo i fianchi. Arrotolò le coperte dando origine a un involtino gigante: un involtino primavera ripieno di salsa piccante alla Federico. Marta rise di cuore mentre si dirigeva in garage a prendere il fil di ferro: sarebbe servito a sigillare le due estremità dell’involtino. A quel punto assunse le sembianze di una grande caramella. “Caramelle Rico, e l’aria dei boschi toscani rinvigorirà i vostri polmoni”. Marta scoppiò di nuovo a ridere, più divertita che mai. Non avrebbe mai immaginato che assassinare il marito potesse stuzzicare così tanto il suo umorismo. Ancora sghignazzando, trascinò il sudario in garage. Il padre di Federico aveva avuto una grandissima passione per gli oggetti del mondo contadino. Tra le tante cose che era riuscito a trovare, c’era un vecchio carretto che qualcuno aveva usato agli inizi del Novecento per vendere frutta e verdura per le stradine della cittadina in cui vivevano. Era un aggeggio traballante che, per chissà quale ragione, Federico si era


23 sempre rifiutato di vendere. Marta, ringraziando il destino benevolo, aveva testato la resistenza del carretto. Avrebbe sopportato il peso di Federico, anche se spingere quel trabiccolo per il bosco sarebbe stata un’impresa leggendaria, degna dello stesso Ercole. Vi sistemò sopra il cadavere, poi si fermò un paio di minuti per riprendere fiato. Erano le 08:45, il marito era morto da ormai un’ora abbondante e lei si sentiva sfinita. Si chiese come sarebbe riuscita ad arrivare alla fine di quella giornata senza crollare. Meglio non pensarci. Tornò in cucina. Facendosi coraggio, sollevò da terra il corpo del figlio e gli coprì la testa con il secondo sacco. Sul pavimento dove aveva poggiato la faccia, si era formata una consistente chiazza di sangue. Poco male: una volta rincasata, avrebbe tirato a lucido l’intera cucina. Lasciò lo zaino per terra e portò il corpo di Luca in camera. Provvisoriamente lo avrebbe messo a letto. Poi ci sarebbe stata una sistemazione definitiva anche per lui. Nel corso dell’ultima settimana, stando attentissima a non farsi sorprendere da Federico, aveva preparato una decina di grossi rami: erano la mimetizzazione migliore per coprire le spoglie della sua dolce metà durante la passeggiata nel bosco. Contava di non incontrare nessuno, ancora una volta però aveva scelto la prudenza invece della sola fortuna. Inserì l’allarme e si avviò verso la fossa. Impiegò ben più di un’ora per arrivare a destinazione, con il carretto che si muoveva a fatica sul terreno accidentato. Era un percorso quasi lineare, con una pendenza non proibitiva, tuttavia gli ostacoli erano innumerevoli. Una grossa pietra da aggirare, radici sporgenti, leggeri dislivelli da scavalcare. A un certo punto, mentre spingeva caparbiamente, le venne il dubbio che qualcuno potesse scoprire la fossa. Cosa sarebbe successo se fosse accaduto? Nel migliore dei casi, il fantomatico individuo l’avrebbe solo ricoperta, magari chiedendosi cosa diavolo ci facesse un buco nel bel mezzo della foresta. Nella peggiore delle ipotesi, la domanda avrebbe trovato l’unica risposta possibile: era la fossa per seppellire un morto. Se così fosse stato, c’era il rischio che la polizia la stesse già aspettando. Decine e decine di agenti


24 nascosti tra gli alberi, con il dito sul grilletto pronti a far fuoco appena si fosse avvicinata al sepolcro. Forse, per fare chiarezza su quell’enigma, sarebbe stato mobilitato perfino l’esercito. Marta immaginò un mucchio di Rambo mimetizzati nei posti più improbabili, tutti attenti, pronti a scattare nel momento in cui si fosse presentata per terminare il suo sporco lavoro. Sarebbero sbucati fuori e l’avrebbero uccisa. Si vide mentre crollava a terra sotto una tempesta di proiettili. Vide il suo corpo ridotto a pezzi, massacrata da sicari senza volto, in nome della giustizia. Tentò di scacciare quei pensieri, che però la punzecchiavano come zanzare fastidiose. Dubbi che l’assillavano e non volevano lasciarla andare, come dei bulli che a scuola trovano rammolliti da tormentare. «Io non sono una rammollita» disse Marta al silenzio spettrale della foresta. «Sono una donna in gamba.» Naturalmente Federico non l’aveva mai vista in quel modo: lui l’aveva sempre considerata una perfetta imbecille. Un’idiota alla quale mettere le corna ogni volta che si fosse presentata l’occasione. Marta aveva scoperto che l’aveva tradita persino il giorno dopo che erano tornati dal viaggio di nozze. Era andato a letto con una tizia che si era recata a rinnovare la carta d’identità. Era stata la sua amica Lara a dirglielo. Lui era un uomo piacente, ci sapeva fare e, soprattutto, era un gran porco. L’investigatrice privata che aveva ingaggiato per avere prove certe della sua infedeltà, le aveva spiegato che Federico riusciva a far capitolare qualunque donna volesse portarsi a letto. Con un approccio diretto, un po’ rude ma comunque venato di una punta di romanticismo, le donne si concedevano a lui in un batter d’occhio. «Ha conosciuto una ragazza in tabaccheria, mercoledì pomeriggio e, anche se è duro da credere, dopo neppure venti minuti erano in macchina a fare sesso» le aveva detto Luisa Neri, l’investigatrice privata durante uno dei loro incontri. «Mi dispiace dirtelo, Marta, ma tuo marito è un donnaiolo della peggior specie.» Marta lo sapeva, tanto che, in via del tutto confidenziale, aveva parlato con un medico, il quale le aveva detto che Federico era il corrispettivo maschile di una ninfomane. «Da quello che mi ha raccontato, suo marito è ossessionato dal sesso. Deve avere ripetuti rapporti giornalieri per stare bene.»


25 Marta aveva annuito mestamente, chiedendosi come avrebbe reagito quel medico così professionale e distaccato se sua moglie fosse stata affetta da quella particolare “malattia”. Anche lei aveva provato a farsi un amante, o almeno, per evitare coinvolgimenti sentimentali che non desiderava, a portarsi a letto un uomo che non fosse suo marito. Non c’era riuscita, non perché non ci fossero uomini interessati a lei: era ancora giovane e di bell’aspetto, e il suo lavoro la portava a incontrare molti uomini, sia liberi che sposati. Senza cercare troppo lontano, aveva pensato a Marco Sereni, il suo assistente. Aveva però scartato l’idea perché, se lui avesse rifiutato, l’imbarazzo di vederlo tutti i giorni le avrebbe impedito di tornare al lavoro. Tralasciando Marco, non era comunque stata capace di andare con nessuno perché, riluttante ad ammetterlo, era ancora innamorata di Federico. Lo amava e tutte le volte che Luisa le portava le foto o le riprese dell’ennesimo tradimento, un pezzetto del suo cuore si staccava e cadeva in una pozza di acido che esalava fili venefici di peste nera. Aveva provato a convincersi che il suo cuore fosse a posto, che stesse bene, ottenendo solo acidità di stomaco e crisi di pianto prolungate. Negli ultimi due anni aveva cercato un modo per dire al marito che sapeva della sua infedeltà, ma non ne era mai stata capace. Si era sempre bloccata nel momento cruciale, e così aveva continuato a perdere pezzetti di cuore e di amore. Federico aveva invece proseguito nei suoi atti di fornicazione incontrollata e insaziabile. Era andato a letto con la maggior parte delle donne che lavoravano negli uffici comunali, eccezion fatta per le anziane a cui mancavano pochi anni alla pensione. Si era ripassato tutte le cameriere dei bar e ristoranti che frequentava con i colleghi di lavoro e gli amici del calcetto. Aveva avuto la faccia tosta di circuire fidanzate e mogli dei suoi amici, di quegli stessi amici che invitava regolarmente a casa, con i quali era cresciuto e aveva condiviso le gioie e i dolori della vita. Aveva avuto in contemporanea una relazione con due impiegate di banca, con la postina, la parrucchiera di Marta, la direttrice del museo locale e un’insegnate della scuola media. Sei donne nello stesso periodo. Un autentico stallone che naturalmente quando tornava a casa dedicava la stessa passione a sua moglie, facendo selvaggiamente l’amore anche


26 con lei. Comportandosi come se fossero passati anni dall’ultima volta che era stato con una donna. Il gran bastardo aveva tentato un approccio infruttuoso anche con Lidia, sorella di Marta. Era stata proprio Lidia a metterle la pulce nell’orecchio. «Marta apri gli occhi» le aveva detto una domenica pomeriggio «tuo marito è un maiale e tu ancora non vuoi crederci. Chiedi in giro, fai qualche domanda e vedrai cosa salterà fuori.» Era stata sempre Lidia a metterla in contatto con l’investigatrice privata. «È piuttosto cara» le aveva detto porgendole un biglietto da visita «ma vale la cifra che chiede e tu non hai problemi di soldi.» Marta aveva aspettato qualche settimana poi aveva deciso di provare, giusto per zittire in modo definitivo i dubbi che avevano cominciato ad assillarla. Quando Luisa le aveva portato le prime foto, Marta era quasi svenuta dallo shock. Vedere i suoi sospetti diventare certezza, l’aveva fatta quasi impazzire. Aveva pensato a uno scherzo, magari architettato da sua sorella, però l’investigatrice era una seria professionista e non si sarebbe mai compromessa per gioco. Marta aveva preso le fotografie, dove era visibile Federico tra le braccia di una bionda ossigenata. Era andata in banca, dove lavorava una delle due donne con le quali suo marito avrebbe avuto una tresca di lì a pochi mesi, e aveva affittato una cassetta di sicurezza. In quel piccolo grembo di metallo, aveva cominciato ad ammucchiare le prove dell’infedeltà di Federico. Inevitabilmente, come in ogni buona storia che si rispetti, era arrivata la fatidica goccia che non solo aveva fatto traboccare il vaso, ma lo aveva fatto esplodere. Una domenica di metà settembre, Marta aveva invitato a pranzo una sua ex compagnia di scuola, Laura Feliciani. La donna, divorziata, era venuta assieme alla figlia diciottenne, Cecilia. Il pranzo era stato allegro e le due amiche avevano parlato dei bei tempi andati, ricordando quanto si fossero divertite da ragazze e quanto era stato brutto doversi separare al momento dell’università. Intorno alle 16:00, Cecilia aveva chiesto alla madre se poteva accompagnarla dalle sue amiche. «Ci siamo date appuntamento ai giardini pubblici» aveva detto la ragazza. «Mi puoi portare?»


27 Laura, visibilmente scocciata, aveva fatto per alzarsi, al che era intervenuto Federico: «Ti accompagno io» le aveva detto. «Devo andare a prendere le sigarette e una ricarica per il cellulare.» «Oh sì!» aveva detto Marta che, pur conoscendo l’indole di Federico, mai avrebbe pensato che potesse infastidire una ragazzina. Marta e Laura erano rimaste a chiacchierare per tutto il pomeriggio, ridendo e scherzando fino all’ora di cena. Il giorno dopo Luisa l’aveva chiamata, dicendole che le foto dell’ultima settimana erano pronte. Quando le aveva viste, Marta aveva rischiato di morire: quel grandissimo bastardo si era scopato Cecilia. Aveva avuto il coraggio di sbattersi una ragazzina che ancora andava alle superiori. Fu quel giorno che giunse a un passo dal dire tutto a Federico, di coglierlo alla sprovvista, dargli una fila di sberle e poi chiedere il divorzio. Era decisa, disgustata, avvilita e infuriata. Un cieco rancore trattenuto per troppo tempo era diventato, di punto in bianco, attivo e pieno d’energia. Avrebbe prima fatto parlare le mani, poi gli avrebbe detto tutto quello che c’era da dire. «Amore, cosa ti è successo?» aveva chiesto lui uscendo dalla doccia con solo un asciugamano a coprirgli la vita. Il fisico statuario in bella mostra. «Federico» aveva detto lei guardandolo dritto negli occhi «so quello che…» «Zitta» l’aveva tirata a sé per poi stringerla in un abbraccio, accarezzandole la schiena e i fianchi. «Tutto quello che hai da dirmi può aspettare fino a domani.» Quella notte avevano fatto l’amore due volte, e dopo il secondo amplesso Marta si era sentita nell’impossibilità fisica di affrontare l’intera questione. Possibile che Federico lo avesse fatto di proposito? Si era addormentata prima di darsi risposte. Si era risvegliata a notte fonda, emergendo da un incubo agghiacciante in cui aveva sognato di ucciderlo. Lo aveva massacrato con un grande candelabro d’osso, poi ne aveva gettato il corpo nudo e sfigurato in un baratro dove turbinava una tempesta di neve. Dal fondo dell’abisso echeggiavano selvaggi ruggiti di ombre sinuose che potevano essere leoni, o forse manticore. Le ombre si erano avventate sui resti di Federico con famelica ferocia, sbranando, rompendo, lacerando e


28 triturandolo. Dopo quel sogno Marta aveva cominciato a cercare un modo per liberarsi di Federico. «L’ho trovato il fottuto modo» disse alla foresta mentre spingeva caparbiamente il carretto attraverso un’infame distesa di pietre. Finalmente arrivò nei pressi della fossa. Scacciando i brutti pensieri che l’avevano angosciata per gran parte del cammino, controllò tutto intorno. Gli alberi, i cespugli e il terreno, senza trovare tracce di eventuali ficcanaso. Sospirò di sollievo. Reprimendo il bisogno di fumare, scaraventò lontano i rami per poi rovesciare nella fossa il contenuto del carretto: il corpo cadde sul fondo con un suono flaccido, che poco ricordava l’uomo sexy che era stato in vita. Guardò le coperte, ripensando all’ultima volta che aveva fatto l’amore con lui e a tutte le donne con cui era stato. Scosse la testa e cominciò a riempire la fossa. Non impiegò molto tempo e la terrà rimasta era davvero poca. In qualche minuto era riuscita a disperderla un po’ ovunque. Osservò la tomba: chiunque si sarebbe accorto che il terreno era stato dissodato, tuttavia sarebbe bastata mezz’ora di pioggia e ogni traccia della sua opera sarebbe scomparsa. Arrivata a casa, sistemò gli attrezzi e si tolse le scarpe da ginnastica: le avrebbe buttate in un cassonetto dell’immondizia dall’altra parte della città. In segreteria non c’erano messaggi. Tutto procedeva come da programma, nessun intoppo fino a quel momento. Mise i vestiti in lavatrice e s’infilò immediatamente sotto la doccia: un getto bollente lavò via la stanchezza, il sudore e lo stress dell’intera mattinata. Dopo aver messo una vecchia tuta, cominciò a pulire la cucina. Lustrò i mobili, usando candeggina pura per il pavimento. Lavò il soffitto con una soluzione di acqua fredda e ammoniaca. Le macchie sparirono, anche se rimasero degli eloquenti aloni rosati. Senza pensarci due volte, prese della vernice bianca, comprata da Federico per la stanza da letto, e pitturò il soffitto. Imbiancò velocemente, giudicando il lavoro soddisfacente. Se lo avesse ritenuto necessario, in serata avrebbe passato una seconda mano di colore.


29 Ennesima doccia e altro giro di lavatrice. Alle 13:25 telefonò a Domenico Pietri. «Ciao Marta» la salutò il direttore di banca. «Ciao Domenico. Ho chiamato per sapere se è tutto pronto.» «Certo, anche se non riesco a capire perché hai voluto chiudere il tuo conto. Non perché voglio rinfacciarti qualcosa, ma ti ho sempre trattata con i guanti! Quando tu e Federico avete acceso il mutuo per la casa, vi ho concesso un tasso d’interesse che non avrei offerto neppure a mio padre.» «Domenico» ribatté Marta gentilmente «come ti ho detto quindici giorni fa, in questo momento non posso spiegarti niente. Non appena avrò sistemato una certa faccenda, ti garantisco che i miei soldi torneranno nella tua banca.» «Sei in qualche guaio?» domandò preoccupato l’altro. «Niente cui non si possa rimediare» rispose Marta, sperando che questo stroncasse la sua insistenza. «Spero che sia così» fece Domenico lapidario. «Quando posso passare?» «Questo pomeriggio dopo le 15:00. Quattrocentomila euro in contanti. Marta, come ti ho già spiegato, per legge sono stato costretto a segnalare il tuo prelievo all’antiriciclaggio.» «Non ti preoccupare Domenico, so che non potevi fare altrimenti. Ci vediamo dopo» e senza aspettare il saluto dell’altro, interruppe la conversazione. Domenico era uno stupido se pensava che non avesse altri soldi. Da quando aveva sospettati che Federico la stesse tradendo, Marta aveva aperto un conto corrente in una banca di Zurigo, dove aveva versato tutti i soldi che poteva far sparire senza destare i sospetti del marito o quelli del fisco. Marta aveva cominciato, dopo dieci anni di attività, a non dichiarare tutti i soldi guadagnati grazie al suo lavoro. All’inizio infatti aveva pensato che, se fossero arrivati ai ferri corti, era meglio garantirsi un cospicuo salvagente economico. Era lei ad avere più soldi e non voleva correre il rischio di dover dividere con Federico tutti i suoi risparmi. Aveva quindi optato per la Svizzera, in modo tale che, se proprio fosse andata male, avrebbe perso solo una parte dei soldi nella banca di Domenico. Solo lei sapeva degli altri centomila euro al sicuro tra le montagne svizzere. Dopo questa illuminante divagazione economica, Marta si preparò un


30 panino e si versò un bicchierone di aranciata. Mangiò in tutta calma, cercando di godersi quel primo momento di autentico riposo. Alla fine del pasto, si concesse il lusso di una meritata sigaretta. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

INCUBO ............................................................................................ 5 VERNICE .......................................................................................... 8 LA SCELTA DI MARTA .................................................................... 14 L’UOMO CHE AMAVA LA LUNA....................................................... 36 ANELLO DI FUMO NERO .................................................................. 39 IN QUALCHE POSTO SEGRETO ......................................................... 46 LISA ............................................................................................... 56 LA FOTO DEL BAMBINO CHE RIDE ................................................... 68 PREDE DA LETTO ............................................................................ 77 INCONTRO NOTTURNO ................................................................... 87 VIGILIA DI NATALE ........................................................................ 93 SPLIT BANANA KILLER ................................................................ 111 INAPPETENZA ............................................................................... 122 SIGARETTE ................................................................................... 131 RINGRAZIAMENTI ........................................................................ 139



AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI

La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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